radioattività
La moderna alchimia
Scoperta alla fine dell’Ottocento dal fisico Henri Becquerel, la radioattività è una trasformazione dei nuclei atomici che permette di passare da un elemento all’altro della tavola periodica. Può essere un fenomeno spontaneo (radioattività naturale) o indotto (radioattività artificiale). Le applicazioni della radioattività oggi vanno dalla medicina alla scienza dei materiali e sono aumentate con la progressiva disponibilità di elementi radioattivi prodotti artificialmente. Ma le radiazioni vanno trattate con cautela per evitare che producano danni irreparabili agli organismi viventi
Non tutti gli atomi sono stabili, destinati a rimanere per sempre immutabili. Quelli più pesanti – cioè con il peso atomico più grande –, per i quali il nucleo è composto da molti protoni, sono radioattivi e possono disgregarsi emettendo particelle subatomiche o radiazione elettromagnetica (radioattività naturale).
I protoni che si trovano nel nucleo dell’atomo, infatti, sono tutti dotati di carica positiva e tendono a respingersi. All’aumentare del loro numero, quando le forze nucleari non riescono più a compensare la repulsione elettrica, il nucleo si suddivide in due frammenti: una particella che può essere di due tipi, α (alfa) o β (beta), e la parte residua dell’atomo; il tutto è accompagnato in genere dall’emissione di radiazioni elettromagnetiche γ (gamma). Ciascuno dei principali decadimenti (α, β, γ) ha caratteristiche diverse: tuttavia per ogni decadimento vale il principio che il numero di protoni e neutroni e la carica totale si conservano.
Gli alchimisti (alchimia), che cercavano di trasformare metalli vili in metalli nobili, non potevano certo sapere che in natura avviene spontaneamente lo stesso tipo di trasformazioni che volevano realizzare, senza riuscirci: è il caso della radioattività spontanea presentata da alcuni elementi. Tuttavia esiste un tipo di radioattività che può essere indotta artificialmente (radioattività artificiale) anche negli atomi stabili, quelli che non subiscono trasformazioni spontanee almeno in tempi paragonabili all’età dell’Universo (circa 10 miliardi di anni).
In natura sono state scoperte alcune decine di elementi radioattivi e molte centinaia possono essere creati in modo artificiale: un risultato davvero sorprendente se si considera che il primo elemento radioattivo è stato identificato solo alla fine dell’Ottocento.
In realtà le fonti radioattive attorno a noi non sono affatto rare: i raggi cosmici provenienti dallo spazio contribuiscono a creare un flusso naturale di particelle radioattive; il calore sprigionatosi dal nucleo della Terra (stimato in 4.000 °C all’incirca) sembra dovuto proprio a elementi radioattivi e questi ultimi sono presenti – fortunatamente in concentrazioni decisamente inferiori – anche nei minerali della crosta terrestre, come dimostra la presenza nell’atmosfera del rado, un gas radioattivo emesso spontaneamente dal suolo.
La storia della radioattività inizia con una fortunata dimenticanza. Nel novembre 1895 il fisico tedesco Wilhelm Conrad Röntgen scoprì una radiazione penetrante, in grado di impressionare una lastra fotografica anche quando era coperta da cartoncino. Appena due mesi dopo, agli inizi del 1896, il francese Henri Becquerel, professore di fisica presso il Musée d’histoire naturelle di Parigi, volle controllare se anche i sali di uranio, esposti al Sole, avevano sulle lastre fotografiche le stesse proprietà dei raggi Röntgen.
Durante un esperimento, quando già aveva predisposto tutto, Becquerel fu però costretto a rinunciare perché il Sole non compariva. Passati alcuni giorni, provò comunque a sviluppare la lastra e scoprì, con sua grande sorpresa, che era stata impressionata. Non poteva essere stato il Sole a provocare le emanazioni: e allora cos’altro? Ripetendo più volte l’esperimento capì che il fenomeno dipendeva solo dalla natura dei sali d’uranio presenti; scoprì anche che questi ultimi erano in grado di ionizzare l’aria circostante, cioè di strappare elettroni agli atomi e renderli elettricamente carichi.
Becquerel tuttavia sottovalutò l’importanza della sua scoperta e decise di dedicarsi ad altri studi lasciando irrisolte questioni fondamentali. Quale meccanismo permetteva di impressionare la lastra? Esistevano altre sostanze che si comportavano come i sali di uranio?
