Abstract
La voce compendia la disciplina processuale del possesso, attraverso l’inquadramento delle azioni tipiche ad essa dedicate e la ricognizione dei fondamentali passaggi procedurali, che si sorreggono sul presupposto della struttura bifasica del processo possessorio.
La disciplina delle azioni possessorie è contenuta nel codice civile (artt. 1168-1170) e nel codice di procedura civile (artt. 703-705). Si tratta di azioni tipiche destinate alla protezione non già di un diritto soggettivo, ma di uno stato di fatto, giuridicamente riconosciuto e tutelato, che consiste – secondo le parole dell’art. 1140 c.c. – in un «potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale».
Il potere sulla cosa, pertanto, è corrispondente, nei contenuti e nelle forme, a quello esercitabile dal titolare di un diritto di proprietà o di altro diritto reale (con esclusione di alcuni di essi, quali, per esempio, i diritti reali di garanzia): si tratta del cd. ius possessionis. È ben possibile che il possesso sussista in capo a taluno disgiunto dalla titolarità dei menzionati diritti, per cui l’ordinamento assicura la sua autonoma protezione, ancorché solo per via giurisdizionale, ma non in forme negoziali, eventualmente alternative. Per questa ragione si afferma che il possesso non è realmente configurato, nel sistema, come situazione giuridica sostanziale protetta, ma direttamente come azione (la tematica della «ammissibilità della protezione giurisdizionale», non direttamente di un diritto, ma di un «interesse privato, che costituisce l’identico contenuto della titolarità del corrispondente diritto soggettivo reale», è ampiamente sviluppata da Levoni, A.-Consolo, C., Possesso: III - Azioni a tutela del possesso: in generale - dir. proc. civ., in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, § 1.1).
La ratio del riconoscimento giuridico apprestato alla relazione tra un soggetto e un bene, che configuri possesso, risiede, da un lato, nella garanzia del pacifico, ma titolato, godimento dei beni, dall’altro, nella garanzia della cd. “pace tra i consociati”, al fine di evitare che, proprio per il godimento di beni, si instaurino relazioni violente tra i vari soggetti.
Il possesso di un bene non comporta necessariamente la sua materiale disponibilità: esempio tipico è quello del rapporto di locazione, che lascia il possesso dell’immobile in capo al proprietario locatore, mentre il conduttore, che ne ha la materiale disponibilità, è solo detentore di esso. La detenzione comporta l’esercizio di poteri di fatto sulla cosa, corrispondenti a posizioni scaturenti da un rapporto contrattuale e non alla titolarità di un diritto reale.
L’azione di reintegrazione è disciplinata dagli artt. 1168 e 1169 c.c. Oggetto precipuo dell’azione de qua è rappresentato dalla reintegrazione nel possesso, domandata in confronto di chi abbia «violentemente od occultamente spogliato del possesso» colui che ne aveva, legittimamente o illegittimamente, la titolarità.
Alla chiarezza funzionale del dettato normativo di cui all’art. 1168 c.c., non corrisponde altrettanta chiarezza nella definizione dello spoglio. Se, in generale, esso si può intendere come privazione del possesso, non si può altrimenti non tener conto di differenti ipotesi nelle quali la privazione non avvenga tramite la sottrazione materiale del bene, al possessore, ma, per esempio, attraverso la frapposizione di ostacoli all’utilizzo dello stesso (chiusura di una porta o di un cancello dopo aver cambiato la serratura: per una ricostruzione di dette problematiche, cfr. Cabella Pisu, L., Azioni possessorie, in Dig. civ., II, Torino, 1988, 56 ss.).
La domanda proposta ex art. 1168 c.c. tende, letteralmente, alla «reintegrazione» del possessore; alla restituzione, pertanto, del bene che gli fosse stato illecitamente sottratto, oppure al compimento di attività di segno contrario a quella che aveva realizzato lo spoglio (per esempio, la riapertura del cancello o della porta arbitrariamente chiusi).
All’ult. co. dell’art. 1170 c.c., infine, si parla di «rimessione nel possesso», con riferimento al possessore che sia stato spogliato in modo né violento né clandestino e purché «ricorrano le condizioni indicate dal comma precedente»: possesso acquistato pacificamente e con il consenso di chi lo ha ceduto. Si tratta di un’ipotesi particolare nella quale manca l’illegittimità del comportamento dello spoliatore, il quale, probabilmente, sta solo esercitando un suo diritto (si tratta, per esempio, del proprietario del bene).
L’azione di manutenzione è disciplinata dall’art. 1170 c.c., nel quale si evidenzia immediatamente una differenza, all’interno del regime della legittimazione attiva, rispetto a quella descritta nel precedente art. 1169 c.c.: colui che può agire in manutenzione è solo il possessore di un bene immobile, o di un diritto reale su bene immobile, o di una universalità di mobili; l’azione di reintegrazione, invece, non incontra i descritti limiti.
All’origine della tutela in esame c’è il compimento, da parte di taluno, di turbative o molestie in confronto del possessore, tendenti a privarlo od a limitarlo nel pieno godimento del bene posseduto. Anche qui siamo di fronte ad attività ovviamente non tipizzate, talvolta destinate a confondersi con quelle di spoglio, tuttavia, a mio avviso, distinguibili da esso soprattutto avendo riguardo allo scopo dell’azione così esercitata: essa tende alla cessazione di quegli atti e ad impedirne la reiterazione o la prosecuzione. In conseguenza, mentre con l’azione di spoglio si vuole, in positivo, il ripristino della situazione quo ante di possesso, con quella di manutenzione si vuole ottenere l’inibitoria di certi comportamenti pregiudizievoli per il possessore.
Quei comportamenti sono descritti in modo generico dal legislatore, come molestie; è evidente che si potranno specificare, caso per caso, oltre che attraverso la prova dell’incidenza sulla situazione di possesso, anche attraverso l’individuazione del risultato processuale più utile (Levoni, A.-Consolo, C., Possesso, cit., § 3.4, parlano di fondamento sanzionatorio della tutela, sia di manutenzione che di spoglio).
Tuttavia, la stessa azione può essere esercitata anche se il possesso sia stato acquistato vi ac clam, purché però sia decorso almeno un anno dalla cessazione della violenza o della clandestinità.
L’azione di reintegrazione si esercita entro un anno “dal sofferto spoglio”: un anno, quindi, dal verificarsi dell’attività concretante privazione dell’altrui possesso; se essa fosse continuativa, di durata, oppure se essa fosse soggetta a naturale reiterazione, l’anno deve considerarsi decorrente dal primo episodio o dall’inizio della sequela (così secondo l’art. 1168, co. 1, c.c.).
