Novecento
(XXIV, p. 994)
Le fortune di una parola
Il costituirsi nel linguaggio italiano della voce Novecento come oggetto di trattazione storiografica specifica è un processo solo in parte assimilabile a quello di altri contesti nazionali. Lo è certamente per gli aspetti sovrapponibili alla definizione ventesimo secolo (il termine usato in tutte le altre lingue per delimitare lo stesso arco cronologico), ma ne differisce per altri requisiti specifici connessi alla storia artistica e culturale italiana. A tale ridondanza semantica occorre fare riferimento in prima istanza, notando che essa ha orientato in Italia il dibattito sul N. già a partire dai primi anni del secolo in questione, contribuendo alla sua autorappresentazione. La parola Novecento richiama infatti i movimenti culturali di avanguardia ('novecentisti' e quindi per definizione 'europei' e 'moderni') che si sono venuti configurando nei primi decenni del secolo in antitesi ai movimenti culturali e artistici ottocenteschi (e in quanto tali 'provinciali' e 'non moderni'): ciò vale nella pittura come nell'architettura e nella letteratura. N. è inoltre un lemma che riflette, nel clima culturale del tempo, più un'idea del secolo a venire che la reale età contemporanea. Così, l'uso della parola N. nasce avendo già incorporato in sé la critica al mondo liberale e borghese ottocentesco, ma anche i limiti - prettamente culturali - di tale critica: dunque l'illusione, da parte di molti, di riuscire a proiettare il superamento dell'antitesi modernista al di là della stessa sfera culturale in cui essa era nata. E qui la futurologia sul N. si coniuga con un moto sovranazionale e politico-ideologico, nel quale, tuttavia, già gli anni Trenta segneranno, anche in ambito semantico, quel crinale tra un prima e un poi che è stato giustamente definito come "punto di arrivo di un percorso che affondava le sue radici nell'Ottocento, e punto di partenza di processi in atto ma avvertiti come privi di soluzione" (Mangoni 1997, p. 203).
Può essere ancora interessante segnalare il primato della cultura italiana nei primi decenni del secolo nel lanciare parole 'innovative', poi riprese (e modificate) in ambito europeo. Si pensi, accanto a N., a voci come 'Futurismo', 'Fascismo' o 'Totalitarismo', tutti lemmi nati in Italia per denunciare e orientare la stessa congiuntura temporale e culturale: la crisi del liberalismo e l'illusione di un nuovo ordine politico, economico e sociale. In quel clima la parola Novecento è ancora usata come quella in grado di segnalare l'impasse tra distruzione del vecchio mondo e culto del moderno spirito italiano ed europeo (Bontempelli). Ma, come si è detto, già alla fine degli anni Venti la parola Novecento come spia di avanguardia è diventata anacronistica, mentre il secolo, perduta la sua griffe italiana, diventa, più banalmente e tragicamente, 'ventesimo'.
Ovunque in Europa, il nuovo secolo al suo inizio è soprattutto sinonimo di preannunciata "degenerazione", parola lanciata nell'universo letterario nel 1893 dal suo profeta, M. Nordau (Laqueur 1996). Più tardi e in altri contesti linguistici il tema sarà ripreso dalla Histoire de quatre ans, 1997-2001 di D. Halévy, pubblicata nel 1903 e prontamente tradotta in italiano da Prezzolini: singolare presagio di un secolo qui rappresentato come avvantaggiato dalla scienza, ma fatalmente condannato dalla demagogia e da una prevalente cultura del piacere e della morte. Il N. nasce all'insegna della critica della modernità (per i suoi mutamenti più traumatici: il progresso tecnico, l'urbanizzazione) e soprattutto della democrazia borghese che di essa è sinonimo. Nel rigetto dello storicismo positivista (e di una connessa visione gradualistica del futuro) si fa strada la crescente e diffusa influenza di Nietzsche con la sua denuncia del peso limitante del 'passato' e dunque della storia ("per ogni agire ci vuole oblio").
In Italia '900 si chiamerà programmaticamente la rivista lanciata a Roma nel 1926 da M. Bontempelli e C. Malaparte con il sottotitolo Cahiers d'Italie et d'Europe e scritta in francese per segnare il distacco dalla tradizione provinciale nazionale. Tuttavia, nella letteratura come nelle arti figurative, nell'architettura e nella musica, il 'novecentismo' ebbe nel complesso in Italia sviluppi limitati, non riuscendo mai a proporre una soluzione stilistica unitaria, ma distinguendosi semplicemente per un discorso formale in bilico fra senso della tradizione e ricerca della 'modernità'. Così, la parabola critica di 'novecento' fu molto rapida. Non a caso, già nel gennaio del 1928 B. d'Arzocco (Lelio Basso), sulla rivista Pietre fondata da P. Gobetti, osava preannunciare in un profetico editoriale La morte del Novecento: "Perché quello che si chiama novecentismo - giova ancora ripeterlo? - non esiste come fenomeno unitario di vita culturale. [...] Questo pensiero non sarà il pensiero del nostro secolo: tutto ciò che su questa strada s'è fatto non è costruzione del domani, ma sfrenata demolizione del passato, è la riduzione del vecchio mondo in minutissimi pezzettini, che poi si possono ricomporre a capriccio, unendo le teorie più disparate". Risalta in questo ritratto il carattere prevalente del 'novecentismo': il suo essere in primo luogo antiborghese, antidemocratico, precostituendo così il terreno culturale per quella crisi globale del liberalismo che negli anni fra le due guerre accomunò le élites intellettuali di ogni paese in Europa. Quanto alla forma artistico-letteraria che questo movimento assume, è singolare notare una ripresa di alcuni dei suoi elementi nell'attuale clima culturale di fine N. allorché, nella polemica sul postmodernismo e sulla deriva narrativista, che tanta influenza manifestano anche nella storiografia (v. storiografia: Età moderna e contemporanea, App. V), sembra tornare attuale lo spunto critico dell'articolo di Basso, a proposito della letteratura come specchio dello Zeitgeist degli anni Venti: "pigliate un catalogo di novità letterarie: non vedrete che 'briciole', 'trucioli', 'frantumi'". Così è stato anche per la cultura letteraria di questa fine di secolo: ancora una volta la letteratura, come è stato osservato, ha saputo preannunciare la dissoluzione dell'universo novecentesco con qualche anticipo sugli avvenimenti della storia sociale e politica: "chi avesse interrogato, durante gli anni ottanta, la narrativa, e soprattutto la nuova narrativa italiana, non dovrebbe oggi stupirsi di quanto succede, perché quei racconti paradossalmente 'minimalisti' annunciavano e denunciavano una crisi radicale, una improvvisa e irrimediabile discontinuità, un salto, anzi, forse un vero e proprio terremoto" (De Michelis 1998, p. 31). Nella cultura contemporanea, tale crisi coincide con il passaggio dal modernismo al postmodernismo (v. postmoderno, App. V), termine su cui non esiste accordo salvo sul fatto che esso indica una sorta di reazione o di allontanamento dal modernismo e che quest'ultimo è identificato "con la fede nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione razionale di ordini sociali e nella standardizzazione della conoscenza e della produzione" (Harvey 1989; trad. it. 1993, p. 21). Sul piano simbolico, la morte di queste 'metanarrazioni', o interpretazioni teoriche universali e totalizzanti, segna anche la morte del Novecento.
Come categoria storiografica, la parola Novecento è ricomparsa, dopo la lunga parentesi dei decenni centrali del secolo, nello scorcio finale a significare soprattutto l'urgenza di dare un senso storico complessivo ai rivolgimenti dei cento anni passati: questi rappresenterebbero, nella storia mondiale, nel loro insieme un'epoca, contrassegnata da connotati distinti dalla precedente (l'Ottocento?, l'età moderna nel suo complesso?) che lo storico deve identificare e approfondire a partire dall'assunto che di un'epoca si tratti. Anzi, come è stato notato, la parola Novecento continua a esercitare un suo potere simbolico di assimilazione nei confronti della più vasta 'età contemporanea', tanto che la contemporaneistica appare sempre più sbilanciata sul 20° secolo su cui si stanno esercitando le capacità di sintesi dei migliori storici (e non solo). È alla valorizzazione di tale sforzo che è principalmente dedicata questa trattazione nella quale si sono fatti confluire gli aspetti considerati dall'opinione comune come distintivi dell'epoca. Anche e soprattutto sul N. la storiografia sembra muoversi nella diffusa incertezza 'tra la storia per periodi e la storia per problemi' (v. storiografia: Età moderna e contemporanea, App. V).
