Pittore greco, di Taso (prima metà sec. 5º a. C.). Considerato il maggior pittore dell'antichità, nulla ci resta delle sue opere, descritte in gran parte da Pausania. P. dimorò ad Atene, ma le sue opere maggiori erano a Delfi, dove dipinse sulle pareti due grandiose composizioni, l'Iliuperside (presa di Troia) e la Nekyia (discesa agli inferi).
Figlio di Aglaofonte il Vecchio, da cui imparò l'arte con il fratello Aristofonte. La formazione artistica di P. è dunque da riferirsi a una scuola locale, che dovette fiorire nell'isola per la prosperità raggiunta già nelle generazioni precedenti. Nulla ci resta delle sue pitture, che sono però in gran parte minutamente descritte da Pausania; dalle testimonianze sappiamo che dimorò ad Atene, a partire forse dal 480, dove dipinse il Ratto delle Leucippidi nel tempio dei Dioscuri e forse un'amazzonomachia nel Thesèion; nel Pecile era una sua Iliuperside. Pausania ricorda nella pinacoteca dei Propilei sull'Acropoli quadri con Ulisse e Filottete e il ratto del Palladio, Oreste ed Egisto e il sacrificio di Polissena, Achille a Sciro e Nausicaa. P. lavorò anche fuori d'Atene; a Platea, nel santuario di Atena Areia, dipinse una mnesterophonìa, cioè l'uccisione dei Proci, e i Sette contro Tebe. A Tespie alcuni suoi quadri furono più tardi restaurati da Pausia. Ma le sue opere maggiori erano a Delfi, dove, nella Lesche degli Cnidi, egli dipinse sulle pareti due grandiose composizioni, l'Iliuperside e la Nèkyia, cioè la presa di Troia e la discesa agli Inferi, in cui quasi tutti i personaggi erano contraddistinti dal nome. Trattandosi di ampi quadri, non sovrappose come i maestri arcaici più scene a fregio, ma cercò di creare una certa prospettiva d'insieme legando le figure in un'unica scena, e disponendole nel campo su linee che indicavano convenzionalmente i vari piani del terreno e i dislivelli. Su queste linee diverse erano scaglionate le figure, alcune immaginate nascoste in parte dal terreno. Non doveva esservi peraltro una riduzione nelle proporzioni delle figure più in alto che dovevano immaginarsi più lontane, e lo sfondo doveva essere di colore neutro, tranne alcuni accenni paesistici. Le fonti ci dicono che P. avrebbe adoperato solo quattro colori; Plinio dice che per primo dipinse vesti femminili trasparenti, ornò le teste con bende multicolori, atteggiò le bocche dischiuse facendo intravedere i denti e mitigò la primitiva arcaica rigidezza dei volti. Per Aristotele raffigurò gli uomini più belli e pieni di ethos, anzi egli lo chiama addirittura etografo. Influssi della grande megalografia della scuola polignotea si avvertono nella ceramica dipinta della prima metà del sec. 5º e un vaso come il cratere attico (degli Argonauti) da Orvieto al Louvre, opera del Pittore dei Niobidi, può aiutare a comprendere qualche aspetto dello stile polignoteo. Gli archeologi, sulla scorta di Pausania e dei vasi greci dipinti contemporanei a P., hanno tentato delle ricostruzioni grafiche di queste grandi composizioni, che hanno naturalmente solo un valore schematico.