Personalita
di Riccardo Luccio e Gian Giacomo Rovera
Personalità di Riccardo Luccio
Contrariamente a quanto abitualmente si ritiene, la psicologia della personalità è un capitolo relativamente recente nella storia della psicologia. È infatti solo negli anni trenta, con la nascita della cosiddetta 'scuola personologica' nordamericana, che il concetto di personalità si impone in ambito psicologico, segnando una decisa rottura epistemologica rispetto ai concetti di 'temperamento' e di 'carattere' sino ad allora prevalenti. Abbiamo parlato di 'cosiddetta' scuola personologica perché, anche se così viene spesso definita nei testi di storia della psicologia, di tutto si tratta meno che di una scuola. Di fatto, in essa trovano posto autori diversissimi tra loro per impostazione teorica, accomunati solo dall'interesse per questo oggetto di indagine. Tuttavia a partire dagli anni trenta, al di là delle differenze teoriche anche molto rilevanti tra i diversi autori, in letteratura si è cominciato a parlare di 'teoria della personalità' come di un'unica teoria, per indicare il complesso di tutte le ricerche e le speculazioni sul tema.
Di fatto, molto si è discusso se la personalità fosse un concetto effettivamente nuovo rispetto a quelli di temperamento e di carattere. Il problema è legato anche a una relativa difficoltà di definire in modo univoco tali concetti, usati molto di frequente con significato diverso nei vari autori. Nel corso del tempo, inoltre, si sono avuti notevoli slittamenti di significato che hanno portato a volte - ed è questo il caso di 'personalità' - a un vero e proprio capovolgimento rispetto all'accezione originaria. Il termine 'personalità', infatti, deriva da persona, la maschera del teatro classico che l'attore portava sul volto e attraverso cui parlava (per sona, 'la voce passa attraverso') e indicava quindi un'apparenza, mentre l'uomo reale restava nascosto. Nel corso del tempo però il termine ha subito uno slittamento di significato, passando a indicare non più la maschera bensì l'attore stesso, ciò che una persona è realmente malgrado l'apparenza, la maschera che può indossare.
Al di là delle infinite definizioni che sono state fornite di questi concetti (Allport - v., 1937 - elenca solo per 'personalità' cinquanta diverse definizioni di ordine psicologico e filosofico, ma anche teologico, legale, morale, biologico), i diversi autori sono sostanzialmente concordi nell'intendere per 'personalità' quell'insieme di caratteristiche cognitive e affettive che rendono ogni uomo un 'unico', lo distinguono da ogni altra persona e fanno sì che esso sia quel che 'realmente è'. Vedremo come questi concetti vadano meglio specificati. Di contro, la nozione di 'temperamento', simile in fondo a quella di personalità, implica una ben precisa connotazione di tipo somatico, un legame tra caratteristiche psicologiche e fisiche. Il termine 'carattere', prevalente ancora nella scuola psicologica tedesca, e certamente più simile di significato a quello di personalità, ha una serie di connotazioni morali e conative che peraltro si vanno perdendo. È comunque il termine 'personalità' quello che prevale nell'uso contemporaneo. Le ricerche che fanno ancora riferimento al temperamento o al carattere vengono oggi raggruppate abitualmente sotto tale termine.
Maschera o attore, dunque. È questa una prima dicotomia che si incontra nello studio della personalità. Ma le definizioni, anche all'interno dello stesso campo d'indagine, ci si presentano con numerose altre dicotomie. La più importante, forse, è quella che, sempre secondo Allport, divide le teorie di tipo idiografico e quelle di tipo nomotetico. Le prime si pongono come oggetto di studio l'individuo negli aspetti che lo rendono unico, diverso da tutti gli altri. Le seconde cercano invece di individuare le leggi generali sulla base delle quali si può determinare quanto è comune a tutti gli uomini, ma non ciò che è proprio esclusivamente di ogni singolo individuo. Inoltre, secondo Allport (v., 1962), proprio lo studio della personalità segna il passaggio da una psicologia come scienza nomotetica a una psicologia come scienza idiografica. Possiamo ricordare che negli anni sessanta questa tesi di Allport diede luogo a un'accesa polemica, di cui si ebbero vivaci echi anche in Italia. In particolare, ad Allport si oppose con forza Holt, secondo il quale l'idiografismo non avrebbe potuto portare ad altro che a una visione 'artistica' dell'uomo, lontana dagli standard minimi richiesti dalla ricerca scientifica. Nello stesso tempo, però, Holt rifiutava la dicotomia proposta da Allport, dimostrando come il nomotetismo da questi criticato fosse di fatto, nelle sue angustie metodologiche, una caricatura della scienza.
Un'altra dicotomia, per molti aspetti derivante dalla precedente, è quella tra le teorie dei tipi e le teorie dei tratti. Le prime, le cosiddette tipologie, tendono a individuare categorie che accomunano diversi uomini. Queste categorie, di principio mutuamente esclusive, sono in numero ristretto; sia che si tratti dei tipi della tradizione ippocratica - sanguigni, collerici, flemmatici e melanconici - ripresi all'inizio del Novecento da Pavlov, o dei tipi ciclotimici, ixotimici e schizotimici di Kretschmer (vedi oltre), ciò che accomuna queste teorie è la mutua esclusività dei tipi.
Le teorie dei tratti postulano invece l'esistenza di tratti, o disposizioni, comuni a tutti gli uomini, ma di cui le diverse persone sono dotate in misura differente. Di solito, i tratti hanno la struttura di 'fattori': sono cioè disposizioni bipolari (ad esempio introversione-estroversione, dominanza-sottomissione, conservatorismo-radicalismo), costituite da un continuum con ai due poli gli estremi che le denominano, e in cui i diversi individui occupano posizioni differenti. La personalità di ogni individuo sarebbe costituita da una mescolanza delle diverse posizioni che egli assume nelle diverse disposizioni. Così, in una delle più famose teorie dei tratti, quella di Cattell, la personalità è vista come una mescolanza in diverse proporzioni di 16 fattori o disposizioni; nella versione più recente della teoria dei tratti, quella dei cosiddetti big five, vengono individuate cinque grandi 'dimensioni' della personalità.
Di fatto, ben rare sono attualmente le teorie esclusivamente tipologiche o esclusivamente dei tratti. Le prime, come ad esempio quella di Eysenck, tendono piuttosto a delimitare i tipi sulla base di dimensioni o fattori, prevedendo quindi tutta una serie di sfumature e collocazioni intermedie; le seconde, a cominciare da quella del più volte citato Allport, distinguono i tratti comuni dalle disposizioni individuali, proprie di ciascun individuo.Le teorie della personalità possono essere distinte in base a molte altre dimensioni. Alcune teorie privilegiano l'aspetto esclusivamente psicologico, altre tengono in maggiore o minore considerazione l'aspetto biologico-somatico, le interazioni tra psiche e soma. Se queste ultime erano un tempo prevalenti, dall'antichità classica sino ai primi decenni del Novecento, oggi sono le prime a risultare dominanti.
Un'altra dicotomia è quella tra le teorie della personalità situazionistiche e quelle disposizionistiche; le prime vedono alla base della personalità l'influenza dell'ambiente, e postulano sostanzialmente l'esistenza di meccanismi di apprendimento sociale che determinano la struttura psicologica dell'individuo. Le seconde, di contro, attribuiscono le caratteristiche personologiche individuali all'esistenza di disposizioni innate, che l'individuo possiede fin dalla nascita. Questa dicotomia, che ha dato luogo a dibattiti appassionati ancora sino a una decina d'anni fa (e che sembra superata dai più recenti approcci interazionistici), di fatto ripropone l'eterno problema dell'innato e dell'acquisito, della prevalenza della natura sulla cultura, o viceversa. Problema antico quanto la riflessione dell'uomo sulla propria natura, che continua a riproporsi in modi diversi e appassionanti.
Comunque, la principale distinzione che divide i teorici della personalità è legata a problemi di metodo. Lo scontro fondamentale si è avuto sempre tra i sostenitori del metodo sperimentale e i sostenitori del metodo clinico, spesso legati alla pratica professionale diagnostica e terapeutica. I primi sono sempre stati i classici ricercatori delle università o degli istituti di ricerca; per oltre mezzo secolo, inoltre, si è trattato di studiosi formatisi in larga misura alla scuola comportamentistica, o comunque seguaci delle teorie oggettivistiche - specie negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Unione Sovietica e in Francia -, i quali, sebbene spesso si siano distaccati da tale tradizione (venendo anzi a rappresentare in più occasioni il polo 'umanistico' della psicologia scientifica), sono sempre rimasti legati a esigenze rigorose di metodo, o a modelli matematico-statistici sofisticati, come l'analisi fattoriale o le analisi multidimensionali da questa derivate. I secondi, viceversa, sono stati legati prevalentemente alla pratica professionale, di cui spesso sono stati veri capiscuola, come ad esempio Rogers o Kelly. Il loro metodo, ben lontano sia da quello di laboratorio sia dalla raccolta di dati attraverso questionari o strumenti analoghi, è sempre stato clinico, fondato sul colloquio o sull'uso di test proiettivi e mirato a una comprensione profonda tra soggetto (paziente) e psicologo (diagnosta-terapeuta) difficilmente definibile in termini rigorosi al di fuori del rapporto empatico che si crea in questa diade. Di più, se la verifica di teoria e ipotesi segue per lo psicologo accademico i canoni della ricerca empirica, fondandosi prevalentemente sul metodo ipotetico-deduttivo, nel caso del clinico segue spesso il criterio, affatto diverso, dell'efficacia diagnostico-terapeutica. Non può sorprendere, quindi, una relativa incomunicabilità tra questi due mondi.
Altre distinzioni, un tempo molto importanti, oggi non hanno ormai altro che un interesse storico. È questo il caso della controversia che ha opposto i sostenitori di un approccio olistico, come ad esempio Kurt Goldstein, agli autori ancora legati a una impostazione di tipo atomistico-associazionistico. Ora, questi ultimi si sono praticamente estinti da molti decenni (e solo la polemica meno serena porta ancora ad accusare talvolta di associazionismo gli eredi del comportamentismo); mentre ben difficilmente si trovano autori disposti a negare quell'inscindibile unità di tutti i momenti che definiscono una persona - quello biologico, quello sociale e quello psicologico - affermata dai sostenitori dell'olismo, anche se nessuno più trova utile annegare la complessità del reale in un globalismo eccessivo in cui tutto resta indistinto.Abbiamo accennato alla psicologia clinica. Tra le teorie della personalità di ordine clinico, un ruolo certamente di grande rilievo hanno quelle di origine psicanalitica, sia nel pensiero originale di Freud, sia in quello dei suoi successori. Dati i limiti di questo articolo, è impossibile fornire una trattazione adeguata del pensiero psicanalitico (v. Psicanalisi). Sarebbe del tutto insufficiente un sunto in poche righe di certe riflessioni teoriche, dato il loro spessore e il rilievo che hanno avuto anche al di fuori dell'ambito scientifico, improntando tanti aspetti della cultura occidentale di questo secolo. Vi accenneremo, quindi, solo per le influenze che hanno esercitato su altre teorie della personalità, specie per quel che riguarda il periodo (gli anni trenta) in cui si sono avuti diversi tentativi di portare le concezioni psicanalitiche sul terreno della verifica sperimentale o dell'analisi psicometrica - con risultati, peraltro, assai modesti. Se in generale vi è in psicologia una certa difficoltà di comunicazione tra mondo clinico e mondo della ricerca empirica, questa difficoltà diventa un muro quasi invalicabile quando il mondo clinico è il mondo della psicanalisi, quale che sia la scuola cui lo psicanalista appartiene. Ed è curioso, e significativo, osservare che molto spesso lo psicologo empirico divide il suo tempo tra il laboratorio e la pratica clinica come psicanalista, giungendo a una totale scissione e incomunicabilità di questi due mondi anche all'interno del proprio lavoro. Un esempio in proposito è quello di Cesare Musatti, grandissimo sperimentalista e uno dei padri della psicanalisi italiana, che è stato maestro diretto o indiretto sia degli psicologi sperimentali che degli psicanalisti del nostro paese, due mondi che non si sono mai incontrati.
