ODOACRE
– Nacque nel 433 circa da Edecóne, principe sciro o unno e generale dello stato maggiore di Attila, e da madre scira o turingia. Incerta la parentela per via materna con l’imperatrice Elia Verina, attestata dal cronista Giovanni di Antiochia (fr. 209).
Le notizie contrastanti circa la sua origine etnica – unna, scira, turingia, ruge – sono dovute a una complessa interconnessione tribale più che all’incertezza delle fonti.
Trascorse presumibilmente l’infanzia e l’adolescenza alla corte di Attila.
Il suo nome compare nelle cronache in data successiva alla morte del sovrano unno (453) e alla conseguente dissoluzione del suo impero nella Vita di s. Severino di Eugippio ( 6-7): «Alcuni barbari diretti in Italia sostarono presso di lui [Severino] al fine di ottenerne la benedizione. Tra costoro era giunto anche Odoacre, in seguito reggitore dell’Italia, a quel tempo un giovane di vesti umili e statura elevata. Col capo chino, per non urtare il soffitto della cella bassissima, apprese dall’uomo di Dio che avrebbe avuto lustro» .
Il passaggio in Italia dovette avvenire intorno al 460. Nel 465, stando alla testimonianza di Gregorio di Tours (Hist. Franc., XVIII), conquistò la città di Angers e alcune isole della Loira alla testa di un contingente sassone forse per ordine di Ricimero, che volle approfittare della morte del magister militum Egidio, per riacquistare il controllo sul territorio da questi sottratto nel 461 alla giurisdizione ravennate, dopo l’omicidio di Maggiorano (457-61) e l’elezione illegittima di Libio Severo (461-65). Il franco Childerico, alleato prima di Egidio e poi del suo successore Paolo, dopo la riconquista di Angers scese a patti con Odoacre: insieme sconfissero infatti un’orda di Alamanni o Alani proveniente dall’Italia (ibid., XIX). Nel 472 fu certamente al fianco di Ricimero contro l’augusto Antemio (467-72), nominato da Costantinopoli. Non è noto il ruolo che svolse negli anni immediatamente successivi alla morte di Ricimero, sotto gli augusti Olibrio (472), Glicerio (473-74) e Giulio Nepote (474/75-80), ma nel 476 era ‘doriforo’ della guardia pretoriana, posizione forse ottenuta sostenendo il colpo di Stato del patrizio Oreste del 475’ a favore del figlio Romolo.
Un’annotazione dell’Auctarium Prosperi Hauniensis relativa a quell’anno lo presenta come «uomo di grande abilità e intelletto, esperto nell’arte militare» (Auct. Haun. Ord. prior, a. 476, 1-2), ma la sua ascesa potrebbe essere stata favorita da ragioni di ordine diverso, se si considera che Oreste era stato intimo di Edecóne alla corte di Attila e con lui aveva guidato l’ambasceria costantinopolitana del 448, e che il fratello Onulfo rivestiva un ruolo analogo a Costantinopoli al fianco del generale Armazio.
La posizione di Odoacre dovette presto divenire concorrenziale, se, come riferisce Procopio, le truppe di federati stanziate in Italia lo elessero per avanzare a Oreste la richiesta di un terzo delle terre italiche. Nell’impossibilità di raggiungere un accordo, l’esercito riunito a Pavia si ammutinò e il 23 agosto 476 proclamò Odoacre rex, costringendo Oreste a riparare a Piacenza, che capitolò dopo un assedio durato cinque giorni. Represso un estremo tentativo di resistenza nei pressi di Classe, Odoacre fece il suo ingresso a Ravenna nei primi di settembre, depose Romolo Augusto e lo esiliò nel castello del Lucullano in Campania, garantendogli una rendita annua di 6000 solidi aurei.