Ma se lo spoglio è stato clandestino, quindi non apparente, tale che lo stesso possessore colpito potrebbe non averne avuto percezione sin dal primo momento in cui è stato posto in essere, il termine annuale decorrerebbe dalla sua scoperta (art. 1168, co. 3, c.c.).
Anche il termine dato per ottenere la manutenzione dalle molestie è di un anno, decorrente, ex art. 1170, co. 1, c.c. dal verificarsi della turbativa. Il che significa che se la turbativa consiste in un’attività continuata o reiterata, il termine annuale decorre, ancora una volta, dal primo episodio o dall’inizio della sequela.
Si tratta, in entrambi i casi, di un termine imposto a pena di decadenza, il cui decorso, quindi, rende le azioni possessorie inammissibili; non soggetto a sospensione, né interruzione. È un termine significativamente breve, che si correla con un interesse ad agire generato direttamente dal verificarsi del fatto di spoglio o di molestia; in conseguenza, o il possessore colpito lo fa valere in tempi brevi, oppure il suo atteggiamento passivo potrebbe anche corrispondere ad una rinuncia all’esercizio del potere in cui consiste il possesso del bene.
L’eventuale eccezione di decadenza si ritiene debba essere sollevata in giudizio dal convenuto (Cass., 6.6.2012, n. 9123; in senso conf., Levoni, A.-Consolo, C., Possesso, cit., § 2.8), con spostamento dell’onere della prova del rispetto del termine annuale, sull’attore.
La primaria figura di legittimato attivo alle azioni in esame è, naturalmente, il possessore spogliato, nel caso della reintegrazione, molestato, nel caso della manutenzione.
Ai sensi dell’art. 1146 c.c., il possesso si trasmette all’erede o al legatario, destinatario del bene che ne è oggetto; il che convalida la legittimazione attiva dello stesso, per esempio allorché la morte del possessore originario avvenga nel corso dell’anno dal verificarsi dell’episodio denunciato.
L’azione di reintegrazione, però, è esercitabile anche dal detentore, come precisa il cpv. dell’art. 1168, «tranne il caso che l’abbia per ragioni di servizio o di ospitalità». In tal caso il soggetto che ha la materiale disponibilità del bene, non ne ha anche il possesso, che, verosimilmente resta in capo al proprietario.
È solo limitatamente rilevante, ai nostri fini, la distinzione tra detentore qualificato e detentore non qualificato: il primo può senz’altro esercitare azione di reintegrazione, pur affiancato dal possessore o dal nudo proprietario che, secondo dottrina e giurisprudenza, possono sempre agire al suo posto (Sacco, R., Il possesso. La denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, III, Milano, 1960, 96; Fradeani, F., Le azioni possessorie, in I procedimenti possessori, a cura di A. Carratta, Bologna, 2015, 71); mentre il secondo avrà azione di spoglio solo contro terzi e non contro il proprietario del bene detenuto. Di recente la giurisprudenza ha individuato una figura di detentore qualificato nel convivente more uxorio rispetto alla casa di comune abitazione con il partner, con conseguente legittimazione all’azione di spoglio anche contro terzi (Cass., 15.9.2014, n. 19423).
La legittimazione attiva alle azioni possessorie spetta anche al compossessore, specie nei casi in cui altro compossessore abbia illegittimamente sottratto la cosa comune o la comune utlitas agli altri; in tal caso al convenuto spetta l’eccezione feci sed iure feci, che impone l’esame del titolo sul quale egli fonda il suo potere sulla cosa, in modo che possa dimostrare di aver agito nei limiti di esso, in quanto compossessore (situazione frequente è quella di attività, posta in essere per utilità esclusiva, dal condomino, compossessore, insieme ad altri condomini, di una parte dell’edificio; cfr. Fradeani, F., Le azioni possessorie, cit., 81 s.).
Legittimato passivo nell’azione di spoglio è certamente l’autore di quest’ultimo, sia che si tratti di autore materiale, che di autore morale, secondo la giurisprudenza e la dottrina. Esso deve aver agito con quel particolare grado di consapevolezza, rappresentato dall’animus spoliandi, del quale è lo stesso ricorrente a dover fornire la prova.
In particolare, allorché siano compresenti le due menzionate figure, essi possono essere entrambi chiamati in giudizio, ma, si ritiene, non in veste di litisconsorti necessari. In linea generale, l’azione di spoglio è un’azione risarcitoria-reintegrativa, di talché la responsabilità di ciascuno, nel compimento del fatto illecito spoglio, è individuale: la giurisprudenza è chiara in tal senso (di recente v. Cass., 5.4.2011, n. 7748), ma precisa pure che si può realizzare una forma di litisconsorzio necessario – direi di tipo processuale – allorché la reintegrazione (o la manutenzione) «comportino la necessità del ripristino dello stato dei luoghi mediante la demolizione di un’opera di proprietà o nel possesso di più persone» (così Cass., 18.2.2010, n. 3933, ma anche, da ult., Cass., S.U., 23.1.2015, n. 1238). In quest’ultima ipotesi, tuttavia, ritengo comunque preferibile la configurazione di una solidarietà passiva tra gli obbligati alla reintegra, tale che sia sufficiente chiamarne in giudizio anche uno solo, il quale si rivarrà sull’altro per la condivisione degli oneri di esecuzione del provvedimento giurisdizionale.
È peculiare la posizione della p.a.: essa non può considerarsi soggetto passivo dell’azione di spoglio o di manutenzione, ove abbia agito in veste autoritativa.
Come già osservato, le tutele possessorie sono tipizzate, rispondono, quindi, ad una precisa intenzione del legislatore in favore della protezione di quello stato materiale, pur senza sconfinamenti verso il diritto soggettivo corrispondente, il quale, ai sensi dell’art. 1140 c.c., è la proprietà o altro diritto reale.
Nell’azione di reintegrazione il petitum mediato è configurabile come restituzione al possessore (o al detentore) del bene oggetto di godimento, che gli fosse stato materialmente sottratto, oppure nella rimozione di quegli ostacoli, frapposti dal convenuto, impedienti il pieno esercizio del potere di fatto sulla cosa. La reintegrazione nel possesso consiste, pertanto, nel ripristino dello status quo antecedente allo spossessamento.