Un secolo 'americano'? La fine degli imperi e il declino dell'Europa
Di 'secolo americano' sogna la stampa di fine Ottocento e dei primi anni del secolo: se ne trova traccia nelle arti visive (dalla pittura al cinema) e nella letteratura (Lyttelton 1997). La previsione è talmente corrente da fornire il titolo all'opuscolo di un influente giornalista inglese, W.T. Stead, The Americanization of the world, or the trend of the twentieth century (1902), o al noto libro di H.G. Wells, The future in America (1906) e materia documentaria ai famosi Film-giornale di 42° parallello, di J.R. Dos Passos (1930). Conviene dunque prendere le mosse da questa autorappresentazione 'spaziale' del secolo per indagarne la rispondenza oggi, in particolare nelle sintesi storiche imperniate sugli spostamenti negli equilibri geopolitici e sulla categoria di 'territorio' (controllo, estensione). Anche qui non mancano già isolate ma puntuali previsioni a fine Ottocento, non solo in America ma anche in Europa (P. Valéry) circa il carattere epocale delle guerre degli anni Novanta dell'Ottocento, apparentemente periferiche rispetto al continente europeo, preannuncio di quello che, parecchi decenni più tardi (1964), la fortunata sintesi di G. Barraclough avrebbe definito the dwarfing of Europe. L'intuizione di Valéry (solitaria per tragica lungimiranza politica) che si fosse all'inizio della parabola discendente del dominio culturale e politico europeo diventava nella ricostruzione dello storico inglese la data di origine di un processo che aveva caratterizzato l'età contemporanea ma che solo un completo rovesciamento di prospettiva rispetto alla visione storicista consentiva di cogliere in tutta la sua novità. Al centro di tale narrazione stava il punto di arrivo, e cioè la constatazione che l'Europa - dopo aver diffuso nei cinque continenti i fondamenti del sapere tecnico e scientifico che per secoli l'aveva resa la sovrana del mondo e dopo avere scatenato una nuova 'guerra dei Trent'anni' tra il 1914 e il 1945 come conseguenza di conflitti intraeuropei, dovuti a una mentalità politica da 'Piccoli Europei' (Valéry 1931; trad. it. 1994, p. 26) - aveva dovuto finalmente accettare il dato di fatto del suo 'rimpicciolirsi' nello scenario mondiale, già peraltro misurabile nel ventennio prebellico sul terreno demografico ed economico (Keynes 1920). Formatosi sugli studi di geopolitica, Barraclough poteva inscrivere la novità epocale del 20° secolo non tanto in una linea di continuità con l'età immediatamente precedente - e dunque nella crisi del vecchio mondo liberale europeo (con le sue più dirette conseguenze: guerra, fascismo, comunismo) -, quanto nella più universale caratteristica della storia umana, cioè il suo procedere 'per balzi' (Rinascimento, Riforma). I fattori scatenanti del balzo che aveva marginalizzato l'Europa, ben visibili nell'assestamento mondiale degli anni Sessanta - e che consentivano di interpretare l'intera epoca moderna come una globale 'età europea' -, potevano essere così individuati e ricomposti in una trama storica che molto doveva ad alcuni geniali osservatori contemporanei dell'area delle scienze economico-sociali; dunque, evoluzione demografica, rivoluzione tecnologica, imperialismo, finanza, conflitti nazionali e di classe nella società di massa (Keynes, Polanyi).
Il punto di vista degli anni Sessanta inscriveva, tuttavia, a differenza del pessimismo fin de siècle di Valéry, il nuovo Atlante della storia contemporanea in un trend economico-politico forward-looking (rivolto al futuro) e in questa prospettiva il N. sembrava aver finalmente raggiunto quell'equilibrio di forze a livello mondiale che era stato lungamente e sanguinosamente cercato nel suo primo cinquantennio. Di questa 'grande narrazione' facevano anche parte la definitiva sconfitta degli imperi e delle forze economico-sociali (le monarchie, l'aristocrazia militare) che avevano consentito (secondo l'intuizione già di Schumpeter) la durata dell'Antico Regime ben dentro il N., così come il ruolo miliare della Prima guerra mondiale e il tentativo successivo di tornare alla normalità resistendo tenacemente al cambiamento attraverso una seconda sanguinosa 'guerra dei Trent'anni' (Mayer 1981).
A seguito, tuttavia, della crisi petrolifera del 1973 (che indeboliva fortemente il monopolio della moneta americana a Occidente) e del crollo nel 1989-91 dell'impero sovietico, la storiografia, pur accogliendo in genere lo schema proposto da Barraclough nell'elencare i già citati fattori di novità che caratterizzerebbero l'età contemporanea e una data d'inizio collocabile (come voleva Valéry) con l'allontanamento di Bismarck dal cancellierato, doveva prendere atto che il N. nella sua interezza si era rivelato meno generoso e rassicurante di quanto non fosse sperabile negli anni Sessanta. Caduta la visione progressista ancora implicita in questa periodizzazione, l'accento si è spostato, in quella che è oggi considerata la narrazione più convincente dell'epoca N., sulla ricerca del fattore caratterizzante (e dunque epocale), con un singolare recupero, anche nel marxista E.J. Hobsbawm, del ruolo dell'evento politico. Nel caso di Age of extremes (1994; trad. it. Il secolo breve, 1995), infatti, la periodizzazione del N. (il secolo) ruota attorno all'ascesa e caduta del comunismo, evento che condiziona anche le subpartizioni interne (Età della catastrofe, Età dell'oro, Età della crisi), in quanto per ognuna di esse vale il criterio della centralità della presenza del comunismo e della sua influenza in aree geografiche sempre più estese: una centralità misurabile, rispettivamente nelle tre Età, in termini di rigetto, confronto e sconfitta. Nella prospettiva di Hobsbawm, inoltre, l'Età dell'oro (l'insieme di progresso economico civile e sociale che caratterizza l'Occidente negli anni 1947-73) non appare più come il compimento di un processo tormentato benché progressivo, ma come una fase 'eccezionale' dovuta a circostanze politiche irripetibili (il confronto con la sfida comunista), schiacciata "come un panino" tra due età di crisi. La scelta coraggiosa di Hobsbawm - che completa del resto una trilogia storica altrettanto riuscita per l'arco cronologico 1789-1914 - ha suscitato un interesse, si può ben dire, strepitoso, misurabile in termini commerciali, e di traduzioni, di dibattiti e recensioni; occorre anche tener conto della influenza indiretta che tale modello ha esercitato, in quanto si è posto come una ineludibile pietra di paragone per qualsiasi altra proposta di sintesi interpretativa del N. imperniata sulla forza reale e simbolica del totalitarismo, fascista o comunista.
Se si tiene conto, tuttavia, del complesso della sua opera storiografica e della sua impostazione di fondo, risulta evidente che Hobsbawm mostra maggiori affinità con gli autori che con lui, più che una visione più o meno simpatetica del comunismo, condividono un'impostazione storica (di origine marxista) in cui i fattori economici mondiali di controllo del territorio e delle risorse continuano a svolgere un ruolo centrale. Per es., nell'ottica di un modello strutturale di sviluppo del sistema-mondo proposta dalle scienze sociali (Arrighi 1996), la novità del 'lungo' 20° secolo (dal 1870 al presente) è messa in luce sullo sfondo braudeliano di quattro 'cicli sistemici di accumulazione' (cioè di combinazione di potere politico-militare ed economico) risalenti alla Genova del Quattrocento e proseguiti poi, attraverso un processo di sempre più largo controllo del mercato degli scambi finanziari, con il ciclo olandese, inglese e, finalmente, americano (Arrighi conclude prospettando l'emergere potenziale di un ciclo asiatico). È evidente qui, nella ricerca delle 'origini', la realtà di un presente che, a partire dagli anni Settanta, appare caratterizzato dalla straordinaria fioritura, trasformazione e autonomia dalla produzione dei mercati finanziari. Un presente segnato anche da una crisi di transizione nel modo di 'regolazione' sociale e politica, con un passaggio che viene genericamente definito dal fordismo all'accumulazione flessibile (Harvey 1989). In questo quadro si comprendono meglio anche molti degli sviluppi descritti da Hobsbawm nella successione delle varie Età, mentre ne rimangono sullo sfondo altri (i conflitti per l'egemonia mondiale e più in generale gli Stati e la politica).