Gli eventi del 476 furono certamente in relazione con quanto avveniva contemporaneamente a Costantinopoli, dove un anno prima Basilisco aveva usurpato il trono con la connivenza di membri della corte e dell’esercito, tra cui Verina e Armazio: nello stesso agosto 476 Zenone (474-91) riprese il controllo dell’impero dopo essersi assicurato la fedeltà di Armazio, fatto successivamente assassinare da Onulfo, perciò promosso al rango di magister militum dell’Illirico. La situazione in Oriente convinse Odoacre della necessità di una legittimazione. Per tale ragione impose a Romolo, come suo ultimo atto, di rinunciare alla porpora e alle insegne imperiali, e di inviarle a Costantinopoli insieme a un’ambasciata che dichiarasse conclusa, come non più necessaria, la separazione politica delle due parti dell’impero lasciando il titolo di augusto al solo Zenone, al quale veniva richiesto inoltre di concedere a Odoacre, scelto dal Senato di Roma in qualità di difensore dei suoi interessi, la dignità di patrizio e la giurisdizione sulla diocesi d’Italia. Zenone rispose ufficialmente che Odoacre avrebbe dovuto inoltrare la richiesta di patriziato al suo collega occidentale ancora in carica, Giulio Nepote, ma in una missiva privata gli si rivolgeva appellandolo «patrizio» e congratulandosi con lui per aver preservato «l’ordinamento tradizionale dei Romani» (Malco di Filadelfia,fr. 10). L’ambiguità di Zenone rispondeva alla necessità da un lato di garantire formalmente i diritti del collega occidentale, che aveva mantenuto la sua base di potere in Dalmazia e la sovranità nominale, dall’altro di stabilizzare la situazione della diocesi d’Italia, riconoscendo una realtà di fatto in attesa di sviluppi ulteriori. La deposizione di Romolo Augusto, agli occhi di Costantinopoli un usurpatore, testimonia la sagacia politica di Odoacre, che rimandando la sovranità al solo imperatore d’Oriente ne diminuì al contempo l’ingerenza indiretta attraverso augusti a lui favorevoli, come nel caso di Maggiorano, Antemio e dello stesso Nepote, e gli consentì di presentarsi al contempo come suo agente.
L’ascesa al potere da parte di Odoacre non avvenne quindi in modo dissimile da quella dei generali barbarici che l’avevano preceduto: si trattò non di un’invasione ma di un pronunciamento militare a opera di soldati raggruppati su base etnica che scontenti dell’operato di Oreste giurarono fedeltà a chi si fece garante dei loro diritti (Procop. Bell. Goth., I, 1). In tal senso vanno interpretate la notizia riferita da Giordane: «Non molto tempo dopo che Augustolo era stato ordinato imperatore a Ravenna dal padre Oreste, Odoacre, re dei Turcilingi si impadronì dell’Italia, avendo con sé Sciri, Eruli e ausiliari provenienti da genti diverse» (Get. 242) e le denominazioni di Gothorum Romanorumque regnator (ibid., 295) e di rex Herulorum (Rom., 344), riassumibili nell’iperonimo rex gentium (Get. 243). La scelta dell’etnonimo gotico, rex Gothorum, nel Chronicon di Marcellino, attribuito nella stessa opera a capi barbarici di stirpe diversa, risponde all’intento storiografico di riconoscere una dinastia regale gotica che avrebbe dominato l’Italia a cominciare appunto da Odoacre. La sola menzione di Odoacre come «re d’Italia» è riscontrabile in Vittore di Vita («Odovacro Italiae regi», Hist. Persec., I, 4, 14). Le monete in argento e in bronzo fatte coniare a Ravenna dopo il 477 riportano solo la legenda FL(avius) Odova(car) – dove il gentilizio segnala l’affiliazione all’impero – mentre l’unico documento ufficiale sopravvissuto riporta il semplice titolo di rex senza determinazioni etniche e geografiche (Pap. Tjader, 10-11).