Quanto al petitum immediato, il provvedimento conclusivo del primo grado di giudizio, avente forma di ordinanza (sul punto v. infra, 4.6), ha certamente contenuto condannatorio; in particolare, si tratta di un ordine del giudice, che condanna ad un facere (esecutivo secondo le regole che si vedranno infra, § 4.8).
Quanto, invece, al giudizio di manutenzione, il petitum mediato non presenta una configurazione unitaria, potendo, le turbative o le molestie, assumere configurazioni differenti caso per caso; non è possibile, pertanto, fornire una definizione unitaria di manutenzione; essa consisterà innanzitutto nella cessazione dell’attività molesta, specialmente nel caso in cui la stessa si protragga nel tempo, o venga reiterata; nel caso, invece, in cui la turbativa sia semplicemente idonea a produrre effetti di durata, sarà necessario il ripristino dello status quo ante, verosimilmente attraverso la realizzazione di un’attività di segno contrario a quella molesta, che consenta al possessore di tornare a godere pienamente del bene posseduto, dopo l’eliminazione degli impedimenti da altri posti in essere.
Si tratta, pertanto, qui, non di restituire, in senso lato, il bene al possessore, reintegrandolo nell’esercizio del potere, di cui è stato privato, ma di restituirgli la pienezza di godimento del bene posseduto che, a causa delle molestie, era stata limitata o impedita. Il ricorrente, pertanto, domanderà al giudice l’inibitoria delle attività moleste, ove persistano al momento della domanda; altrimenti il solo eventuale ripristino dello status quo ante, ove l’attività molesta abbia prodotto una mutazione materiale che impedisca il ritorno alla piena disponibilità del bene.
Il giudice pronuncerà, qui, un’ordinanza inibitoria, contenente, quindi, un ordine di non facere o di cessazione dell’illecito facere già posto in essere e, solo eventualmente, contenente anche un ordine positivo di ripristino.
Considerazione a sé merita la pronuncia risarcitoria che si affianchi a quella reintegratoria, allorché lo spoglio, oltre che essere di per sé illecito, e quindi censurabile, abbia prodotto, per il possessore, un danno risarcibile. Sull’an del problema mi pare non sussistano dubbi: l’attività di spoglio può risultare pregiudizievole per il possessore, nel senso che può essere produttiva di ulteriore (rispetto allo spoglio stesso) danno, derivante dal mancato godimento del bene, che dovrà essere risarcito; sul quomodo, si può ancora discutere: si tratta di un problema squisitamente processuale, che ha riguardo innanzitutto al tempo e al modo di proposizione della domanda risarcitoria.
Essa si presenta sicuramente come domanda autonoma rispetto a quella stricto sensu possessoria; il risarcimento del danno prodotto dallo spoglio, non appartiene, quindi, ratione materiae, all’ambito della tutela possessoria, ma richiama la regola generale dell’art. 2043 c.c. In conseguenza non sussistono dubbi sul fatto che essa possa essere proposta autonomamente, in separato giudizio di ordinaria cognizione. Il dubbio sorge sul se la sede ordinaria de qua possa essere rappresentata anche dal giudizio di merito verso cui prosegue la tutela possessoria (condividono l’autonomia della tutela risarcitoria rispetto a quella possessoria, Sacco, R., Il possesso, cit., 299 ss.; Giusti, A., Le azioni possessorie e di nunciazione, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1990, 178 ss.; Montesano, L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 304).
Se la domanda risarcitoria è stata già proposta con il ricorso originario, in cumulo, cioè, con quella possessoria, può essere certamente decisa nella successiva fase di merito; il problema sorge allorché venga proposta per la prima volta in quella fase, perché potrebbe rappresentare nuova domanda, ex se inammissibile. Mi sembra che la risposta debba essere negativa.
La dottrina e la giurisprudenza (per esempio, Cass., S.U., 20.11.1994, n. 9871) che si sono occupate dell’argomento, ritengono, generalmente, che la domanda risarcitoria, al di là della sua natura, proposta congiuntamente con quella possessoria si configuri come domanda accessoria ai sensi dell’art. 31 c.p.c. Non ritengo di condividere questa pur diffusa soluzione, preferendo quella per la quale il rapporto tra le due domande sia di pregiudizialità ex art. 34 c.p.c.: l’accoglimento della domanda di spoglio (o di manutenzione) è pregiudiziale alla valutazione ed eventuale accoglimento di quella risarcitoria; si tratta di una mera pregiudizialità in senso logico, che non esige, quindi, una previa pronuncia con efficacia di giudicato, ma che comunque convalida l’estraneità oggettiva della seconda domanda alla prima (in tal senso, Masi, A., La proprietà e il possesso, in Tratt. dir. civ. Lipari-Rescigno, II, 2, Milano, 1960, 154 ss.; Menchini, S., Nuove forme di tutela e nuovi modi di risoluzione delle controversie: verso il superamento della necessità dell’accertamento con efficacia di giudicato, in Riv. dir. proc., 2006, 884; anche recente giurisprudenza conferma la natura possessoria dell’azione di risarcimento danni, i quali consistano nella sola lesione del possesso – con conseguente applicazione delle regole proprie di quello – mentre la nega, riconducendola all’applicazione dell’art. 2043 c.c., «quando si lamenti anche la lesione di altri diritti patrimoniali del possessore»: così Trib. Lecco, sez. I, 11.5.2010, in Resp. civ. prev., 2011, I, 177, che richiama Cass., 5.12.2006, n. 25899 e Cass., 28.2.1989, n. 1093; ancor più di recente, Cass., 2.4.2014, n. 7741 specifica che il danno risarcibile non è quello derivante dalla sola privazione del possesso, ma occorre considerare anche i costi sopportati per ripristinare il bene che, per effetto delle attività compiute dallo spoliatore, sia inidoneo al godimento del possesso).
Quanto sin qui osservato, ha riguardo al caso in cui la sentenza di merito (eventualmente) successiva all’interdetto possessorio, confermi l’accoglimento della domanda, già avvenuto in quella sede; nel caso, invece, in cui quella assuma direzione contraria rispetto all’interdetto già concesso, negando, quindi, l’avvenuto spoglio, trova luogo l’art. 703, ult. co., ult. pt., c.p.c.: «si applica l’art. 669 novies, terzo comma».
Del procedimento possessorio si occupano gli artt. 703-705 c.p.c., oggi nella versione riformata dal con d.l. 14.3.2005, n. 35, convertito dalla l. 14.5.2005, n. 80.