Una periodizzazione imperniata invece sulla centralità degli Stati nazionali nel creare e controllare il tempo pubblico dominante (mediante l'uniformazione dei sistemi fiscali, militari, di disciplinamento del lavoro), nonché i ritmi sociali della vita dei cittadini, è quella proposta da Ch. Tilly (1994), con un punto di avvio collocato a metà del 18° secolo e un punto di arrivo rappresentato dall'attuale riorganizzazione transnazionale. Una combinazione dei vari fattori fin qui evocati (politica, economia, storia) si trova nell'approccio di Ch.S. Maier (1997), che in parte riprende e integra gli autori citati: qui l'epoca lunga del N. si definisce a partire dalla centralità del territorio (suo controllo e organizzazione) in una fase determinata, quella dello Stato-nazione nel periodo che va dal 1870 al 1980 circa; si tratta di un 'secolo lungo' di cui ha fatto parte l'epoca della tecnologia delle ciminiere (l'industrializzazione fordista) che ha costituito il culmine dell'organizzazione territoriale basata su 'linee' e 'confini' (oggi sostituiti, anche nell'immaginario culturale, dalle 'reti'): il primato della territorialità in questo secolo avrebbe conosciuto diverse crisi e assestamenti (negli anni Novanta dell'Ottocento e negli anni Trenta) fino agli anni Settanta, epoca a partire dalla quale lo spazio della decisione economica (sempre più internazionale) si è venuto separando da quello della decisione politica, con conseguenze gravi sulla capacità degli Stati nazionali di garantire la stabilità. Eppure, conferma anche il dibattito tra gli economisti, poiché il mercato non può riprodurre da solo le condizioni del proprio successo, vi sarebbe più che mai oggi ancora bisogno di 'imperi', cioè di organizzazioni non nazionali capaci di consentire integrazione e differenziazione, nonché collegamenti transnazionali e dunque nuove basi per la stabilizzazione.
L'età del collettivismo
Per collettivismo si intende una società in cui "i fini dello Stato hanno sostituito i fini privati nel plasmare la vita economica e sociale", in cui cioè sia diffusa la persuasione che lo Stato possa sostituirsi al mercato nel determinare le scelte più opportune per la società (Skidelsky 1995). Secondo il parere, in particolare, di alcuni grandi scienziati sociali, la grande battaglia politica e ideologica del 20° secolo sarebbe appunto quella tra collettivismo e liberalismo (Schumpeter), tra 'schiavitù' e 'libertà' (Hayek), cioè tra Stato e mercato. All'inizio del secolo, infatti, l'immagine che meglio sintetizzava questa proiezione nel futuro del N. era quella, diffusa soprattutto in ambito inglese, di secolo tedesco (come documenta Lyttelton 1997). L'inquietudine autocritica degli intellettuali della Gran Bretagna, alla fine di quello che era comunemente definito il secolo britannico (l'Ottocento), si rifletteva nella ricerca di alleanza con la potenza economica e militare americana proprio per il timore di un futuro all'insegna della Germania. Nel confronto tra lo spirito nazionale britannico, accusato di 'dilettantismo' in ogni professione, compresa quella militare, e la potenza della scienza e dell'organizzazione tedesca si materializzava un contromodello di direzione dell'economia e della politica che, sotto diversi nomi, troverà dapprima in Germania (e poi in URSS) la propria fonte di ispirazione.
Non a caso fu la Scuola austriaca di economia a condurre una decisa battaglia contro la Scuola storica tedesca (G. Schmoller) - accusata di giustificare una gestione 'politica' delle risorse in nome dell'inferiorità della scienza economica teorica - e a sferrare un duro attacco contro 'l'economia di guerra' ponendo in evidenza (già con L. von Mises nel 1919) la comunanza di mezzi e risultati fra la statalizzazione 'prussiana' e quella socialista. Eredi di quella tradizione, sia Mises che Hayek si trovarono così in grado di cogliere precocemente le affinità tra statalismo, socialismo e nazionalismo, movimenti tutti accomunati in Germania dalla reazione alla società di mercato.
Anche M. Manoilescu, osservando il complesso delle trasformazioni socioeconomiche dei paesi colpiti dalla crisi del 1929 (al di là delle divisioni politiche), profetizzava nel 1934 sul N. come Le siècle du corporatisme, l'unica risposta considerata adeguata alla 'polverizzazione' della società in individui operata dalla Grande rivoluzione. Sempre in terra francese, negli stessi anni (1938) E. Halévy ricorreva ancora al corporativismo per identificare l'ère des tyrannies. A suo avviso, infatti, l'epoca delle tirannie è databile a partire dall'agosto 1914, perché allora le nazioni belligeranti adottarono un regime 'di estrema statalizzazione' sia dei mezzi di produzione e di scambio, sia del pensiero. Dal regime di guerra è poi nato direttamente il socialismo in Russia, mentre nell'Europa centrale il fascismo ha reagito all'"anarchia socialista" costruendo dietro il nome di corporativismo una sorta di contro-socialismo. Per Halévy la contraddizione di cui ha sofferto la società europea negli anni Trenta è quella per cui i partiti conservatori domandavano il rafforzamento quasi indefinito dello Stato con la riduzione quasi indefinita delle sue funzioni economiche, mentre i partiti socialisti domandavano l'estensione indefinita delle funzioni dello Stato e, nello stesso tempo, la riduzione indefinita della sua autorità. Da qui deriverebbe, per combinazione dei due elementi, il 'socialismo nazionale'.
La categoria del corporativismo dirigista sarà ripresa (con il nome di neocorporativismo per distinguerlo dal precedente fascista e inserirlo in un contesto pluralista) negli anni Settanta, per identificare i mutamenti verificatisi nel rapporto tra Stato e organizzazioni degli interessi privati, anche all'interno dei paesi capitalistici a regime democratico (Regini 1983²). Caratteristico dei sistemi così denominati è il rapporto tra queste associazioni e l'apparato statale: è infatti lo Stato che concede loro riconoscimento istituzionale e il monopolio della rappresentanza degli interessi, e che delega loro una serie di funzioni pubbliche; un processo che trova le sue radici nella 'rifondazione dell'Europa borghese' dopo la Prima guerra mondiale (Maier 1975).
