Poesia latina
L'età sveva può essere definita, per l'Italia meridionale, l'età del trionfo definitivo della latinità, nel suo secolare incontro-scontro con le altre civiltà e lingue che avevano convissuto nel Mezzogiorno nei secoli precedenti. Una latinità, quindi, che non soltanto si fece tramite e filtro di operazioni culturali di estremo rilievo (si pensi alle vicende delle traduzioni di testi filosofici e scientifici dall'arabo, dal greco, dall'ebraico), ma che finì col diventare il tratto propagandistico forse più marcato dell'ideologia imperiale, attraverso lo stilussupremus della cancelleria imperiale. La lingua latina si configura stabilmente ed essenzialmente, presso la corte sveva di Sicilia, come la lingua della prosa: burocratica e scientifica (due indirizzi che possono essere sinteticamente simboleggiati proprio dalle due opere 'di' Federico II: il Liber Augustalis e il De arte venandi cum avibus). In poesia, uno dei cardini della 'laica' politica culturale di Federico consistette nel conferire spazio, in chiave antiguelfa, all'utilizzo delle lingue nazionali (creazione della Scuola poetica siciliana).
Questo duplice stato di cose fece sì che la poesia in latino (così come la storiografia) non rappresentasse, in quel milieu socio-culturale, ma forse in tutta l'area culturale ghibellina, una forma di espressione e comunicazione preminente, come viceversa avvenne in altri contesti (soprattutto presso la Curia pontificia). Non a caso, essa è quantitativamente tutto sommato scarsa, e certamente poco studiata. Ma è indubbio che nell'ambito della Magna Curia fiorirono autori che, accanto all'epistolografia e alla letteratura scientifica, coltivarono anche generi in versi latini. E questa produzione non merita di essere sottovalutata, poiché attraverso la sua analisi è possibile accertare tipologie, dinamiche e strutture della cultura sveva nel suo complesso. Tratto abbastanza caratteristico della scrittura in latino d'età sveva è peraltro la robusta tendenza a inserire, nelle narrazioni in prosa, singoli versi o brevi sezioni versificate (oltre agli autori citati infra, si pensi alle notevoli inserzioni poetiche nella cronaca di Salimbene de Adam). D'altra parte, non bisogna dimenticare che anche la lingua greca vede ancora attivi poeti come Giorgio di Gallipoli e Giovanni da Otranto.
Nel suo ancora fondamentale ‒ sebbene datato ‒ articolo sulla letteratura latina sotto Federico II, Charles Homer Haskins (1928) elencava sedici tra autori membri della corte e opere dedicate all'imperatore. Tra questi, cinque scrittori in versi: Terrisio di Atina, Pietro da Eboli, Enrico di Avranches, Riccardo da Venosa, Orfino da Lodi. Nella presente sintesi della poesia 'federiciana' si allargherà l'orizzonte anche agli scritti in versi 'su' Federico (Quilichino da Spoleto), e verranno compresi nel discorso anche i regni di Enrico VI (Goffredo da Viterbo) e di Manfredi. Ecco una rapida presentazione del gruppo di versificatori in latino così determinato:
Goffredo da Viterbo (m. post 1202). Educato e lungamente vissuto in Germania, alla corte di Corrado III e di Federico I, Goffredo viaggiò molto e visse anche in Italia. Fu uno degli esponenti più autorevoli del pensiero politico-ideologico ghibellino, e per i suoi stretti contatti col figlio del Barbarossa può essere a buon diritto inserito in una rassegna di poeti della corte sveva di Sicilia. Egli scrisse una serie di opere destinate all'educazione del giovane Enrico VI (tranne il Liber universalis, dedicato a papa Gregorio VIII). Accanto al Pantheon (prosimetro), una storia del mondo dalla creazione fino all'età contemporanea (del quale la particula XV è costituita dai Gesta Friderici, sulle imprese del Barbarossa), gli sono attribuiti anche i GestaHenrici VI, poco meno di duecento versi goliardici in strofe tetrastiche.