Giudice competente per materia è il tribunale in formazione monocratica. Quanto alla competenza per territorio, essa spetta, ai sensi dell’art. 21, cpv., c.p.c. al giudice «del luogo nel quale è avvenuto il fatto denunciato»: si tratta, peraltro, di competenza funzionale inderogabile, per espresso richiamo contenuto nell’art. 28 c.p.c., che esclude, in questi casi, la possibilità di deroga pattizia a quella regola.
La forma dell’atto introduttivo, per entrambe le azioni, è rappresentata dal ricorso, per indicazione espressa dell’art. 703, co. 1, c.p.c. al quale segue una più generale prescrizione, secondo cui il giudice adito in possessoria «procede ai sensi degli artt. 669 bis ss., in quanto compatibili» (co. 2).
I procedimenti possessori, in realtà, non appartengono, stricto sensu, alla categoria dei cautelari, per almeno due ragioni: la prima è che la tutela cautelare è data in favore di diritti soggettivi, mentre il possesso è uno stato di fatto, pur se degno di tutela giurisdizionale a sé stante; la seconda è rappresentata dal fatto che la tutela cautelare non è funzionale alla determinazione di un assetto sostanziale del diritto controverso, ma solo a neutralizzare un pregiudizio – in alcuni casi persino tipizzato – che lo stesso subirebbe se il suo titolare agisse nelle forme della cognizione ordinaria; la tutela possessoria, invece, tende, in certo qual modo, a determinare un assetto della situazione tutelanda, attraverso la realizzazione concreta dello scopo tassativamente individuato – la reintegrazione o la manutenzione e quindi l’assicurazione, al possessore, della disponibilità e/o del pieno godimento del bene – a prescindere da qualsivoglia rapporto con il giudizio di merito. I provvedimenti cautelari, infine, si caratterizzano per essere strumentali al giudizio di merito, pur con tutte le limitazioni imposte al suddetto criterio dalla legge di riforma del 2005; quelli possessori, invece, pur potendo essere seguiti da un giudizio di merito, si rapportano con esso sulla base di principi differenti (di cui si dirà infra, § 4.5).
Alla tutela possessoria, pertanto, pur non cautelare in senso stretto, il legislatore riconosce intrinseche ragioni di urgenza, tipizzandola non nelle forme ordinarie, ma in forme sommarie, corrispondenti a quelle degli artt. 669 bis ss. c.p.c., sia pure in quanto compatibili; la suddetta limitazione, da un lato, si incentra sulla riferita assenza di strumentalità in capo al provvedimento possessorio, con le conseguenze processuali del caso, per esempio in tema di inefficacia dello stesso; dall’altro, essa non può che avere portata residuale, dovendosi applicare le regole del rito cautelare uniforme ogni volta che gli artt. 703 ss. c.p.c.. non impongano forme ad hoc (per una sintesi di queste tematiche, v. De Santis, A.D., La fase sommaria, in I procedimenti possessori, a cura di A. Carratta, cit., 122 ss.).
Tra le norme sicuramente applicabili alla tutela del possesso, c’è l’art. 669 sexies, co. 1, c.p.c. che disciplina le forme del procedimento (cautelare), riconoscendo al giudice il potere di procedere «nel modo che ritiene più opportuno», ponendo in essere «atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto», i quali, nella fattispecie, non sono stricto sensu cautelari, ma, in certo qual senso, restitutori, al possessore, della disponibilità e/o del godimento del bene. L’istruttoria, pertanto, è cautelare nelle forme, ma non nella funzione.
Detta compatibilità sussiste, inoltre, con riferimento all’art. 669 sexies, co. 2, c.p.c. con la possibilità, quindi, di pronuncia giudiziale di un interdetto possessorio in forma di decreto, ove ricorrano i presupposti ivi indicati; ma sussiste anche con l’art. 669 septies, co. 1, c.p.c. che disciplina la riproponibilità della domanda a seguito di dichiarazione di incompetenza, o di rigetto della stessa, entrambe in forma di ordinanza.
Come si ritiene dalla maggioranza degli interpreti, il procedimento possessorio presenta struttura bifasica (cfr. Basilico, G., Efficacia dell’interdetto possessorio, in I procedimenti possessori, a cura di A. Carratta, cit., 210), all’interno della quale la conclusione del primo tratto avviene per mezzo di ordinanza, contenente il cd. interdetto (per un’attenta ricostruzione delle opinioni dottrinarie e giurisprudenziali sulla struttura del procedimento possessorio, v. Levoni, A.-Consolo, C., Possesso, cit., §§ 6.2 e 6.3).
La seconda fase, introdotta da «richiesta» di una delle parti e destinata alla «prosecuzione» del processo, si collega alla precedente in base al disposto dell’art. 703, ult. co., c.p.c.: il che conferma l’assenza di rapporto di strumentalità tra le due, che altrimenti avrebbe trovato sanzione nell’art. 669 sexies, co. 6, c.p.c. e che fonda la minoritaria opinione secondo la quale il processo possessorio sarebbe di tipo monofasico (v. Levoni, A.-Consolo, C., Possesso, cit., §§ 6.2 e 6.3 ove il processo possessorio viene definito come monofasico e a struttura non sommaria).
Il procedimento possessorio, pertanto, consta di una prima fase sommaria, disciplinata, nei limiti di compatibilità sopra visti, dalle regole del rito cautelare uniforme, cui fa chiaro rinvio l’art. 703, cpv., c.p.c. e di una successiva fase ordinaria, solo eventuale, rimessa, cioè, all’iniziativa di una delle parti; con la conseguenza che, ove questa non venga posta in essere, non ne deriva l’inefficacia del provvedimento interdittale, tranne che nel solo caso disciplinato dall’art. 669 novies, co. 3, c.p.c. – cui fa espresso riferimento l’art. 703, ult. co., c.p.c. – riguardante la mancata prestazione della cauzione.
Recente giurisprudenza conferma la provvisorietà dell’esito della prima fase possessoria, negando la proponibilità del regolamento di giurisdizione, nel caso di mancata prosecuzione nel merito, poiché quello presuppone, necessariamente, la pendenza di un processo (così Cass., S.U., 20.7.2015, n. 15155).
L’ordinanza interdittale di spoglio ha la funzione di reintegrare il legittimato attivo alla tutela nel possesso del bene, del quale sia stato privato; essa consiste, pertanto, in un semplice ordine di facere – in tal caso si parla di ordinanza “secca” – oppure di un ordine complesso, implicante la verifica giudiziale delle modalità attraverso le quali lo spoglio è avvenuto – anche al fine di accertare che si sia trattato effettivamente di spoglio e non, per esempio, di molestia – eventualmente comprensivo dell’inibitoria all’attuazione di un certo comportamento, idoneo a realizzare lo spoglio.