I fenomeni qui ricordati si possono ricondurre a una definizione del secolo ancora più generale e su cui sembra confluire, dopo il crollo del comunismo, il consenso unanime degli economisti: il N. sarebbe il secolo che "ha visto il trionfo e la nemesi della sovranità economica dello Stato" (De Cecco 1998). Anzi, secondo R. Skidelsky - biografo di Keynes, che peraltro Skidelsky ritiene travisato nell'apparente consenso dei policy makers del secondo dopoguerra - la categoria di collettivismo consentirebbe di rileggere in maniera unitaria l'intera storia del secolo: dall'ascesa di tale tendenza nel clima di pessimismo intellettuale (e di vulnerabilità dell'individualismo liberale) di fine Ottocento, alla sua piena affermazione nell'era delle guerre (le esperienze di pianificazione della Germania di W. Rathenau, l'affinità tra il corporativismo fascista e la pianificazione collettiva), fino alla 'convergenza di patologie' pro-collettivismo a seguito della Seconda guerra mondiale. Mentre nel mondo occidentale la svolta è intervenuta negli anni Settanta, dopo l'aumento dei prezzi del petrolio, con l'avvio della nuova economia politica, i paesi del blocco socialista hanno continuato a sviluppare fino alle estreme conseguenze questa concezione, portando quindi a conseguenze altrettanto estreme le inefficienze e i costi sociali del collettivismo. Se Skidelsky è molto severo anche sull'ultimo e troppo timido tentativo di riforma del collettivismo comunista rappresentato da Gorbačëv, lo è altrettanto sull'eccesso di intervento pubblico ancora presente, a suo parere, nei paesi occidentali; eppure il suo libro si chiude con l'invito a restaurare lo Stato perché, se "una delle principali lacune della teoria liberale classica riguardava quei beni pubblici che sono necessari affinché possa aver luogo il libero scambio" (Skidelsky 1995; trad. it. 1996, p. 244), la recente reazione anticollettivista sembra aver dimenticato l'esistenza dei keynesiani 'mercati imperfetti'. Il suo punto di vista sul N. trova conferma in altre sintesi recenti di economisti (L'economia mondiale nel Novecento, 1998), mentre, in questo dibattito, gli storici e gli scienziati sociali tendono a portare le ragioni della 'politica', cioè a sottolineare il ruolo svolto dagli Stati-nazione nel consentire un più alto livello di speranza e di aspettative (Wallerstein 1998), o dalle forze sociali nel garantire la coesione (Hobsbawm 1998). Quel che è certo è che nella storia del dibattito teorico di macroeconomia (con una coincidenza significativa con la storiografia del N.), dopo la fase della filosofia 'minimalista' della deregulation degli anni Ottanta, si assiste alla fine degli anni Novanta a una nuova attenzione ai fattori di crescita 'qualitativi' del sistema economico (come istruzione, diffusione delle innovazioni, disuguaglianza) - su cui avevano già richiamato l'attenzione grandi pensatori dell'economia - quali ingredienti del mix di interventi strutturali necessari al progresso sia civile sia economico (Hirschman): è la concezione del 'governo istituzionale' del mercato, secondo la quale il mercato continua a svolgere un suo indispensabile ruolo allocativo, ma all'interno di un disegno più vasto, e disincantato, di regolazione delle dinamiche strutturali (Wade 1990).
Il secolo controverso. L'epoca delle ideologie. - È questa l'altra grande tesi interpretativa della storiografia del N., forse anzi la più diffusa e accreditata, per diretta influenza, si potrebbe affermare, della sociologia e della scienza politica, dove peraltro la parola ideologia ha una gamma di significati molteplici (Stoppino 1983²; Gallino 1978, 1993²). Nella storiografia del N. prevale oggi il significato cosiddetto debole della parola, che, a differenza di quello forte (l'ideologia come falsa coscienza del dominio fra le classi, tesi riscontrabile nelle interpretazioni marxiste del fascismo), serve per attribuire a una credenza o a uno stile politico certi elementi tipici, come il dottrinarismo, o il dogmatismo; a questo uso si collega il tema della fine o del declino delle ideologie nelle società industriali dell'Occidente, originato da K. Mannheim e oltremodo diffuso già negli anni Cinquanta e Sessanta, ma ancora attuale in questa vigilia del terzo Millennio.
In campo storiografico, tra i primi sostenitori della tesi della modernità delle origini della nozione di ideologia è stato O. Brunner in un saggio del 1954 sul rapporto tra declino dell'antica Europa (nello scoppio rivoluzionario settecentesco) e nascita dell'epoca delle ideologie: cambia allora il concetto di 'politica', nasce nei salons la 'società' (a partire dai gens de lettres, dagli idéologues) separata dallo Stato, si afferma il diritto del 'cittadino'. È nel contrasto con Napoleone che si definisce il termine ideologia (da lui connotato in modo dispregiativo), cioè "qualsiasi teoria politica, e in particolare una teoria incidente nella sfera del governo e dell'azione, in grado cioè di eccitare la resistenza nei confronti del politico impegnato nella sua azione. Ideologia è in primo luogo quella teoria, in campo politico, sociale, economico, che non giova al politico in azione" (Brunner 1954, p. 221) ed è tale frattura fra ideologo e politico a connotare ogni uso successivo della parola ideologia. Storicamente tuttavia l'epoca delle ideologie fa riferimento a un insieme unitario di idee affermatesi nell'Ottocento - il liberalismo, il conservatorismo, il socialismo e le loro diverse combinazioni con il nazionalismo - che hanno tutte in comune una pretesa di scientificità, una visione del mondo e una fede storica, una 'utopia' (Mannheim). La coscienza utopica delle ideologie liberali si collega alla fede nel progresso e nella perfettibilità dell'uomo, mentre in quelle restaurative e romantiche, nate per contraccolpo alle prime, prevale l'idea di decadenza e di corruttibilità. Le ideologie, afferma Brunner, in quanto fenomeni storici concreti appartengono alla formazione del mondo moderno e come quest'ultimo affondano le loro radici nella storia europea. Da qui il dibattito sul declino delle ideologie già a partire dal primo N., in quanto allora sarebbero venuti a mancare i presupposti che le hanno fatte sorgere. Il che non significa che sia terminata anche la loro influenza al di fuori del contesto della cultura occidentale; solo che la concezione del mondo in esse contenuta ha perso il valore di scienza cui aspirava. Brunner concludeva il suo saggio segnalando due fenomeni come conseguenza del declino delle ideologie: da un lato la comparsa di un surrogato religioso nel diffondersi del fideismo, dall'altro l'apparire del concetto di mito come estremo tentativo di salvare gli elementi irrazionali di una declinante ideologia razionale.
Nella storiografia dell'età contemporanea è stato soprattutto G. Mosse, con la sua vasta e influente riflessione sulla history of ideas (come recita la dizione anglosassone di una disciplina che ha connotati non idealistici ma culturali e storico-antropologici) in Europa, a riprendere e sviluppare in maniera originale due dei temi contenuti nella tesi di Brunner: il cambiamento profondo che irruppe nella politica europea al passaggio tra il 18° e il 19° secolo (la costruzione di un nuovo stile politico, di una nuova liturgia civile che 'saltava' la tradizionale divisione tra politica e vita) e il ricorso al mito per favorire l'integrazione dell'uomo nella storia: da ciò per Mosse l'importanza, nello studio del N., dell'analisi dello stile politico piuttosto che dei sistemi di credenze (cioè del singolo contenuto delle utopie). La tesi della trasformazione dello stile politico offre anche un utile spunto per accennare ai cambiamenti intervenuti in due tipici 'ismi' o Weltanschauungen del 19° secolo: il nazionalismo e il socialismo. Se il socialismo in quanto utopia di 'potere proletario' alternativo al 'potere capitalistico' raggiunge la sua massima espansione nei primi anni del secolo, per esaurirsi e trasformarsi nello scontro successivo alla Prima guerra mondiale (Foa 1985), in maniera quasi paradossale il N. ha visto il potente affermarsi, sia nelle società industriali sia nei territori poveri o ex coloniali, del movimento nazionalista, contro tutte le previsioni che nella seconda metà dell'Ottocento lo ritenevano in via di esaurimento. Il nazionalismo, una forma di 'falsa coscienza' per le correnti marxiste, ha in realtà connotato tutte le rivoluzioni contemporanee (v. oltre), compresi i movimenti esplosi nelle società comuniste, ed è stato definito come "una reazione mondiale contro le dottrine centrali dello stesso razionalismo liberale ottocentesco, un confuso tentativo di ritornare a una morale più antica" (Berlin 1990; trad. it. 1994, p. 353).
Così, nonostante la precoce diffusione della tesi sulla fine dell'epoca delle ideologie (nel senso in cui la specifica cultura europea le aveva originate), queste trovano anzi nuovo vigore nella fusione con il nazionalismo e il totalitarismo, fenomeni che nel N. segnano il ricongiungersi di quella frattura tra ideologi e politica, tra società e Stato, che, a parere di Brunner, aveva accompagnato la nascita dell'Europa moderna. Nel 1982 K.D. Bracher, dopo aver pubblicato negli anni Sessanta pionieristici studi sulla fine della Repubblica di Weimar e sulla presa del potere nazista, apriva il suo libro dal titolo Zeit der Ideologien - sorta di bilancio e di sintesi teorica del suo lavoro di storico - affermando che il N. è nato sotto il segno di un mutamento gravido di conseguenze: la trasformazione di idee politiche in ideologie. Processo che, a suo avviso, si è ripetuto fino alla fine del secolo combinandosi variamente con l'idea di progresso e soprattutto con le crisi di tale idea. L'era ideologica, che è per Bracher il N., si caratterizza, infatti, per tre aspetti di tipo e di dimensioni nuovi rispetto all'uso politico delle idee dei secoli passati: il bisogno di legittimazione ideale dei moderni sistemi politici, l'ampiezza dei mezzi di comunicazione e la formazione di una opinione pubblica, a sua volta resa facilmente impotente dalla manipolazione ideologica. Le 'seduzioni totalitarie' costituirebbero, così, la caratteristica preminente dell'epoca delle ideologie, che per Bracher non si chiude affatto con la Seconda guerra mondiale, ma prosegue con la permanenza al potere del regime comunista.