Di fatto Odoacre governò la diocesi italiana come vicario di Zenone, secondo i dettami del diritto pubblico e privato romano, riconoscendo formalmente Giulio Nepote come augusto legittimo, nella monetazione e negli atti pubblici. Furono mantenute le strutture di governo tradizionali e gli amministratori romani raggiunsero gradi elevati e notevole prestigio nella conduzione dello Stato. La stessa decisione di rispettare il rango di Romolo Augusto e risparmiarlo rispondeva alla volontà di mantenere il favore delle classi dirigenti e presentarsi come protettore dei Romani.
Dopo aver ottenuto il riconoscimento di Zenone e l’approvazione del senato, i primi atti politici di Odoacre furono volti non a caso al rafforzamento della sua posizione e alla pacificazione della penisola. Tra il settembre e l’ottobre 476, un accordo con i vandali di Genserico gli assicurò parte della Sicilia occidentale a titolo personale dietro pagamento di un tributo annuo: l’isola rivestiva un valore strategico indubitabile per sopperire almeno in parte ai problemi di approvvigionamento dell’Italia, controllare le rotte commerciali e coordinare operazioni militari nel Mediterraneo e a difesa della penisola. Nel 477 riconobbe il dominio del re visigoto Eurico, che approfittando della deposizione di Nepote aveva esteso il suo dominio sulla valle del Rodano, in cambio del suo impegno a rispettare il confine naturale delle Alpi e rinunciare alle proprie mire espansionistiche sull’Italia.
Sebbene di confessione ariana, tenne un atteggiamento altrettanto equilibrato nella politica ecclesiastica, favorendo il clero romano. Esemplare il caso del vescovo Epifanio di Pavia: per sua intercessione esentò la Liguria dal pagamento delle imposte per cinque anni e nel 477 comminò l’arresto del prefetto del pretorio Pelagio, per aver tassato i beni ecclesiastici.
Eccettuata la ribellione del comes Brachila nel 477, sostenuto forse da parte dell’aristocrazia romana – fu fatto giustiziare, come riferisce Giordane, per «instillare terrore nei Romani» (Get. 243) – Odoacre tenne il potere fino al 490 senza incontrare particolari opposizioni interne o esterne. Lo stesso Zenone agì con prudenza, evitando di intromettersi direttamente nel governo della diocesi italiana, se è vero che nel 477 rifiutò di accogliere le richieste di una delegazione di «galli occidentali», che espresse la volontà di affrancarsi dal regime di Odoacre (Candido Isaurico, fr. 1), e di accettare l’intervento militare propostogli da Teodorico a sostegno di Cornelio Nepote (Malco di Filadelfia, fr. 18).
Alla luce di questa politica legittimista è improbabile che il «terzo» menzionato da Procopio sia da intendersi alla lettera come un riferimento al regime di «hospitalitas» vigente nei regni romano-barbarici d’oltralpe: difficilmente Odoacre avrebbe inaugurato il suo governo, legittimato da Costantinopoli, con una ridistribuzione massiccia di beni fondiari che, peraltro, non sarebbe stata ignorata dalle fonti. L’ipotesi più verosimile è che la concessione abbia riguardato parte del gettito fiscale, quella stessa tassa illatio tertiarum attribuita a Teodorico da Cassiodoro (Var. II,17).
La morte di Giulio Nepote nel 480 segnò un cambiamento profondo nella politica di Odoacre. Nel 481 guidò una spedizione militare in Dalmazia, formalmente per vendicare l’assassinio di Nepote, perpetrato nella sua villa di Salona dai comites Ovida e Viator: come nel caso della Sicilia, le nuove acquisizioni territoriali non furono incorporate alla prefettura del pretorio, ma si aggiunsero al patrimonio personale di Odoacre, sotto l’amministrazione di un comes et vicedominus di sua fiducia. Nello stesso anno, Odoacre riprese la consuetudine – interrotta nel 472 – di nominare un console occidentale almeno fino al 490, presumibilmente ratificato da Costantinopoli.
A questa seconda fase risalgono inoltre le monete in argento e in bronzo recanti solo la sua effigie e il suo nome, e quelle coniate con la sigla SC (Senatus Consulto), e l’istituzione del titolo di onorifico di caput senatus, concesso al senatore più anziano.
