Neurofarmacologia
La neurofarmacologia è una disciplina molto recente, nel pur giovane campo delle neuroscienze, e si interessa alla struttura chimica e agli effetti delle cosiddette 'sostanze psicoattive', ovvero di quelle molecole in grado di influenzare i meccanismi di funzionamento del cervello e, quindi, la mente e il comportamento. Esistono grosso modo due categorie di queste sostanze: da un lato, gli psicofarmaci, assunti per ottenere specifici effetti desiderabili nella cura di determinate patologie neuropsichiatriche; dall'altro, le cosiddette 'droghe' o 'sostanze d'abuso', usate esclusivamente per gli effetti piacevoli che esse hanno sull'umore o per le sensazioni che inducono. Entrambe le categorie hanno una lunga storia: la morfina, principio attivo del papavero da oppio, è utilizzata come analgesico da migliaia di anni, mentre l'assunzione di alcol, la prima droga a uso 'voluttuario', è documentata già in età babilonese, circa 3000 anni fa.
Molte sostanze psicoattive possiedono una struttura chimica paragonabile a quella dei principali neurotrasmettitori e, infatti, nel corso del XX sec. sono stati ottenuti i progressi più importanti in questa disciplina, che ha grandemente beneficiato delle scoperte relative al funzionamento della sinapsi e alla natura e distribuzione, all'interno del sistema nervoso, delle diverse famiglie di neurotrasmettitori naturali. Se la morfina aveva a lungo rappresentato pressoché l'unica sostanza disponibile per il trattamento del dolore e di molte affezioni, nel corso del Novecento sono state introdotte diverse terapie nuove, a cominciare dall'aspirina, scoperta agli inizi del secolo, per finire con le nuove cure farmacologiche per le malattie del sistema nervoso. Nella seconda metà del XX sec. gli sforzi compiuti per alleviare i sintomi della schizofrenia, della depressione e dell'ansia hanno prodotto una vera e propria rivoluzione nel trattamento delle malattie mentali. L'utilizzo terapeutico di sostanze psicoattive è in continua ascesa, e queste costituiscono uno dei settori più importanti del mercato mondiale dei prodotti farmaceutici, benché agiscano per la maggior parte sui sintomi piuttosto che sulle cause delle malattie. Sfortunatamente, però, il Novecento ha visto anche un drammatico incremento dell'uso e dell'abuso di droghe quali Cannabis, anfetamina, eroina e cocaina, che vanno ad aggiungersi o a sostituirsi a quelle il cui utilizzo ha origini più antiche, quali alcol e nicotina.
La ricerca di base sui meccanismi molecolari responsabili del danneggiamento e della morte dei neuroni nelle malattie neurodegenerative sta avanzando a grandi passi, ed è probabile che presto saranno disponibili nuovi trattamenti sperimentali capaci di arrestare o persino di rendere reversibili i processi che originano tali malattie. Nel caso dell'Alzheimer, per esempio, gli studi più attuali puntano a sintetizzare sostanze che siano in grado di prevenire o di rendere reversibile quello che si pensa costituisca il passaggio chiave della patologia, ovvero il processo di deposito della proteina β-amiloide nel cervello. Inoltre, la sempre più approfondita conoscenza del genoma umano sta offrendo nuovi spunti per l'identificazione dei molti fattori genetici finora sconosciuti che influenzano l'esordio e il decorso delle patologie nervose e psichiatriche. Grazie a queste ricerche, potremo essere finalmente in grado di comprendere la natura di malattie come la schizofrenia e la depressione dal punto di vista biologico, e dunque di progettare farmaci che siano sempre più efficaci e possibilmente privi di effetti collaterali.
Il cervello umano, l'organo più complesso dell'intero universo biologico, coordina e analizza tutti gli input sensoriali che riceve dal corpo e dagli organi di senso specifici; inoltre, in risposta a tali input, esso pianifica ed esegue le azioni appropriate. è composto da circa 10 miliardi di cellule nervose, i neuroni, che possiedono un corpo cellulare e un nucleo, come tutte le altre cellule, ma che hanno in aggiunta alcune parti che formano estesi prolungamenti. Queste fibre nervose, che si distinguono in dendriti (le terminazioni riceventi) e assoni (le terminazioni trasmittenti), possono essere lunghissime: gli assoni che connettono i neuroni del midollo spinale con i muscoli del piede, per esempio, sono lunghi più di un metro. I neuroni sono tutti in connessione fra loro, e comunicano tramite un doppio sistema di segnalazione, elettrico e chimico. Lungo l'intero corpo cellulare e i prolungamenti del neurone, una piccola differenza di potenziale elettrico tra l'interno e l'esterno della membrana cellulare si sposta fino ad arrivare alla porzione finale dell'assone, dove questo è in contatto (di solito) con il dendrite di un altro neurone: l'area di contatto funzionale tra un neurone e l'altro è chiamata sinapsi. Qui il segnale elettrico innesca una serie di meccanismi che portano al rilascio nella sinapsi stessa di una molecola chiamata neurotrasmettitore; questo, a sua volta, viene captato da specifici recettori posti sulla membrana del neurone postsinaptico o ricevente, innescando in esso una nuova serie di alterazioni elettriche del potenziale. Ogni neurone può stabilire migliaia di contatti sinaptici con le altre cellule nervose, e quasi tutte le sostanze psicoattive influenzano, in un modo o nell'altro, i meccanismi elettrici e chimici a livello della sinapsi.
