PARMA
Città dell'Emilia-Romagna, capoluogo di provincia, presso l'omonimo fiume, nell'Emilia occidentale.Sul luogo di un insediamento terramaricolo, continuato dagli Etruschi e dai Galli, venne dedotta nel 183 a.C., lungo il tracciato della via Emilia, che costituì il decumano massimo dell'impianto ortogonale, la colonia di P., il cui nome può derivare dal lat. parma ('scudo') o dall'idronimo celtico del fiume sulla cui riva destra è posta la città. L'insediamento urbano, organizzato attorno al foro, in parte coincidente con l'od. piazza Garibaldi e destinato a perpetuarsi nella platea vetus comunale, venne regolarizzato e allargato in età imperiale, ma conobbe nel periodo tardoantico l'abbandono di qualche isolato periferico, anche se l'ipotesi di un totale declino è smentita dalla documentata restituzione dell'acquedotto in età teodoriciana. Il sistema urbano sulla riva sinistra, invece, forse più antico in quanto già strutturato in età repubblicana secondo gli assi centuriali, non venne in questa fase integrato al precedente (Marini Calvani, 1978; 1992).Scarse sono le notizie sulla diffusione del cristianesimo e la costruzione dei più antichi edifici di culto a P. a causa della appartenenza dei primi vescovi all'eresia ariana (Schiavi, 1940), la qual cosa avrebbe determinato l'ubicazione della più antica cattedrale nell'area extramuranea nordorientale della città, in linea con quanto accadeva nella sede metropolita di Milano. All'edificio teodoriciano apparterrebbe il mosaico altoadriatico con kántharos e pesci rinvenuto in piazza Duomo nel 1955 (Quintavalle, 1974; Farioli Campanati, 1989) e ora rimontato nella cripta della cattedrale. Contemporaneamente doveva essere già dedicata anche la chiesa di S. Pietro de platea, sorta sulle rovine del massimo tempio della colonia romana. Altrettanto incerta risulta la fase immediatamente ulteriore, documentata dai due frammenti di altare in marmo proconnesio con croce patente su globo, nella cappella del Comune della cattedrale, per i quali è stata ipotizzata un'esecuzione da parte di maestranze ravennati (Quintavalle, 1983; Farioli Campanati, 1984-1985) o greco-costantinopolitane (Russo, 1990) che potrebbero avere operato nella città del vescovo Agnello o direttamente a P., la cui Chiesa allora dipendeva dalla sede metropolita ravennate. Durante la fase bizantina P. dovette costituire un importante centro, come testimonia il suo appellativo di Chrysópolis, sia questo dovuto alla presenza della zecca o al fatto che la città, resa sicura dal funzionale sistema di fortificazioni, incentrato sull'arena romana, venne prescelta per custodire il tesoro aureo dell'aristocrazia italica.All'arrivo dei Longobardi il territorio di P., ove ormai la centuriazione romana era stata sopraffatta da ampie aree incolte, venne riorganizzato e mantenne un ruolo importante, dato che qui si verificarono il distacco dall'antico asse viario N-S, costituito dalla sequenza via Emilia-via Flaminia, la cui parte orientale restava nelle mani dei Bizantini, e la strutturazione di un nuovo percorso centrato sul passo di monte Bardone, uno dei valichi più facili dell'Appennino emiliano. L'agibilità del percorso, tratto centrale della via Romea (Quintavalle, 1975; 1977; 1997; I Longobardi, 1993), venne garantita dalla conquista delle fortezze realizzate dai Bizantini al tempo della guerra gotica (535-553) e dall'istituzione di un sistema di celle e xenodochia monastici, ormai ben strutturato in età liutprandea, quando il sovrano "In summa quoque Bardonis Alpe monasterium quod Bercetum dicitur aedificavit" (Paolo Diacono, Hist. Lang., VI, 58). Di questo edificio restano nell'od. abbazia di Berceto solo alcuni frammenti plastici, una transenna in pietra con pavoni e croce, forse appartenuta all'originaria recinzione presbiteriale e ora inserita nell'altare maggiore, e un frammento marmoreo con tralcio e rosetta, parte di altro arredo, conservato nel piccolo museo annesso alla chiesa (Quintavalle, 1975; 1997; Zanichelli, 1996a).A P. i Longobardi riutilizzarono il precedente sistema difensivo incentrato sull'arena e si stanziarono nell'area sudorientale, entro e fuori le mura, come documentano tra l'altro il prezioso corredo funebre femminile della tomba di borgo della