Protestantesimo. La Riforma
La Riforma protestante fu l’avvenimento più importante del 16° sec. e si fa risalire all’affissione delle celebri tesi di Lutero nel 1517. Molti elementi concorsero al suo sorgere: nei secoli precedenti varie tendenze si erano opposte al crescere dell’assolutismo papale, dal conciliarismo al gallicanesimo, a movimenti ereticali che, benché duramente repressi, continuavano a sopravvivere (in particolare il valdismo e l’hussitismo). L’Umanesimo aveva portato alla riscoperta delle lingue bibliche e a un nuovo fervore di studi sulla Bibbia, resa più accessibile dall’invenzione della stampa.
Martino Lutero fu la grande figura che unì questi elementi, proponendo una riforma basata sulla Bibbia, legata alle autorità civili e non a un potere ultramontano. Essa in prospettiva – tramite un concilio – avrebbe dovuto essere la riforma della Chiesa universale. Grazie anche alla sua sensibilità per i nuovi strumenti di comunicazione (la stampa di testi e di immagini, la musica del suo tempo) ottenne un grande successo tra la popolazione e i principi della Germania. Questi ultimi iniziarono a riformare la Chiesa nei loro Stati e, alla dieta imperiale di Spira del 1529, affermarono (protestamus) la loro contrarietà alla repressione violenta della Riforma. Da ciò nacque il termine «protestanti». Quasi contemporaneamente a Lutero, altre «riforme», simili ma con caratteristiche peculiari, nascevano nelle città libere del Reno (Strasburgo, Basilea) e della Svizzera (U. Zwingli a Zurigo e, una generazione dopo, G. Calvino a Ginevra). Nella seconda metà del Cinquecento, prima che la Controriforma facesse sentire completamente i suoi effetti, i luterani erano insediati in gran parte della Germania e nei Paesi nordici (regni di Danimarca e di Svezia). I calvinisti (sotto diversi nomi: riformati, presbiteriani, puritani; anche i valdesi italiani aderirono alla riforma svizzera e al calvinismo) si insediarono in gran parte d’Europa. Da alcuni Paesi (Italia, Spagna) furono totalmente sradicati dalla Controriforma, ma in altri costituirono minoranze significative. Ciò ha portato a un diverso rapporto con lo Stato: le Chiese luterane erano e sono quasi ovunque Chiese di Stato; quelle calviniste (salvo i presbiteriani di Scozia e qualche cantone svizzero) sono Chiese di minoranza, con un forte senso della libertà religiosa e politica e non rare tendenze rivoluzionarie. Sempre nel corso del 16° sec. nascono movimenti diversi: da una parte la Chiesa anglicana (che per tutta la sua storia oscillò tra notevoli similitudini con il protestantesimo e l’aspirazione a essere riconosciuta da Roma); dall’altra la «riforma radicale» degli anabattisti e degli antitrinitari che, pur duramente repressa, ha influenzato molti movimenti protestanti sino a oggi.
L’età della Riforma fu caratterizzata dal «confessionismo»: il documento teologico e normativo alla base di ogni Chiesa locale o nazionale era la confessione di fede. Essa forniva anche il nome alle diverse aggregazioni: così i luterani si autodefinivano (e si definiscono tuttora in alcuni Paesi) «Chiese della confessione di Augusta» (1530), le Chiese svizzere «Chiese della confessione elvetica» (anterior 1536, posterior 1566). Il riferimento al fondatore era utilizzato piuttosto dagli avversari e, se con il tempo i luterani hanno accettato questa definizione (per es. la Chiesa evangelica luterana in Italia), non esiste alcuna Chiesa al mondo che si autodefinisca «calvinista».
Ma il 16° sec. fu «confessionista» anche in un’altra accezione. Tutte le Chiese del 16° sec. ritenevano essenziale l’unità religiosa di una popolazione: a livello mondiale (il cattolicesimo), nell’ambito di uno Stato nazionale, di un principato, di una città (i protestanti). La «colpa» degli anabattisti era quella di rifiutare queste Chiese multitudiniste, affermando che la vera Chiesa era da rintracciare tra gruppi ristretti di credenti, battezzati da adulti; e il rifiuto del battesimo dei bambini era conseguente alla loro visione della salvezza, vista non come fatto collettivo, ma individuale. La Riforma stessa rimescolò i gruppi confessionali in Europa, rendendo sempre più difficile l’identificazione tra un popolo e una confessione religiosa. I primi rimedi furono provvisori, come il famoso interim di Augusta («cuius regio eius et religio», che per altro riguardava solo cattolici e luterani) o i simili accordi ricercati precariamente in Francia e anche in Piemonte. Ma in Paesi con pluralità di confessioni religiose, c’era sempre qualche componente perseguitata. Ad affermare la libertà religiosa furono soprattutto i dissenters inglesi del Seicento: battisti, quaccheri, congregazionalisti. Si opponevano ovviamente al papismo, ma anche alla repressione esercitata dalla Chiesa d’Inghilterra; provenivano per lo più dai presbiteriani, ma non accettavano l’integrismo confessionale di Cromwell. Le loro idee avrebbero trionfato in patria con l’Atto di tolleranza di Guglielmo di Orange (1689). Ma molti di questi dissenzienti erano già emigrati nel Nord America, dove fondarono colonie che praticavano la libertà religiosa. Le loro idee avrebbero influenzato profondamente la costituzione degli Stati Uniti.