L'azione delle sostanze psicoattive sul sistema nervoso può essere studiata a due diversi livelli di complessità. Innanzitutto, a livello molecolare, occorre scoprire come tali sostanze interagiscano con particolari molecole (di solito proteine) per alterare la fisiologia del neurone. è proprio a questo livello che negli ultimi anni sono stati registrati i progressi più importanti. In secondo luogo, a livello cellulare, gli effetti delle sostanze psicoattive sulla scarica elettrica del singolo neurone possono essere misurati utilizzando microelettrodi di registrazione; questo si ottiene in laboratorio con l'impiego di neuroni appartenenti a colture artificiali di tessuti o ad animali da esperimento anestetizzati. Tale approccio consente ai ricercatori di studiare l'azione di una sostanza a livello dei sistemi neuronali, per riuscire a capire, per esempio, in che modo i farmaci antiepilettici agiscano a livello cerebrale prevenendo l'attività elettrica disorganizzata che caratterizza la crisi.
I neuroni sono elettricamente carichi, e ciò consente loro di generare e trasmettere microimpulsi; questa peculiarità è dovuta alle differenze di concentrazione dei sali inorganici di sodio e potassio tra l'interno e l'esterno della cellula. Un meccanismo di pompa sodio-potassio (fig. 2), che si trova all'interno della membrana neuronale, trasporta ioni sodio all'esterno della cellula e mantiene all'interno elevati livelli di ioni potassio. Quando il neurone è eccitato, nella membrana si aprono speciali canali che consentono l'afflusso improvviso di ioni sodio carichi positivamente; ciò provoca nella cellula una momentanea scarica elettrica che, a sua volta, porta a una rapida fuoriuscita di ioni potassio carichi positivamente, ripristinando in tal modo la carica elettrica iniziale. I canali che consentono a sodio e potassio di attraversare la membrana sono composti da proteine particolari; esistono inoltre diverse altre proteine che formano i canali di membrana per gli ioni Ca2+ e Cl−, i quali contribuiscono a modulare l'eccitabilità elettrica dei neuroni. Su questi meccanismi agiscono molte sostanze, come la tetrodotossina e la saxitossina, che bloccano il canale del Na+ e quindi l'eccitazione del neurone, portando di conseguenza al blocco nervoso, alla paralisi muscolare e alla morte. Gli stessi canali del Na+, tuttavia, costituiscono il bersaglio degli anestetici locali affini alla cocaina, che vengono largamente utilizzati in chirurgia dentale e in altre operazioni minori allo scopo di bloccare temporaneamente la conduzione nervosa nel punto di applicazione. Proprio perché il blocco si produce esclusivamente a livello locale, queste sostanze non sono da considerare tossiche.
Per quanto concerne la trasmissione chimica delle informazioni, ovvero il rilascio e la successiva inattivazione dei neurotrasmettitori all'interno della sinapsi, sono state scoperte diverse famiglie di queste sostanze, e probabilmente il loro numero è destinato ad aumentare. Bisogna anche sottolineare che ogni neurotrasmettitore può agire su diversi tipi di recettori presenti sulle sue cellule bersaglio, eccitandone alcuni e inibendone altri. Per esempio, la serotonina (5-HT o 5-idrossitriptamina) agisce su non meno di quattordici diversi recettori, alcuni dei quali hanno costituito i bersagli chiave di importanti gruppi di farmaci finalizzati al trattamento dei disturbi mentali. Oltre ai neurotrasmettitori classici, esiste un'altra vasta famiglia di messaggeri chimici che è costituita dai neuropeptidi, un gruppo di molecole composte da brevi sequenze amminoacidiche, gli stessi che costituiscono le proteine. I neuropeptidi contengono da due a quaranta residui amminoacidici e ciascun peptide ha il suo specifico pattern di distribuzione nel cervello, nel midollo spinale e nel sistema nervoso periferico. Come i neurotrasmettitori, i neuropeptidi vengono rilasciati dalle terminazioni nervose e agiscono su specifici recettori dei neuroni bersaglio. Quelli morfinosimili, ossia encefaline ed endorfine, sono implicati nella modulazione della sensibilità dolorifica, e si ritiene che il peptide chiamato 'sostanza P', presente in alcuni nervi sensitivi, svolga un ruolo nella trasmissione del dolore.
I diversi meccanismi coinvolti nella segnalazione chimica costituiscono il bersaglio dell'azione di molte sostanze psicoattive. Alcuni composti (detti agonisti) hanno un tale grado di somiglianza chimica con i neurotrasmettitori naturali da riuscire a mimare l'azione esercitata da questi ultimi sui recettori. Altri (detti antagonisti) si legano invece al recettore del neurotrasmettitore bloccandone l'azione (fig. 4).