Pietro [Ansolini?] da Eboli (m. 1220). Medico personale e collaboratore di Enrico VI e Federico II, è uno dei poeti più rilevanti della prima età sveva con due testi (oltre a un terzo, perduto: Gesta Federici, in onore del Barbarossa) dalla straordinaria importanza, sia letteraria che storica. Il Liber ad honorem Augusti è un poema epico-storico in tre libri: oltre ottocento distici dedicati a Enrico VI. È l'unica opera storiografica che tratta del passaggio dalla monarchia normanna a quella sveva, con la guerra tra il marito di Costanza e Tancredi di Lecce. Nel libro III è evidente l'alta concezione politico-ideologica che l'autore ha dell'Impero in quanto istituzione universale. Le miniature che impreziosiscono l'unico manoscritto (Bern, Burgerbibliothek, ms. 120 II), in parte autografo, si integrano perfettamente con la poesia e sono state certamente concepite, se non materialmente eseguite, dal poeta stesso. Altra opera è il De balneis Puteolanis, trentacinque epigrammi di natura didascalica, che esalta le qualità curative di altrettante fonti delle terme flegree (Napoli-Pozzuoli). Gli epigrammi che lo compongono, quasi tutti di sei distici, elencano anche le patologie che quelle acque miracolose sono in grado di curare. A differenza del poema epico, il De balneis ha potuto godere, già dall'epoca medievale, di una notevole diffusione manoscritta.
Pier della Vigna (m. 1249). Giudice della Magna Curia, logoteta e protonotario del Regno, è di gran lunga la figura di scrittore latino più importante della corte staufica, e probabilmente di tutta l'età sveva. Dalla fine degli anni Trenta fu l'estensore ufficiale delle epistole e delle leggi imperiali. Con lui lo stilussupremus della cancelleria tocca i suoi vertici più alti. Accanto a questa nutritissima (anche se non ancora identificata e classificata con precisione) scrittura in prosa, Pietro è autore di alcune composizioni latine prosimetriche o completamente in versi: 1. Cum plurima tempora, testo strutturalmente particolare, dall'ambiguo carattere di canzone di tipo romanzo (ogni lassa prosastica è chiusa da un verso: diciotto esametri e cinque pentametri di fattura classicheggiante, in parte citazioni dirette, soprattutto da Ovidio e dal Pamphilus, commedia elegiaca del sec. XII), in onore di una donna di cui l'autore è innamorato; 2. Vehementi nimium (di non certissima paternità), testo satirico, duramente sarcastico contro gli Ordini mendicanti, in strofe tetrastiche di versi goliardici (circa quattrocento); 3. attribuibili, in ipotesi, un breve epigramma sulla presa del carroccio milanese da parte delle truppe imperiali e i due distici in epigrafe sulla Porta di Capua; 4. Sunt in Ianuario, ritmo sui dodici mesi attribuitogli dal cronista trecentesco Iacopo d'Aqui (molto probabilmente spurio); 5. certamente spurio il carme satirico intitolato Evangelium secundum marcas auri et argenti.
Terrisio di Atina. Professore di retorica presso lo Studio di Napoli, fu importante uomo di lettere dell'entourage di Federico II, dove si trovò a operare con certezza tra il 1237 e il 1246. Il suo testo poetico più importante è un carme (venti strofe di quattro endecasillabi alcaici ritmici, rimati AAAA) dal titolo Cesar auguste, princeps mirabilis (ma l'attribuzione non è certa). È una composizione in lode di Federico II e di invettiva contro la corruzione dei magistrati della sua corte. Terrisio è altresì autore di due brevi inserzioni poetiche all'interno di testi prosastici: si tratta dei sei esametri leonini inseriti nell'epistola consolatoria ai docenti dello Studio di Napoli, per la morte del maestro Arnaldo Catalano e dei quindici versi ritmici dell'epistola (fittizia) da parte di uno degli allievi di maestro Terrisio, ai suoi compagni di studio.
