(gr. Φιλοκτήτης, lat. Philoctetes e Philocteta) Eroe greco, figlio di Peante e di Demonassa (o Metone), ottenne da Eracle, in premio di avergli eretto e acceso la pira sul monte Eta, l'arco e le frecce avvelenate (secondo un'altra versione fu Peante a ricevere il dono che poi trasmise al figlio). Con queste armi partì per Troia a capo di sette navi; ma, essendo stato morso dal serpente custode del tempio di Crise, dove i Greci si erano fermati a sacrificare, ebbe al piede una piaga incurabile, che, per il suo lezzo e lo stato di esasperazione che provocava nell'eroe, indusse i Greci ad abbandonarlo a Lemno, secondo il consiglio di Ulisse. Là giacque dolorante finché, in seguito al vaticinio di Eleno (o di Calcante), i Greci mandarono Diomede e Ulisse (o Diomede e Neottolemo) a riprenderlo. Apollo lo guarì, e Filottete decise le sorti della guerra uccidendo Paride. Tornato in patria, ne fu cacciato dai suoi; riparò in Italia e fondò Petilia in Calabria (e Crimisa), e in un tempio che dedicò ad Apollo appese l'arco. Morì combattendo presso Crotone in aiuto dei Rodî che volevano stanziarsi nell'Italia meridionale. La leggenda subì varie elaborazioni, da Omero al ciclo epico, ai tre tragici, a Epicarmo. In età alessandrina la trattò in un poema Euforione, e fra i Romani Accio.
Il Filottete è l'unica delle tragedie di Sofocle, rappresentate lui vivo, di cui conosciamo la data: il 409 a. C. È il dramma delle sofferenze dell'eroe che, abbandonato nell'isola deserta di Lemno, affetto dalla sconcia piaga, rifiuta a Ulisse e Neottolemo l'arco e le frecce donategli da Eracle (senza quelle armi, secondo l'oracolo, Troia non poteva esser presa), e non cede né all'inganno, né alla forza, né alla persuasione; l'odio implacabile dell'eroe è vinto solo dall'intervento di Eracle, deus ex machina, che gli comanda di andare a Troia.
Tragedie di ugual titolo avevano scritto Eschilo ed Euripide (nel 432): di esse restano frammenti; nuova nella tragedia di Sofocle è la figura di Neottolemo, generoso e leale.