Essa è dotata di efficacia esecutiva, consistendo in un provvedimento di natura sicuramente condannatoria; si tratta, in particolare, di efficacia esecutiva – attuativa, regolata dall’art. 669 duodecies, cpv., c.p.c.: scelta preferibile a quella del rinvio diretto alle norme sull’esecuzione forzata degli obblighi di fare (artt. 612 ss. c.p.c.) (v., per una sintesi del problema, Poli, G.G., L’attuazione dei provvedimenti possessori, in I procedimenti possessori, a cura di A. Carratta, cit., 243 ss.).
Si è già accennato (v. supra, § 4.5) alla possibilità che alla prima fase processuale, sommaria, segua una seconda fase nelle forme della cognizione ordinaria; l’interdetto possessorio, pertanto, o viene seguito dal giudizio di merito, oppure diventa definitivo.
Nel primo caso, come già accennato, il passaggio avviene attraverso una «richiesta» di parte, proponibile – verosimilmente a mezzo di deposito in cancelleria – entro sessanta giorni «dalla comunicazione» dell’ordinanza interdittale, oppure di quella emessa in sede di reclamo, eventualmente proposto contro di essa.
A conferma dell’assenza di strumentalità nella relazione tra le due fasi processuali descritte, sta la disposizione dell’art. 703, co. 4, c.p.c. in base alla quale il giudice fissa udienza per la «prosecuzione del giudizio di merito»: si tratta di quella di cui all’art. 183, nel corso della quale si potrà realizzare anche un ampliamento del thema decidendum, sempre partendo, però, dal contenuto del ricorso introduttivo, fondamentale al punto che molta parte della dottrina si esprime in termini di «bivalenza del ricorso introduttivo», intendendo che quello apre le porte anche al giudizio ordinario (così Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, VI ed., Napoli, 2014, 660 ss.).
A conclusione della fase di merito invocata da una delle parti, il giudice pronuncia sentenza idonea al giudicato, il quale coprirà non solo la situazione ab origine protetta (il possesso), ma anche tutti i fatti concretanti l’avvenuto spoglio, riscontrati già in sede sommaria, nonché l’accertamento della illiceità degli stessi; tutto ciò nel caso in cui la sentenza di merito vada nella stessa direzione dell’interdetto, assorbendolo in sé. È questa, inoltre, la sede ideale per disquisire e decidere sull’eventuale risarcimento dei danni prodotti dallo spoglio. Se però la sentenza nega l’avvenuto spoglio, certamente l’interdetto perderà efficacia e, ai sensi dell’art. 703, ult. co., c.p.c. «si applica l’art. 669 novies, terzo comma», con conseguente estensione della regola, cautelare, sul pagamento della cauzione, ma anche di quella relativa al giudizio ripristinatorio.
La seconda possibilità, data dal legislatore, è quella per la quale l’interdetto di spoglio non sia seguito da giudizio di merito: esclusa la perdita di efficacia per le ragioni sin qui enunciate, si può senz’altro ritenere che esso sopravviva e continui a produrre i suoi effetti; esso è definitivo ma non passato in giudicato, né riconducibile alla discussa figura della preclusione pro iudicato, con conseguente possibilità di riproposizione della stessa domanda almeno in caso di nuovo episodio di spoglio; persiste, infine, nella sua efficacia esecutiva, fino alla completa realizzazione della prescrizione contenuta.
Detta sintesi ha riguardo all’eventualità che il provvedimento de quo non venga reclamato, superando indenne il termine di 15 giorni indicato dall’art. 669 terdecies, co. 1, c.p.c., cui l’art. 703, co. 3, c.p.c. fa riferimento. Se però l’interdetto è fatto oggetto di reclamo, la decisione collegiale emessa in quella sede prenderà senz’altro il posto di quella monocratica; tuttavia, se una delle parti optasse, a quel punto, per la prosecuzione nel merito, la richiesta dovrebbe essere rivolta comunque al giudice monocratico della prima fase, avendo il collegio esaurito i suoi poteri con la pronuncia che gli competeva.
L’efficacia dell’ordinanza interdittale emessa in sede di reclamo si conserva comunque, al pari di quanto accade per quella sommaria non reclamata; né si possono condividere quelle opinioni per le quali la descritta efficacia consista in una sopravvivenza all’estinzione del processo, che si determinerebbe proprio per mancata instaurazione della fase di merito. Come ho precisato meglio altrove (Basilico, G., Efficacia dell’interdetto possessorio, cit., 233 s.), essendo la seconda fase possessoria meramente eventuale, non si realizza un’estinzione.
L’azione di manutenzione di cui all’art. 1170 c.c. è data al possessore di un bene immobile nei confronti di chi lo turba o lo molesta nel pieno godimento del bene e del diritto reale che ne è oggetto. Si tratta di un’azione conservativa che prescinde dalla sottrazione del bene. È piuttosto evidente che l’essenza del comportamento ivi sanzionato è quella di un comportamento protratto o reiterato nel tempo. Se così non fosse, di fronte ad un unico episodio molesto, concluso anche con riguardo alla produzione di eventuali effetti pregiudizievoli, la tutela più opportuna sarebbe quella di mero accertamento, integrabile, se del caso, in via di indennizzo o di risarcimento.
L’azione de qua, invece, è tipicamente funzionale alla cessazione delle turbative (anche secondo la giurisprudenza: Cass., 18.3.1986, n. 1842; Cass., 16.3.1984, n. 1800), che debbono, quindi, essere reiterate nel tempo, o produttive di effetti di durata. In conseguenza l’interdetto di manutenzione consiste senz’altro in un’ordinanza inibitoria, in confronto di attività molesta che limiti o impedisca l’esercizio del possesso, ma non necessariamente dannosa o pericolosa.
Esso è dotato di efficacia esecutiva, per cui obbliga alla cessazione il soggetto passivo e lo assoggetta ad esecuzione coattiva nel caso di inottemperanza spontanea. Non incide sulla titolarità del diritto di proprietà sul bene, né sulla sussistenza della relazione di possesso tra il legittimato attivo ed il bene, né, infine, rende incontrovertibile il punto della legittimità del possesso da parte di quest’ultimo.