Come si sarà notato, nel N. la nozione di ideologia rinvia non tanto a utopia, ma a totalitarismo e dunque alla comparabilità tra fascismo e comunismo: è questo un postulato che negli anni della fondazione costituzionale della Germania federale contribuì largamente a ispirare gli storici liberali (come Bracher). Protagonisti di entrambi i dibattiti sulle categorie di ideologia e di totalitarismo sono non a caso gli scienziati sociali tedeschi emigrati negli Stati Uniti (tra gli altri C.J. Friedrich, e il polacco Z. Brzezinski). Originato in un clima legato alla guerra fredda (Gleason), l'uso della nozione di totalitarismo ha conosciuto fasi di favore alterne e oggi viene riscoperto soprattutto in chiave di sollecitazione al comparatismo (Flores). In campo storico, tuttavia, è stata soprattutto H. Arendt a sottolineare la centralità dell'ideologia come aspetto concreto del processo di affermazione dei regimi totalitari.
L'ultimo capitolo di The origins of totalitarianism (1951) reca come titolo Ideologia e terrore e parte dall'assunto che il totalitarismo sia un regime essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica proprio per la forza dell'ideologia (qualunque sia la sua matrice). Secondo la Arendt, le ideologie - intese come derivazione di ogni cosa e di ogni avvenimento da una singola premessa - hanno avuto per lungo tempo una parte trascurabile nella vita politica, e solo a posteriori è possibile rintracciare in esse gli elementi che le hanno rese così utili al dominio totalitario, tanto che le loro grandi potenzialità politiche non sono state scoperte prima di Hitler e Stalin. Un'ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un'idea, ma, poiché la materia cui l'idea è applicata è la storia, "si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l'uno all'altro, di modo che quanto avviene, avviene secondo la logica di una 'idea'" (Arendt 1951; trad. it 1989, p. 643). Ed è questa pretesa di spiegazione totale e soprattutto 'coerente' (con tutte le sue conseguenze, di messa al bando delle contraddizioni) -applicata non a ciò che è ma a ciò che diviene, cioè alla storia, non alla realtà percepita, ma a una realtà più 'vera' e nascosta - che ha reso totalitarie le Weltanschauungen originate nel 19° secolo. Dal punto di vista del diritto, poi, la caratteristica del governo totalitario, secondo la Arendt, non sta nel suo essere senza legge o arbitrario o nello sfidare tutte le leggi positive, persino quelle che ha promulgato, ma piuttosto nella sua pretesa di obbedire rigorosamente a quelle leggi della natura e della storia da cui si sono sempre fatte derivare le leggi positive. Invece, "disprezzando la legalità, il regime totalitario pretende di attuare la legge della storia o della natura senza tradurla in principi di giusto e ingiusto per il comportamento individuale. Esso la applica direttamente all'umanità senza curarsi del comportamento degli uomini" (Arendt 1951; trad. it. 1989, p. 632). In questo mutamento del significato di legge, che da fonte di stabilità entro la quale possono svolgersi le azioni degli uomini diventa l'espressione del 'movimento' (storico e naturale), risiede l'essenza dell'ideologia totalitaria.
Nelle discussioni storiografiche sull'utilità della categoria di totalitarismo si tende di solito a evidenziarne i limiti di staticità, scarsa analiticità (il totalitarismo come tendenza di tutte le società moderne), mancata perspicuità di analisi delle condizioni socioeconomiche. Meno frequenti sono gli studiosi che ne sottolineano e sperimentano la validità euristica al livello sociale, anziché a quello istituzionale: eppure - è stato osservato - nel significato di 'pretesa totale' di un regime sui propri sudditi (di tentata politicizzazione di tutti gli aspetti dell'esperienza sociale) il concetto di totalitarismo, oltre che sollecitare un'utile comparazione tra Germania nazista e URSS staliniana dal punto di vista delle forme e delle tecniche di dominio, si dimostra rivelatore dello spettro del 'dissenso', che può essere compreso nella sua ampiezza soltanto alla luce del rapporto con la nuova scala e i nuovi metodi del controllo, della manipolazione e della mobilitazione (Kershaw 1985).
L'influenza della Arendt è dunque avvertibile nel dibattito recente sul N. al di là della sua corrente identificazione con l'uso politico della categoria di totalitarismo. Il segno più profondo della sua riflessione filosofica è piuttosto da rintracciare in quegli studi in cui il salto qualitativo dell'epoca contemporanea - un tema su cui la Arendt insiste - è rappresentato dall'apoteosi della 'politica ideologica', dalla fine di quella frattura tra ideologia e politica che aveva costituito l'avvio dell'Europa moderna (Ornaghi 1998). Per la Arendt, come si è visto, il venir meno di questa distinzione si manifesta, sul terreno giuridico, nella crisi dello Stato di diritto che aveva rappresentato la massima costruzione della filosofia politica occidentale. È dunque sullo sfondo di tale progetto complessivo - le cui origini risalgono alla polis greca per giungere fino alla cultura giuridica ottocentesca europea e di lingua tedesca - che si colloca anche per la Arendt la 'unicità di Auschwitz', cioè di quella forma di Stato totalitario che nega i diritti dei propri cittadini in nome dell'ideologia (Traverso 1998).
L'altra ricaduta storiografica arendtiana riguarda la rottura del rigido nesso di causalità (proprio di un certo storicismo ottocentesco) e la possibilità per lo storico contemporaneista di 'interpretare' la qualità degli eventi solo risalendo all'indietro, alla ricerca delle origini dei fenomeni caratteristici del mondo in cui vive. È stato di recente soprattutto F. Furet a offrire gli argomenti più convincenti per sostenere - sulla scorta della Arendt - che la novità del secolo risiede, anche dal punto di vista delle mentalità collettive, nel passaggio epocale che ruota attorno all'uscita dalla Prima guerra mondiale. Poiché per lo storico della Rivoluzione francese il fenomeno caratteristico del N. è l'ideologia di massa - in ciò contestato da altri storici in nome del primato dei fattori socio-economici (Procacci) -, egli insiste sulla centralità del 1914, della guerra, in quanto esperienza generazionale suscitatrice di memorie e di innovazioni impreviste.
È nella sottolineatura di questo irrompere dell'ideologia di massa e del ricorso al mito della 'rivoluzione' tanto a sinistra quanto a destra che risiede la principale novità metodologica del libro Le passé d'une illusion (1995). Il grande studioso della Rivoluzione francese come fenomeno politico e intellettuale porta nella lettura del suo 'lungo ventesimo secolo' la conoscenza di un percorso che giunge a conclusione nella crisi del dopoguerra, nella sconfitta del liberalismo, avendo le sue radici nelle idee del Settecento rivoluzionario ed egualitario e il suo svolgimento nel duplice messianesimo originatosi nella cultura europea a metà del 19° secolo (quello progressista-scientista e quello reazionario). A parere di Furet la mobilitazione di un'intera generazione di giovani in Europa incontra una cultura del tutto particolare, si ricongiunge al dérapage già conosciuto negli anni del passaggio al Terrore e, grazie alla proiezione mitica sulle fasi già note della Grande rivoluzione, prepara il terreno perché l'illusione comunista venga accolta dagli intellettuali - e tramite loro dalle masse - senza resipiscenze, neppure dopo la sconfitta del nazismo. Così, anche se i due antagonisti, comunismo e fascismo, sono cresciuti l'uno in opposizione all'altro ai danni degli ordinamenti liberal-democratici, la cultura europea fra le due guerre e dopo il 1945 - afferma con durezza Furet - si è rifiutata di cercare la verità, fermandosi a contemplare il solo nemico fascista. Riesaminata alla fine del secolo, tuttavia, la malattia della cultura europea appare assai più profonda e - come ha rilevato Furet in uno dei suoi ultimi interventi - riguarda "l'innata debolezza della politica liberale". Una debolezza che nasce dalla contraddizione per cui nel sistema liberale lo Stato e la sfera pubblica nascono e dovrebbero trarre alimento per la legittimazione dell'autorità dalla sfera civile, mentre nella sfera civile in realtà gli individui si battono per il proprio interesse privato. È in questo problema costitutivo del liberalismo che si innestano, secondo Furet, sia il nazismo sia il comunismo; ed è lo stesso problema che, non risolto dalla sconfitta del comunismo, rimane in eredità alle società di fine Novecento.