Posta, oggi al Mus. Archeologico Naz. (Monaco, 1955), e due delle quattro chiese dedicate a s. Michele, che, con quelle di S. Giorgio e di S. Salvatore, si ritengono fondate in questo periodo. La cinta muraria, che riprendeva il tracciato del sec. 3°, correva allora a N lungo l'asse delle od. via Duomo-via Melloni, a O lungo via Carducci-via Conservatorio, a S lungo borgo Garimberti-borgo Riccio, a E lungo via XXII luglio-via Cairoli (Conforti, 1979). Il centro del potere civile ed ecclesiastico, con la curtis regia e il pratum regium, rivitalizzò il precedente insediamento goto attorno all'antica cattedrale presso l'angolo nordorientale delle mura; tre pulvini angolari con motivi geometrici incisi, conservati al Mus. Archeologico Naz., attestano un probabile intervento nell'edificio sacro nella prima metà del sec. 8° (I Longobardi, 1993).In età carolingia P. divenne contea di primaria importanza per la sua posizione strategica sulla via Francigena, mentre la chiesa vescovile estendeva la sua giurisdizione su parte del territorio reggiano; in questa fase si assistette a una ridefinizione policentrica dello spazio urbano da parte delle varie etnie presenti in città, come documenta nell'820 la fondazione da parte di una famiglia longobarda presso il canale Maggiore - che correva lungo le mura orientali - dell'oratorio di S. Quintino, dotato di case e mulini, poi trasformato in cenobio benedettino femminile nel 12° secolo. Nell'adiacente area intra moenia risultano nell'830 presenti un palazzo vescovile e probabilmente una nuova cattedrale dedicata a s. Lorenzo (Schumann, 1973; Quintavalle, 1974; Cantino Wataghin, 1989), mentre nell'835 la regina Cunegonda fondò a O, infra moenia, un centro fortificato costituito da due monasteri femminili, quello di S. Alessandro e quello adiacente di S. Bartolomeo, presso il luogo ove la via Emilia attraversa il fiume grazie alla presenza del pons lapidis di origine romana, tuttora esistente nella sua veste altomedievale; presso quest'unico sicuro punto di attraversamento (gli altri due ponti medievali noti, quello di Galeria e quello di Donna Egidia, ubicati rispettivamente a S e a N, erano lignei) si teneva un importante mercato.La massima estensione dell'area d'influenza del vescovo di P. si verificò al tempo di Wibodo (860-895), legato alla famiglia imperiale e direttamente designato dal sovrano; egli pose sotto il suo diretto controllo Berceto, che venne secolarizzato, fondò e dotò di reliquie la chiesa di S. Nicomede presso Fidenza, mentre gli venne conferito da Carlomanno il monastero bolognese di S. Stefano "qui dicitur Sancta Hierusalem" (Parma, Arch. Capitolare, doc. XIX, a. 887; Affò, 1792, nr. 31). Tracce di strutture abitative private di questo periodo si possono osservare nell'isolato posto nell'angolo nord-ovest della platea vetus (Schulz, 1982), mentre nell'angolo opposto l'area era probabilmente occupata dall'insediamento monastico di S. Andrea, già trasformato in parrocchia nel 12° secolo.In età ottoniana risultano altrettanto rare le testimonianze dell'edilizia privata, ancora prevalentemente in legno, a eccezione della casa-torre presso la porta meridionale della città (La Ferla, 1981); più documentati gli interventi pubblici, dato che i vescovi parmensi, spesso provenienti dai ranghi della cancelleria imperiale, gestirono ancora più direttamente il potere politico, fortificando la città contro le incursioni degli Ungari: in questo programma di consolidamento e sacralizzazione della cinta muraria va inserita la fondazione di due nuovi monasteri femminili benedettini, quello di S. Uldarico sul lato sud, a controllare il sistema delle acque bianche che entravano in città in quel punto e i relativi mulini fino ad allora nelle mani degli Arimanni, e quello di S. Paolo sul lato nord, dove si dipartiva la via per il Po. Mentre del primo si conservano tracce della fase più antica solo nel campanile, del secondo resta, inglobato nella struttura rinascimentale, un sacello cubico in pietre e mattoni, sormontato da una cupola impostata su quattro archi poggianti su colonne angolari e su quattro trombe a conchiglia, il tutto realizzato in cotto (Ghidiglia Quintavalle, 1963). Questa struttura doveva essere già allestita nel 983, quando vi furono