Riccardo di San Germano (m. 1244). Nato vicino a Montecassino nel 1175, Riccardo fu notaio e uomo di fiducia di Federico II a partire dal 1216. La sua opera principale sono i Chronica, una narrazione effettuata in puro stile annalistico, di cui esistono due redazioni; la versione Maior abbraccia gli anni 1189-1143. La presenza di Riccardo all'interno di una rassegna di poesia latina dell'ambito staufico si spiega col fatto che egli è autore, oltre che di alcune inserzioni in versi all'interno dell'opera storiografica, anche di un lungo carme nosologico a carattere autobiografico. I Chronica si aprono con il famoso planctus per la morte di re Guglielmo II di Sicilia, dal titolo Plange planctu (cinquantadue versi ritmici, per sette strofe, variamente strutturate con prevalenza di ottosillabi ed esasillabi spondaici ed eptasillabi giambici ritmici); Diro satis percussus vulnere è il titolo del planctus ritmico per la caduta di Damietta in mani musulmane nell'estate del 1221 (venticinque strofe di quattro decasillabi giambici); un carme in esametri leonini fa satira sulle tendenze guerresche di alcuni abati cassinesi; uno in quattro distici piange la morte di papa Innocenzo III; un distico elegiaco è dedicato alla distruzione di Celano e uno a quella di Vicenza da parte di Federico II; due esametri tripertiti sono sulla distruzione di Sora; una coppia di esametri leonini esalta la conquista di Cordova da parte di re Ferdinando III di Castiglia, e un'altra piange la morte di Tommaso di Capua, cardinale di S. Sabina. Queste parti versificate dei Chronica rappresentano un problema critico. Solo dei due planctus Riccardo rivendica esplicitamente la paternità; relativamente alle altre, il notaio cassinese è parco di notizie e in qualche caso vago ("quidam scripsit", ecc.). Con una lettera inviata ai monaci di Montecassino, contenuta nel codice Cassinese 342, Riccardo descrive la grave malattia da cui fu colpito il 31 luglio, probabilmente del 1242. La lettera contiene un carme (Quantum sit vilis hominis dignitas: quarantacinque strofe tetrastiche di endecasillabi giambici ritmici). Riccardo ringrazia il Signore per aver scampato il morbo pericoloso (una febbre spossante). È interessante l'approfondita descrizione sintomatologica e medico-clinica della malattia e delle cure che Riccardo effettua, nonché lo scavo nella psicologia del malato e di chi gli sta vicino.
Riccardo da Venosa. Giudice, dedica a Federico II un poemetto in millecentoquaranta distici, una delle cosiddette 'commedie elegiache', composta intorno al 1230: il De Paulino et Polla. Essa rappresenta, in chiave parodica, gli stessi temi di altre coeve commedie erotiche, e in particolare del Pamphilus, solo che nel suo testo gli amanti sono due vecchi, i Paolino e Polla del titolo, che si rivolgono a un causidicus, Fulcone, perché faccia da mediatore per la stipula del loro contratto matrimoniale. Il giudice venosino riesce in una certa originalità nell'uso della parodia e del farsesco, che conferiscono al testo le caratteristiche di un tipico divertissement intellettuale. Rilevante appare la padronanza delle fonti poetiche da parte dell'autore. Oltre a frequenti echi del 'venosino' Orazio, di Virgilio e della Bibbia, è ovviamente preponderante, come in tutta la commedia elegiaca, la presenza di Ovidio.
Jacopo da Benevento. Cancelliere, su incarico di papa Innocenzo IV, del tribunale di Benevento dal 1247, Jacopo è autore dei Carminamoralia, un'ampia e autonoma rielaborazione latina in settecentoventiquattro versi delle settantasette lasse in sirventese che componevano i Proverbi del rimatore duecentesco Schiavo da Bari. Dal momento che, con questi carmi, presenta indiscutibili coincidenze formali una 'commedia' in distici elegiaci intitolata Deuxorecerdonis, anche questa viene attribuita al giudice beneventano. Temi e strutture formali (forma metrica, alternanza di parti narrative e parti dialogate) del De uxore lo apparentano strettamente alla commedia elegiaca francese: un prete, brutto ma molto ricco, riesce a trascorrere un'intera notte tra le braccia della bellissima moglie di un povero calzolaio, approfittando sia dell'ingenuità che dell'amoralità di costui. Anche la memoria culturale (si evidenziano riscontri testuali con l'Alda di Vitale di Blois e col Pamphilus) va in questa direzione critica. Inoltre, è possibile evidenziare alcune notevoli coincidenze che legano, in un modo non facilmente spiegabile, questa commedia con i mimi di Eroda.
Gregorio di Montesacro (m. 1241/1248). È da considerare il più significativo poeta della letteratura mediolatina pugliese (forse il nome di battesimo è Pietro), abate della SS. Trinità di Montesacro sul Gargano. Suo capolavoro letterario è la Deificatiohominum (oltre tredicimila esametri), pervenutaci in due manoscritti ampiamente glossati. I primi sei libri svolgono il tema della creazione sulla falsariga della Genesi; l'ultimo, la domenica, riguarda la settima età del mondo, cioè la storia dell'uomo sino al Giudizio e quella della Chiesa, dalla sua fondazione a papa Gregorio IX. I due manoscritti che contengono la Deificatio attribuiscono a Gregorio anche un altro testo (quattordici tipi di versi ritmici, per un totale di oltre mille), dal titolo Cur Deus homo: l'argomento è quello della contraddizione in Dio tra misericordia e giustizia, e della sua soluzione attraverso l'incarnazione in Cristo. Il testo ha un inizio e una fine narrativi (creazione dell'uomo e incarnazione), ma la parte centrale è in forma drammatica di disputa tra Veritas, Iustitia, Misericordia e Pax (arbitra la Trinitas), senza però assumere la caratteristica dualità delle altercationes. Molto forte è la componente didascalica, che si ricollega al carattere generalmente scientifico e 'illuministico' della cultura del sec. XIII.