L’atteggiamento dei riformatori nei confronti della precedente storia cristiana è tratteggiato da Calvino nella Christianae religionis institutio (1536): sono accettati i primi concili ecumenici, sino a quello di Calcedonia del 451 (sono i concili «della cristianità indivisa», accolti anche dagli ortodossi), poiché contengono «solo una pura ed evidente interpretazione della Scrittura». Gli altri concili, la patristica e tutta la storia della Chiesa vanno esaminati alla luce della Scrittura. Quindi, da una parte si prende atto del succedersi degli eventi, ma essi sono da raffrontare a un elemento considerato immutabile, la parola di Dio contenuta nella Bibbia. Ciò vale naturalmente per tutta la produzione teologica e normativa del papa di Roma (che la Riforma tende a rifiutare in blocco), ma anche per gli scritti stessi dei riformatori e dei loro successori.
Questo atteggiamento può portare al fondamentalismo, ed è certo all’origine del movimento così chiamato, diffuso in particolare in America negli ultimi due secoli. L’epoca della Riforma non fermò però gli studi sul testo biblico, come erano stati fondati dall’Umanesimo e in particolare dalla cultura erasmiana, da cui derivavano – direttamente o indirettamente – tutti i riformatori. Fu proprio questo studio a portare prima o poi a un’aporia nel rapporto tra storia e testo rivelato che aveva caratterizzato i primi decenni della Riforma. Furono in particolare nel 17° sec. i lavori dell’Accademia ugonotta di Saumur, in Francia, a porre in rilievo che la formazione del testo dell’Antico Testamento comunemente in uso era posteriore a quanto si era sino ad allora creduto. In particolare la vocalizzazione delle parole ebraiche e la determinazione definitiva del canone ebraico risalivano ai primi secoli dell’era cristiana. In qualche modo la Bibbia ebraica rischiava di essere posteriore alla degenerazione della Chiesa di Roma, dall’epoca costantiniana in poi.
Era un’affermazione che metteva in crisi la concezione protestante della storia. Dapprima l’ortodossia calvinista rispose con documenti dogmatici (Consensus helveticus del 1675); ma la scoperta dell’Accademia di Saumur fu alla lunga accettata. Il Consensus fu abrogato dai cantoni svizzeri e nel corso del Settecento, in coincidenza con l’Illuminismo, si impose il metodo storico-critico, che trattava il testo biblico con gli stessi principi scientifici ed ermeneutici di qualsiasi altro testo letterario o fatto storico. Nacque dal 17° sec. una disciplina accademica tipicamente protestante (che solo dopo molto tempo fu accettata dai cattolici): la storia dei dogmi, basata sulla constatazione che anche le dichiarazioni relative alla fede cristiana non sono immutabili, ma risentono delle condizioni di tempo e di luogo in cui sono formulate.
La maggiore opera storiografica pubblicata ai tempi della Riforma nacque in ambito luterano: le Centurie di Magdeburgo, dirette da Mattia Flacio. Uscirono nel 1559-1574 in tredici volumi, ciascuno dedicato a un secolo di storia del cristianesimo, dal 1° al 13° (nel Seicento furono continuate con i secoli successivi). Ispirandosi all’apologetica cristiana degli inizi, le Centurie descrivono come Satana si sia impadronito gradualmente della Chiesa e come il papato sia frutto dell’Anticristo. Ma in ogni secolo sono rimasti nuclei di cristiani fedeli alla parola di Dio, che formano come un ponte verso la Riforma del 16° sec. La dimostrazione è facile per i movimenti ereticali del tardo Medioevo, come i valdesi e gli hussiti, sopravvissuti fino alla Riforma e compenetratisi con essa. Ma anche per i secoli precedenti sono citati episodi di dissenso e di preservazione della pura fede apostolica. La storiografia protestante produce in questo periodo una lunga serie di opere, intitolate Catalogum testium veritatis o simili, per dimostrare che alla successione materiale dei vescovi si contrappone una successione della verità, che in ogni epoca è emersa, anche se perseguitata dalla Chiesa ufficiale. Le Centurie furono più volte contestate da parte cattolica, a cominciare dagli Annales ecclesiastici (1588-1607) di Cesare Baronio.
Nell’ottica protestante, la Riforma è un perfetto parallelo dell’età apostolica (T. Vautrollier, History of the Reformation,1587), mentre il papato ha corrotto la fede delle origini, introducendovi continue novità (P. Du Moulin, Nouveauté du papisme opposée à l’antiquité du vray christianisme, 1627). Secondo l’Histoire ecclésiastique (1580), che ha tra gli autori il successore di Calvino, Teodoro di Beza, la storia è interamente governata da Dio e la Riforma è frutto della sua azione provvidenziale: anche i movimenti considerati eretici e gli umanisti fanno parte di questo grande disegno, che si compie con la Riforma. Da un punto di vista più scientifico, J. Cameron, che fu uno degli esponenti dell’Accademia di Saumur, contesta in suo trattato (1617) l’identificazione tra antichità e verità, tipica del cattolicesimo.
Nel Settecento, il progredire della storia dei dogmi porta a una posizione nuova. La storia perde ogni caratteristica confessionale: la realtà ecclesiastica, di qualsiasi confessione, va esaminata con la stessa obiettività di qualsiasi fatto storico (J.L. von Mosheim, Institutiones historiae ecclesiasticae Novi Testamenti, 1726) e la storia dei dogmi si applica anche ai fatti contemporanei, non solo ai primi secoli del cristianesimo. Cessa in qualche modo di esistere una storiografia tipicamente protestante, poiché le metodologie sono le stesse della storia più generale, che nasce come disciplina scientifica proprio in quel tempo. Il periodo che va dal Settecento alla prima metà del Novecento viene indicato nel protestantesimo come quello dello «storicismo». I movimenti di più forte sensibilità religiosa vi vedono un abbandono della vocazione cristiana di fronte a influssi della cultura laica e ne nascono periodici cicli di «ritorno» a una fede più sentita e meno secolarizzata.
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