Ancora, precisiamo che qui non intendiamo tanto fare una rassegna storica delle teorie della personalità come si sono venute sviluppando, bensì piuttosto orientare il lettore sulla problematica attuale, anche se ciò implica alcuni tagli che possono apparire dolorosi. Abbiamo così evitato di trattare gran parte delle 'personologie' degli anni trenta e quaranta (autori, quindi, come Maslow, Murray, ecc.), e abbiamo rinunciato ad affrontare tutti gli autori che, seppure di rilievo, hanno interesse prevalentemente per la psicologia clinica, come Rogers o Kelly.
Se, come si è detto, il concetto di personalità si è imposto in psicologia solo negli anni trenta, di fatto gli studi sulla personalità sono altrettanto antichi quanto la riflessione dell'uomo sulla propria natura in ambito sia filosofico che medico-fisiologico. Peraltro è ben raro trovare nell'antichità classica greco-romana, come anche nelle grandi civiltà extraeuropee, teorie esclusivamente psicologiche della personalità. Si tratta, quasi sempre, di teorie che ricollegano la personalità dell'uomo alla sua costituzione fisica, e questa nella maggior parte dei casi è collegata a sua volta a una teoria cosmogonica, fondata ad esempio sugli elementi primevi che costituiscono l'universo. Così, nella tradizione ippocratica (e nella sistemazione che ne diede Galeno nel II secolo d.C.) la suddivisione della personalità nei quattro tipi - sanguigno, melanconico, collerico e flemmatico, cui abbiamo già accennato - si collegava ai quattro costituenti fondamentali del corpo, ai quattro umori: il sangue, la bile nera (atrabile), la bile gialla, il flegma; e questi, a loro volta, corrispondevano ai quattro elementi costitutivi dell'universo: aria, terra, fuoco e acqua. La prevalenza di uno di questi umori sugli altri determinava il tipo di personalità a cui l'individuo apparteneva.
Può essere interessante osservare che le dottrine antiche, anche extraeuropee, ben difficilmente mettevano in relazione la personalità (e in generale tutti i processi mentali) con il sistema nervoso centrale: così il pensiero cinese antico, quale è espresso ad esempio nel Nei Ching attribuito al leggendario Imperatore Giallo, poneva lo spirito guerresco e la collera nel fegato, la paura nei reni e il dolore nei polmoni. Ma anche tra i Greci il rapporto tra sistema nervoso centrale e psiche, sino a Erofilo ed Erasistrato, non viene mai colto, con la sola eccezione tra i presocratici di Alcmeone. Peraltro, e questo è ancora più curioso, anche i costituzionalisti di questo secolo fanno riferimento non tanto a strutture cerebrali, quanto a strutture somatiche generali. È questo il caso di due tra le più importanti teorie costituzionalistiche, quella di Kretschmer e quella di Sheldon. Entrambe, sia pure a un diverso livello di raffinatezza nell'elaborazione dei dati (Sheldon si avvalse della consulenza di S.S. Stevens, il padre della nuova psicofisica, uno dei più grandi teorici della misurazione anche al di là dello stretto dominio della psicologia), pongono infatti le caratteristiche della personalità in rapporto alle dimensioni somatiche dell'individuo.
Secondo Kretschmer (v., 1921), infatti, potevano essere individuati tre tipi fisici: leptosomici, atletici e picnici; nei primi si aveva una prevalenza dei diametri longitudinali su quelli trasversali, negli ultimi una prevalenza dei diametri trasversali su quelli longitudinali, nei secondi una situazione di equilibrio. Ai leptosomici corrisponderebbe il tipo personologico degli schizotimici, caratterizzati da umore costante di tono tendente al depresso, scarsa socievolezza, ricca vita interiore; ai picnici corrisponderebbe invece il tipo personologico dei ciclotimici, caratterizzati da un andamento ciclico dell'umore, con alternanza di periodi di allegria quasi maniacale e periodi di depressione, grande socievolezza, superficialità nei rapporti e sentimentalismo. Gli atletici avrebbero invece un temperamento ixotimico, tendente alla vischiosità, detto anche 'epilettoide'.
Kretschmer saldava inoltre questa sua teoria delle personalità normali alla nosologia psichiatrica. Egli sosteneva che esistono sostanzialmente due forme psicotiche primitive: la schizofrenia e la mania-depressione. Secondo questo autore, non esisterebbero soluzioni di continuità tra normali e psicotici; gli schizotimici riprodurrebbero in forma attenuata, nella normalità, i caratteristici modi di funzionamento psichico della schizofrenia, i ciclotimici della mania-depressione. È superfluo dire che questa teoria ha oggi solo un interesse storico, anche se taluni concetti kretschmeriani hanno avuto larga diffusione e sono entrati nel linguaggio comune, diventando parte integrante di quella che è una concezione popolare della personalità.
La teoria di Sheldon partiva invece da basi costituzionalistiche più complesse, ma altrettanto arbitrarie. Sheldon saldava le caratteristiche della personalità non ai semplici diametri dello sviluppo corporeo, ma a quelle che chiamava componenti primarie della costituzione corporea, derivanti dallo sviluppo dell'embrione: endomorfismo, mesomorfismo ed ectomorfismo, corrispondenti allo sviluppo dei visceri, dei tessuti connettivali e cutanei e del sistema nervoso. Ogni persona viene allora contrassegnata da tre numeri, corrispondenti allo sviluppo medio delle tre componenti primarie, e il temperamento che emerge è dovuto alla prevalenza di una componente sulle altre. I temperamenti corrispondenti alle componenti primarie, rispettivamente viscerotonico, somatotonico e cerebrotonico, hanno una certa affinità con i tipi kretschmeriani, cosa che ha indotto i sostenitori delle teorie costituzionalistiche a vedere nei risultati di Sheldon una conferma indiretta di quelli di Kretschmer e viceversa. Le critiche alle dottrine costituzionalistiche (particolarmente vivaci in ambito comportamentista) hanno messo in dubbio in particolare quello che è l'assunto principale di tutte le teorie di questo tipo: l'idea, cioè, di un rapporto causale tra le caratteristiche somatiche e personologiche. Secondo i comportamentisti, e in particolare Lundin, è facile spiegare questi risultati sulla base dell'apprendimento sociale. Nella cultura popolare, a ogni tipo somatico corrisponde di fatto un tipo temperamentale. Se il ciclotimico, il viscerotonico Sancho Panza è somaticamente un picnico, Don Chisciotte, cerebrotonico e schizotimico, è palesemente un leptosomico. Ora, una persona che nasce con una certa costituzione fisica troverà nell'ambiente in cui vive una serie di attese corrispondenti al temperamento che la sua cultura associa alla sua costituzione. I suoi comportamenti corrispondenti a tali attese verranno rafforzati, gli altri ignorati o contrastati. La persona tenderà quindi a sviluppare per semplice apprendimento una personalità corrispondente alle attese del suo ambiente.
Come si è detto, tra i fattori somatici legati alla costituzione dell'individuo i costituzionalisti hanno di massima, e abbastanza curiosamente, trascurato quelli relativi al sistema nervoso. Non sono mancate però le eccezioni. La più importante è indubbiamente rappresentata dal padre della riflessologia, I. P. Pavlov. Egli aveva dimostrato che è possibile il 'condizionamento' dei riflessi - ossia delle risposte automatiche che l'organismo fornisce a determinati stimoli scatenanti: un getto d'aria sull'occhio produce l'ammiccamento, un colpo di martelletto sulla rotula l'estensione della gamba, e così via. Pavlov dimostrò che, associando allo stimolo che produce naturalmente il riflesso (ad esempio, il getto d'aria) uno stimolo indifferente (il suono di un campanello), sarebbe poi bastato presentare quest'ultimo per avere la risposta riflessa (l'ammiccamento), questa volta non più naturale, ma condizionata.
Non è questa la sede per discutere l'importanza fin eccessiva attribuita da Pavlov (e dai primi comportamentisti americani) al condizionamento come unità di analisi del comportamento ed elemento di base di ogni processo psicologico, anche superiore. Il processo di condizionamento prevede comunque un certo tipo di risposta delle strutture nervose. Sulla base della rispondenza al condizionamento, Pavlov sosteneva che ogni sistema nervoso può essere classificato lungo tre dimensioni bipolari, la forza, l'equilibrio e la mobilità. Di fatto, però, Pavlov rilevava che solo quattro di tutte le combinazioni possibili si potevano riscontrare negli organismi animali: forte-squilibrato, forte-equilibrato, forte-equilibrato-mobile, forte-equilibrato-inerte e debole. Ora, a questi tipi Pavlov faceva corrispondere determinati tipi temperamentali, più precisamente i tipi della tradizione ippocratica, rispettivamente collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico.Va peraltro detto che questa tipologia venne elaborata da Pavlov in riferimento non all'uomo bensì a organismi animali (nella fattispecie i cani). Saranno i suoi allievi, come ad esempio Krasnogarski, a sviluppare le sue idee applicandole all'uomo e definendo una teoria della personalità che avrebbe dominato la psicologia russa fino a tutti gli anni cinquanta. L'influenza della teoria di Pavlov è tuttora molto forte nei paesi dell'Europa orientale. Secondo Teplov, uno dei massimi teorici russi della personalità, le caratteristiche del sistema nervoso da valutare in rapporto alla personalità vanno ordinate gerarchicamente, e la più importante è senza dubbio la forza in relazione all'eccitazione: un sistema forte non è però necessariamente 'peggiore' di uno debole, rivelandosi meno sensibile. Ma anche la forza rispetto all'inibizione ha una notevole importanza, mostrando la capacità dell'individuo di resistere a ripetuti stimoli inibitori. L'equilibrio di Pavlov sarebbe un indicatore del 'dinamismo' del sistema, della sua capacità di rendere rapide le reazioni al proprio interno, mentre la mobilità apparirebbe più difficile da comprendere, e sarebbe probabilmente più utile fermare l'attenzione su una proprietà non studiata da Pavlov, che Teplov chiama labilità, ossia la velocità con cui inizia e termina il processo nervoso.
Ancora influenzato da Pavlov è lo studioso polacco Jan Strelau, il quale ha sviluppato la teoria del temperamento che indubbiamente ha avuto la maggiore risonanza negli ultimi decenni, anche in Occidente. Un concetto fondamentale di Strelau è quello di 'reattività agli stimoli', sulla base del quale egli distingue gli individui in 'alti reattivi' e 'bassi reattivi': i primi tendono a esaltare le risposte agli stimoli, i secondi a sopprimerle. Secondo Strelau, gli alti reattivi corrisponderebbero ai 'forti' di Pavlov, o agli 'estroversi' di Eysenck, mentre i bassi reattivi corrisponderebbero ai 'deboli' o agli 'introversi'. Strelau distingue inoltre tra 'personalità', direttamente influenzata dall'ambiente sociale, e 'temperamento', frutto diretto, invece, del substrato biologico.