Nella sua ricerca sulle origini politico-culturali del fenomeno totalitario, Furet è stato preceduto da Mosse che ha influenzato a sua volta uno dei più interessanti filoni di studi sul fascismo italiano (R. De Felice, E. Gentile): in questi storici le affinità, al di là di eventuali differenze in merito a posizioni politico-storiografiche, si trovano nel comune interesse per la storia delle idee degli ultimi due secoli, cioè per i modi in cui nelle società europee i movimenti culturali da fenomeno intellettuale si sono trasformati in ideologie di massa.
Il secolo innominabile. Guerre e genocidi. - Diverso e decisamente 'filosofico' il carattere che il termine ideologia assume nell'opera di E. Nolte, alle prese con quello che egli ritiene essere il dibattito più significativo e carico di conseguenze del secolo: lo scontro storico e universale tra marxisti e antimarxisti (Kraus 1994). Nolte si riallaccia criticamente alla matrice liberale e ottocentesca del 'progressismo' marxista (al cui antipodo colloca Nietzsche) portato poi all'estremo dal comunismo nel N.: il fascismo sarebbe sorto in opposizione alla vincente cultura della 'trascendenza', ossia come risposta all'angoscia che scaturisce dallo 'spaesamento-sradicamento' proprio di quell'essere senza patria che è l'uomo libero moderno. Le ideologie di comunismo e fascismo sono dunque legate tra di loro 'logicamente', ma tutta l'opera di Nolte è volta a dimostrare che lo sono anche storicamente e che lo sterminio di classe operato dal comunismo avrebbe creato una situazione di panico sociale e preceduto, logicamente e cronologicamente, l'avvento al potere del fascismo.
L'intero sistema si regge su un principio di deduzione logica e astratta tutto interno a una cultura filosofica di ispirazione nietzschiano-heideggeriana: vita e cultura versus trascendenza. Ciò ha portato Nolte nelle sue prime opere a intuizioni originali oggi in parte accettate, come la tesi del fascismo fenomeno 'universale' proprio dell'epoca di crisi del liberalismo, o quella dell'influenza della antecedente vittoria del bolscevismo sul successo del nazismo. La singolare assenza di riscontri storici, tuttavia, il disinteresse per il fascismo come fenomeno politico (dunque interno a una storia mondiale di relazioni tra Stati, tra gruppi di interesse, tra corpi sociali organizzati) hanno spinto in seguito Nolte a sostenere la sua tesi più contestata, quella relativa allo sterminio degli ebrei, di cui egli rifiuta la non comparabilità con altri genocidi (v. genocidio, in questa Appendice) e per il quale soprattutto nega la specifica responsabilità tedesca (in quanto sarebbe stato causato dalla paura del bolscevismo), giungendo addirittura a spiegarlo 'razionalmente' con la 'minaccia' del giudaismo internazionale. Queste tesi hanno suscitato e continuano a suscitare una comprensibile indignazione. Sono state apertamente contestate anche da Furet, il quale, in uno scambio di lettere con Nolte, ha scritto che "il carattere particolare del nazismo, come idea e come regime, sta nel tentativo di trasformare l'odio per gli ebrei, una passione politica diffusa in tutta l'Europa dell'epoca, in un massacro generale degli ebrei, nella liquidazione fisica di un popolo considerato non appartenente al genere umano", e che obbligo specifico dello storico è "guardare l'assolutizzazione delle emozioni nazionali [...] come una maledizione specifica della storia tedesca, che ai miei occhi rimane il fenomeno più enigmatico del xx secolo" (Furet, Nolte 1996).
La 'maledizione' della storia tedesca qui richiamata da Furet evoca la tesi della "degenerazione della storia tedesca" di F. Meinecke o la crociana "crisi morale della società europea". Più in generale si riallaccia alla discussione sulla responsabilità morale e politica dello storico che, originata dal noto saggio di K. Jaspers del 1946 sulla Schuldfrage, continua ad accompagnare ogni discussione sul nazismo, come dimostrano origini e sviluppi del cosiddetto Historikerstreik o 'dibattito degli storici' (Germania: un passato che non passa, 1987).
La centralità del lager nella storia del N. (Agamben 1996) costituisce il grande interrogativo della storiografia, così come l'adorniano quesito "si potrà ancora scrivere poesia dopo Auschwitz" assilla la filosofia e la letteratura. Si può dunque sperare che la memoria di quell'evento (la distruzione totale e 'scientifica' di un popolo) e anche la discussione intorno alla sua unicità o comparabilità non cessino mai di accompagnare la coscienza morale di ogni cittadino europeo, soprattutto di fronte al riproporsi di nuovi stermini etnici in paesi vicini e lontani. Come è stato scritto, "di fronte ai 'campi' la Storia ha rivelato la sua impotenza - e più ancora qualsiasi filosofico storicismo -, e le scienze umane possono finalmente e definitivamente misurare il loro fallimento, dovendo arrendersi all'evidenza" (De Michelis 1998, p. 14). Ci si può chiedere se, alla luce di quanto detto, tutto il N. sia riassumibile nella definizione di età della violenza. Il volume sull'età contemporanea della New Cambridge modern history del 1960 aveva quel titolo; inoltre, come si è visto, tale definizione ritorna, con singolare frequenza, anche in molte sintesi storiche recenti (Guarracino 1997; '900. Un secolo innominabile, 1998). Eppure, se nel dopoguerra essa rappresentava il riflesso storiografico di un momento preciso, quello della fine di una fase di violenza e di errori che appariva comunque conclusa, la sua ricomparsa oggi sembra piuttosto legata al timore che l'allontanarsi nel tempo della shoah possa ridurre, insieme alla memoria dei contemporanei, anche la coscienza del significato morale dello scontro che nella Seconda guerra mondiale ha visto fronteggiarsi nella "guerra civile europea" le ragioni del Bene e del Male dentro ciascun cittadino, popolo o nazione del continente europeo (Pavone 1994). Tuttavia, in quest'ottica di accentuazione dell'eccezionalità del carattere violento dell'epoca, esiste un rischio per lo storico. Innanzitutto che ci si accontenti, come negli anni Cinquanta, di spiegazioni interne o metastoriche: la violenza organizzata come frutto della modernità, i conflitti etnici come opera dell'imperialismo, il retaggio degli odi primitivi, l'innata aggressività umana. Il secolo è in realtà continuato con un ininterrotto spargimento di sangue che si è spostato dall'Europa al Terzo mondo; è da questa constatazione che ha preso avvio la riflessione sul 20° secolo del già citato Ch.S. Maier, uno storico peraltro sensibile e attento al valore civile e morale della memoria della shoah:
"Se la violenza è la nostra natura, come spieghiamo i lunghi periodi in cui le istituzioni riescono a contenerla? [...]. Lo storico deve mostrare come le società umane organizzano le proprie istituzioni, come strutturano la vita collettiva per trascendere (o, se si preferisce la tesi di Freud, reprimere) gli istinti. Se vogliamo spiegare perché le società a volte falliscono nell'impresa, è sul fallimento delle istituzioni che dobbiamo continuare a interrogarci, non sulla natura degli istinti. In questo senso oggetto della storia rimangono la politica, le idee e la vita materiale; e gli storici spieghino perché gli avvenimenti accadono quando accadono, oltre che perché accadono in generale" (Maier 1997, pp. 43-44).