Quando nel 482 papa Simplicio rifiutò di riconoscere l’Editto di unione emanato da Zenone, un malriuscito compromesso dottrinario tra calcedoniani e monofisiti, Odoacre si schierò al fianco della sede romana. Morto Simplicio nel 483, il prefetto del pretorio Basilio in qualità di agens vices praecellentissimi regis Odovacris impose alla sinodo riunita per l’elezione del nuovo pontefice un decreto che vietava, pena l’anatema, l’alienazione di beni ecclesiastici da parte del nuovo pontefice e dichiarava nulli gli eventuali impegni presi per iscritto in tal senso, con l’obbligo estendibile anche agli eredi degli acquirenti dei redditi così percepiti; Odoacre, inoltre, si riservava il diritto, concordato con Simplicio, di essere consultato in merito all’elezione papale (Act. Synod. DII, 4).
Il decreto mirava chiaramente a indebolire la fazione favorevole al compromesso, dichiarando invalide eventuali concessioni patrimoniali promesse da Zenone a membri influenti della gerarchia ecclesiastica in cambio del loro sostegno.
Il candidato di Odoacre, salito al soglio pontificio con il nome di Felice III, proseguì la politica di ferma intransigenza iniziata dal suo predecessore, fino a scomunicare il patriarca costantinopolitano Acacio, ispiratore dell’Editto, nel 484: ne scaturì il cosiddetto scisma acaciano, destinato a protrarsi fino al 519. Avocando a sé un diritto fino ad allora appannaggio esclusivo dell’imperatore, Odoacre acquisì un’autorità, forte del sostegno dell’aristocrazia senatoria e del clero romano, superiore a quella dei suoi predecessori, e che di fatto gli garantiva la possibilità di governare l’Italia anche senza il riconoscimento imperiale. La richiesta di sostegno militare inviata dall’usurpatore Illo a Odoacre, seppur respinta, dovette convincere Zenone della necessità di un intervento decisivo. Incoraggiati dall’imperatore, i rugi stanziati nel Norico compirono incursioni in Italia, ma furono sconfitti da Odoacre nel corso di due campagne, nel 487 e nel 488, quest’ultima guidata da Onulfo. Che Onulfo abbia lasciato Costantinopoli per schierarsi con il fratello è un’ulteriore conferma del definitivo deterioramento dei rapporti tra Zenone e Odoacre. Il conflitto risultò tanto devastante per la provincia che Odoacre decise l’evacuazione dei cittadini romani, scortati in Italia dallo stesso Onulfo e dal comes domesticorum Pierio. È possibile che Odoacre esercitasse una forma di sovranità sulla tribù dei rugi, in virtù di rapporti parentali/clientelari e per il sostegno dato a s. Severino, che nel Norico svolgeva la funzione di protettore dei Romani (Eugipp. VitaSev., 214). Un’estrema mediazione diplomatica fu tentata da Odoacre nel 488: il magister officiorum e consiliarius Andromaco si recò a Costantinopoli sia per annunciare a Zenone la liberazione del Norico e cedergli parte del bottino di guerra, sia per trattare la ricomposizione dello scisma acaciano. La missione diplomatica fu sostenuta dal Senato ma non dal pontefice, che nel profilarsi dello scontro aveva evidentemente preferito prendere le distanze da Odoacre: il mancato sostegno pontificio determinò il fallimento della mediazione con Acacio. Mentre si congratulava con Andromaco per il successo militare, Zenone prometteva a Teodorico l’Amalo il titolo di rex qualora avesse invaso in forze l’Italia: la guerra avrebbe indebolito due pericolosi sovrani barbarici, distrutto almeno uno dei due, e allontanato dall’Oriente la minaccia degli Ostrogoti, che solo tre anni prima, nel 485, avevano invaso e saccheggiato la Tracia.