La descritta instabilità dell’interdetto di manutenzione, ancorché pronunciato dal collegio in sede di reclamo, consente, in linea generale, la riproposizione della domanda, sia pure con qualche precisazione: è certamente esclusa la possibilità che il provvedimento produca effetto di fronte ad un nuovo e diverso episodio di molestia; se invece si verifica una reiterazione degli episodi già censurati, per i quali la domanda sia stata rigettata, essa sarà riproponibile, ma nei limiti dell’art. 669 septies c.p.c., quindi al mutamento delle circostanze o per la ricorrenza di nuove ragioni di fatto o di diritto.
Infine, se la domanda è stata accolta, occorre porsi il quesito di un’eventuale funzione preventiva – ulteriore rispetto a quella sopra enunciata – che l’interdetto possa esercitare rispetto ad episodi di molestie ancora da verificarsi; se il giudice della manutenzione, quindi, possa inibire il comportamento denunciato anche per il futuro, con riguardo alla sua reiterazione. La risposta mi sembra debba essere positiva, almeno nel caso in cui i vari episodi molesti siano stati posti (e saranno posti) in essere in attuazione di un unico disegno o di un’unica attività: l’interdetto di contenuto inibitorio proietterà la sua efficacia nei confronti di essi, non già perché assistito dal giudicato, ma solo per sua stessa natura, trattandosi di una condanna ad un non facere, esattamente individuato ora e in futuro.
Come si è già accennato, tra le disposizioni del rito cautelare uniforme compatibili con la tutela del possesso c’è sicuramente l’art. 669 duodecies c.p.c., specialmente nella sua seconda parte, dedicata all’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di fare, nelle varie declinazioni di legge. Vi rientrano, in particolare, sia l’interdetto di spoglio/reintegra, naturaliter destinato alla restituzione (consegna o rilascio) del bene sul quale si è perpetrato lo spoglio, sia l’interdetto di manutenzione, funzionale all’inibitoria del comportamento molesto e quindi all’imposizione di un obbligo di non facere.
La scelta degli interpreti, nel senso appena evidenziato, è motivata da un’esigenza di semplificazione e di accelerazione della tutela esecutiva possessoria, al fine di realizzare “la finalità di immediato ripristino della situazione violata” (Arieta, G., Trattato di diritto processuale civile, X, Le tutele sommarie, Padova, 2010, 245; per una ricostruzione del percorso interpretativo segnalato, Poli, G.G., L’attuazione dei provvedimenti possessori, cit., 244 ss.), che impone di discostarsi dalle tradizionali forme del codice di rito, sub artt. 612 ss. c.p.c., in direzione di altre, deformalizzate.
Il richiamo all’art. 669 duodecies, seconda pt., c.p.c. non comporta, peraltro, la disattenzione alle regole generali degli artt. 612 ss. c.p.c., quanto allo svolgimento delle operazioni esecutive, tranne che per un profilo, di non secondaria importanza: in base a quelle regole, il governo delle attività è affidato al giudice dell’esecuzione, il quale determina concretamente le modalità attuative che si dovranno osservare. Secondo l’art. 669 duodecies c.p.c., invece, quel governo è affidato al giudice della cautela che, nella fattispecie qui presa in esame, diventa il giudice del possessorio, quello, cioè, della cognizione possessoria, che ha pronunciato l’interdetto destinato ad essere attuato coattivamente.
Non è unanime la dottrina nello stabilire se quel giudice debba essere la stessa persona fisica, che ha pronunciato l’interdetto, o possa trattarsi semplicemente dello stesso ufficio giudiziario. La prima soluzione è senz’altro preferibile (sostenuta, ex multis, da Arieta, G., Le cautele. Il processo cautelare, Padova, 2011, 1050; in senso favorevole alla seconda soluzione, Poli, G.G., L’attuazione dei provvedimenti possessori, cit., 249), essendo, la disciplina dell’art. 669 duodecies c.p.c., funzionale all’attuazione del provvedimento, piuttosto che all’esecuzione in senso proprio; ne deriva una sorta di continuità, senza vera soluzione, tra la fase cognitiva e quella esecutiva-attuativa, non preceduta, come è noto, dalla notifica del titolo e del precetto, di talché sarà lo stesso giudice della cognizione a stabilire, in quella sede e quindi con la pronuncia del provvedimento, quali siano le modalità dell’attuazione.
È piuttosto ovvio che, nel caso di reclamo contro l’interdetto, giudice dell’attuazione sarà il collegio investito del reclamo, tranne il caso, mi pare, in cui l’attuazione di quello venga iniziata pendente reclamo, ma in assenza della sospensione disposta ai sensi dell’art. 669 terdecies, ult. co., c.p.c.: secondo le chiare parole dell’art. 669 terdecies, penult. co., c.p.c. in base al quale l’ordinanza conclusiva del reclamo «conferma, modifica o revoca» il provvedimento reclamato, con evidenza del fatto che il potere cautelare del giudice (monocratico) invocato in prime cure, si sposta in capo al collegio, con conseguente assunzione di tutti i relativi poteri da parte di quello.
Quanto all’intrinseco delle modalità attuative, la disposizione di esse è funzionale a stabilirne il quomodo, senza impingere sull’an, che comunque dovrà risultare dal contenuto dell’interdetto. Occorre, infine, distinguere il caso dell’interdetto seguito da giudizio di merito, da quello dell’interdetto stabilizzato, dopo il quale le parti non abbiano fatto richiesta di prosecuzione nel merito. Nel secondo caso, nulla mi sembra che cambi rispetto a quanto sin qui sostenuto sull’attuazione dell’ordinanza possessoria non reclamata; nel primo caso, invece, preso atto dell’avvenuta posizione in essere della seconda fase del procedimento possessorio, che si conclude, fisiologicamente, con sentenza, il titolo esecutivo (non si può non considerarlo tale) viene ad essere rappresentato dalla sentenza di merito, che condanna ad un facere o ad un non facere, a seconda che l’azione possessoria esercitata sia stata di spoglio o di manutenzione: la disciplina normativa è, qui, pertanto, quella degli artt. 612 ss. c.p.c.