Inoltre, le sostanze psicoattive possono agire interferendo con i meccanismi di rilascio dei neurotrasmettitori da parte delle terminazioni nervose. Un esempio tipico è costituito dalla tossina botulinica, che inibisce marcatamente il rilascio di acetilcolina nelle giunzioni neuromuscolari, causando la paralisi dei muscoli implicati nella respirazione e costituendo pertanto un veleno potente e mortale. A dispetto di ciò, negli ultimi anni essa ha trovato largo impiego in medicina. È stato scoperto, infatti, che iniettandone dosi estremamente basse nei muscoli è possibile calmare alcuni dei movimenti anomali e indesiderati che sono provocati da diverse condizioni neurologiche; i pazienti afflitti da continuo ciondolamento della testa, per esempio, riescono a trovare sollievo da questo sintomo per alcune settimane dopo un'iniezione della durata di un minuto di tossina botulinica nei muscoli del collo.
Un modo in cui le sostanze psicoattive possono invece potenziare la normale funzione sinaptica consiste nel bloccare i processi che di solito inattivano il neurotrasmettitore dopo la sua liberazione dalle terminazioni nervose. Talvolta questi processi sono costituiti dalla rapida degradazione metabolica del neurotrasmettitore da parte di un enzima: l'esempio classico è quello della rapida inattivazione da parte dell'enzima acetilcolinesterasi (AchE) dell'acetilcolina rilasciata nella giunzione neuromusclare. Sono stati scoperti diversi inibitori di questo enzima, e alcuni di essi, per esempio il Sarin, sono stati impiegati come agenti per la guerra chimica. Il blocco praticamente completo e irreversibile dell'AchE da parte del Sarin e degli altri cosiddetti 'gas nervini' porta alla perdita completa della funzione neuromuscolare, in quanto il muscolo viene continuamente bombardato da acetilcolina che non può essere inattivata: seguono perciò rapidamente la paralisi muscolare e la morte. Di recente, tuttavia, sono stati sviluppati inibitori dell'AchE più blandi, che sono in grado di provocare un blocco soltanto parziale, e quindi reversibile, dell'enzima. Queste sostanze possono servire a potenziare gli effetti dell'acetilcolina nel cervello dei pazienti affetti da morbo di Alzheimer, in cui si riscontra tipicamente una parziale distruzione dei neuroni che contengono tale neurotrasmettitore. Un'altra modalità di inattivazione dei neurotrasmettitori liberati è basata sull'attività di uno speciale meccanismo 'a pompa' localizzato nella membrana delle terminazioni nervose; tale meccanismo, simile alla pompa sodio-potassio, serve a rimuovere e riciclare il neurotrasmettitore tramite un processo detto di ricaptazione. Esistono diverse 'pompe' (proteine trasportatrici) che costituiscono il bersaglio di vari farmaci. In particolare, agiscono in questo modo tutti i moderni antidepressivi, che bloccano la ricaptazione della noradrenalina o della serotonina (e talvolta di entrambe).
Le epilessie sono gravi malattie che nei Paesi occidentali colpiscono approssimativamente l'1% della popolazione. Ne esistono diversi tipi: le forme più gravi comportano convulsioni, perdita di coscienza e crisi cicliche, quelle più lievi e transitorie consistono nella sola sospensione della coscienza. Sebbene oggi si riesca a controllarla ampiamente, questa patologia resta piuttosto grave in quanto impedisce spesso agli individui di completare la propria istruzione o di lavorare. Le crisi epilettiche derivano da scariche ritmiche incontrollate dell'attività elettrica cerebrale, ed esse sono il riflesso di un cattivo funzionamento dei sistemi regolatori cerebrali che normalmente prevengono simili squilibri nei meccanismi di controllo eccitatorio e inibitorio. Tuttavia, i meccanismi patogenetici responsabili dello sviluppo dell'epilessia umana sono ancora oggi scarsamente compresi e in gran parte incurabili. I farmaci attualmente disponibili, che aiutano a limitare o prevenire le crisi, servono per il trattamento sintomatico ma non guariscono la malattia.
I primi farmaci efficaci utilizzati nella cura dell'epilessia sono stati i barbiturici (tab. 1), che agiscono potenziando gli effetti del neurotrasmettitore inibitorio GABA (acido γ-amminobutirrico); essi sono tuttavia pericolosi, in quanto potenzialmente letali, e perciò sono stati largamente sostituiti da un gruppo di farmaci antiepilettici più moderni e sicuri. Questi ultimi agiscono fondamentalmente in due modi: potenziando anch'essi gli effetti del GABA, oppure interferendo con i canali del Na+ e dunque con la conduzione dell'impulso nervoso.