Teorie della personalità con forte impronta biologica sono state comunque sviluppate negli ultimi decenni anche in Occidente. Ad esempio Hans Jurgen Eysenck, psicologo tedesco trapiantato in Inghilterra, ha elaborato una teoria che collega le proprietà del sistema nervoso (in termini, particolarmente, di eccitazione e di inibizione in riferimento al condizionamento) a dimensioni della personalità, giungendo a una tipologia che ricorda molto da vicino quella ippocratico-galenica. Eysenck, che ha messo a punto un famoso questionario - il Maudseley personality inventory - individua due dimensioni rappresentabili su assi ortogonali: introversione-estroversione, e neuroticismo-stabilità. In questo modo lo 'spazio' della personalità viene articolato in quattro quadrati, corrispondenti grosso modo ai tipi classici. Così l'introverso stabile è flemmatico, l'introverso neurotico è melanconico, l'estroverso stabile è sanguigno e l'estroverso neurotico è collerico.La teoria di Eysenck - autore eclettico che attinge contemporaneamente alle teorie dei tratti e alla teoria dell'apprendimento di stampo comportamentista, in una visione biologistica e innatistica prossima a volte a posizioni francamente razziste - pur avendo avuto una grande diffusione e popolarità appare sostanzialmente confusa e approssimativa quando la si voglia verificare concretamente. Essa ha però stimolato molte ricerche che si sono dimostrate feconde. Per fare un esempio, Claridge, un allievo di Eysenck, ha cercato di mettere in relazione la personalità con il livello di attivazione del sistema nervoso centrale, il cosiddetto arousal. Questo livello di attivazione, determinante per il funzionamento del sistema nervoso centrale, soprattutto al livello della coscienza, è in stretta relazione con le informazioni che giungono al cervello sia dai sistemi sensoriali eterocettivi, sia da quelli che raccolgono informazioni dall'interno dell'organismo. Claridge distingue due sistemi di arousal, uno tonico e uno modulatore: il primo è sì determinato dalle afferenze, ma queste a loro volta sono controllate dal secondo, sulla base di processi che facilitano o inibiscono le informazioni sensoriali in arrivo. Questi due sistemi possono essere rappresentati geometricamente come due assi cartesiani ortogonali che delimitano uno spazio al cui interno è rappresentabile la personalità. Così ai due poli del sistema modulatore possiamo rappresentare introversione (bassa modulazione) ed estroversione (alta modulazione), mentre ai due poli dell'asse del sistema tonico possiamo rappresentare stabilità (alta tonicità) e instabilità. Il sistema - che prevede anche delle dimensioni ortogonali tra di loro e oblique rispetto alle prime, per i fattori patologici della personalità (rispettivamente psicoticismo e neuroticismo) - ricorda molto da vicino quello di Eysenck.
Prima di chiudere questo capitolo, vale la pena di fare almeno un cenno all'analisi dimensionale di Henri Sjoebring, psicofisiologo svedese scomparso nel 1956. Si tratta di un autore non molto noto (anche per motivi linguistici: le sue opere sono quasi tutte scritte in svedese e in tedesco, con pochissimi contributi in inglese), ma la cui influenza nel mondo scandinavo, a quarant'anni dalla morte, non accenna a diminuire. Anche Sjoebring, come già Pavlov, parte da presunte caratteristiche del sistema nervoso. Ogni processo nervoso, infatti, può avere una ampiezza, una resistenza, una attualità (il quantum di energia che utilizza), una potenzialità (che corrisponde al reciproco della abituazione), una concordanza o armonia.
Da queste caratteristiche del sistema nervoso discenderebbero determinate caratteristiche dei sentimenti: profondità (corrispondente all'ampiezza), intensità (corrispondente all'attualità), qualità (corrispondente alla concordanza). Sulla base di questi sentimenti (più la potenzialità) si costruiscono quattro radicali, che costituiscono la struttura della personalità: capacità (corrispondente all'intelligenza), validità (corrispondente all'energia del sistema nervoso), solidità (corrispondente alla costanza di struttura della personalità), stabilità (corrispondente alla potenzialità). Ogni individuo è dotato in maggiore o minore misura di queste caratteristiche. In questo senso, la teoria di Sjoebring appare una via di mezzo tra le tipologie e le teorie dei tratti.
Come si è detto, in contrasto con le teorie che come le precedenti tendono a categorizzare l'umanità collocandola in 'tipi' tra loro distinti, nella psicologia della personalità si sono venute affermando altre teorie che tendono invece a individuare un insieme di 'tratti' che sono comuni a tutti gli uomini e che, come in un mosaico, vengono a costituire la personalità del singolo a seconda del grado maggiore o minore in cui esso li possiede.Le teorie dei tratti sono una diretta filiazione dell'utilizzo nella psicologia della personalità dei metodi dell'analisi multivariata, e in primo luogo dell'analisi fattoriale. È quindi indispensabile fare almeno un cenno a questi metodi. Si parla di analisi multivariata a proposito di analisi fattoriale, analisi dei clusters, analisi strutturali (LISREL, ecc.) in contrapposizione all'impostazione tradizionale della ricerca sperimentale in termini di relazione tra una variabile dipendente e una variabile indipendente (analisi bivariata). Le analisi multivariate consentono di tener conto contemporaneamente di più variabili nelle loro interrelazioni, senza che sia possibile dire quali siano quelle indipendenti e quale quella dipendente. Esse si propongono anzi di svelare sotto la superficie dei dati l'esistenza di una struttura latente, un insieme di fattori non visibili all'ispezione immediata dei dati raccolti.
Per chiarire questo concetto, facciamo un esempio tratto dalla storia dei test di intelligenza. All'inizio del secolo lo psicologo inglese Spearman constatò che i risultati di tutti i test di intelligenza erano correlati tra loro, indipendentemente dall'abilità mentale che intendevano misurare: in altri termini, se una persona riportava punteggi molto elevati in un determinato tipo di test, era molto difficile che li avesse molto scadenti in un altro tipo, e viceversa. Peraltro le correlazioni erano più elevate quando i test misuravano abilità mentali simili: così, i punteggi di tutti i test che richiedevano capacità verbali (ricchezza lessicale, fluidità verbale, ecc.) erano strettamente correlati tra loro; i punteggi di quelli che richiedevano capacità spaziali lo erano altrettanto, e così via. Da questa constatazione si sviluppò l'analisi fattoriale. Spearman riuscì a elaborare un metodo di analisi statistica che consentiva, a partire dai coefficienti di correlazione tra i punteggi di tutti i test, di ricavare dei 'fattori' in grado di spiegare l'andamento delle correlazioni stesse. Così, la generale correlazione presente tra i punteggi di tutti i test veniva spiegata dall'esistenza di un fattore di intelligenza generale, o fattore g - un costrutto che a distanza di tre quarti di secolo dimostra tuttora piena validità psicometrica -, mentre le correlazioni tra i punteggi riportati in test più specifici venivano spiegate da altri fattori particolari: intelligenza verbale, intelligenza spaziale, ecc.
L'impiego dell'analisi fattoriale nelle ricerche sulla personalità risale agli anni trenta, e deriva da quello che verrà in seguito chiamato 'approccio lessicografico' alla personalità. Alla sua base vi è l'assunto che la personalità di ogni singolo individuo è uno dei fenomeni più rilevanti nell'interazione sociale. Ognuno di noi si crea una rappresentazione mentale di quelle che sono le caratteristiche salienti dell'altro, rappresentazione che è poi alla base delle sue modalità di interazione. Io ritengo che Maria sia timida, che Giovanni sia aggressivo, che Filippo sia cinico, e in base a questo decido come comportarmi con Maria, con Giovanni, con Filippo. Tali rappresentazioni sono talmente importanti che, come preconizzava già nell'Ottocento Galton, devono trovare assolutamente un riscontro nella lingua: o meglio, la lingua di una determinata cultura non può assolutamente prescindere da una registrazione distintiva delle caratteristiche della personalità che sono rilevanti nell'interazione sociale. Una ricerca sulla personalità, secondo i sostenitori di questo approccio, deve perciò partire da una ricerca preventiva sul lessico, per individuare quali sono i tratti rilevanti della personalità così come vengono registrati nella lingua.
La prima ricerca in proposito, oggi un vero e proprio classico della ricerca psicologica, fu elaborata nel 1936 da Allport e Odbert, e venne poi sviluppata da Cattell nel 1943. Allport e Odbert trassero dal Webster - che era allora, con i suoi 550.000 vocaboli, il più comprensivo dizionario dell'inglese - 18.000 termini che potevano essere utilizzati per distinguere il comportamento di un individuo da quello di un altro, con esclusione, quindi, di tutti i termini comuni. Questi termini vennero poi suddivisi, con l'aiuto di un gruppo di 'giudici' esterni, in quattro categorie, ciascuna di circa 4.500 vocaboli. La prima comprendeva termini neutrali (non valutativi) che designavano modi comportamentali relativamente stabili dell'individuo, come 'introverso', 'socievole', ecc. I vocaboli della seconda categoria indicavano stati d'animo temporanei, come 'triste' o 'attivo'. La terza comprendeva termini che designavano 'giudizi sociali', come 'rispettabile', 'modesto', ecc. L'ultima categoria, suddivisa a sua volta in sottocategorie, comprendeva termini miscellanei, difficilmente inquadrabili nelle categorie precedenti. Si aveva così una struttura della personalità in termini di voci lessicali proprie di una certa cultura. Evidentemente, i quattro elenchi di Allport e Odbert erano sovrabbondanti, in quanto comprendevano un gran numero di vocaboli sinonimici, di voci obsolete, di termini ambigui e mal definibili. La grande intuizione di Cattell, come vedremo ora, fu quella di servirsi dell'analisi fattoriale per ridurre questo elenco sovrabbondante a poche categorie padroneggiabili.
Raymond Cattell si servì dei termini inclusi nella prima categoria di Allport e Odbert (4.504, cui aggiunse 100 vocaboli tratti dalle altre categorie), e procedette a una loro riduzione raggruppandoli per sinonimi. Ottenne così 160 clusters di termini sinonimici; per ognuno dei clusters Cattell scelse poi 13 termini rappresentativi. Il passo successivo consistette nel controllare i clusters ottenuti facendo riferimento alla letteratura psicologica su carattere e personalità. In questo modo vennero esclusi 10 clusters e ne furono aggiunti 21, portando il totale a 171. A questo punto era disponibile il materiale per la ricerca propriamente empirica.
Per questa fase della ricerca Cattell chiese a un gruppo di soggetti di valutare sulla base dei 171 clusters alcune persone che ritenevano di conoscere bene ('intimamente' ma senza coinvolgimenti emotivi), ottenendo così dei dati che potevano essere correlati tra loro, e quindi sottoposti all'analisi fattoriale. Tale analisi portò alla riduzione dei 171 clusters a 35 'variabili di tratto'. Sottoponendo tali variabili a un'ulteriore analisi fattoriale, Cattell ottenne 12 fattori, che a suo giudizio costituivano la struttura per tratti della personalità. In successive ricerche, a questi 12 fattori Cattell (v., 1957) ne aggiunse altri 4, individuati attraverso l'impiego di un diverso strumento (questionario di autovalutazione e non più giudizio dei pari). Venne così messo a punto il cosiddetto 16PF, il questionario dei 16 fattori della personalità. Non entreremo nei dettagli di queste fasi della ricerca di Cattell, che hanno suscitato ampie (e giustificate) critiche sul piano metodologico. Tali critiche non intaccano peraltro il valore pionieristico del suo lavoro che, ripreso nel secondo dopoguerra da autori come Norman (v., 1963), Goldberg (v., 1981) e John, Angleitner e Ostendorf (v., 1984), ha condotto a straordinari sviluppi della teoria della personalità.Vale la pena comunque di esaminare più da vicino la teoria di Cattell nel suo complesso.
