pianificazione
Il pilastro delle economie socialiste
Nelle economie socialiste lo Stato è il solo proprietario delle industrie e di ogni risorsa economica: l’attività economica privata è assente e tutto ruota attorno alla pianificazione statale dell’economia. Pianificare l’economia significa predisporre un piano in cui, partendo dalle risorse a disposizione, i fattori della produzione – lavoro e capitale – vengono collocati nei diversi settori economici per raggiungere gli obiettivi voluti dallo Stato
In Italia da sempre vige il libero mercato, perché facciamo parte di quegli Stati che garantiscono e tutelano la proprietà privata dei mezzi di produzione. L’art. 41 della nostra Costituzione protegge l’attività imprenditoriale privata: «L’iniziativa economica privata è libera».
Per gli imprenditori vivere in un regime di libero mercato significa poter autonomamente decidere cosa produrre e in quale quantità; ognuno è libero di poter entrare e uscire dal mercato e di intraprendere un’attività imprenditoriale nel settore che più gli piace e che reputa maggiormente profittevole.
Oggi, agli inizi del 21° secolo, il libero mercato (liberismo) – tranne qualche ultima sacca di resistenza – si è diffuso nel mondo intero. Ma per buona parte del 20° secolo non è stato così, e dalla Rivoluzione russa del 1917 fino al crollo del Muro di Berlino nel 1989 lo scacchiere mondiale è stato aspramente conteso fra due modelli di vita e di economia, tra due concezioni dello Stato e del suo ruolo nella società. Soprattutto durante i lunghi decenni della guerra fredda si sono fronteggiati da un lato gli Stati occidentali – dove vigeva e vige il libero mercato – e dall’altro lato gli Stati comunisti, in cui la società era guidata da un altro principio: l’economia di comando, e cioè l’abolizione del mercato e la totale soggezione dell’economia allo Stato.
Negli Stati del cosiddetto blocco sovietico (Unione Sovietica), in Cina e in altri Stati (come Cuba e Corea del Nord), non esisteva – e in alcuni casi non esiste tuttora – l’economia di mercato, ma l’attività economica veniva regolata e pianificata dall’alto, dai vertici governativi che, attraverso una capillare opera di pianificazione, controllavano completamente quella che viene chiamata l’economia socialista.
Facciamo un paragone: pensiamo prima di tutto all’economia di mercato come a un quadro in cui c’è solo una cornice esterna, ovvero le regole del corretto comportamento economico, una cornice che delimita e definisce il ‘campo’. All’interno del campo ciascuno può disegnare la propria ‘traccia’, può dare il suo personale e autonomo contributo alla realizzazione del ‘dipinto’ che, alla fine, sarà la somma del contributo di tutti coloro che sono liberamente intervenuti.
Nell’economia pianificata socialista, invece, lo Stato è l’unico ‘pittore’ del quadro e dipingerà, direttamente oppure impartendo ordini: chi prenderà in mano il pennello non sarà libero di ‘disegnare’, ma dovrà seguire le istruzioni ricevute dall’alto.
Fuor di metafora, la differenza sostanziale fra economia socialista pianificata ed economia di mercato è data dal fatto che, nel primo caso, tutto parte dall’alto; nel secondo caso, invece, l’iniziativa economica privata è libera e diffusa.
Dopo la Rivoluzione russa del 1917 e la definitiva vittoria nella lotta interna di potere, Stalin impose nell’URSS un sistema economico rigido e imperativo, esteso dal settore industriale a quello agricolo (che fu collettivizzato con la forza nel 1930-35), basato su pianificazioni quinquennali: la prima pianificazione fu per gli anni 1929-33. Questi piani fissavano le quantità di beni da produrre – tonnellate di grano, tonnellate di acciaio e così via – e davano la priorità alla costruzione di nuove industrie, dato che l’URSS di quegli anni era un paese quasi sprovvisto di tessuto industriale.