Queste malattie sono caratterizzate da una perdita di neuroni, in specifiche regioni cerebrali, che è progressiva e definitiva in quanto il cervello adulto è in larga parte incapace di generare neuroni che sostituiscano quelli morti. Nelle diverse malattie specifiche sono coinvolte differenti popolazioni neuronali, ma il meccanismo patologico responsabile di tali danni selettivi resta in gran parte sconosciuto. Nel morbo di Parkinson si verifica la perdita progressiva di una popolazione relativamente piccola di neuroni che utilizzano dopammina come neurotrasmettitore e che sono fondamentali per iniziare ed eseguire i movimenti volontari; il morbo di Alzheimer è invece caratterizzato da una perdita progressiva di cellule nervose in ampie regioni della corteccia, ovvero della parte più evoluta e complessa del cervello.
La scoperta che i sintomi del morbo di Parkinson sono dovuti a una perdita selettiva dei neuroni contenenti dopammina ha portato a utilizzare la L-DOPA (levodopa) che, in quanto precursore naturale da cui viene sintetizzata la dopammina cerebrale, è in grado di trattare efficacemente i sintomi della malattia. A differenza della dopammina, la L-DOPA penetra agevolmente la barriera ematoencefalica, che è uno strato di cellule protettivo semipermeabile posto tra il cervello e il circolo sanguigno, e arriva quindi ai neuroni, dove viene convertita in dopammina ripristinando in tal modo il giusto livello di neurotrasmettitore. Questo trattamento si è dimostrato molto efficace su milioni di pazienti, consentendo loro di riguadagnare la capacità di eseguire movimenti almeno per una parte della giornata, anche se, a mano a mano che la perdita dei neuroni dopamminergici progredisce, la L-DOPA tende a perdere efficacia. Per il trattamento del morbo di Parkinson vengono utilizzati anche agonisti diretti dei recettori dopamminergici cerebrali, come per esempio la bromocriptina e il pergolide.
Il morbo di Alzheimer rappresenta la forma più comune di demenza e la sua incidenza sta aumentando vertiginosamente. Esso porta a una massiccia perdita di neuroni corticali e danneggia anche strutture cerebrali più profonde. Come per le altre malattie degenerative, il meccanismo responsabile è poco conosciuto. Nel morbo di Alzheimer, quantità anomale di una sostanza insolubile, nota come 'proteina β-amiloide', si depositano in milioni di piccoli punti focali, detti 'placche senili', che finiscono con il distruggere i neuroni. I trattamenti attualmente in uso hanno lo scopo di ridurre la formazione di proteina β-amiloide nel cervello o di coadiuvare la rimozione dei depositi già formati. Le medicine di cui attualmente disponiamo sono assai poche e trattano soltanto i sintomi di perdita della memoria e riduzione delle capacità cognitive. Da questa malattia è particolarmente colpito un sistema di neuroni che utilizza acetilcolina, ed è inibendo il catabolismo di tale neurotrasmettitore da parte dell'enzima acetilcolinesterasi che agiscono i farmaci di cui ci si avvale attualmente, quali il donezepil o la rivastigmina: essi servono a rendere disponibile una maggiore quantità di neurotrasmettitore per la funzione sinaptica cerebrale.
Il dolore è un meccanismo biologico di difesa che avverte l'organismo in caso di ferite o di danni tessutali di maggiore durata. I processi nervosi coinvolti nella percezione del dolore sono complessi e, prima che la sensazione dolorifica venga percepita a livello della corteccia cerebrale, le informazioni ‒ trasportate da fibre nervose altamente specializzate ‒ sono processate da numerosi centri nervosi sottocorticali. La sensibilità al dolore non è costante ma modificabile, al livello di queste stazioni di elaborazione, da parte di altri meccanismi. Degno di nota, tra gli altri, è il ruolo giocato dalle endorfine, sostanze chimiche simili alla morfina che esercitano un effetto inibitorio sulle sinapsi cerebrali e spinali che processano l'informazione dolorifica. Anche l'eccitabilità dei neuroni sensitivi periferici deputati alla percezione del dolore non è costante: in risposta a ferite o infiammazioni essi possono diventare centinaia di migliaia di volte più sensibili del normale. è per questo che, per esempio, su una gamba ferita anche il tocco più lieve può provocare un dolore intenso. Tale fenomeno, ancora scarsamente compreso, è stimolato da mediatori chimici che vengono rilasciati dai globuli bianchi e da altri componenti coinvolti nel processo infiammatorio-riparativo che segue il prodursi di una ferita o di un'infezione. Molte forme di dolore importanti dal punto di vista medico derivano da una sensibilizzazione a lungo termine di questo tipo.
Gli anestetici generali vengono utilizzati nelle sale operatorie degli ospedali. In molti casi si tratta di gas che vengono somministrati per inalazione, come per esempio l'alotano o il monossido di azoto (il cosiddetto 'gas esilarante'), e il vantaggio di questa procedura è nel fatto che i gas sono assorbiti molto velocemente dall'ampia superficie polmonare, cosicché il loro effetto si manifesta in pochi minuti. Come alternativa all'inalazione, molti anestetici generali vengono somministrati per iniezione endovenosa. Essi sono stati progettati per avere una durata d'azione molto breve, e vengono infatti rapidamente rimossi dal circolo sanguigno tramite il metabolismo o perché si separano nelle riserve di grasso; ciò significa che l'anestesista può esercitare un controllo capillare sulla profondità dell'anestesia variando la velocità dell'iniezione. Questi agenti includono barbiturici ad azione breve (quali il tiopental e il methohexital) e chetamina.