Per questo autore, la personalità è quel che consente di predire il comportamento di un individuo, una volta che si conosca la situazione in cui si trova. La personalità, come abbiamo visto, è composta di tratti, che a loro volta costituiscono disposizioni mentali che orientano il comportamento dell'individuo. Questi tratti sono strutture bipolari che non individuano categorie distinte, come i tipi di Kretschmer, bensì i poli di un'unica dimensione uniti da un continuum lungo cui si collocano in posizioni diverse tutti gli individui.Tra i tratti però, secondo Cattell, occorre distinguere quelli d'origine da quelli di superficie. Questi ultimi sono gruppi di semplici variabili, instabili e inconstanti sia nei diversi individui che in uno stesso individuo. Più interessanti si rivelano i tratti d'origine, comuni a tutti gli individui, che si differenziano solo per la posizione che occupano tra i due poli di ciascun tratto. Tratti d'origine sono appunto i 16 fattori individuati da Cattell. Alcuni sono facilmente denominabili e di significato chiaro (ciclotimia, intelligenza, forza dell'io, dominanza, super-io, accortezza, propensione di colpa, radicalismo, autosufficienza, controllo della volontà); per altri, molto meno chiari, Cattell ha coniato una terminologia esoterica (sorgenza, parmia, premsia, ecc.).
Cattell fece inoltre un'ulteriore suddivisione fra tratti di capacità, di temperamento e dinamici, dividendo questi ultimi in erg (innati, assimilabili agli istinti) e metaerg (acquisiti: interessi, atteggiamenti e sentimenti). Sorvoliamo su queste ulteriori suddivisioni, limitandoci a osservare che non sempre sono chiari, nel sistema di Cattell, i rapporti tra queste diverse classificazioni.La teoria di Cattell non è stata comunque l'unica teoria personologica dei tratti. A questa categoria appartiene di diritto anche la teoria del più volte citato Allport, anche se i 'tratti', intesi come caratteristiche psicologiche comuni a tutti gli uomini, che si differenziano solo per la misura in cui li possiedono, non hanno un ruolo di primo piano nella sua teoria. Allport distingueva i tratti comuni, analoghi ai tratti d'origine di Cattell (e quindi in numero limitato, propri di tutti gli uomini, e rilevabili attraverso le usuali prove psicometriche), dalle disposizioni individuali, che sole consentono di descrivere ogni singolo individuo nella sua unicità.
Per far questo, però, non è possibile ricorrere a poche categorie, come per i tratti comuni; occorrerà invece rifarsi all'intero vocabolario, e a tutti i termini che esso offre per descrivere la personalità. Di qui l'importanza del monumentale lavoro in collaborazione con Odbert, di cui abbiamo sopra parlato, e del repertorio dei termini distinti nelle quattro categorie cui lo psicologo dovrà attingere per descrivere ogni singola persona. Si osservi che non tutti i tratti sono per Allport di eguale importanza nella descrizione dell'individuo. Vi sono infatti dei tratti cardinali (uno o poco più) che meglio lo rappresentano, cui sono subordinati dei tratti centrali e quindi dei tratti secondari. È questa, peraltro, una gerarchia non solo elastica, ma soggetta ad ampi mutamenti nel corso della vita di una persona.L'individuo infatti, secondo Allport, non solo è unico, ma è anche in continuo divenire (becoming). Se esistono fattori ereditari come la costituzione fisica, l'intelligenza, e il temperamento (inteso soprattutto come reattività emotiva), l'organismo sin dalla nascita comincia a evolversi e a modificarsi, in un processo di integrazione e di differenziazione delle sue componenti personali concomitante con il progressivo sviluppo del Sé.
Come abbiamo accennato, verso l'approccio lessicografico si è avuto nel secondo dopoguerra un notevole ritorno di interesse che ha portato all'elaborazione di un modello, detto dei big five, le cinque grandi dimensioni della personalità, che è oggi al centro del dibattito. Nel 1949 Fiske, partendo dal materiale di Cattell e utilizzando l'analisi fattoriale, trovò solo cinque fattori ricorrenti. Nel 1961, operando con procedimenti analoghi ma su otto campioni molto più ampi, anche Tupes e Christal trovarono solo cinque fattori. E ancora cinque fattori trovò Norman nel 1963, attribuendo loro l'appellativo appunto di big five, diventato da allora estremamente popolare. Numerosissimi furono in seguito gli autori che hanno trovato sistematicamente una struttura a cinque fattori, fattorizzando sempre materiale lessicografico. Tale risultato si è dimostrato non solo estremamente affidabile e replicabile, ma - ed è questo forse l'aspetto più interessante - indipendente dalla lingua d'origine. In altre parole, i risultati sono uguali sia che si parta dall'inglese, che dall'olandese (v. Brokken, 1978), che dal tedesco (v. John, Angleitner e Ostendorf, 1984). E i primi risultati di ricerche in corso da parte di studiosi italiani, segnatamente Forzi e Caprara, sono ancora analoghi.Vi sono piccole differenze nell'interpretazione dei cinque fattori tra autore e autore, ma sostanzialmente l'interpretazione più frequentemente seguita è quella di Norman (v., 1963; trattandosi di fattori bipolari, ci limiteremo a indicare un solo polo):
I sorgenza (loquace, socievole, avventuroso, aperto);
II gradevolezza (bonario, cooperativo, gentile);
III coscienziosità (responsabile, scrupoloso, perseverante, ordinato);
IV stabilità (calmo, tranquillo, disteso); V cultura (intellettuale, artistico, fantasioso, elegante).
Per qualche autore, come ad esempio Goldberg (v., 1981) - forse il maggiore studioso contemporaneo in questo settore -, il primo fattore indicherebbe piuttosto la dominanza, il quinto l'acume.Ci si è spesso chiesti se effettivamente siano sufficienti questi cinque fattori per descrivere la personalità, se essi non siano troppo generali per essere utilizzabili e se non lascino fuori aspetti rilevanti della personalità che non vengono però colti nell'interazione sociale. Di fatto, come nota Goldberg, i big five consentono di rispondere alle cinque domande che ogni persona si pone quando deve interagire con un'altra, cercando di prevederne il comportamento e di regolarsi di conseguenza: è un individuo dominante o sottomesso? È gradevole? Posso fare affidamento su di lui? È prevedibile o è 'pazzo'? È acuto o sciocco?
Tutte le teorie dei tratti, da quella di Cattell a quelle dei big five, appartengono di buon diritto, anche se non tutte nella stessa misura, alla categoria delle teorie disposizionistiche. In altri termini, si tratta di teorie che individuano nell'esistenza di disposizioni personali preesistenti alla situazione il determinante che orienta nelle diverse situazioni il comportamento dell'uomo. Non è detto che si tratti di disposizioni innate; ben poche, anzi, sono le teorie che sostengono un puro innatismo delle disposizioni. Esse possono essere state acquisite in questo o in quel momento dell'evoluzione dell'individuo che peraltro, secondo quanto sostiene ad esempio Allport, è in continuo divenire, e continuamente modifica sia le disposizioni che possiede, sia la loro gerarchia. Il punto è che in ogni caso, secondo i disposizionisti, non è mai la situazione che controlla il comportamento dell'individuo, ma ciò che egli ha già dentro di sé.
Se l'ipotesi disposizionistica fosse vera, ci si dovrebbe attendere una forte correlazione nei comportamenti degli individui al di là delle specifiche situazioni in cui agiscono - quella che, con un infelice inglesismo, viene detta consistenza (da consistency che significa coerenza, conformità). Ma è proprio questa 'consistenza' che viene negata a priori dai situazionisti, i quali affermano viceversa che la correlazione dei comportamenti nelle diverse situazioni è molto bassa (per Mischel - v., 1968 - il coefficiente di correlazione risulta sempre inferiore a 0,3).
Tradizionalmente, il situazionismo è stato affermato, soprattutto nell'ambito del comportamentismo, già dalle ricerche classiche sulla teoria della personalità. Secondo i comportamentisti infatti, fedeli al modello stimolo-risposta, tutto il comportamento è controllato dall'ambiente; le strutture della personalità non sono altro che strutture acquisite sulla base di processi di apprendimento. Ciò che avviene all'interno dell'individuo, nel suo cervello o, a un altro livello di descrizione, nella sua mente, non interessa lo psicologo, essendo inconoscibile: l'individuo come entità al di fuori della relazione tra stimolo e risposta, tra influenza ambientale e comportamenti osservabili, è solo una scatola nera e non ha senso cercare di guardare al suo interno. Un forte sostegno a questa concezione (che si differenzia nettamente da quella della scuola oggettivistica russa, in particolare dal pavlovismo, con cui peraltro condivide molti aspetti teorici, ma che invece era particolarmente interessata ai processi endocerebrali) venne dato nel 1920 da Watson, il padre del comportamentismo. In una famosa ricerca in collaborazione con la Rayner su un bambino, 'il piccolo Albert', egli dimostrò che i sintomi nevrotici (in questo caso le fobie) potevano essere appresi con tecniche di condizionamento. Ricordiamo, tra parentesi, che questa ricerca sarebbe stata alla base della psicoterapia comportamentale, o behavior modification.Nell'ambito delle teorizzazioni comportamentistiche più ortodosse, sviluppate negli anni trenta-quaranta da Guthrie, Hull, ecc., un particolare rilievo ebbe il tentativo del cosiddetto 'gruppo di Yale' (in cui figure di spicco erano John Dollard e Neal Miller, senza trascurare autori come Sears, Doob e Mowrer) di sottoporre a verifiche sperimentali i costrutti della personalità, utilizzando le tecniche rigorose di laboratorio tipiche del comportamentismo.
Particolarmente interessante fu il tentativo di verificare sperimentalmente alcuni concetti psicanalitici - e infatti, se Miller era uno psicologo comportamentista ortodosso, Dollard era uno psicologo sociale di formazione psicanalitica.Al di là del clamore che suscitarono queste ricerche (sino a una quindicina d'anni fa non v'era manuale di psicologia che non le citasse), va detto chiaramente che si trattò di un tentativo largamente fallito. I momenti più rilevanti di queste ricerche, quelli relativi al conflitto e al problema dei rapporti tra frustrazione e aggressività, in realtà non riuscirono a toccare che aspetti del tutto marginali della teoria della personalità, e soprattutto furono assolutamente ininfluenti per quel che concerne la psicanalisi. Peraltro, da un punto di vista culturale, costituirono uno dei pochi momenti di dialogo e di avvicinamento tra il mondo della psicanalisi e quello della psicologia sperimentale.In ogni modo, gli sviluppi più interessanti del comportamentismo si sono avuti nel secondo dopoguerra. Un lavoro per certi versi pionieristico è stato quello di Rotter (v., 1955), che ha sviluppato una teoria dell'apprendimento sociale. Egli mette in primo piano l'interazione tra individuo e ambiente, anche se il suo uso del termine interazione è ben diverso da quello che faranno gli interazionisti, come vedremo nel prossimo capitolo. Rotter è interessato principalmente al dominio che l'esperienza ha sul comportamento. L'effetto dell'esperienza spiega infatti che questa si manifesta in modo costante, mostrando stabilità, pur essendo in continuo mutamento.
Rotter assegna notevole importanza alle motivazioni, considerate però come stati acquisiti sulla base della legge dell'effetto: i comportamenti efficaci tendono a riprodursi perché rinforzati. Il comportamento sarà prevedibile sulla base di quattro variabili principali: comportamento potenziale, aspettativa, valore del rinforzo e situazione psicologica: il comportamento potenziale è funzione dell'aspettativa, del rinforzo e del suo valore in una data situazione psicologica.Un concetto di estremo interesse proposto da Rotter (v., 1966) e che, al di là degli studi sulla personalità, ha avuto grandissime ripercussioni in campo clinico, come anche in quello della psicologia sociale, è quello di locus of control: i soggetti si distinguerebbero cioè per la tendenza ad attribuire le cause del proprio successo o insuccesso a se stessi (locus interno) oppure ad altri o alla situazione (locus esterno). Il locus interno consentirebbe un maggior adattamento attivo all'ambiente.