E ancora in un altro testo, a proposito del rapporto tra dovere di ricordare e storicizzazione: "Perciò, lo storico può anche insistere che Auschwitz non fu la fine della storia; non fu la entelechia del ventesimo secolo. Non è solo Auschwitz che caratterizza la nostra era; i movimenti per l'emancipazione che si possono elencare accanto alle repressioni mostruose - il ruolo delle donne, delle minoranze razziali, la diffusione dei regimi democratici - fanno anch'essi parte della storia del ventesimo secolo" (Maier 1988, p. 168).
L'alba della storia universale o il secolo dei nazionalismi?
Guerra, violenza, politica internazionale, sono al centro di un altro filone storiografico che pone l'accento sul conflitto non tanto tra due ideologie, quanto tra 'due ideologie armate' (Hassner 1994). Centrale è in questa letteratura la storia della Prima guerra mondiale quale prima tappa della complessiva 'guerra dei Trent'anni' e di un'evoluzione strategico-militare segnata da una quantità di scoperte e innnovazioni scientifiche senza precedenti: uscita nel 1914 da un mondo di diplomazie e di guerre relativamente conosciuto e limitato, l'Europa è precipitata, a causa della 'sorpresa tecnica', insieme nella guerra totale e nel totalitarismo. Nel 1960 R. Aron tenne una conferenza, L'aube de l'histoire universelle, dove l'approccio non è dissimile da quello di Barraclough, di pochi anni posteriore. Colpisce in entrambi la capacità di tracciare un bilancio del secolo in cui viene fortemente ridotto il peso delle ideologie, alla luce della tendenza, comune ai due poli militarmente contrapposti, verso un modello di organizzazione economica simile: è l'aspirazione alla 'società industriale' già sognata da Comte e Marx nell'Ottocento. Da qui la definizione del 20° secolo, dopo la fine del periodo delle guerre mondiali, come epoca della storia universale: universale perché già unificata in campo diplomatico e dunque dotata di caratteri diversi da quelli della storia degli Stati nazionali; universale perché unificata dalla diffusione mondiale di certe forme di organizzazione tecnica o economica. Ma non per questo - ritiene Aron -, presumibilmente meno drammatica. Se pure, infatti, nella nuova era l'industria ha generato, con la paura della guerra, la condizione prima della pace, e se l'opinione pubblica mondiale ha compreso 'le virtualità pacifiche' dell'economia moderna, tuttavia l'umanità continua a essere divisa come lo sono stati i sistemi diplomatici del passato. Due sono i fattori di divisione ancora presenti e tanto più efficaci quanto più le società sono simili dal punto di vista economico: l'ineguaglianza di sviluppo e la diversità di costumi e di credenze.
Entrambi i temi sottolineati da Aron come possibili fonti di conflitto hanno effettivamente dominato la seconda metà del secolo, sia nei paesi del Nord sia in quelli del Sud del mondo. La storiografia non ha potuto che rispecchiare nelle sue ricerche il ritorno di attualità di fenomeni come i nuovi nazionalismi, in un'ottica sia di bilancio storico sia di approfondimento interpretativo ai confini dell'antropologia. La riattualizzazione del tema è stata particolarmente sensibile in Gran Bretagna in occasione del conflitto delle Falkland e ha visto impegnati storici (Hobsbawm e R. Samuel), ma anche sociologi e antropologi (come B. Anderson), tutti alle prese con la riscoperta nella storia recente dello spirito popolare di attaccamento a una comunità o a un territorio, uno spirito che non era più possibile semplicemente etichettare come una forma di razzismo (quale era apparso nella 'guerra dei Trent'anni'). A parere di E. Gellner, anzi, l'uso politico del processo di nazionalizzazione caratterizzerebbe tutte le società moderne nella fase del bisogno industriale di una popolazione resa culturalmente uniforme (Gellner 1983). Si scopre così che il nazionalismo ha una sua evoluzione storica, e che questa si differenzia profondamente tra l'Ottocento e il N.: mentre nel 19° secolo nazione si coniuga con libertà (Nazione e nazionalità in Italia 1994), le fasi successive vedono l'intervento attivo delle classi dominanti nel promuovere la 'nazionalizzazione delle masse' (Mosse) e il nazionalismo stringe alleanza con le teorie delle scienze biologiche. Si forma la nozione di razza che si appropria dell'idea darwiniana di competizione tra individui trasformandola in competizione tra razze (Miłosz 1959).
Secondo lo storico E.H. Carr (1945), alla spinta verso la socializzazione delle masse si sovrappone, dopo la Prima guerra mondiale, il 'nazionalismo economico' (e dunque la modifica del laissez-faire e il nuovo ruolo dello Stato); il tutto, intrecciandosi con la comparsa sulla scena mondiale di nuovi piccoli Stati e con l'estensione geografica del nazionalismo, "si combina per produrre i caratteristici tratti totalitari del iii periodo". Nel 1945, dopo la fine della fase di crescita del nazionalismo (e di sconfitta dell'internazionalismo), Carr constata la comparsa di organismi sovranazionali multilevel che egli prevede saranno accettati dalla comunità internazionale, purché sappiano mantenere l'ordine in modo imparziale e purché l'ordine mantenuto serva a promuovere un diffuso benessere.
Mentre il socialismo (nella forma dei partiti socialisti e comunisti dei paesi più industrializzati dell'Europa occidentale) nel N. si è dato come compito quello di arginare gli eccessi del capitalismo regolandolo (Sassoon 1996), altrove il fenomeno protagonista di questa fine secolo è rappresentato dai movimenti nazionalisti. L'intuizione che oggi l'ascesa del nazionalismo sia il fattore più vigoroso degli Stati di nuova creazione e che soprattutto esso si coniughi con rivendicazioni di ordine sociale è propria anche di un filosofo come I. Berlin: "Il lato brutale e distruttivo del nazionalismo moderno non ha certo bisogno di essere sottolineato, in un mondo lacerato dai suoi eccessi. Ma occorre riconoscerlo per ciò che è: una risposta su scala mondiale a un profondo e naturale bisogno degli schiavi testé liberati ('i decolonizzati'). Si tratta di un fenomeno che la società eurocentrica dell'Ottocento non aveva previsto" (Berlin 1990; trad. it. 1994, p. 362).
Si può dire dunque che nella storia di questo secolo, insieme più universale e più frammentato, la nazione costituisce una chiave di lettura duplice: da un lato indica le aspirazioni di liberazione rilanciate dalla caduta degli imperi, dall'altro richiama il destino stesso dello Stato-nazione. Gli studiosi si interrogano allora se si tratti della fine della nazione o della fine di una certa modalità dello Stato-nazione, quella maggiormente legata alla coincidenza tra unità culturale e unità politica su un certo territorio; e sul modo in cui conciliare la crisi di questa modalità con il mantenimento della democrazia, visto che la filosofia politica si è sempre occupata di problemi di giustizia o di legittimità all'interno dei corpi politici nazionali (Touraine 1997); e, ancora, su quali nuovi 'universali' sostituiranno l'idea di nazione, quell'idea che ha orientato il mondo negli ultimi due secoli.