traslate le reliquie di s. Felicola. Al vescovo Sigifredo II, cui si devono l'edificazione della chiesa di S. Paolo e la fondazione del monastero femminile, spetta anche nel 983 la consacrazione del cenobio maschile di S. Giovanni, che completava l'imponente fortificazione del lato nord della città, proteggendo l'area vescovile infra moenia. In un punto non sicuramente identificabile, sito nella parte entro le mura di questi terreni - secondo quanto si evincerebbe dai documenti (Pelicelli, 1922; Schumann, 1973; Quintavalle, 1974), ma dissentono Violante, Fonseca (1966) e Farioli Campanati (1989), per i quali la cattedrale avrebbe continuativamente occupato l'area attuale -, sarebbero stati nel frattempo edificati la nuova cattedrale di S. Maria e il palazzo vescovile, che lo stesso Sigifredo II dotò di un'altra torre.A partire dal lungo episcopato di Cadalo (1045-1072) il rapporto tra vescovo e città si modificò ulteriormente a causa dell'inizio della lotta fra papato e impero, durante la quale lo stesso prelato parmense venne nominato antipapa (1061-1062); la prova del mutato rapporto sarebbe segnata dal ricostituirsi della cittadella vescovile extra moenia, dapprima con il trasferimento del palazzo episcopale (1055) seguito da quello della cattedrale, voluto dal vescovo Everardo (1072-1092) - prelato di Colonia, sostenuto da Annone, potente vescovo filoimperiale di quella città -, delle aedes canonicorum (Drei, 1928, nrr. 29, 37) e delle strutture assistenziali e di servizio. I tentativi di identificare nell'edificio attuale parti risalenti all'età di Cadalo e di Everardo (Porter, 1917; Ragghianti, 1968) sono smentiti dall'esegesi dei documenti e dall'analisi archeologica effettuate da Quintavalle (1974), autore dell'unica edizione critica della cattedrale; lo studioso ha rilevato come solo a partire dal 1092 la ecclesia mater sia incontrovertibilmente documentata extra moenia e come l'esame delle murature non permetta di individuare suture verticali, mentre quello delle sculture deponga a favore dell'operare di due ben differenziate maestranze attive in due campagne contigue; viene in tal modo dimostrata inaccettabile l'ipotesi di Porter (1917) e di Toesca (1927), ripresa in seguito da Cochetti Pratesi (1979), che teorizzava la cronologia dell'attuale edificio tra il 1117 e il 1178, un lungo cantiere in cui si sarebbero avvicendate diverse botteghe, fino a quella antelamica. Vagliando le notizie relative ai danni recati alla S. Maria dai terremoti del 1104 e del 1117 e quella della consacrazione effettuata da Pasquale II nel 1106, quando Matilde di Canossa impose con le armi alla città ghibellina un vescovo filoromano, il camaldolese Bernardo degli Uberti, già in precedenza cacciato a furore di popolo da P., Quintavalle (1974) ha ipotizzato invece una prima campagna architettonica iniziata nel 1090 dall'abside e protrattasi fino ai primi anni del sec. 12° per tranches orizzontali, a opera di una maestranza che portò a compimento la cripta e il blocco del presbiterio, con la definizione dell'intero perimetro delle navate e della fronte. A questa fase spetta l'alzato del blocco orientale, il cui partito esterno, con le arcate su paraste, la galleria e il fregio ad archivolti, si presenta completo nell'abside maggiore e in quella del transetto nord, ma incompleto in quella del transetto sud. L'edificio venne progettato a tre navate, tre absidi, con transetto absidato, cripta a oratorio, sostegni alterni costituiti da sette pilastri per lato, su cui si impostavano gli archi trasversi, copertura a capriate sulla navata maggiore, volte a crociera sulle minori, ma copertura piana sui matronei, e forse un tiburio; i primi modelli risultano essere normanni e ottoniani, ma sviluppati alla luce dell'esperienza cluniacense della seconda maestranza.Analoga continuità si rileva nella cripta, fortemente manomessa nei secc. 16° e 18°, ove Quintavalle (1974) ha evidenziato la presenza di due diversi gruppi di capitelli e del reimpiego di elementi romani. Sebbene per ambedue i gruppi il modello sia costituito dal corinzio, la prima maestranza ha usato il referente antico in modo saltuario, mentre la seconda lo ha impiegato sistematicamente; questa seconda officina, chiamata da Bernardo degli Uberti