L’ultimo profilo da prendere in considerazione è quello della proposizione di questioni e della risoluzione di difficoltà e contestazioni, secondo le parole dell’art. 669 duodecies c.p.c. Le «questioni» di cui parla l’ult. pt. dell’articolo in esame, sono indubbiamente attinenti al merito della controversia, nella fattispecie, al merito possessorio; in conseguenza, nel caso di attuazione della seconda fase possessoria, quella ordinaria, non v’è dubbio che esse vadano sottoposte allo stesso giudice della fase sommaria, ma nelle vesti secondariamente assunte; così come in caso di reclamo contro l’interdetto, ci si debba rivolgere al collegio in quella sede, essendosi trasferito su di esso il merito della controversia; infine, se l’interdetto possessorio si stabilizza, perché non reclamato e non seguito dal giudizio ordinario, quelle questioni si debbono ritenere ormai precluse: esse non possono appartenere alla competenza del giudice – ancorché lo stesso, ma in sede attuativa – ed il suo potere cognitivo si è ormai consumato.
Se sorgono, invece, «difficoltà o contestazioni», riferibili, per esempio, alla regolarità formale della procedura attuativa nei suoi diversi passaggi, la risoluzione di esse è affidata al giudice dell’esecuzione-attuazione (evidentemente sono di tipo esecutivo e non cognitivo), per mezzo di ordinanza. Si tratta, verosimilmente, come ho già precisato altrove (Basilico, G., Considerazioni sull’attuazione delle misure cautelari a strumentalità attenuata, in Riv. esec. forzata, 2014, 246), del potere di ordinanza spettante al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 487, spec. co. 1, c.p.c., con conseguente revocabilità e modificabilità delle stesse «finché non abbiano avuto esecuzione».
Si può senz’altro condividere, a questo punto, quel compatto orientamento giurisprudenziale che esclude la possibilità di ricorso allo strumento dell’opposizione all’esecuzione, in ambito attuativo di provvedimenti possessori (così, per esempio, Cass., 15.3.1994, n. 2435); non escluderei, invece, del tutto la ricorribilità a quello dell’opposizione agli atti esecutivi, di tipo rigorosamente processuale. La dottrina appare meno compatta della giurisprudenza nell’esclusione dei rimedi de quibus (per un’attenta ricognizione di essa, v. Poli, G.G., L’attuazione dei provvedimenti possessori, cit., 268 ss.).
I rapporti tra tutela possessoria e tutela petitoria, le cui parti legittimate siano in comune, sono disciplinati dagli artt. 704 e 705 c.p.c.
L’art. 704 ha riguardo alle domande possessorie proposte in corso di giudizio petitorio, il che consente di escludere immediatamente, da quella normativa, le domande possessorie relative a fatti antecedenti all’esercizio dell’azione petitoria, ma anche la possibilità di realizzazione di un cumulo iniziale delle due azioni, contestualmente proposte.
L’art. 704, co. 1, c.p.c. in particolare, prevede che «ogni domanda relativa al possesso» – quindi, sia quella di spoglio che quella di manutenzione – «per fatti che avvengono durante la pendenza del giudizio petitorio» debba essere proposta dinanzi al giudice di quest’ultimo. È pressoché unanime la lettura per la quale detta norma contenga semplicemente una deroga alla competenza per territorio, che sposta la stessa dal giudice di cui al combinato disposto degli artt. 21 e 28 c.p.c., al giudice investito della domanda petitoria, il quale è sempre monocratico, ma governa la causa secondo le regole della cognizione ordinaria.
Il primo interrogativo ha riguardo alla possibilità di inserimento della domanda possessoria in un giudizio sulla proprietà, non instaurato nelle forme ordinarie: è difficile che si realizzi tale situazione, ma comunque non ci sarebbe motivo di escluderla, per esempio se la sede processuale fosse quella cautelare; altra possibilità non sembra proprio configurabile.
Il secondo interrogativo concerne, invece, il significato concreto dell’espressione «giudizio petitorio»: essa ha riguardo sicuramente ai giudizi accertativi del diritto di proprietà, ma può vertere anche sulla cognizione di altro diritto reale, fino ad estendersi, secondo la giurisprudenza, al giudizio di divisione (per una sintesi del tema, cfr. Cossignani, F., La tutela possessoria in pendenza di giudizio petitorio, in I procedimenti possessori, a cura di A. Carratta, cit., 440 ss.).
Più complessa è certamente la disposizione dell’art. 704, co. 2, c.p.c., dove si parla della sola azione di reintegrazione e, con un’articolazione lessicale non chiarissima, se ne consente la proposizione al giudice competente ex art. 703 c.p.c., «il quale dà i provvedimenti temporanei indispensabili». Qui il legislatore ha inteso confermare la natura latamente cautelare della tutela possessoria e specialmente di quella di cui all’art. 1168 c.c., per cui, ove il giudizio petitorio fosse stato attivato nelle forme ordinarie, il giudizio possessorio può essere proposto dinanzi al suo giudice, cui sarà affidata la prima fase di esso, sommaria, concludentesi con l’ordinanza interdittale di reintegra.
Si tratta di una chiara applicazione del principio spoliatus ante omnia restituendus: ottenuta la reintegrazione nel possesso, il giudizio, secondo la regola generale dell’art. 703 c.p.c., può essere proseguito per la seconda fase, di cognizione ordinaria, dinanzi al giudice del petitorio.
Detta previsione convalida, a mio avviso, l’impossibilità – sopra adombrata – di proposizione cumulativa e contestuale dei due giudizi, essendo, la relazione di connessione, configurabile solo tra il giudizio petitorio e la seconda fase di quello possessorio, la quale, peraltro, è eventuale. Si tratta, secondo la giurisprudenza (Cass., 21.7.2003, n. 11346), di connessione «impropria», nel senso che essa non è riconducibile né alla categoria dell’accessorietà, né della pregiudizialità, né della riconvenzione, ma è una connessione lato sensu oggettiva che giustifica la prevalenza del giudizio petitorio su quello possessorio, sul quale esercita una sorta di vis attactiva.
Meno convincente, pur se attentamente articolata, appare la tesi del possessorio come giudizio meramente incidentale nell’ambito del petitorio, sostenuta da una parte della dottrina (già Andrioli, V., Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, 228 ss.; di recente Carratta, A., in I procedimenti possessori, in I procedimenti sommari e speciali, a cura di S. Chiarloni e C. Consolo, Torino, 2015, 423). Essa si fonda sul riconoscimento, al solo petitorio, della dignità di processo, mentre quello possessorio consisterebbe, appunto in un mero incidente al suo interno, di talché la sentenza conclusiva è sentenza sul diritto reale dedotto, che assorbe in sé, confermandolo o revocandolo, l’interdetto possessorio, a seconda che il diritto, cui il possesso si appoggia, venga riconosciuto o venga negato.