Per scoprire altre sostanze con lo stesso comportamento dei sali di uranio si misero al lavoro, in Francia, i coniugi Pierre e Marie Curie. Scoprirono per prima cosa che anche il torio ha le stesse proprietà dell’uranio e da ciò dedussero che l’emissione radioattiva dipendeva solo dalla presenza di atomi pesanti. Si misero quindi ad analizzare la pechblenda, un minerale formato per l’80% da ossido di uranio. Scoprirono che la quantità di radiazioni emesse da questa sostanza era di gran lunga superiore a quanto ci si poteva attendere in ragione dell’uranio presente. Nel minerale doveva dunque essere presente anche un altro elemento radioattivo che i Curie individuarono grazie al loro lavoro sistematico. Trattarono chimicamente tonnellate di pechblenda (fatte venire appositamente dalla miniera di St. Joachimson in Boemia), scartando ogni volta la parte inattiva e conservando la restante per sottoporla nuovamente a estrazione. In un improvvisato laboratorio, allestito a Parigi, i coniugi Curie sperimentarono in maniera del tutto artigianale diversi tipi di reazioni chimiche per trovare quelle più efficaci, e, dopo quattro anni di tentativi, isolarono un nuovo elemento, che chiamarono polonio – in omaggio alla Polonia, la patria di Marie –, quattrocento volte più attivo dell’uranio.
Nel luglio 1902, sei mesi dopo, riuscirono a estrarre appena un decimo di grammo di cloruro di un nuovo elemento, il radio, una quantità molto piccola ma sufficiente per scoprire che il nuovo elemento era oltre un milione di volte più attivo dell’uranio. Per gli studi condotti sulla radioattività naturale i coniugi Curie e Henri Becquerel furono insigniti nel 1903 del premio Nobel per la Fisica.
Il Cavendish laboratory di Cambridge, in Inghilterra, fu uno dei centri dove si svolsero le prime importanti ricerche sulla radioattività. Il fisico Joseph John Thomson, diventato famoso per i suoi studi sull’elettrone, qui si occupò anche del potere ionizzante delle radiazioni legate ai fenomeni radioattivi.
Sempre al Cavendish lavorò il fisico neozelandese Ernst Rutherford, interessato a capire la natura di quelli che allora erano chiamati i raggi Becquerel. Nel 1899 Rutherford individuò due tipi di radiazioni contraddistinte da un diverso potere penetrante. Chiamò radiazione α quella più facile da schermare e β quella più intensa, con potere penetrante circa cento volte superiore. Alle radiazioni scoperte da Rutherford si aggiunse poi la radiazione γ, molto simile ai raggi X, individuata dal francese Villard durante esperimenti sui preparati radioattivi sottoposti a campi elettrici e magnetici.
Oggi sappiamo che esistono anche altri fenomeni radioattivi, scoperti studiando le particelle elementari e le reazioni nucleari, ma i decadimenti α, β e γ restano le principali forme di radioattività e le indagini condotte con campi elettrici e magnetici e analisi chimico-fisiche hanno permesso, agli inizi del secolo passato, di chiarirne la natura.
Il decadimento di un nucleo radioattivo è un fenomeno del tutto casuale, impossibile da prevedere con certezza. È però possibile, visto che segue le regole della statistica, stabilire quale probabilità esiste che un certo numero di atomi decada in un determinato intervallo di tempo.
Il numero di atomi radioattivi diminuisce in maniera esponenziale, vale a dire che se inizialmente ci sono N0 atomi radioattivi, il numero di atomi ancora non decaduti – dopo un intervallo di tempo t – è descritto da una funzione del tipo N = N0 e-λt , dove λ è una quantità costante che dipende dal tipo di atomi presi in considerazione. Ciò vuol dire che il numero dei decadimenti dipende dal numero di atomi presenti.
Il numero di atomi radioattivi diminuisce in maniera esponenziale, cioè in base a una funzione in cui a piccole variazioni del valore x corrispondono grandi variazioni di y.
La legge esponenziale del decadimento è comune a tutti i fenomeni radioattivi e la velocità di trasformazione è regolata dal parametro λ, la costante di decadimento o di disintegrazione. λ dipende dal tipo di nucleo preso in considerazione, ma non da grandezze come pressione e temperatura poiché i nuclei atomici sono ben schermati dagli elettroni che costituiscono l’atomo.
A seconda del valore di λ, le sostanze radioattive decadono con ritmo inverso: per l’uranio servono 4,5 miliardi di anni prima che il numero di atomi radioattivi inizialmente presenti si sia ridotto della metà (tempo di dimezzamento), mentre altre sostanze sono contraddistinte da periodi molto più brevi, anche inferiori al secondo.
Le particelle emesse durante il decadimento α sono nuclei di elio formati da due protoni e due neutroni.