e collegata al progetto di riforma della Chiesa parmense sostenuto dalla comitissa Matilde, operò tra il 1106 e il 1125 e fece capo a tre maestri, il Maestro dei Mesi, quello dei Cavalieri e quello dell'Apocalisse, che superarono la tradizione strettamente lombarda per guardare al cantiere di Modena e al complesso sistema narrativo qui messo a punto dall'officina della Riforma (Quintavalle, 1984a); nuovamente infatti compaiono i temi dei cavalieri, della crociata, dei santi a essa collegati, come Martino e Nicola, dell'eresia, dei mesi. La definizione della cultura della seconda officina è stata resa possibile dai ritrovamenti nel 1984 di lastre - conservate nella cappella del Comune della stessa cattedrale - dell'originaria recinzione presbiteriale, smontata nel 1566, quando Girolamo Mazzola Bedoli modificò l'accesso al presbiterio sopraelevato, costruendo l'imponente scalinata e reimpiegando nei pavimenti i marmi del precedente arredo liturgico; infatti, sulla base di questi pezzi, Quintavalle (1984a; 1984b; 1990) ha identificato il Maestro dei Mesi con Niccolò, stringendo i legami tra il cantiere parmense e l'operare dell'officina wiligelmica.Alla morte di Matilde (1115), il nascente Comune stentò ad affermarsi nella città, che comunque continuò a espandersi, come dimostra la nuova cinta muraria del 1169, e solo attorno al 1181, quando ormai si stava risolvendo la lotta contro Federico I Barbarossa, compaiono nei documenti i primi cenni della costituzione di palazzi comunali nell'area dell'antica platea vetus (Schulz, 1982). Più rapide furono le trasformazioni nel contado per la precoce comparsa dei Cistercensi, cui si deve nel 1142 la fondazione di Fontevivo, filiazione di Chiaravalle della Colomba. Se i Cistercensi iniziarono il lento lavoro di regolamentazione dei corsi d'acqua nelle campagne, in città molto restava da fare, come dimostra la esondazione del 1177, che segnò lo spostamento del corso del fiume a O, la qual cosa rese necessaria la costruzione di un nuovo ponte di pietra, essendo quello altomedievale ormai inutilizzabile; contemporaneamente emerse sul lato destro del torrente una striscia libera di terreno, la glarea - minor a S della via Emilia e maior a N -, che subì nei secoli successivi un difficile processo di urbanizzazione, terminato solo in età farnesiana (Quintavalle, 1980).Negli stessi anni, durante le lotte contro Federico I Barbarossa, P. per la prima volta abbandonò il partito imperiale e si schierò con i Comuni norditaliani, sotto la guida del vescovo Bernardo II (1169-1194) che riportò P. alla stretta osservanza romana, dopo l'episcopato dello scismatico Aicardo da Cornazzano. Questo mutamento segnò da una parte la necessità di fortificare ulteriormente la città, sia nel circuito murario sia nella cittadella vescovile (Pelicelli, 1922; Banzola, 1982) - che diventava il polo fortificato contrapposto al palazzo dell'Arena, rinforzato da Federico I Barbarossa entro il 1162 (Valenzano, 1995), ma anche al sistema dei nuovi palazzi comunali -, dall'altra di riorganizzare il programma 'narrativo' nella ecclesia mater e nelle principali chiese lungo il percorso della via Romea.Bernardo II può essere considerato il primo committente a P. di Benedetto Antelami, colui che incaricò il grande maestro e la sua bottega di una campagna di lavori che si protrasse presumibilmente fino all'inizio degli anni ottanta, se il prelato era costretto nel 1183 a fornire cospicui fondi alla Fabbrica della cattedrale, che si trovava in difficoltà. Limitato l'intervento architettonico all'inserimento delle volte - è infatti indimostrabile l'ipotesi di Montorsi (1992) di una realizzazione dell'intero capocroce in questa fase -, i lavori si focalizzarono nell'area presbiteriale, riservata all'azione liturgica del clero, e puntarono sul rinnovamento delle immagini delle due strutture che più di tutte rappresentano l'attività ecclesiale: il pulpito, simbolo della funzione docente del clero, e l'altare delle reliquie dei martiri, simbolo dell'insostituibile funzione della Chiesa nell'opera della salvezza mediante il rinnovamento del sacrificio di Cristo (Quintavalle, 1969; 1974; 1990). Se spettò al capobottega la realizzazione del primo arredo sorretto da quattro leoni, con i