L’esecuzione materiale di questi piani era affidata, in teoria, allo «slancio individuale» (era dato molto risalto agli «eroi del lavoro socialista»), ma in pratica i lavoratori furono costretti a seguire le pianificazioni statali decise dai burocrati. La produzione industriale aumentò molto, ma tale risultato fu ottenuto a costo di enormi sprechi economici e di grandi sofferenze per la popolazione. Il modello staliniano fu reso meno rigido nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, a causa di un’economia divenuta più complessa e di un mutato clima politico. I piani economici vennero riformulati, inserendo nuovi indicatori di produttività – senza badare solo e soltanto alle tonnellate prodotte – e cambiando la lista delle priorità a favore di maggiori beni di consumo per la popolazione. Aumentò inoltre l’utilizzo di incentivi per i risultati raggiunti e fu data maggiore autonomia alle strutture locali. Ma tutto questo non bastava: il confronto con i risultati delle economie di mercato e l’insoddisfazione interna per la mancanza di libertà civili portarono infine al crollo del regime sovietico nel 1989.
Per cercare di pianificare con razionalità l’economia di un paese occorre, prima di tutto, sapere due cose: in primo luogo quali sono le risorse di cui si dispone, e in secondo luogo cosa occorre costruire e produrre. Una volta conosciuto lo stato di partenza e identificato il traguardo che si vuole raggiungere, la pianificazione consisterà nel destinare le risorse agli usi più produttivi. Quanto destinare, per esempio, al settore agricolo, quanto al settore delle industrie navali, quanto per le opere militari, quanto per scuole, ospedali e così via.
Come si può avere sotto controllo l’economia di una intera nazione? Lo strumento usato è il piano: un elenco di risorse e di obbiettivi, con una minuta descrizione di tutti gli stadi intermedi che scandiscono i passaggi dalla produzione alla distribuzione, alla vendita, per tutti i settori dell’economia. Il piano, insomma, mette nero su bianco quello che nelle economie di mercato si realizza spontaneamente attraverso il meccanismo dei prezzi, che segnala l’abbondanza e la scarsità di risorse e, attraverso l’incontro fra domanda e offerta, permette di decidere che cosa produrre per soddisfare i bisogni dei consumatori.
In un paese perfettamente pianificato i prezzi dei beni hanno scarsa importanza, mentre in un’economia di mercato il sistema dei prezzi svolge una funzione essenziale: gli economisti dicono che il prezzo «misura la scarsità» perché più un prodotto è scarso più costa. Un prezzo alto in relazione al costo, se non fa piacere al consumatore, è un forte segnale per gli imprenditori perché significa che, producendo quel bene, potranno ottenere un profitto proprio grazie all’alto prezzo di vendita. Però – e qui sta il grande valore della concorrenza e della libera iniziativa – a mano a mano che altre industrie entrano in quel settore produttivo vi sarà una maggiore quantità in commercio del bene in questione, e il suo prezzo inevitabilmente scenderà perché l’offerta risulterà in migliore equilibrio con la domanda.
Questo processo non avviene in un’economia pianificata. Nell’economia socialista tutte le industrie e le risorse produttive appartengono solo e soltanto allo Stato e sempre lo Stato fissa i prezzi delle merci e dei servizi venduti: non vi sarà il libero gioco della domanda e dell’offerta e il prezzo dei prodotti cesserà di essere un indice di riferimento della scarsità dei beni e non potrà più segnalare le vere preferenze dei consumatori e i reali costi dei produttori.
Nel 2004 l’ingresso nella Unione europea di alcuni paesi dell’Europa dell’est (Polonia, Ungheria, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia), eredi di un’economia pianificata, ha accelerato la loro transazione verso una economia di mercato. Un processo che ha comportato notevoli trasformazioni strutturali unite a dolorosi scompensi sul reddito dei cittadini e quindi sulla capacità di consumo. Ciò nonostante, l’affermazione di una nuova classe media vede un vistoso innalzamento dei livelli di benessere.