Albert Bandura (v., 1977) è stato, dopo Rotter, il maggior teorico dell'apprendimento sociale. Partendo da posizioni molto legate al neocomportamentismo classico, con un accento particolare sull'apprendimento per imitazione (modeling) accanto a quelli per effetto e per esercizio, Bandura si è progressivamente avvicinato a posizioni più cognitivistiche dando particolare rilievo al concetto di sistema del sé. Si tratta di una struttura prevalentemente cognitiva che assicura la regolazione del comportamento sulla base di un sistema di rappresentazioni, il quale a sua volta consente all'individuo di valutare le attese implicate dal suo comportamento, proiettandosi anche nel futuro. Attraverso questa attività regolatrice e rappresentatrice l'individuo sviluppa un sentimento di autoefficacia, legato alla fiducia con cui ritiene di poter dominare le differenti situazioni. È anche questo un concetto che, come quello di locus of control di Rotter, ha trovato larghe applicazioni in psicologia clinica e sociale.Comunque, il maggior esponente del situazionismo può essere considerato Walter Mischel (v., 1968 e 1984). Mischel, così come per certi versi Allport, è fermamente convinto dell'unicità di ogni singolo individuo e della necessità quindi di studiare le persone con metodi idiografici. Evidentemente, però, uno studio di tal genere porterebbe a risultati di principio non generalizzabili, e quindi in breve tempo non padroneggiabili, oltre che di scarsa utilizzabilità. Tutte le caratteristiche personali deriverebbero dall'esperienza, ma questa realizza strutture diverse da individuo a individuo, il che spiega l'enorme variabilità del comportamento e la sua mancanza di coerenza.
Come riuscire, allora, a trovare qualcosa di effettivamente dominabile e generalizzabile? Per Mischel una strada c'è, ed è quella di spostare l'accento dal 'come sono' gli individui, ossia dalle loro caratteristiche personali, al piano delle loro azioni cognitive e comportamentali. Qui si possono trovare regolarità nelle relazioni che si generano tra situazione in cui l'individuo agisce, processi cognitivi e azioni.È allora importante che l'attenzione si sposti su quelle caratteristiche dell'individuo che determinano il valore delle esperienze che vive. La teoria di Mischel si fa qui piuttosto complessa, ed è difficile schematizzarla in poche righe. Basti dire che per questo autore assumono grande importanza le capacità di predisporre piani di comportamento e di autoregolazione, ma anche le rappresentazioni sociali, che determinano e regolano le interazioni significative con l'altro. Di fatto, però, il nome di Mischel rimarrà legato soprattutto alla sua polemica con il disposizionismo, più che alla sua teoria originale.
La polemica di Mischel nei confronti dei modelli disposizionistici ebbe il merito di far uscire le ricerche sulla personalità dalla stasi in cui sembravano versare nel secondo dopoguerra. Di fatto, però, l'attacco di Mischel servì sostanzialmente solo a ristabilire l'equilibrio della bilancia in favore del situazionismo, senza comportare un vero progresso nella ricerca. All'inizio degli anni ottanta - in parte anche grazie al forte influsso che il cognitivismo cominciava a esercitare su questo settore di ricerche che sino a quel momento gli era rimasto estraneo - cominciò ad affermarsi un nuovo approccio, l'interazionismo, secondo il quale la controversia personasituazione è in realtà frutto di un modo viziato di impostare il problema, essendo la personalità dell'individuo il risultato dell'interazione tra le sue caratteristiche personali e l'ambiente.
Non si trattava certo di una posizione nuova, anche se messa in ombra dai dibattiti degli anni precedenti. Certamente, nella stagione d'oro della prima personologia, vi erano più autori che avrebbero potuto considerarsi a pieno diritto interazionisti. Tra questi val la pena di ricordare almeno Murray - autore tra l'altro di uno dei più diffusi test proiettivi per la diagnosi della personalità, il TAT (Thematic Apperception Test) - e Lewin; e se forse la posizione del primo non merita più di essere presa in considerazione, rivestendo un interesse puramente storico, qualche parola su Kurt Lewin va invece certamente detta.
Lewin era uno psicologo gestaltista che negli anni trenta, all'avvento del nazismo in Germania, era approdato negli Stati Uniti, come quasi tutti gli esponenti di questa scuola. A differenza però di Köhler, Koffka e Wertheimer, al suo arrivo in America Lewin mutò rapidamente il proprio campo di interessi, abbandonando gli studi classici del gestaltismo su percezione e memoria e dedicandosi con straordinario entusiasmo a due ambiti che conoscevano in quel momento un notevole sviluppo: la psicologia sociale (Lewin fu di fatto il padre della psicologia dei gruppi) e la teoria della personalità. Lewin elaborò un proprio pensiero vigoroso e originale, le cui origini gestaltistiche sono difficilmente rintracciabili, ma proprio per tale motivo fu l'unico psicologo di questa scuola che venne pienamente accettato nel mondo americano.La teoria della personalità di Lewin, che gode tuttora di largo credito, si fonda su un concetto diventato popolarissimo, quello di 'spazio di vita' (Lebensraum). Ogni individuo si colloca in uno spazio di vita all'esterno del quale vi è il resto del mondo, che non influenza il comportamento, mentre lo spazio di vita è costituito da tutti i fattori che possono influenzarlo. Tra spazio di vita e mondo esterno vi è una barriera, peraltro permeabile.
Si tratta di uno spazio non euclideo, non metrico, ma topologico. I percorsi all'interno di questo spazio non sono determinati da grandezze e distanze metriche, ma le diverse regioni dello spazio di vita hanno valenze, positive o negative, che generano forze di attrazione e repulsione. Nello spazio di vita sono presenti barriere, il cui mezzo non è omogeneo, e i percorsi sono quindi determinati dall'assetto dinamico delle forze di campo (è forse questo l'aspetto della teoria di Lewin che si può considerare ancora genuinamente gestaltistico). Lewin enuncia quindi quella (sin troppo) semplice formula: C=f(S) - il comportamento (C) è funzione dello spazio vitale (S) - che sarà poi il segno distintivo di tutte le teorie interazionistiche.Due sono attualmente gli approcci interazionistici che polarizzano l'attenzione degli studiosi: il cosiddetto modello dell'analisi della varianza, e quello della cosiddetta interazione dinamica.Il modello dell'analisi della varianza, o delle componenti di varianza spiegata, considerato 'meccanicistico' dai sostenitori dell'interazione dinamica, discende direttamente dal procedimento statistico dell'analisi della varianza o ANOVA (così come le teorie dei tratti discendono direttamente dall'analisi fattoriale). Sarà quindi opportuno darne un rapidissimo cenno per spiegare il modello psicologico.
L'ANOVA si basa su un principio fondamentale, enunciato dal matematico Fisher, noto come 'partizione della somma dei quadrati'. Secondo il cosiddetto 'modello lineare' dell'ANOVA il comportamento dell'individuo in differenti situazioni può essere scomposto in tre componenti: la prima si riferisce alla condizione di essere umano, una condizione comune a tutti gli individui indipendentemente dalle loro caratteristiche personali e dalle situazioni; la seconda, che in statistica è detta 'errore', è la componente che distingue un individuo da tutti gli altri, ma non varia al variare delle situazioni; la terza, infine, detta in statistica 'trattamento', è propria delle diverse situazioni, e si suppone che sia eguale per tutti gli individui, ma diversa per ogni situazione. L'ANOVA consente appunto di distinguere la componente dell'errore (la componente disposizionale) da quella del trattamento (la componente situazionale).
I seguaci di questo approccio, tra cui Endler e Hunt (v., 1966), hanno cercato quindi di cogliere le componenti situazionali, quelle disposizionali e le loro interazioni, ricorrendo prevalentemente all'uso di questionari in cui si chiedeva ai soggetti come avrebbero reagito in diverse situazioni.Lo stesso Endler (v., 1983) doveva però ben presto rilevare i limiti di questo approccio. La scomposizione delle componenti di varianza spiegata infatti non riesce a cogliere almeno due aspetti di assoluto rilievo per una teoria della personalità: il fatto che non solo la situazione modifica il comportamento, ma è a sua volta modificata da esso, in una reciproca interazione dinamica; e il fatto che il comportamento ha comunque sempre una sua intenzionalità, che questo approccio non è in grado di cogliere.
Endler, anche in collaborazione con Magnusson (v., 1976), ha quindi proposto un modello dinamico che permetta di superare le angustie del modello ANOVA. Al centro di tale modello deve esservi, come momento basilare, il processo di elaborazione delle informazioni (e quindi è ben chiaro l'influsso del cognitivismo). La personalità di un individuo è di fatto determinata dal suo sistema di mediazione - che va articolato in variabili strutturali, di contenuto e motivazionali - e dal sistema di risposta - che comprende il comportamento manifesto, il comportamento implicito e le variabili fisiologiche. Si noterà, peraltro, che in generale questo approccio tende a trascurare gli aspetti affettivo-emotivi a tutto vantaggio di quelli cognitivi.
Sono molti i modelli interazionistici ultimamente proposti, tanto da far ritenere questo approccio oggi largamente prevalente. Tuttavia non ne illustreremo altri, in parte perché molto spesso si tratta più di works in progress che di teorie già definite, in parte, e soprattutto, per la loro complessità, che rende difficile descriverli in poche righe.
Giunti alla fine del nostro percorso si possono trarre, in sintesi, le seguenti conclusioni.
1. Il concetto di personalità ha ormai definitivamente soppiantato quelli di carattere e di temperamento, e la teoria della personalità si è imposta come uno dei principali capitoli della psicologia generale. Vi è stato, ovviamente, un notevole sviluppo della ricerca sulla personalità in campo clinico-diagnostico, ma questo non autorizza, come vorrebbe qualcuno, a considerare la teoria della personalità come un capitolo della psicologia clinica. Oggi la personalità è concepita soprattutto come la modalità peculiare dell'uomo, in interazione con l'ambiente, di elaborare le informazioni che da questo gli provengono. È evidente quindi quanto lo studio della personalità sia determinante per la comprensione di tutti gli aspetti del comportamento dell'uomo di interesse per la psicologia non clinica - dalla percezione all'interazione sociale, dalla memoria alla reattività.
2. Non sorprende che i primi approcci allo studio della personalità siano stati criticati per la loro unilateralità. La teoria della personalità è giovane, essendo iniziata praticamente negli anni trenta, e come in tutte le discipline giovani un certo unilateralismo iniziale è comprensibile. Così, le teorie che abbiamo considerato privilegiavano i rapporti con la struttura biologica dell'individuo (e avevano quindi una forte impronta innatistica), oppure vedevano la personalità quasi esclusivamente in termini di disposizioni personali, come nella teoria dei tratti, o di controllo da parte dell'ambiente, come nel situazionismo. Le teorie interazionistiche tendono a superare queste rigidità e questi unilateralismi; non sempre, però, riescono a cogliere completamente gli aspetti dinamici dell'interazione persona-situazione, e soprattutto a tenere nel dovuto conto i diversi fattori personali (cognitivi, motivazionali, fisiologici) e ambientali.
3. Le teorie dei tratti si sono progressivamente evolute, e oggi l'aspetto che resta più valido è quello della descrizione sociale della personalità così come viene rappresentata nella lingua. Un modello come quello dei big five è al centro della discussione contemporanea. Tuttora però non appare risolta la questione, se questo modello sia un'effettiva descrizione strutturale di tratti personali comuni, o un semplice modello culturale che, se considerato costituito da disposizioni reali, assume il carattere dell'artefatto.Infine, la teoria della personalità è sempre più saldamente legata a modelli matematico-statistici. Se ieri erano l'analisi fattoriale o l'analisi dei clusters a dominare, oggi prevalgono l'ANOVA, l'analisi correzionale o l'analisi strutturale. Questi modelli si sono dimostrati tutti estremamente potenti, e sarebbe stolto sottovalutare i progressi cui hanno portato; è però indiscutibile che spesso essi sono stati anche alla base di un certo meccanicismo e di un certo semplificazionismo che non hanno aiutato a far riconoscere alla psicologia della personalità la rilevanza e il valore che le spettano. A volte (e questo è stato soprattutto vero per i fattorialisti) è parso che il modello statistico non fosse più uno strumento al servizio del ricercatore per rendere più chiari i dati psicologici, ma diventasse esso stesso il fine dell'indagine, cui andavano asserviti i dati psicologici.