capitelli a narrare le storie veterotestamentarie e le tre lastre della cassa a illustrare i temi della morte del Cristo e della Maiestas Domini circondata dagli evangelisti e dai Padri della Chiesa di Oriente e Occidente, la realizzazione dell'arca in bianco e rosso di Verona, con le storie dei martiri titolari e le figure stanti degli apostoli (Zanichelli, 1997), fu invece affidata a un collaboratore del maestro, un seguace che proprio da questa impresa è stato denominato il Maestro dell'Arca di Abdon e Sennen da Quintavalle (1990), che per primo ne ha definito la complessa e stratificata cultura e i rapporti con Antelami; a questo collaboratore spettò la più tarda realizzazione del terzo elemento dell'arredo presbiteriale, la cattedra episcopale.Le tracce più evidenti del complesso intervento urbanistico si rilevano nel sobborgo di Capo di Ponte, che aveva perpetuato l'insediamento romano sulla riva sinistra del fiume, ma che venne cinto di mura solo nel 1178. La vitalità di quest'area urbanizzata è documentata dalla fondazione nel 1196 di una nuova chiesa parrocchiale, S. Cecilia, che conserva la modesta facies originale pur con qualche rifacimento quattrocentesco e settecentesco, dall'insediamento dei Templari - che contavano anche due mansioni nel territorio: quella, di cui ora resta l'abside del sec. 12°-13°, della chiesa di S. Tommaso Becket di Cabriolo e quella scomparsa di S. Maria Maddalena di Toccalmatto, ambedue a guardia del punto in cui la via Romea iniziava il percorso appenninico distaccandosi dalla via Emilia -, dalla non più esistente S. Maria del Tempio, presso l'antico ponte Galeria, e in seguito dalla riorganizzazione di Santa Croce (Quintavalle, 1975).Gli ultimi anni del secolo videro nella città l'inizio della grande impresa del battistero (Quintavalle, 1989; 1990), diretta da Benedetto Antelami (v.) e favorita dal vescovo e dal Comune (Kerscher, 1986; Dietl, 1995). La risistemazione della platea nova si concluse nel 1232-1234, con il rifacimento della parte sudorientale del palazzo vescovile e la sistemazione del canale Maggiore che serviva il battistero e i mulini del vescovo; i lavori, diretti da Rolandello, segnarono la trasformazione dell'edificio da fortezza in palazzo porticato (Pelicelli, 1922).L'arrivo degli Ordini mendicanti comportò l'apertura di altri due importanti cantieri, quello di S. Francesco del Prato (1227) e quello di S. Pietro Martire (1244), che rimasero in attività per tutto il secolo; i Francescani si stabilirono nell'antico 'prato regio', di proprietà vescovile, occupato da piccoli insediamenti produttivi, soprattutto tintorie e mulini, a causa dell'abbondanza di acqua. Dopo aver utilizzato per ca. sei anni l'esistente cappella di S. Maria, iniziarono la costruzione del nuovo insediamento, di cui i documenti attestano un'infermeria-foresteria nel 1239, una chiesa nel 1250, un mulino per il quale venne parzialmente deviato il Naviglio nel 1257, un refettorio grande nel 1283 e una nuova chiesa nel 1298 (Zanichelli, 1983). Durante l'assedio federiciano del 1248 solo la chiesa del Santo Sepolcro venne distrutta e della ricostruzione, iniziata nel 1257, resta qualche traccia nell'attuale edificio, mentre il locus francescano, ancora extra moenia, non risulta rimanesse danneggiato: è probabile però che subito dopo si iniziasse la costruzione della ecclesia nova, a tre navate divise da quattro coppie di colonne, senza transetto e con copertura lignea, con tre absidi poligonali con volte costolonate. L'edificio, costruito interamente in cotto, presenta alcune incongruenze, ma la restituzione delle singole campagne è resa difficile dagli interventi seicenteschi nell'area presbiteriale, restaurata nel 1974; nel 1298 doveva comunque raggiungere le attuali dimensioni, anche se l'ultima campata era allora occupata da un atrio, inglobato nella struttura nel 1398, quando venne completata l'attuale facciata, arricchita di rosone e portali solo nel 1461 (Zanichelli, 1983). Più tormentata la vicenda dei Domenicani, prima insediatisi presso la Trinità, poi nella glarea maior, ove il convento e la chiesa, oggi distrutti, risultavano ancora in costruzione alla fine del sec. 13°; a partire dal 1249, presso l'arena, si insediavano gli Eremitani, che costruivano