Per quanto riguarda il meccanismo d'azione degli anestetici, le ricerche più recenti suggeriscono che essi agiscono a diversi livelli del sistema nervoso. Molti aumentano la sensibilità dei neuroni al neurotrasmettitore inibitorio GABA, assai diffuso nel cervello. Altri (per es., la chetamina) agiscono soprattutto bloccando l'azione del principale neurotrasmettitore eccitatorio, il glutammato. Non è chiaro quale regione cerebrale sia cruciale per l'anestesia, ma molti ritengono che un bersaglio chiave sia costituito dal talamo, una struttura sottocorticale che funge da importante stazione di elaborazione preliminare degli input sensoriali diretti alla corteccia. A differenza di quelli generali, tutti gli anestetici locali agiscono bloccando la conduzione nervosa: essi interferiscono infatti con i canali per il Na+, che sono essenziali per la propagazione dell'impulso elettrico. I farmaci più largamente utilizzati a questo scopo sono costituiti da molecole analoghe alla cocaina, un composto naturale impiegato come anestetico locale già nel XIX secolo. Esse includono la lidocaina e la tetracaina, che generalmente vengono somministrate per iniezione locale.
A differenza dagli anestetici, che vengono utilizzati per provocare uno stato temporaneo di incoscienza e insensibilità al dolore, gli analgesici servono a trattare il dolore di tipo cronico in svariate condizioni patologiche. La morfina e le molecole affini (dette 'oppiacei') sono i farmaci più potenti attualmente disponibili per il trattamento delle forme gravi di dolore, per esempio in ambito oncologico. La morfina è una sostanza naturale ricavata dal papavero da oppio, e viene utilizzata in medicina da migliaia di anni. Agisce sui recettori degli oppiacei, che sono presenti nel cervello e nel midollo spinale e che costituiscono il normale bersaglio delle endorfine. Negli ultimi anni, i nuovi metodi di somministrazione della morfina tramite compresse a rilascio controllato hanno indicato che un buon controllo del dolore può essere ottenuto anche assumendo il farmaco soltanto una volta o due al giorno, anziché ogni quattro ore come prescritto in precedenza. Il timore di indurre nel paziente una tossicodipendenza, tuttavia, limita l'utilizzo terapeutico di questa sostanza, sebbene sia scarsamente provato che essa o altri oppiacei portino ad abuso e dipendenza nei pazienti che li ricevono come trattamento in un contesto medico altamente controllato.
Tra i farmaci che vengono impiegati in condizioni dolorose non troppo gravi, il gruppo più importante è quello dei composti affini all'aspirina noti come 'farmaci antinfiammatori non steroidei' (FANS). L'aspirina è stata scoperta nel 1898 come derivato chimico dell'acido salicilico, un componente naturale della corteccia del salice utilizzato dalla medicina erboristica, ed è divenuta il farmaco di maggior successo del XX secolo. Il suo meccanismo d'azione comporta l'inibizione di un passaggio chiave del processo che si verifica in seguito a ferite o infezioni, poiché previene la sintesi delle prostaglandine, che sono importanti mediatori delle reazioni infiammatorie, e riduce la sensibilità dolorifica dei nervi sensitivi. Agisce inoltre a livello del sistema nervoso centrale, diminuendo la febbre associata alle malattie infettive. Dopo la scoperta dell'aspirina sono stati sintetizzati numerosi altri FANS più potenti. Essi sono largamente impiegati per trattare le condizioni di dolore infiammatorio cronico, come quello alle articolazioni di coloro che soffrono di artrite e reumatismi, e i più utilizzati sono l'indometacina, l'ibuprofene e il ketorolac. Il paracetamolo è uno degli antidolorifici di uso domestico più largamente utilizzati come blando analgesico acquistabile senza prescrizione medica. Sfortunatamente, però, tutti i FANS comportano alcuni effetti collaterali da tenere in seria considerazione: per esempio, essi possono irritare il rivestimento interno dello stomaco e dell'intestino fino a provocarne il sanguinamento incontrollato, e il paracetamolo può causare danni irreversibili al fegato.