Orfino da Lodi (m. 1250/1252). Di fede ghibellina, giudice presso le amministrazioni comunali e imperiali nell'Italia centrosettentrionale, dove svolge la sua attività, tra l'altro, al seguito di Federico d'Antiochia, scrive un De regimine et sapientia potestatis, piccolo manuale di teoria politica e saggezza pratica, dedicato al figlio Marco: una dottrina condensata in versi semplici, quasi 'orecchiabili' (grazie all'uso della rima interna). Si tratta di un poema didascalico, della tipologia dello speculumprincipis, composto di differenti tipologie di versi (esametro dattilico leonino, distici elegiaci, dimetri giambici). La struttura contenutistica si presenta tutt'altro che coerente e omogenea. Vi si possono identificare tre sezioni: un elogio della casa imperiale sveva; un'esaltazione della Natura, e la storia dell'umanità da Adamo fino all'incarnazione di Cristo; la descrizione dei comportamenti e la saggezza politica di chi esercita il potere come podestà comunale.
Quilichino da Spoleto. Giudice a Recanati negli anni 1236-1238 è autore di un testo di natura epico-panegiristica, i PreconiaFrederici, che esalta le gesta del suo protettore, Federico II; la versificazione è ritmica, la qualità del dettato tutt'altro che raffinata. Altra opera del giudice spoletino è l'Historia de preliis Alexandri Magni, in distici elegiaci, che si iscrive nel fecondo filone mediolatino delle rielaborazioni del romanzo di Alessandro. Anche in questa opera è presente ‒ come è stato di recente dimostrato ‒ un'esaltazione di Federico II, che nel sec. XIII veniva visto come un successore di Alessandro (così accade ad esempio anche in Pietro da Eboli e nel francescano Pietro Presbitero).
Enrico di Avranches (m. 1262/1263). È uno degli ultimi clericivagantes di rilievo 'internazionale' del Medioevo. Prima di fermarsi in maniera definitiva alla corte inglese, lavora presso numerosi patrons, tra cui alti prelati tedeschi (a Colonia) e inglesi, papa Gregorio IX, re Luigi IX di Francia. La sua produzione poetica è vasta ed eterogenea (e la critica attributiva è ancora al lavoro); comprende una grande quantità di generi. In particolare, assai rilevante è il corpus di vitae sanctorum metriche, redatte per la maggior parte tra il 1222 (anno della stesura della Vita di Tommaso Becket) e il 1234 (anno di chiusura della Vita di Francesco d'Assisi, dedicata a Gregorio IX). Un'abbondante parte della sua versificazione ha poi notevoli agganci con la storia contemporanea (diventando così documento insostituibile per la storia dei Regni, delle istituzioni ecclesiastiche e del conflitto papato-Impero nella prima metà del sec. XIII): vengono citati personaggi, situazioni, istituzioni, luoghi, eventi, con i quali si trovò in contatto il magister normanno. Sono esempio di ciò i tre componimenti dedicati a Federico II, dei quali è certa l'attribuzione del secondo, molto probabile quella degli altri due: Ad imperatorem Frethericum cuius commendat prudenciam; Captat et probat dominum Frethericum fore sibi placabilem; Item ad Frethericum imperatorem quedam persuasio. In essi, Enrico si rivolge come il sommo dei poeti al sommo dei regnanti, e non esita a equiparare Federico a Roberto il Guiscardo, Cesare, Davide e Carlomagno; lo Svevo non ha rivali in terra neanche in dottrina e in sapienza. Molto importante è poi la sua produzione di poesia religiosa (soprattutto inni), e di un genere tutto medievale come le altercationes.
La scarsa rilevanza quantitativa e gli straordinari livelli stilistici raggiunti dalla prosa epistolografica e giuridica hanno fatto sì che la critica abbia in generale sottovalutato, se non snobbato, la poesia in latino alla corte di Federico II.
In realtà, il dato da considerare con attenzione è che i suoi produttori sono gli stessi che scrivono anche in prosa: a parte il caso dei prosimetri (Goffredo da Viterbo, Terrisio di Atina, Riccardo di San Germano, Pier della Vigna), i grandi stilisti della cancelleria sono uomini di legge, come Pier della Vigna, Riccardo da Venosa, Jacopo da Benevento, Orfino da Lodi, Quilichino da Spoleto.