Nel 489 Teodorico penetrò in Italia dalle Alpi Giulie e sconfisse Odoacre una prima volta sull’Isonzo e una seconda nei pressi di Verona. A Milano accettò la resa dell’esercito guidato dal generale Tufa, mentre Odoacre riparava a Ravenna. Per spingerlo ad arrendersi rapidamente, Teodorico inviò lo stesso Tufa, che tuttavia gli si rivoltò contro e trucidò la scorta ostrogota. Odoacre ne approfittò per contrattaccare e stringere d’assedio Teodorico a Pavia, che riuscì a liberarsi dalla sacca solo grazie all’intervento dei visigoti. Della situazione approfittarono i burgundi di Gundobaldo che entrati in Italia saccheggiarono ripetutamente la Liguria.
Sconfitto nella battaglia campale presso l’Adda nel 490, Odoacre si ritirò nuovamente a Ravenna. Come suo ultimo atto politico nominò cesare il figlio Thela, un estremo tentativo di legittimazione che lascia forse intravedere un’evoluzione in senso imperiale nella concezione del suo potere. Nella situazione di stallo venutasi a creare, nel 493 l’arcivescovo Giovanni di Ravenna riuscì a negoziare un accordo tra le due parti: Odoacre e Teodorico avrebbero diviso il governo della diocesi d’Italia. Dopo un assedio durato tre anni, il re ostrogoto fece il suo ingresso in città salutato da un corteo di dignitari civili ed ecclesiastici, e nonostante gli impegni assunti assassinò Odoacre durante il banchetto organizzato nel palazzo del Laureto per celebrare la cessazione delle ostilità.
Giovanni Antiocheno, spostando il conflitto sul piano della faida intertribale, riferisce che nel momento in cui la lama gli trapassava la clavicola, Odoacre abbia urlato «Dov’è Dio?» e che Teodorico gli abbia risposto «Questo è ciò che hai fatto ai miei» (fr. 307), verosimilmente in riferimento all’uccisione del re Feleteo a Ravenna, in seguito alla prima campagna contro i rugi: il figlio Frederico, infatti, succedutogli alla guida del suo popolo, si era rifugiato presso Teodorico dopo essere stato sconfitto da Onulfo nel 488 e lo aveva accompagnato nella spedizione in Italia. Anche per Marcellino, Odoacre fu «vittima di spergiuri». Per Procopio invece Teodorico lo avrebbe fatto giustiziare per prevenire un complotto ai suoi danni. Sorte simile toccò agli uomini fedeli a Odoacre, al fratello Onulfo, alla moglie Sunigilda e al figlio Thela. Al momento della morte, Odoacre aveva sessant’anni, diciassette anni dei quali trascorsi come dominatore indiscusso d’Italia, un tempo insolitamente lungo in anni tanto convulsi.
Di Odoacre è conservato un documento autografo, il primo di un sovrano non romano in Italia: il papiro Tjader 10-11. Il documento attesta i passaggi procedurali richiesti per rendere effettiva la donazione con la quale Odoacre concedeva a Pierio «iure directo» e «de optima lege» alcuni fondi o loro rendite, per un totale di 690 solidi annui, di cui 450 derivanti da un insieme di fondi rustici del siracusano, denominati «massa Pyramitana», e 200 dall’isola di Meleda in Dalmazia, e i restanti 40 solidi da una serie di fondi («Aemilianus», «Budus» e «Potaxia»), successivamente aggiunti per raggiungere il cespite promesso. Nel documento redatto su papiro, i rappresentanti legali di Pierio chiedevano la certificazione dell’autenticità del diploma di donazione regia datata il 18 marzo 489, redatto dal «notarius regni» Marciano e sottoscritto dal «magister officiorum» Andromaco; la duplice registrazione degli atti a Ravenna e a Siracusa; la corretta indicazione del nome del nuovo proprietario e la cancellazione di quello del precedente. È significativo lo sforzo compiuto dai legali di Pierio per assicurare la legittimità della donazione ed evitare il rischio di invalidamento quando ormai si profilava lo scontro con Teodorico, precauzione non necessaria data la morte del loro cliente nella battaglia sull’Adda appena un anno dopo.
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