Nella seconda metà del XX sec., la scoperta di farmaci che alleviavano i sintomi principali dei disturbi emotivi e del comportamento ha portato a un cambiamento radicale del modo di trattare la schizofrenia, la depressione e l'ansia. La svolta decisiva è arrivata negli anni Cinquanta con la scoperta della clorpromazina, primo trattamento dimostratosi efficace contro i sintomi caratteristici della schizofrenia (deliri di persecuzione o di grandezza, allucinazioni, ecc.). La clorpromazina è stata largamente utilizzata, e le ha fatto seguito una serie di farmaci di efficacia simile la cui somministrazione non richiede il ricovero del paziente. Dal punto di vista scientifico, un importante passo avanti per la comprensione del modo in cui le sostanze impiegate per la cura della schizofrenia agiscono a livello cerebrale è stato fatto con la scoperta che esse hanno tutte come bersaglio un recettore della dopammina. Questo messaggero chimico è utilizzato nelle aree del cervello che sono deputate alle funzioni cognitive più elevate, e nei centri che elaborano le emozioni e le sensazioni di gratificazione che seguono l'arrivo di una ricompensa. Esso è inoltre attivo nel corpo striato, dove è coinvolto nel controllo dei movimenti volontari, come mostrato dal caso del morbo di Parkinson. Poiché gli agenti antischizofrenici bloccano la funzione della dopammina in tutte le aree del cervello, essi tendono inevitabilmente a causare effetti collaterali simili ai sintomi del morbo di Parkinson, ovvero rigidità, tremore e scarso controllo dei movimenti. È stata, tuttavia, recentemente introdotta una nuova generazione di farmaci, quella dei cosiddetti 'antipsicotici atipici', che pur mantenendo inalterata la loro efficacia mostrano una tendenza ridotta a provocare tali effetti indesiderati. Essi combinano la capacità di bloccare i recettori cerebrali della dopammina con un'azione secondaria sui recettori della serotonina che sembra essere decisamente efficace.
Un altro passo decisivo è stato fatto con la scoperta dei primi antidepressivi efficaci. Anche questi farmaci sono stati rapidamente somministrati a milioni di persone con effetti benefici. Sfortunatamente, però, i composti di prima generazione ‒ ovvero l'imipramina, l'amitriptilina e altri, denominati nel loro insieme 'antidepressivi triciclici' ‒ hanno potenzialmente effetti collaterali pericolosi sul cuore se somministrati in dosi eccessive. Poiché i pazienti affetti da depressione hanno spesso tendenze suicide, i triciclici hanno causato numerosi decessi per sovradosaggio. Una nuova generazione di farmaci più sicuri, introdotti nel 1990 e rappresentati dalla fluoxetina, ha pertanto costituito un ulteriore progresso. Tutti gli antidepressivi agiscono bloccando la ricaptazione del neurotrasmettitore a livello della sinapsi, ovvero inibiscono i meccanismi delle proteine di trasporto (o trasportatori) che hanno il compito di porre termine all'azione di segnalazione. Alcuni di questi farmaci hanno come bersaglio sia i trasportatori della noradrenalina sia quelli della serotonina, mentre altri (i cosiddetti 'inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina', o SSRI) agiscono soltanto sui secondi. Tali sostanze, inoltre, si sono rivelate utili anche per il trattamento di altre condizioni psichiatriche, come la bulimia nervosa, il disturbo da stress post-traumatico, la fobia sociale, i disturbi ossessivo-compulsivi e la sindrome premestruale.
L'avvento delle benzodiazepine ‒ la famiglia di tranquillanti cui appartiene il diazepam ‒ ha notevolmente facilitato il trattamento dei pazienti ansiosi e di quelli che soffrono di attacchi di panico. A livello cerebrale, questi farmaci potenziano la risposta dei neuroni al neurotrasmettitore inibitorio GABA: l'aumento del tono inibitorio che segue l'assunzione di dosi moderate ha un effetto calmante e rilassante. In dosi più elevate le benzodiazepine inducono il sonno, e vengono infatti utilizzate per trattare l'insonnia. Col diffondersi del loro uso, tuttavia, si è scoperto che, se assunte per periodi di tempo prolungati, esse possono portare a una forma di dipendenza. È probabile che i pazienti trovino difficile smettere di assumere i tranquillanti in quanto l'interruzione induce spiacevoli sintomi da astinenza, tra cui un aumento dei livelli di ansia, inquietudine, agitazione e disturbi del sonno.
Una droga o 'sostanza d'abuso' è una molecola i cui effetti sono talmente gratificanti da facilitarne l'uso eccessivo in termini sia di quantità sia di frequenza di assunzione, a dispetto di effetti collaterali spesso gravi. L'alcol è la più antica e diffusa di tutte le droghe. Nella maggior parte dei Paesi occidentali, più dell'80% della popolazione adulta ammette di averlo provato e circa il 50% ne fa un uso regolare. Non si sa esattamente in che modo l'acol agisca a livello cerebrale, producendo inizialmente uno stato di eccitazione e successivamente uno di sedazione. è noto tuttavia che esso stimola l'azione del GABA, il principale neurotrasmettitore inibitorio, e blocca parzialmente quella del glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio. Inoltre, la piacevolezza degli effetti dell'alcol sembra essere dovuta in parte alla sua capacità di stimolare i meccanismi cerebrali degli oppiacei ‒ gli stessi che sono stimolati più direttamente e violentemente dall'eroina.