Un problema importante di questa produzione è il suo preteso classicismo. Secondo Ettore Paratore, la poesia sveva, anch'essa essenzialmente ovidiana, è molto più classicheggiante della commedia elegiaca francese, perché la sua conoscenza e il riuso di Ovidio risalgono al di là delle commedie elegiache stesse, attingendo direttamente ai classici antichi (lo studioso definisce senza mezzi termini "giovenaliano" l'esametro di Pier della Vigna; Paratore, 1952, p. 296). Sembra ciononostante più attendibile il giudizio di Has-kins, secondo il quale i poeti svevi non intendono far rivivere i classici latini; e infatti non li citano più dei grandi poeti mediolatini, soprattutto contemporanei (Ugo Primate, Archipoeta, Alano di Lilla, Filippo il Cancelliere, Walter Map, ecc.). L'imitatio medievale, anche quella derivante dalla cosiddetta 'rinascita' del sec. XII, non si atteggia mai come quella successiva degli umanisti o dei preumanisti: essa contiene cioè sempre una certa dose di sperimentalismo, anche nei poeti che utilizzano il metro quantitativo (si pensi al tristico, due esametri e un pentametro, che è la strofa usuale di Goffredo da Viterbo, o allo stesso esametro leonino, cioè a rima interna, che rappresenta la quasi totalità della produzione esametrica sveva). Di rilievo è d'altra parte l'osmosi continua con i testi nelle lingue volgari. Inoltre, la tecnica della citazione di versi all'interno del tessuto della prosa è assai eterogenea e personale presso i vari scrittori: alcuni inseriscono versi di propria fattura, altri citazioni, in altri ancora (come nel caso di Riccardo di San Germano) questa distinzione è per noi impossibile.
Sicuro appare della poesia staufica il carattere laico e secolare. È praticamente assente la produzione religiosa (eccezion fatta per Enrico di Avranches), così come la lirica amorosa: come ben sottolineato da Peter Dronke (1986), nell'Italia staufica l'erotismo viene veicolato dalla poesia in volgare, oppure dalla solita epistolografia (è il caso del Cum plurima tempora di Pier della Vigna, e in questo senso vanno gli insegnamenti della RotaVeneris di Boncompagno da Signa). Vengono invece composte ben due 'commedie elegiache', dal sapore erotico e comunque profano (Riccardo da Venosa e Jacopo da Benevento); non manca la satira (contro i nemici politici: Riccardo di San Germano e Giovanni da Otranto; sociale: Terrisio di Atina; antiecclesiastica: Pier della Vigna ed Enrico di Avranches). Un genere-cardine nella poesia staufica è l'epica storica, ben condita di riflessione filosofico-politica (Pietro da Eboli, Quilichino); a tale produzione, per non poche caratteristiche ideologiche, sono da accostare il poema didascalico di Orfino da Lodi e le opere di Goffredo da Viterbo; versificazione didascalica ad argomento filosofico-teologico, e finalità parenetica e devozionale, è il lungo poema di Gregorio da Montesacro; e un trattato di medicina è il De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli; alla storia romanzata (e forse allora, meglio, epica? narrativa?) appartiene infine la Historia Alexandri Magni di Quilichino da Spoleto (nell'ambito della Magna Curia è da ricordare l'analoga opera di Guido delle Colonne).
Grande importanza non a caso hanno le scritture esposte (epigrafi); sono particolarmente numerose e famose, in ambiente svevo, quelle di lode o di scherno di città: non a caso la produzione poetica in latino attribuita allo stesso Federico II è di questo tenore (ma probabilmente essa è da ricondurre ‒ nella stesura immediata ‒ a collaboratori dell'imperatore, il quale potrebbe semmai aver supervisionato il testo, come deve essere successo per l'epigrafe sulla Porta di Capua: "Caesaris imperio regni custodia fio. / Intrant securi, qui querunt vivere puri, / Invidus excludi timeat, vel carcere trudi. / Quam miseros facio, quos variare scio", o per quella del palazzo imperiale a Napoli). Tra le tematiche più trattate si possono indicare la morte e il cordoglio funebre (Pier della Vigna, Terrisio di Atina, Riccardo di San Germano), associati ai temi della malattia e, più in generale, della medicina (Pietro da Eboli, Riccardo di San Germano e Riccardo da Venosa).
fonti e bibliografia
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