la chiesa di S. Luca, consacrata nel 1312, ma rifatta nel 15° e poi nel 17° secolo. Nel 1273, nell'area della glarea minor veniva fondata S. Maria del Carmine (Marchesi, 1996), oggi superstite - pur con interventi quattrocenteschi e pesanti restauri primonovecenteschi - nelle forme del sec. 14°, con capitelli in cotto che riprendono i motivi propri della plastica cistercense dell'Emilia occidentale (Zanichelli, 1996b).I cantieri aperti nella P. postfedericiana comprendono anche quelli volti al ripristino di antichi edifici religiosi, come S. Tommaso e S. Andrea, come pure quelli dei pittori, di cultura bizantina, di cui rimane documentazione solo negli edifici prospicienti la platea nova: attorno al 1260 è datato (Pezzini, 1983) l'affresco con S. Pietro, un santo vescovo e un angelo, già in cattedrale e ora alla Gall. Naz., nonché il Cristo Pantocratore del Vescovado (Zanichelli, 1996a), mentre il grandioso ciclo nella cupola del battistero è stato datato al settimo decennio da Quintavalle (1989), che ha individuato il programma politico della concordia tra la Chiesa d'Occidente e quella d'Oriente, e da Calzona (1989), che ha puntualizzato la cultura di Grixopolus Parmensis, il principale artefice della bottega. Il complesso sistema di rapporti che lega questi maestri alla cultura cittadina è dimostrato dal graduale (Arch. della Fabbriceria della cattedrale, FO4; Zanichelli, 1996a) eseguito negli stessi anni per il battistero a opera di un miniatore che reinterpreta i modelli orientali.Nel 1298 il processo, iniziato con la fondazione di S. Francesco del Prato, di sistemazione dell'area a settentrione della città, nodale per il sistema idrico urbano ed extraurbano (Zanlari, 1985), venne completato con la realizzazione del secondo insediamento cistercense della diocesi, quello di Valserena, a km 10 ca. da P., sull'area dove sorgeva la piccola cappella di S. Martino de' Bocci; l'imponente complesso mantiene l'aspetto originario all'esterno, mentre l'interno è stato parzialmente modificato in età tardorinascimentale (Wagner-Rieger, 1957; Quintavalle, 1961). Il finanziatore dell'impresa fu il cardinale Gerardo Bianchi, cui si deve anche la fondazione del Capitolo del battistero: all'interno di quest'ultimo venne eseguito per sua volontà un affresco celebrativo, realizzato alla sua morte (1302) da un raffinato pittore, già ritenuto un giottesco, più (Volpe, 1958) o meno precoce (Ferretti, 1993), ma più evidentemente di cultura romana (Zanichelli, 1996a).Nel corso della prima metà del sec. 14°, nonostante le travagliate vicende politiche che videro P. dominata dai da Correggio, Rossi, Scaligeri e Visconti, l'attività dei cantieri non conobbe tregua, soprattutto nella costruzione di cappelle votive attorno alle principali chiese cittadine; i contatti con centri culturali diversi e la presenza nella città di intellettuali, quali Petrarca, nel quinto decennio del secolo, favorirono una produzione diversificata, la cui più alta testimonianza superstite è costituita dalla serie dei corali (Arch. della Fabbriceria della cattedrale, F01, F02, F03, F05, F06, F09, AC12) realizzati per la cattedrale da miniatori che coniugarono esperienze padovane e bolognesi con la tradizione locale (Zanichelli, 1996a). Nella seconda metà del secolo, il transito della corte di Carlo IV, che costruì la cappella imperiale, ora distrutta, di Casola, lungo la via Romea, e la superstite tomba di s. Burcardo nella pieve di S. Moderanno a Berceto, e il passaggio definitivo sotto la dominazione viscontea crearono nuovi referenti, di cui si avverte un'evidente traccia negli affreschi delle nicchie inferiori del battistero, realizzati nel corso del secolo (Ferretti, 1993). Al tempo dell'apertura dei due grandi cantieri gotici dell'Italia settentrionale, quello del S. Petronio di Bologna e del duomo di Milano, P. diventò una tappa importante per gli artefici che percorrevano la via Emilia, e di questi scambi resta un'alta testimonianza nella cappella Rusconi nella cattedrale, commissionata dal vescovo Giovanni Rusconi nel 1398 (Zanichelli, 1994) e affrescata negli stessi anni da artefici legati alla cultura veronese (Quintavalle, 1966; Fornari Schianchi, 1996).
Bibl.:
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