La nicotina è la droga presente nel tabacco e la sostanza responsabile della sua gradevolezza, la quale, secondo i fumatori, consiste nella facilitazione della concentrazione e nella sedazione dell'ansia. Nel cervello la nicotina agisce sui recettori dell'acetilcolina, le cui vie nervose hanno, tra le altre, la funzione di agire come un sistema di allerta o di attivazione fisiologica (detta arousal) degli emisferi cerebrali. Il tabagismo è pericoloso a causa delle molte sostanze chimiche che sono presenti nel fumo e che vengono rapidamente assorbite dal sangue attraverso i polmoni: nei Paesi sviluppati sono ascrivibili a esso quasi il 25% dei decessi nella popolazione maschile e il 17% in quella femminile. Il motivo per cui molte persone continuano a fumare nonostante i rischi ben noti è che diventano rapidamente dipendenti dalla nicotina, la quale, benché le industrie del tabacco lo abbiano finora strenuamente negato, costituisce una potente droga in grado di dare assuefazione. Il trattamento più efficace per chi cerca di smettere consiste nella somministrazione di nicotina per vie alternative, quali le gomme da masticare, i cerotti da applicare sulla pelle o gli spray nasali. Anche con questi ausili, tuttavia, circa l'80% dei fumatori che cercano di smettere ricade nell'abitudine entro sei mesi; senza di essi, la percentuale è del 90%.
La caffeina è la sostanza debolmente stimolante che si trova in bevande come caffè, tè e alcune bibite analcoliche, ed è una delle droghe più largamente e frequentemente consumate al mondo. A livello mondiale si stima che se ne assumano circa 70 mg per persona al giorno; una tazza di tè contiene in media circa la metà di questa dose, e una Coca-Cola ne fornisce circa 50 mg. Numerosi studi effettuati su soggetti umani confermano che la caffeina aumenta significativamente la prontezza mentale e diminuisce l'affaticamento; in particolare, essa migliora le prestazioni in compiti che, sebbene di facile esecuzione, richiedono il mantenimento di un'attenzione costante nel tempo, e il suo effetto è più pronunciato nei casi in cui l'attenzione è ridotta in seguito a stanchezza. A livello sinaptico, questa droga agisce come antagonista del recettore dell'adenosina, la quale è a sua volta implicata nella regolazione del rilascio di svariati altri messaggeri chimici. L'effetto stimolante della caffeina può essere ricondotto al fatto che essa, bloccando la normale azione frenante dell'adenosina, promuove un incremento del rilascio di acetilcolina e dopammina, entrambe dotate di un effetto stimolante delle funzioni cerebrali.
La Cannabis (chiamata anche 'marijuana') è la sostanza d'abuso più largamente utilizzata. Nella maggior parte dei Paesi occidentali, non meno del 40% delle persone tra i 15 e i 50 anni ammette di averla provata almeno una volta e una percentuale tra il 10 e il 15% ne fa uso regolarmente. La definizione di 'uso regolare', tuttavia, copre un ambito molto ampio, che va da coloro che la assumono ogni giorno a coloro che se la concedono una volta al mese o anche meno. Il termine marijuana designa le foglie e i fiori essiccati di diverse varietà della specie Cannabis sativa, il cui principio attivo più importante è il δ-9-tetraidrocannabinolo (THC). Quando la marijuana viene fumata il THC arriva rapidamente al cervello. Esso viene assunto anche per bocca, ma si tratta di una via meno affidabile: l'assorbimento è lento (sono necessarie almeno 3-4 ore per raggiungere il picco di concentrazione nel sangue) e il consumatore non può esercitare alcun controllo sulla quantità assunta, rischiando dunque una overdose o, al contrario, di fermarsi a livelli inferiori alla dose efficace. Gli effetti acuti della Cannabis non sono diversi da quelli dell'alcol: coloro che ne fanno uso provano sollievo dall'ansia e spesso ridono senza controllo. Un effetto caratteristico consiste nella distorsione del senso del tempo, per cui un minuto sembra facilmente molto più lungo di quello che è. A dosi elevate la cannabis può indurre deliri, allucinazioni o altri disturbi del pensiero. La scoperta più importante per quanto concerne il suo meccanismo d'azione è stata quella di uno specifico recettore in grado di riconoscere il THC. Benché questa sostanza chimica sia presente soltanto nella pianta, i neuroni possiedono il recettore specifico in quanto il cervello contiene e rilascia propri neurotrasmettitori che sono simili al principio attivo della Cannabis e che attivano quel recettore in condizioni normali. Uno di essi è per esempio l'anandammide, la cui etimologia in sanscrito significa 'estasi'. Non è chiaro quale sia la normale funzione fisiologica di questo cannabinoide, ma i risultati degli studi indicano che potrebbe avere un ruolo importante nella modulazione della sensibilità al dolore.