(V. anche Apprendimento; Comportamentismo; Identità personale e collettiva).
Allport, G.W., Personality: a psychological interpretation, New York 1937.
Allport, G.W., The general and the unique in psychological science, in "Journal of personality", 1962, XXX, pp. 405-422.
Allport, G.W., Odbert, H.S., Trait names: a psycholexical study, in "Psychological monographs", 1936, LXVII.
Bandura, A., Social learning theory, Morristown, N.J., 1977.
Brokken, F.B., The language of personality, Meppel 1978.
Caprara, G.V., Gennaro, A., Psicologia della personalità e delle differenze individuali, Bologna 1995.
Caprara, G.V., Luccio, R., Teorie della personalità, 3 voll., Bologna 1986-1992.
Cattell, R.B., The description of personality. Foundations of trait measurement, in "Psychological review", 1943, L, pp. 559-594.
Cattell, R.B., Personality and motivation structure and measurement, New York 1957.
Claridge, G.S., Personality and arousal, Oxford 1967.
Dollard, J., Miller, N., Personality and psychotherapy, New York 1937.
Endler, N.S., Interactionism: a personality model but not yet a theory, in Nebraska symposium on motivation (a cura di M.M. Page), Lincoln, Neb., 1983, pp. 155-200.
Endler, N.S., Hunt, J. McV., Sources of behavioral variance as measured by the S-R inventory of anxiousness, in "Psychological bullettin", 1966, LXV, pp. 636-646.
Eysenck, H.J., Dimensions of personality, London 1947.
Fiske, D.W., Consistency of the factorial structures of personality ratings, in "Journal of abnormal and social psychology", 1949, XLIV, pp. 329-344.
Goldberg, L.R., Language and individual differences, in "Review of personality and social psychology" (a cura di L. Wheeler), vol. II, Beverly Hills, Cal., 1981, pp. 141-165.
John, O.P., Angleitner, A., Ostendorf, F., The lexical approach to personality, in "European journal of personality", 1984, 2, pp. 128-145.
John, O.P., Goldberg, L.R., Angleitner, A., Better than the alphabet: taxonomies of personality-descriptive terms in English, Dutch, and German, in Personality psychology in Europe: theoretical and empirical developments, vol. I, Lisse 1984, pp. 83-100.
Kretschmer, E., Körperbau und Character, Berlin 1921.
Lewin, K., A dynamic theory of personality, New York 1935.
Lundin, R.W., Personality: a behavioral analysis, Toronto 1969.
Magnusson, D., The person and the situation in an interactional model of behavior, in "Scandinavian journal of psychology", 1976, XVII, pp. 253-271.
Mischel, W., Personality and assessment, New York 1968.
Mischel, W., Convergences and challenges in the search for consistency, in "American psychologist", 1984, XXXIX, pp. 740-754.
Norman, W.T., Towards an adequate taxonomy of personality attributes, in "Journal of abnormal and social psychology", 1963, LXVI, pp. 574-583.
Pavlov, I.P., Psicopatologia e psichiatria, Roma 1973.
Rotter, J.B., The role of the psychological situation in determining the direction of human behavior, in Nebraska symposium on motivation (a cura di M.R. Jones), Lincoln, Neb., 1955.
Rotter, J.B., Generalized expectancies for internal versus external control of reinforcement, in "Psychological monographs", 1966, LXXX, pp. 1-28.
Sheldon, W.H., Stevens, S.S., The varieties of human temperament, a psychology of constitutional differences, New York 1942.
Sjoebring, H., La personnalité. Structure et développement, Paris 1956.
Strelau, J., Temperament, personality, activity, New York 1983.
Teplov, B.M., The problem of types of human higher nervous activity and methods of determining them, in Biological bases of individual behavior (a cura di V.D. Bebylitsin e J.A. Gray), New York 1972.
Tupes, E.C., Christal, R.E., Recurrent personality factors based on trait ratings, Lackland Air Force Basis, Technical report ASD-TR-61-97, 1961.
Disturbi della personalità di Gian Giacomo Rovera
1. Disturbi della personalità e altri disturbi psichici e comportamentali
Al pari della definizione di 'personalità' e dei concetti a essa correlati, come quelli di temperamento e di carattere, anche quella di 'disturbi della personalità' appare problematica. Una tradizione di studi di origine filosofica, ripresa in seguito in sede psicologica e anche psichiatrica, ha distinto le alterazioni del temperamento da quelle del carattere e della personalità. Le prime andrebbero ricondotte a tratti congeniti, biologicamente determinati, che nelle fasi iniziali dello sviluppo interagirebbero con le funzioni cognitive e con le spinte motivazionali, dando luogo a varianti abnormi della struttura del carattere; queste andrebbero considerate dunque frutto sia di fattori ereditari che di processi di acquisizione. I disturbi della personalità, infine, sarebbero il derivato complesso dei fattori costituzionali, caratteriali e intellettivi, nonché dei condizionamenti provenienti dalla struttura sociale.In linea con tale impostazione, anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità (v. WHO, ICD-10, 1992) considera la personalità come la "complessa struttura del pensiero, dei sentimenti e del comportamento che caratterizza in modo perdurante lo stile di vita e il modo di adattamento, a se stesso e all'ambiente, propri di un individuo, così da rappresentare il risultato di fattori costituzionali, dello sviluppo e delle esperienze sociali". Questo modo di concepire la personalità trova un riflesso diretto nella valutazione dei vari 'tratti' che la compongono (v. Jaspers, 1959).
I tratti di personalità, che si esprimono in un'ampia gamma di contesti individuali e sociali, quando divengano rigidi e non adattativi causano notevoli menomazioni funzionali o gravi disagi soggettivi, dando luogo ai disturbi della personalità. Peraltro non esiste oggi una definizione psicopatologica soddisfacente che specifichi i confini precisi delle turbe della personalità, e ciò anche per il fatto che in luogo dei concetti di malattia mentale e di psicosi (che avrebbero cause organiche) e di nevrosi e turbe della personalità (che riguarderebbero varianti abnormi dell'essere psichico) attualmente vengono proposte 'liste di categorie' delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali (v. WHO, ICD-10, 1992). Tali 'liste' comprendono i quadri clinici di natura organica, inclusi quelli sintomatici; i disturbi dovuti all'uso di sostanze psicoattive; la schizofrenia e le varie sindromi deliranti; le sindromi affettive (maniacale, affettivo-bipolare, depressiva, ecc.); le sindromi nevrotiche (fobiche, da attacchi di panico, da ansia generalizzata, ossessivo-compulsive, isteriche); le alterazioni delle funzioni fisiologiche (anoressia, bulimia, ecc.); le disfunzioni sessuali quantitative e qualitative; i ritardi mentali; le sindromi emozionali da alterato sviluppo psicologico; i disturbi della personalità e del comportamento dell'adulto.
Le notevoli difficoltà nosologiche e diagnostiche sono da porre in relazione con i modelli etiopatogenetici, con i criteri di valutazione, con la diversità dei contesti socioculturali e con il tipo di 'risposta' alle strategie terapeutiche. Per ciò che riguarda i disturbi della personalità, i vari filoni di ricerca tendono a fornire spiegazioni differenti: secondo un primo filone, essendo la base esclusivamente biologica, tali quadri dovrebbero essere considerati quali forme attenuate di malattia mentale (v. Akiskal, 1981); secondo un altro filone che fa capo a Kurt Schneider (v., 1963⁴), si tratterebbe al contrario di accentuazioni delle 'varianti abnormi dell'essere psichico', tali da arrecare sofferenza all'individuo e alla società, senza specifiche cause etiologiche somatiche; un terzo indirizzo, infine, tende a ricondurre tali disturbi a circostanze ambientali, proponendone quindi una patogenesi prevalentemente sociale (v. Chanoit e Lermuzeau, 1995).In realtà, nella pratica psichiatrica, i vari modelli interpretativi vengono spesso utilizzati congiuntamente, come nel caso, ad esempio, della 'teoria dell'apprendimento biosociale' (bio-social-learning theory), che è stata proposta da Millon. Anche per la 'teoria del Sé', largamente utilizzata da molti psichiatri - tra cui Heinz Kohut (v., 1977) e Otto Kernberg (v., 1992) -, la rete interattiva tra l'individuo, la costellazione familiare e il contesto socioculturale favorirebbe i disturbi della personalità, che coinciderebbero largamente con le 'patologie del Sé'. Tale impostazione comproverebbe l'ipotesi di un'etiopatogenesi multifattoriale dei disturbi della personalità, e sarebbe convalidata del resto dal diverso grado di soglia di vulnerabilità individuale agli eventi della vita.
A quanto risulta dagli studi epidemiologici, nelle società industrializzate gli individui che presentano disturbi della personalità costituirebbero dal 5 al 10% della popolazione compresa tra i diciotto e i quarantacinque anni di età, in tutte le classi sociali: tali disturbi avrebbero invece un'incidenza di gran lunga inferiore nelle società tribali o contadine. Questo divario pone una serie di quesiti, ai quali solo parzialmente oggi si possono dare risposte scientificamente corrette.
2. Tipi di approccio
Numerosi sono i criteri proposti per definire una classificazione dei disturbi della personalità. I principali approcci possono essere elencati come segue.
1. Approccio categoriale. In questo approccio i principî di classificazione dei disturbi psichici si rifanno al modello biomedico e alle sue finalità operative. In psichiatria la nosografia è uno strumento utile per la diagnosi, per la previsione sul decorso del disturbo o prognosi, per agevolare la comunicazione tra gli specialisti del settore, per migliorare le conoscenze. L'inquadramento sindromico di un disturbo mentale in una classe nosografica può permettere di formulare ipotesi metodologiche sulla base delle analogie con altri disturbi a etiologia nota, inclusi nella medesima classe: sistemi biologici, caratteristiche anatomopatologiche, causa o cause delle malattie, sintomatologie (v. Pancheri, 1995).
Nella pratica clinica, per rendere categoriale il sistema nosologico è spesso necessario formalizzare entità nosografiche che colmino il vuoto diagnostico dovuto a criteri troppo restrittivi; in caso contrario, può emergere da un lato il problema della 'terra di nessuno', cioè di disturbi difficilmente classificabili, dall'altro quello delle associazioni diagnostiche, o 'comorbilità'. Nelle nosografie categoriali i disturbi psichiatrici sono collegati tra loro in modo gerarchico, a partire da una fondamentale dicotomia tra disturbi a base organica dimostrata (che si avvicinano alle malattie mentali) e disturbi cosiddetti funzionali (che si avvicinano ai disturbi della personalità). Nel primo gruppo il principio organizzatore è quello biomedico, nel secondo quello dell'associazione sindromica basata sull'osservazione delle covarianze di segni o di sintomi. Gli attuali sistemi nosografici categoriali suggeriscono implicitamente che a ogni entità nosografica rappresentata nel sistema debba corrispondere una specifica alterazione patofisiologica.