Mi sembra che l’autonomia propria del giudizio possessorio, unitamente all’indiscusso riconoscimento della sua bifasicità, con conseguente accesso alla cognizione ordinaria e quindi al giudicato, debba far propendere per la prima delle soluzioni riportate.
La disciplina dell’art. 705 c.p.c. ha riguardo al divieto di cumulo tra domanda possessoria e domanda petitoria. Consta di due commi, il primo dei quali è stato oggetto di un importante intervento della Corte costituzionale (C. cost., 3.2.1992, n. 25), dal quale, evidentemente, non si può prescindere in sede di analisi della norma.
Quell’intervento è teso a limitare il divieto di cumulo ivi contenuto, ponendo un argine in favore dei casi in cui, dalla rigida applicazione di esso, il convenuto in possessorio potrebbe ricevere un irreparabile pregiudizio.
L’art. 705, co. 1, c.p.c. contiene il divieto di proposizione di giudizio petitorio da parte del convenuto in possessorio: il cumulo vietato, pertanto, è quello che si determinerebbe se il convenuto in possessorio, verosimilmente proprietario o titolare di altro diritto reale sul bene, proponesse domanda riconvenzionale di tutela del suo diritto. In conseguenza, non può considerarsi vietato il cumulo realizzato dall’attore, che proponga domanda possessoria e domanda petitoria, anche se, in tal caso, esso verrà comunque posposto al momento della (eventuale) fase ordinaria del giudizio possessorio, mentre, in fase iniziale, le due domande resteranno separate; sarà, tuttavia, consentita la proposizione di domanda possessoria per fatti successivi alla proposizione di quella petitoria, ex art. 704 c.p.c. Si tende, condivisibilmente, a ritenere non vietate, in sede possessoria, le semplici eccezioni petitorie, che potrebbero corroborare la decisione sull’esistenza del possesso in capo all’attore e sulla ricorrenza, per esempio dello spoglio, senza, con ciò, determinare un cumulo.
Il divieto di cumulo sin qui descritto si aggancia, ragionevolmente, all’autonomia strutturale e funzionale della tutela possessoria rispetto a quella petitoria; è stato interpretato per lungo tempo, fino agli anni Settanta del secolo scorso, come difetto temporaneo di giurisdizione (ex plurimis, Cass., 3.8.1977, n. 3433), per essere, successivamente, riletto come carenza di una condizione di proponibilità della domanda, cui consegue, naturaliter, l’improponibilità del regolamento di giurisdizione (Cass., 19.11.1985, n. 5679). La violazione del divieto in esame rende inammissibile la domanda ed è rilevabile anche d’ufficio dal giudice.
Il divieto de quo persiste, secondo l’art. 705, co. 1, c.p.c. fino alla conclusione («definizione») del giudizio possessorio e all’esecuzione del relativo provvedimento («decisione»). Se la soluzione sopra prospettata, secondo la quale deve intendersi per cumulo quello che si può realizzare solo tra il giudizio petitorio e la fase ordinaria del possessorio, è fondata, occorre qui concludere che il legislatore si riferisca al provvedimento che conclude definitivamente il processo possessorio, quello, cioè, avente forma di sentenza e conclusivo della seconda fase possessoria, quella ordinaria. Quanto all’esecuzione dello stesso, mi sembrerebbe eccessivo riferirla alla sola esecuzione coattiva, prescindendo da quella spontanea.
È in questo contesto che si inserisce la sentenza di C. cost. n. 25/1992: il divieto appena descritto non può operare in confronto del convenuto in possessorio che, nell’attesa dei tempi di legge, subisca un pregiudizio irreparabile; ciò comporta la parziale illegittimità dell’art. 705, co. 1, c.p.c. senza aperture, però, in confronto dell’integrale trasfusione dei due processi, che mantengono sempre le dovute differenze funzionali e strutturali. La dottrina è divisa tra coloro che ritengono di poter aprire ancor di più, dopo la sentenza della Corte costituzionale, all’eccezione petitoria (Proto Pisani, A., Diritto sostanziale e processo nelle ragioni di Corte cost. 3 febbraio 1992 n. 25 e nelle possibili ricadute sul processo possessorio dell’ applicazione degli artt. 669 bis s. c.p.c., in Foro it., 1993, I, 616 ss.) e coloro i quali ritengono che, in presenza del pregiudizio – del quale occorre fornire la prova – diventi de plano proponibile la domanda riconvenzionale petitoria (Cossignani, F., Il divieto di cumulo del petitorio col possessorio (art. 705 c.p.c.), in I procedimenti possessori, a cura di A. Carratta, cit., 499 ss.).
L’art. 705, co. 2, c.p.c. contiene un’ulteriore apertura in favore della proponibilità della riconvenzionale petitoria nel giudizio possessorio, immediatamente conseguente a quella concepita nel co. 1 con l’intervento della Corte costituzionale: la riconvenzionale petitoria può essere proposta allorquando l’esecuzione del provvedimento possessorio (come sopra decritto) non possa avvenire per fatto imputabile all’attore, nei casi, quindi, in cui è il comportamento dello stesso attore ad impedire, o rendere particolarmente difficoltosa, quella esecuzione. È un’ipotesi non facile a verificarsi, perché è interesse dello stesso attore in possessoria realizzare concretamente la tutela che aveva perseguito, attraverso l’esecuzione del provvedimento finale; se attua il comportamento descritto nel co. 2, vuol dire che ha attribuito prevalenza all’interesse a contrastare l’azione del convenuto, rispetto all’interesse alla realizzazione di quanto domandato ed ottenuto dal giudice.
Artt. 1168-1170 c.c.; artt. 703-705 c.p.c.
Cabella Pisu, L., Azioni possessorie, in Dig. civ., II, Torino, 1988, 55 ss.; Carratta, A., a cura di, I procedimenti possessori, Bologna, 2015; Giusti, A., Le azioni possessorie e di nunciazione, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 1990; Levoni, A.-Consolo, C., Possesso: III) Azioni a tutela del possesso: in generale - dir. proc. civ., in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990; Masi, A., La proprietà e il possesso, in Tratt. dir. civ. Lipari-Rescigno, II, 2, Milano, 2009; Sacco, R., Il possesso. Le denunce di nuova opera e di danno temuto, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, III, Milano, 1960; Villecco, A., Dei procedimenti possessori, in Comm. c.p.c. Comoglio - Consolo - Sassani - Vaccarella, IV, 2, Torino, 2014, 691 ss.