L'anfetamina è stata una delle prime droghe di uso voluttuario a essere prodotta artificialmente. Fu immessa sul mercato inizialmente nel 1920 come decongestionante nasale (benzedrina), ma venne utilizzata anche in medicina per il trattamento dell'asma e come sostanza anoressizzante per combattere l'obesità. Si tratta tuttavia di un potente stimolante, e i pesanti effetti collaterali che provoca hanno finito per limitatarne l'utilità clinica. L'abuso di anfetamina produce sintomi che ricordano un episodio acuto di schizofrenia, anche se, fortunatamente, essi risultano reversibili quando l'uso viene interrotto. Non a caso, questa sostanza agisce nel cervello aumentando in modo anormale la velocità di rilascio della dopammina. I pazienti con il morbo di Parkinson che ricevono un iperdosaggio di L-DOPA possono sperimentare effetti collaterali di tipo psicotico, anch'essi dovuti a un eccesso di tale neurotrasmettitore. Il verificarsi delle 'psicosi da anfetamina' nei tossicodipendenti ha contribuito a puntare l'attenzione sulla dopammina come fattore chiave per comprendere la schizofrenia e per scoprire che l'efficacia dei farmaci antischizofrenici è basata proprio sul blocco della sua azione. Paradossalmente, l'anfetamina e altre sostanze simili a essa, come il metilfenidato, sono risultate utili per il trattamento del Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI). I bambini che ne sono affetti si muovono in continuazione e non riescono a dedicarsi a nulla se non per brevi periodi di tempo; di conseguenza, essi incontrano difficoltà a scuola e le loro prestazioni risultano mediocri anche in seguito, all'università. Benché non vi siano dubbi sul fatto che l'anfetamina e il metilfenidato migliorino le capacità di concentrazione e di apprendimento di alcuni bambini, è attualmente in corso un acceso dibattito sul fatto che queste molecole possano essere prescritte con troppa facilità.
L'LSD (dietilammide dell'acido lisergico) è una sostanza d'abuso molto potente e popolare. Nel cervello, essa influisce pesantemente sull'attività di particolari recettori serotoninergici, provocando gravi distorsioni percettive e allucinazioni. Le prove che il suo uso continuativo produca dipendenza sono limitate, ma possono verificarsi degli effetti negativi. Non tutte le esperienze con l'LSD sono piacevoli e un'assunzione in condizioni non favorevoli può diventare assai sgradevole e terrorizzante.
L'eroina, pur essendo un derivato chimico sintetico della morfina, è più potente del suo precursore, perché passa più rapidamente dal circolo sanguigno nel cervello, dove attiva i recettori degli oppiacei. Gli eroinomani descrivono come fortemente piacevole lo stato di intensa euforia che segue l'iniezione endovenosa e ciò rende altamente probabile che il consumatore sviluppi una dipendenza fisica. L'astinenza da eroina corrisponde a sensazioni notevolmente sgradevoli ed è potenzialmente pericolosa per la vita stessa. Alla sintomatologia fisica ‒ costituita da diarrea, crampi dolorosi allo stomaco, cefalea, nausea, vomito e convulsioni ‒ si accompagna il desiderio spasmodico di assumere una nuova dose. Il trattamento della dipendenza si avvale di solito della somministrazione di un oppiaceo sostitutivo, il metadone, che si assume per bocca, viene assorbito lentamente e ha effetti duraturi nel tempo. Esso aiuta a far cessare l'intenso desiderio di eroina senza tuttavia offrire la corrispondente sensazione euforizzante. Sebbene l'uso clinico del metadone abbia dato alcuni buoni risultati, rimane un arduo compito quello di convincere gli eroinomani a smettere di drogarsi. Per scoraggiare le ricadute si è dimostrato di una certa utilità il naltrexone, che impedisce agli effetti piacevoli della droga di verificarsi.
Analogamente alla morfina, la cocaina è un composto che si ottiene da una pianta, la coca, un arbusto che cresce sulle Ande. Masticare foglie di coca è da secoli una radicata abitudine delle culture sudamericane: le foglie contengono una modesta quantità di principio attivo, inducono una sensazione di benessere, riducono la fame e aumentano la resistenza in ambienti spesso difficili. I cocainomani occidentali, invece, assumono questa droga in una forma pura e assai più potente: la aspirano di solito con il naso sotto forma di polvere bianca, e questa modalità di assunzione ne facilita il rapido assorbimento da parte del circolo sanguigno. Coloro che hanno sperimentato l'euforia da cocaina la descrivono come il più intenso di tutti i piaceri indotti da una droga. Essa è spesso seguita, tuttavia, da una profonda depressione del tono dell'umore e da un persistente desiderio di assumere un'altra dose per superare questo stato d'animo. Il tossicodipendente può perdere ogni altra motivazione che non sia quella di procurarsi la droga e per ottenerla può arrivare a commettere gravi reati. Nel cervello, la cocaina agisce provocando un aumento sia di serotonina che di dopammina, in quanto inibisce i trasportatori che sono responsabili della ricaptazione di questi messaggeri chimici. Tale azione farmacologica combinata produce l'effetto stimolante e di attivazione cerebrale tipico dell'anfetamina insieme all'elevazione del tono dell'umore tipico degli antidepressivi.
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