Novecento e oltre
La 'cifra' della storiografia del N. è forse racchiudibile (con una scelta soggettiva e volutamente forzata) nell'insieme delle definizioni finora ricordate (a loro volta integrabili con molteplici altri riferimenti storiografici). Sono state in gran parte escluse le sintesi storiche imperniate sulla seconda metà del secolo, o più in generale sul N. come secolo che ha visto l'affermarsi nel mondo occidentale del benessere, della democrazia, di sempre più estesi diritti di cittadinanza per gli uomini e le donne. Non mancano letture che tendono ormai a ripartire il secolo in due metà, la prima caratterizzata da violenza e la seconda invece segnata dai valori del mercato, del liberalismo, di un consapevole movimento verso la trasformazione di un sempre crescente numero di ex 'sudditi' (donne, immigrati, deboli) in 'cittadini' a pieno diritto (Zincone 1992). Eppure le innovazioni tecnologiche imperniate sulle reti telematiche sembrano configurare 'le origini' di una nuova era, esattamente come la seconda rivoluzione industriale ha rappresentato le origini del Novecento. Così, paradossalmente, si può dire che questa parte della letteratura disponibile si presenta meno in forma di bilancio, e dunque storica, e più in chiave di auspicio, di saggistica quasi futurologica. Il progresso, la democrazia, l'accesso alla cittadinanza sembrano appartenere, più che al 20°, al 21° secolo: nelle sintesi finora disponibili il progresso tecnico-scientifico del N. rimane connesso alla bomba atomica, alla democrazia dell'impero americano, alla cittadinanza come privilegio di gruppi circoscritti per età, sesso, razza. La ragione sta nella storia della nozione di progresso così come si è venuta formando nella 'epoca delle ideologie' e del suo perduto nesso con l'utopia orientata al futuro. Come è stato osservato, "si fa spesso confusione fra la nozione ottocentesca - spesso detta anche, con qualche inflessione spregiativa, 'positivistica' - di progresso, e quella novecentesca, posteriore alla 'crisi' di quella nozione, che ha invece un impianto tutto volontaristico, opzionale e selettivo, e che in qualche modo riprende, benché con più dubbio critico e meno fervore entusiastico, un approccio illuministico e settecentesco, pre-positivistico" (Cafagna 1998, pp. 151-52). La cifra del N. sta tutta in quella 'nozione volontaristica di progresso' che traspariva evidente già all'inizio del secolo e che l'avrebbe caratterizzato fino a quando anche l'ultimo baluardo di una volontà politica 'modellatrice' sarebbe crollato insieme con il muro di Berlino. Così, la caduta dell'impero sovietico ha davvero chiuso la parabola del N.: perché ha posto fine all'ultima proiezione di quell'utopia orientata al futuro che, nata nell'Europa moderna, aveva preso forma nel N. nella coincidenza tra ideologia e politica. È vero che nel corso degli ultimi cinquant'anni, e soprattutto dopo la crisi economica degli anni Settanta, l'idea di progresso come lotta necessaria, il ricorso alla scienza e alla tecnica come valore per la sopravvivenza (anche ecologica), sono diventati un obbligo; ma contemporaneamente è entrata in crisi quell'idea di futuro come 'era dell'interamente nuovo', generato da rivoluzioni o da palingenesi, che ha caratterizzato il N. e che ha spinto le ideologie ad armarsi per combattere una guerra che non poteva essere che 'totale'. Così, le risposte alla domanda su quali idee di 'universale' guideranno il mondo del Duemila sono oggi, nella cultura occidentale, di natura prevalentemente etica. Tra queste vi è certamente l'ecologia che, soprattutto nella forma de Il principio responsabilità del filosofo H. Jonas, aspira a sostituire il 'politico' in nome della salvaguardia del pianeta per le future generazioni; oppure l'umanitarismo e il principio della solidarietà diretta, senza frontiere, contro ogni ideologismo.
Mentre le ideologie come utopie scientifiche del cambiamento, un cambiamento misurabile in termini di generazioni, hanno abbandonato l'Europa quale terra di elezione, altrove nuove 'fedi' sono già presenti all'orizzonte. Tra queste di certo è il fondamentalismo (v. in questa Appendice), che rappresenta il massimo di continuità con le precedenti e un altrettanto alto grado di pericolosità, e non a caso è letto da alcuni studiosi come una 'moderna utopia giacobina antimoderna': un'utopia nata dalla modernità, e definita giacobina perché i movimenti che si richiamano a essa, come quelli che si rifanno alle ideologie totalitarie, enfatizzano "una completa ricostruzione dell'ordine sociale e politico propugnata con un forte zelo universalistico e missionario" (Eisenstadt 1994, p. 49). Nei fondamentalismi si afferma il primato della politica come luogo in cui si compie un'idea religiosa: politica e religione risultano così una totalità inscindibile. E poiché il fondamentalismo così inteso tende ad accompagnare anche i moderni nazionalismi, non sembra che sul terreno politico le lezioni del passato N. europeo abbiano fatto molta scuola.
Nuove sintesi interpretative si propongono come ponte verso il futuro: alcune non hanno nulla da invidiare ai toni profetici di antichi testi ideologici e dietro l'apparente novità del rigetto delle pretese imperiali europee sembrano riproporre lo schema spengleriano del declino dell'Occidente per eccesso di espansione (Huntington 1996). In ogni caso, la consapevolezza dei contrasti che si sono aperti, con il 'rimpicciolirsi' dell'Europa, della sua cultura e dei suoi valori, di fronte all'emergere di altre concezioni dell'uomo e della società, ispira anche le poche sintesi italiane di storia della seconda metà del 20° secolo (Galli della Loggia 1982).
Altre interpretazioni, invece, prendono avvio dal definitivo chiudersi dell'epoca di influenza 'occidentale' (l'Europa con la sua proiezione oltre Atlantico, gli Stati Uniti) per prepararsi al 21° secolo (Kennedy 1993), riflettendo sulla nuova svolta epocale rappresentata dalla globalizzazione (v. in questa Appendice), intesa come la partecipazione più intensa di soggetti sempre più numerosi e diversi alle relazioni di mercato su scala sempre più vasta. In quest'ottica, che si vuole 'esterna' alle ideologie, anche il crollo del comunismo è preso in considerazione, non in quanto frutto del fallimento etico-culturale delle classi dirigenti comuniste, ma come il rientro nel mercato capitalistico di una parte enorme e ricca del mondo a esso per lungo tempo sottratta e contrapposta (Skidelsky 1995). Per la sua faccia rivolta al passato, la globalizzazione "pare presentarsi come il ritorno su un mainstream dello sviluppo capitalistico dopo tentativi storici che - caratterizzando una cruenta epoca - si erano manifestati da parte di nuclei territoriali 'ritardatari' del capitalismo stesso (o comunque di élites aspiranti alla modernizzazione) di 'isolare' (politicamente ed economicamente) spazi di sviluppo, come condizione per lo sviluppo stesso di tali spazi (Germania, Giappone, Russia stessa)" (Cafagna 1998, p. 214). Per la sua faccia rivolta al futuro, la globalizzazione pone interrogativi che non riguardano solo la sfera dell'economia, ma investono direttamente l'ambito delle decisioni politiche (per es. nel campo del welfare), per non parlare del ruolo dello stesso Stato nazionale. I dati già noti (e l'esperienza storica) dimostrano che una coincidenza necessaria di mercato, di democrazia e di preservazione di relazioni internazionali pacifiche dagli eccessi della politica di potenza - prospettata da alcuni commentatori dopo la caduta dell'URSS - non esiste.
In generale, nello sguardo al futuro millennio di economisti e sociologi attenti al bilancio del N. sembra diffusa una visione meno eroica di quella che aveva caratterizzato l'inizio del secolo e molto più pragmatica e 'agostiniana': "Il futuro non è un salto verso un obiettivo remoto, ma inizia nel presente" e dal presente è condizionato e preparato (Bell 1997). A questa convinzione sembrano uniformarsi anche gli storici, ma con una nota pessimistica in più che forse si può esprimere ancora una volta con una citazione tratta dal saggio di R. Aron di 40 anni fa: "Oggi, nel 1960, il secolo che abbiamo vissuto mi appare duplice. È attraversato dalla rivoluzione intellettuale, tecnica, economica che, alla maniera di una forza cosmica, trascina l'umanità verso un avvenire sconosciuto, ma, per certi aspetti, assomiglia a molti precedenti, non è il primo secolo di grandi guerre. Da una parte la necessità del progresso, dall'altra history as usual e il dramma degli imperi, degli eserciti e degli eroi" (Aron 1996, pp. 794-95).
bibliografia
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L'economia mondiale nel Novecento. Una sintesi, un dibattito, a cura di P. Ciocca, Bologna 1998 (in partic. gli interventi di M. De Cecco, E. Hobsbawm, I. Wallerstein).
Sull'epoca delle ideologie:
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Sull'epoca delle guerre e dei genocidi, oltre alla voce genocidio, in questa Appendice, si vedano:
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