2. Approccio dimensionale. Questo approccio prevede l'utilizzazione di strumenti psicometrici e si basa essenzialmente sulla misura di tratti, segni e sintomi come necessario presupposto per l'applicazione di analisi multivariate (analisi fattoriale, cluster analysis, ecc.). Si tratta di un modello che non stabilisce i confini tra normalità e patologia, ma che può aiutare a identificare dimensioni psicopatologiche non previste; anche queste ultime devono avere la necessaria conferma psicometrico-statistica (v. Pancheri, 1995). Il modello dimensionale, avendo obiettivi ateorici, rinuncia deliberatamente a ogni considerazione di tipo gerarchico (primario o secondario), al principio di causa ed effetto, alla distinzione tra sintomi principali e sintomi accessori, e rinuncia altresì a stabilire qualsiasi 'principio' organizzatore o 'criterio guida' di tipo nosografico. Il modello dimensionale, come il modello categoriale, postula tuttavia una corrispondenza tra entità psicopatologiche e meccanismi patofisiologici cerebrali.In psichiatria, nella sequenza diagnostico-terapeutica si procede attraverso fasi successive: la prima è quella della diagnosi categoriale, la seconda quella della diagnosi dimensionale. La strategia dei trattamenti si avvale di entrambe le classificazioni; il livello di base è categoriale, ma nel singolo caso clinico si utilizza l'approccio dimensionale, più plastico e individualizzato (v. Frances, 1982).
3. Approccio dinamico-strutturale. Adottato dalla maggior parte degli indirizzi psicanalitici (v. Higgitt e Fonagy, 1992; v. McGlashan, 1993), tale approccio parte dal presupposto che le organizzazioni psichiche siano dotate di stabilità e di continuità nel tempo. I disturbi della personalità vengono concepiti come alterazioni psicopatologiche inerenti al livello strutturale del Sé (v. Rovera, 1994). Abbiamo così diversi tipi di struttura - psicotica, al limite o borderline, nevrotica - che dipendono dall'interazione tra eventuali difetti costituzionali (v. Cloninger, 1987) e difese psicologiche molto arcaiche, derivabili da conflitti spesso inconsci. Una volta stabilizzate, tali strutture costituiscono le matrici di un Sé patologicamente organizzato, da cui si sviluppano sintomi e comportamenti. Esse si riflettono, in particolare, nel grado di integrazione dell'identità del soggetto, nel livello delle operazioni difensive, nella capacità di esame della realtà: tutte caratteristiche di particolare rilievo per la diagnosi differenziale dei vari disturbi della personalità.Questa classificazione, che si colloca trasversalmente rispetto a quelle categoriale e dimensionale, permetterebbe di riconoscere una sintomatologia di base nella maggior parte dei disturbi della personalità.
4. Approccio interpersonale. Proposto da Harry Stack Sullivan (v., 1953) tale approccio collega i disturbi della personalità alle modalità dell'interazione con gli altri. L'essere umano interagisce sia con un ambiente fisico-chimico, sia con esseri non umani, sia con altre persone: ciò comporta 'zone di interazione' in rapporto specifico con l'attività funzionale dell'individuo, volte a mantenere la sua necessaria esistenza comunitaria. Le situazioni interpersonali significative dell'infanzia (ad esempio l'allattamento) sono alla base delle 'personificazioni', vale a dire delle organizzazioni psichiche simboliche elaborate dal bambino. Attraverso le varie tappe dello sviluppo, la complessità crescente e interiorizzata di tali esperienze porta l'individuo a costituirsi come persona. La personalità sarebbe l'espressione delle relazioni interpersonali caratteristiche dell'individuo, e i disturbi della personalità deriverebbero da una trasformazione patologica di tipo difensivo inconscio, il cui scopo sarebbe quello di garantire la propria sicurezza. L'ostilità del bambino, ad esempio, nasconderebbe il desiderio di tenero affetto, al punto tale che una alterazione della personalità potrebbe giungere sino alla colpevolizzazione 'paranoide' degli altri.
5. Approccio socioculturale. Si tratta di un approccio adottato da alcuni indirizzi psichiatrici che sottolineano l'importanza dell'identità culturale dell'individuo (v. James, 1994) e degli elementi socioculturali non solo nell''espressività' sintomatologica, ma anche nella struttura stessa dei disturbi della personalità, e quindi nella valutazione diagnostica e nella relazione terapeutica.
3. Sintomatologia di base
Circa l'eventuale denominatore sintomatologico comune ai diversi disturbi della personalità esiste oggi un sostanziale consenso. Molti di tali disturbi avrebbero infatti una analoga base fisiopatologica, dovuta a una disregolazione primaria del controllo degli impulsi, a una instabilità emotivo-affettiva, a una distorsione cognitivo-percettiva del Sé, tipica appunto, sotto il profilo psicopatologico, di una 'struttura borderline' della personalità (da non confondersi con il 'disturbo borderline di personalità', che è una specifica categoria nosografica). Il quadro sintomatologico complessivo dei disturbi della personalità comprende vari aspetti. In primo luogo si realizzano alcune manifestazioni aspecifiche di fragilità psicologica, come la scarsa capacità di tollerare l'ansia e di controllare gli impulsi, la tendenza a un irrigidimento egocentrico, lo sviluppo di modi di comportamento talora apertamente narcisistici. Un secondo aspetto è costituito dalla propensione a modelli di pensiero non di rado irrazionali, o anche istrionici e bizzarri, pur nell'ambito di un sufficiente controllo della realtà. Un terzo aspetto è rappresentato dalla predominanza di difese psicologiche immature (cioè di forme di scissione, di proiezione, di identificazione proiettiva) che portano da un lato a sentimenti di vuoto, dall'altro ad atteggiamenti violenti, fino ad arrivare a condotte sociali ritenute non adatte al contesto socioculturale di appartenenza. Un quarto aspetto, infine, è dato dalla 'diffusione dell'identità personale', con scollamento fra mondo esterno e mondo interno accompagnato da disturbi della sfera psicosessuale e da forme di 'dipendenza regressiva' (dagli altri, dalle droghe, dal gioco d'azzardo, ecc.).
La 'diffusione dell'identità', o 'identità diffusa', è uno dei tratti salienti e più gravi dei disturbi della personalità. Kernberg (v., 1992) parla in proposito di "vulnerabilità dell'identità dell'Io", di "identità introvabile e smembrata", di "identità multipla", ecc. La fragile e ibrida identità di base, tipica della struttura borderline di personalità, viene posta in relazione con la continua paura della perdita e della separazione; ciò condurrebbe questi individui a non raggiungere un'identità stabile e quindi a realizzare un 'falso Sé', una personalità 'come se'.
La sintomatologia di base - con i molteplici aspetti di variabilità, di labilità, di rigidità che ne derivano, e con le sofferenze recate a sé e agli altri - ha indotto numerosi studiosi a considerare il funzionamento psichico dei soggetti affetti da disturbi della personalità in termini, quasi paradossali, di 'normalità patologica' e di 'instabilità stabile'. Infatti in questi soggetti si registra spesso un'apparente calma seguita da un'improvvisa alterazione delle relazioni interpersonali, che può sfociare in liti drammatiche, cariche di significato emozionale, e in comportamenti violenti verso se stessi e verso l'ambiente; altre volte si registra invece un adattamento passivo, caratterizzato da scoraggiamento, disprezzo verso gli altri e ostilità repressa.A livello psicosociale potrebbero essere proprio queste caratteristiche comportamentali, talora completamente sommerse, a far ritenere che in alcune società l'incidenza di pazienti con importanti disturbi della personalità sia poco significativa, tranne poi riscontrare improvvise esplosioni, anche di massa, in occasione di gravi momenti catalizzatori determinati da crisi sociali, politiche o religiose (v. Fromm, 1974).
4. Quadri psicopatologico-clinici
A una base sintomatologica comune fa riscontro una grande varietà di quadri psicopatologico-clinici, compresi sotto l'etichetta di 'disturbi della personalità'. Numerosi sono stati i tentativi di classificazione di tali patologie: ora in senso restrittivo, anche se eterogeneo, come nella classificazione dell'American Psychiatric Association (v. APA, DSM-IV, 1994), ora invece con 'aggregazioni' più ampie che comprendono anche le modificazioni acquisite della personalità, o addirittura che si riferiscono estensivamente ad una gamma di molteplici patologie, come nelle classificazioni proposte dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (v. WHO, ICD-10, 1992).
a) In una nosologia più ristretta, i disturbi della personalità sono intesi come disposizioni che compaiono nell'infanzia o nell'adolescenza e si organizzano nell'età adulta in forma autonoma rispetto ad altre patologie psichiatriche, pur potendo precederle o combinarsi con esse. Con questo criterio nosografico si possono distinguere tre gruppi, aggregati in dieci quadri clinici (in base ad analogie descrittive), più un quarto gruppo riferito a disturbi della personalità non altrimenti specificati.
Il gruppo A comprende il disturbo paranoide, quello schizoide e quello schizotipico. Nella sintomatologia del disturbo paranoide prevale una tendenza pervasiva a idee di sfruttamento, di danneggiamento e di minaccia da parte degli altri, accompagnata da dubbi e da rabbia; esso compare di solito all'inizio dell'età adulta e si presenta in una varietà di contesti. Nel disturbo schizoide si registra invece una generale indifferenza per le relazioni sociali e un impoverimento nell'espressione delle emozioni: il soggetto non desidera più far parte della famiglia, non dimostra desiderio di avere esperienze sessuali, è abulico, freddo, distaccato. Nel disturbo schizotipico le relazioni interpersonali risultano sempre più deficitarie, e si manifestano credenze assimilabili al 'pensiero magico', cioè a superstizioni, a forme di chiaroveggenza e di telepatia, ecc.; i comportamenti possono diventare eccentrici, il modo di esprimersi si impoverisce ed emergono una diffusa sospettosità e un'affettività inappropriata.
Il gruppo B comprende il disturbo antisociale, il disturbo borderline, il disturbo istrionico e il disturbo narcisistico. Il disturbo antisociale è caratterizzato, in genere, dalla tendenza a infrangere le norme del contesto sociale di appartenenza, accompagnata da impulsività e negligenze nell'adempimento dei propri doveri; esso compare nell'adolescenza, manifestandosi con assenze scolastiche, fughe da casa, menzogne, furti, molestie sessuali, crudeltà verso gli animali, per poi svilupparsi in età adulta con l'insorgere di comportamenti quali instabilità lavorativa, trascuratezza nell'assolvere gli obblighi finanziari, spreco di denaro per l'acquisto di oggetti personali, assenza di rimorso. Il disturbo borderline (da intendersi qui in senso specifico e non, come accennato prima, come struttura borderline, base comune di tutti i disturbi della personalità) comporta difficoltà nell'instaurare relazioni interpersonali stabili, accompagnata da idealizzazione o svalutazione di sé (v. Gunderson, 1984). Questi individui sono impulsivi, tendono a rubare, hanno talora disturbi alimentari di tipo bulimico, fanno uso di droghe o bevande alcoliche, sono emotivamente instabili, presentano rabbie immotivate, hanno problemi relativi alla propria identità sessuale, non riescono a realizzare programmi concreti, talvolta possono tentare il suicidio. Il disturbo istrionico è caratterizzato da un'emotività eccessiva e da grande egocentrismo teatrale, dalla ricerca di approvazione e di rassicurazione, dalla preoccupazione esasperata di essere fisicamente attraente; il soggetto affetto da questo disturbo vuol essere sempre al centro dell'attenzione, cercando di ottenere gratificazioni immediate; se non vi riesce, è oppresso da un marcato senso di disagio.
Il disturbo narcisistico si radica in un 'sé grandioso' (nella fantasia o anche nel comportamento), cui fa riscontro l'ipersensibilità al giudizio altrui; il soggetto è assorbito da idee di successo illimitato, ha la convinzione che tutto gli sia dovuto, richiede un'ammirazione costante ed è pervaso da sentimenti di invidia.Il gruppo C comprende il disturbo di evitamento, il disturbo dipendente, il disturbo ossessivo-compulsivo. Il disturbo di evitamento si radica su una timidezza esasperata, che si traduce in disagio sociale per il timore di critiche e di giudizi negativi. Il soggetto evita, di conseguenza, attività e occupazioni che comportino un rapporto interpersonale significativo, in quanto teme di trovarsi in imbarazzo, e tende a esagerare difficoltà e pericoli. Il disturbo dipendente rivela un comportamento sottomesso e un'incapacità nel prendere decisioni quotidiane. I soggetti che ne sono affetti si dichiarano d'accordo con gli altri, anche quando ritengono che stiano sbagliando: per la paura di essere criticati e rifiutati, si sentono soli, indifesi, abbandonati. Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dal perfezionismo e dall'instabilità, spesso accompagnati da un atteggiamento rigido, dall'eccessiva attenzione per i dettagli, dall'insistenza nel proporre le proprie idee, dalla dedizione esagerata alla produttività, nonché dalla scrupolosità, dall'egocentrismo, dall'incapacità di liberarsi di oggetti anche inutili.
Vi è infine una categoria aggiuntiva, che comprende i disturbi della personalità non altrimenti specificati, come ad esempio i disturbi di tipo misto, i quali presentano in genere una grave compromissione sociale e lavorativa.
b) Un'altra classificazione più estensiva, proposta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (v. WHO, ICD-10, 1992), prende in considerazione altre alterazioni della personalità, le quali si distinguono nosograficamente dai disturbi precedentemente descritti per quanto riguarda sia il periodo di insorgenza, sia le modalità della loro comparsa. Mentre i disturbi della personalità in senso stretto cominciano a delinearsi, come si è detto, prima dell'età adulta, le modificazioni della personalità insorgono, di solito, dopo l'età dello sviluppo, in seguito a stress intensi e prolungati, a deprivazioni psicologiche estreme, a violenze sessuali o fisiche (quali torture), a esperienze di catastrofi sociali. Esse possono svilupparsi anche in conseguenza di gravi disturbi psichiatrici (esclusa la schizofrenia, che già di per sé comporta alterazioni della personalità) o di evenienze morbose: ad esempio gravi malattie croniche che peggiorano la qualità della vita o eventi morbosi che minacciano l'esistenza stessa, mutilazioni, ecc. Queste modificazioni della personalità sono caratterizzate, sotto il profilo clinico, da estrema insicurezza, sospettosità, ritiro sociale e riduzione delle capacità lavorative, sentimenti di rabbia, di disperazione, angosce legate a un senso permanente di paura, inibizioni sessuali, ipocondria. Le alterazioni della personalità devono essere diagnosticate come tali soltanto quando il cambiamento può essere ricondotto a un'esperienza fisico-psichica o sociale traumatica, devastante, persistente, ricorrente, densa di pericoli futuri. Talvolta è difficile discriminare, in sede di diagnosi, tra una modificazione della personalità acquisita in conseguenza di eventi stressanti di varia natura ed entità e una esacerbazione di un disturbo della personalità preesistente. Tuttavia la distinzione appare clinicamente opportuna, sia per la prognosi che per le strategie terapeutiche.
c) Vi è infine una classificazione molto allargata dei disturbi della personalità. Anche questa, adottata dall'OMS, comprende, accanto ai quadri morbosi precedentemente descritti, ulteriori sintomatologie. Nella prima area vengono inclusi i disturbi compulsivi, come l'impulso patologico al gioco d'azzardo, la piromania, la cleptomania, ecc. Nella seconda area vengono collocati alcuni disturbi sessuali, soprattutto quelli dell'identità sessuale (transessualismo, travestitismo, ecc.), delle preferenze sessuali e delle parafilie (feticismo e travestitismo feticistico, esibizionismo, voyeurismo, pedofilia, sadomasochismo, disturbi multipli di preferenza sessuale). Nella terza area rientrano infine i cosiddetti disturbi fittizi, ossia quelle turbe comportamentali caratterizzate dall'elaborazione negativa di sintomi fisici per ragioni psicologiche, oppure dalla produzione intenzionale o dall'imitazione di disabilità somatiche o biologiche.
5. Condizionamenti sociali e risposte culturali
Un ruolo importante nell'insorgere e nell'evolversi dei disturbi della personalità viene attribuito alle influenze ambientali. Secondo questo approccio, su una base psicobiologica temperamentale (v. Cloninger, 1987) si costituirebbero, nelle prime fasi evolutive, dinamiche psicologiche relative alla costellazione familiare, specie alla madre (di attaccamento alla figura materna, di paura della perdita, ecc.) che avrebbero una grande rilevanza strutturante rispetto ai disturbi della personalità. Tali dinamiche sarebbero attivate direttamente dal contesto socio-culturale di appartenenza attraverso l'influenza di fattori microsociali.
Nella formazione del Sé, la cui alterazione costituisce la base strutturale dei disturbi della personalità, si deve anche tener conto che nel corso della vita si verificano ulteriori 'collaudi', positivi o negativi, a livello macrosociale. Le ricerche sulla sociogenesi dei disturbi mentali (v. Chanoit e Lermuzeau, 1995) indicano che su alcuni tipi di personalità predisposte le strutture sociali possono avere un ruolo di rinforzo negativo, specie se gli stimoli che esse producono sono di tipo confusivo o aggressivo. Ad esempio, l''obbedienza agli ordini' è favorita da un tipo di personalità conformista e passiva: se l'ordine impartito da una figura autoritaria è intransigente e distorto, può provocare lo scatenamento di tratti sadici o antisociali, favorendo nel contempo 'coperture legali'.
È noto che la 'dominazione psicologica' gerarchicamente accettata può accentuare la disponibilità alla sottomissione in soggetti con personalità passiva-dipendente. Un esperimento assai famoso al riguardo è quello condotto da Milgram (v., 1963) con soggetti di sesso maschile tra i venti e i cinquant'anni di età, appartenenti a tutte le classi sociali; ai partecipanti veniva richiesto di somministrare scosse elettriche di intensità variabile a un 'allievo', ogni volta che questi avesse dato risposte sbagliate, al fine di valutare l'efficacia degli stimoli punitivi sull'apprendimento. L'esperimento dimostra che per molti individui è difficile opporsi all'autorità dello sperimentatore, sebbene i suoi ordini possano apparire incongrui, esagerati e moralmente censurabili. I meccanismi di questa 'obbedienza distruttiva' (quali si riscontrano negli aguzzini dei lager) possono essere innescati anche in personalità cosiddette 'normali', ma predisposte alla passività, oppure possono scatenare tendenze sadico-necrofile in personalità abnormi in situazioni di crisi o in società che inducano la completa sudditanza (v. Fromm, 1974).
Altre stimolazioni sociali, come gli 'stress emotivi', specie se cronici, possono rendere alcune persone molto insicure, apprensive e anche aggressive. Negli Stati Uniti tali stress emotivi vengono considerati non solo causa di modificazioni della personalità, ma anche motivo di contenzioso medico-legale.Gli attuali studi comparati di etnopsichiatria cercano non solo di recuperare il significato culturale del sintomo (v. James, 1994), ma anche di conciliare i modelli del transculturalismo e delle 'medicine alternative' con i paradigmi scientifici biomedici e con gli assunti delle psicopatologie occidentali.
Al riguardo la letteratura specialistica studia i condizionamenti sociali e le risposte culturali rispetto agli orientamenti, alle credenze e ai pregiudizi circa la struttura della famiglia, lo status o il ruolo della donna, la sessualità, nonché il tipo di lavoro, il livello di scolarizzazione, i simboli-guida idealizzanti, ecc. Tutti questi fattori possono influire infatti sulla morbilità psichiatrica, anche perché contribuiscono a creare situazioni destabilizzanti, specie in strutture di personalità in via di formazione o particolarmente fragili.
V'è da ricordare ancora il notevole interesse che suscitano i fenomeni migratori, specie quando riguardano le fasce sociali più deboli ed a rischio e quando inoltre l'immigrazione comporta una rottura di legami familiari e di clan e un cambiamento drastico dell'assetto culturale, sociale, politico e religioso. L'allontanamento dai nuclei d'origine e l'inurbamento possono provocare situazioni di crisi psicologiche che accentuano eventuali predisposizioni verso disturbi della personalità dapprima latenti. Talora riemergono, seppure in forma incompleta, sintomatologie specifiche dell'ambiente etnico, culturale e sociale legate alle matrici ambientali originarie (le cosiddette culture-bound syndromes). In conclusione, si può affermare che gli orientamenti etiopatogenetici, diagnostici e terapeutici relativi ai disturbi della personalità devono essere suffragati da ulteriori ricerche anche di tipo comparato (v. Kendler, 1990). Una valutazione complessiva dovrebbe permettere un più obiettivo riconoscimento degli elementi di interazione tra fattori costituzionali, fattori legati alla formazione del Sé e fattori correlati alla matrice sociale, culturale, etnica e religiosa. Da ciò potrebbe anche derivare la possibilità di più valide capacità predittive, di profilassi e di intervento.(V. anche Psicanalisi; Psichiatria).
Akiskal, H.S., Subaffective disorders: dysthymic, cydothimic, and bipolar II disorders in the 'borderline' patients, in "Psychiatric clinics of North America", 1981, IV, pp. 25-36.
APA (American Psychiatric Association), DSM-IV, Diagnostic and statistical manual of mental disorders, Washington 1994.
Chanoit, P.F., Lermuzeau, C., Sociogenèse des troubles mentaux. Encyclopedie medico-chirurgicale psychiatrique, 1995, XXXVII, 876, a-60, pp. 1-7.
Cloninger, C.R., A systematic method for clinical description and classification of personality variants, in "Archives of general psychiatry", 1987, XLIV, pp. 573-588.
Frances, A., Categorial and dimensional systems of personality disorders, in "Comprehensive psychiatry", 1982, XXIII, pp. 516-527.
Fromm, E., Anatomie der menschlichen Destruktivität, Stuttgart 1974 (tr. it.: L'anatomia della distruttività umana, Milano 1983⁴).
Gunderson, J.G., Borderline personality disorders, Washington 1984.
Higgitt, A., Fonagy, P., Psychotherapy in borderline and narcisistic personality disorders, in "British journal of psychiatry", 1992, CLXI, pp. 23-43.
James, F., La signification culturelle du symptome, in "Psychoterapies", 1994, II, pp. 77-83.
Jaspers, K., Allgemeine Psychopathologie, Berlin 1959 (tr. it.: Psicopatologia generale, Roma 1969).
Kendler, K., Towards a scientific psychiatric nosology, in "Archivio generale di psichiatria", 1990, XLVII, pp. 969-973.
Kernberg, O., Measurements of change in the psychodynamic psychotherapy of the borderline patient, in New approaches to psychoanalytic research (a cura di P. Fonagy e O. Kernberg), London 1992.
Kohut, H., The restoration of the self, New York 1977.
McGlashan, T.H., Il profilo longitudinale del disturbo di personalità, in Il disturbo borderline di personalità (a cura di C. Maffei), Torino 1993, pp. 117-147.
Milgram, S., A behaviour study of obedience, in "Journal of abnormal social psychology", 1963, LXVII, pp. 371-378.
Millon, T., Disorders of personality, New York 1981.
Pancheri, P., Approccio dimensionale e approccio categoriale alla diagnosi psichiatrica, in "Giornale italiano di psichiatria", 1995, I, pp. 8-24.
Rovera, G.G., Formazione del Sé e patologia borderline, in "ATQUE", 1994, IX, pp. 127-140.
Schneider, K., Klinische psychopatologie, Stuttgart 1963⁴ (tr. it.: Psicopatologia clinica, Roma 1965).
Sullivan, H.S., The interpersonal theory of psychiatry, New York 1953.
WHO (World Health Organization), ICD-10, Classification of mental and behavioural disorders: clinical description and diagnostic guidelines, Geneva 1992.