Il nucleo prodotto dal decadimento ha così due protoni in meno rispetto a quello di partenza e il suo numero di massa (la somma dei protoni e neutroni da cui è formato) è più piccolo in totale di quattro unità. Il decadimento a si riscontra nei nuclei molto pesanti – quelli di elementi come uranio, radio, torio – che hanno più protoni del bismuto (in tutto 83), l’elemento stabile più pesante.
I nuclei resi instabili dall’eccessivo squilibrio tra neutroni e protoni decadono invece emettendo un elettrone (decadimento β-) oppure un positrone (decadimento β+), una particella con le stesse caratteristiche dell’elettrone ma con carica positiva. La forza (forze fondamentali) responsabile dell’emissione β è l’interazione debole, così chiamata perché la sua intensità, paragonata a quella della forza nucleare, è di pochi millesimi di miliardesimo. Quando si verifica un decadimento β il numero di massa dell’elemento resta invariato, mentre il numero dei protoni aumenta o diminuisce di una unità e contemporaneamente diminuisce o aumenta di una unità il numero dei neutroni. Contemporaneamente all’espulsione dell’elettrone o del positrone, il nucleo, come ha spiegato Enrico Fermi, emette anche un neutrino, una particella molto difficile da catturare perché la sua massa è piccolissima, o addirittura nulla, ma indispensabile per il bilancio energetico del processo.
I decadimenti α e β sono in genere accompagnati anche dal decadimento γ, l’emissione di radiazioni elettromagnetiche particolarmente energetiche in grado di riportare il nucleo eccitato a uno stato di minore energia senza alterarne la natura.
Gli elementi radioattivi formano vere e proprie famiglie in cui si passa da una generazione all’altra grazie a decadimenti radioattivi sia di tipo a sia di tipo β. Tra il capostipite – il nucleo con il numero di massa maggiore – e l’ultimo discendente ormai stabile si incontrano diversi elementi radioattivi che possono vivere per miliardi di anni o solo per poche frazioni di secondo.
Tre sono le principali famiglie o serie radioattive esistenti in natura: tutte hanno come ultimo elemento il piombo, mentre cambia il capostipite – uranio, torio, attinio – che permette di distinguerle. A esse se ne aggiunge una quarta, quella del nettunio, un elemento che un tempo si trovava sulla Terra ma che ormai non è più presente in natura perché il suo tempo di dimezzamento è di alcuni milioni di anni appena contro gli oltre 4 miliardi di anni di vita del nostro pianeta. In effetti, procedendo di padre in figlio, lungo l’albero genealogico di una famiglia radioattiva si percorre infatti anche parte della storia della Terra. 1 kg di uranio, per esempio, ha bisogno di 50 miliardi di anni circa per decadere. Dopo 4,5 miliardi di anni – il tempo di dimezzamento di questo elemento – ne avremo ancora circa 500 g, mentre la restante metà si sarà trasformata prevalentemente in piombo e in qualcuno degli altri elementi compresi tra il piombo e l’uranio. Dopo altri 4,5 miliardi di anni, altri 250 g di uranio saranno presumibilmente scomparsi, trasformati nei nuclei di altri elementi e via dicendo.
La prima reazione nucleare artificiale risale al 1919 quando Rutherford disintegrò alcuni nuclei di azoto utilizzando le particelle a emesse spontaneamente dal polonio. Tuttavia per capire il meccanismo che permette di trasformare in radioattivo un elemento stabile fu necessario attendere fino al 1933. In quell’anno i chimici francesi Irène (figlia di Maria Curie) e Frédéric Joliot-Curie prepararono la prima sostanza radioattiva artificiale bombardando atomi di alluminio con particelle a. Catturata la particella a, il nucleo di alluminio emetteva un neutrone, trasformandosi in un isotopo, sempre radioattivo, del fosforo che decadeva a sua volta in un intervallo di tempo piuttosto breve.
Dagli anni Trenta a oggi – soprattutto dopo la realizzazione di acceleratori che aumentano la probabilità di scontro e d’interazione tra le particelle – gli esperimenti di radioattività artificiale sono stati condotti bombardando tutti gli atomi della tavola periodica degli elementi con particelle a, protoni, neutroni e deutoni (nuclei di deuterio, un isotopo dell’idrogeno). La disponibilità di elementi radioattivi prodotti artificialmente ha accresciuto anche le applicazioni della radioattività in genere, in ambito medico per la diagnostica e la cura di gravi malattie come i tumori, in ambito industriale per l’analisi dei materiali, nel settore scientifico per le ricerche di fisica applicata e lo studio dei processi biochimici.
Il controllo dei fenomeni radioattivi – e della ionizzazione da essi prodotta – è indispensabile per evitare che i tessuti biologici subiscano danni irreparabili. Anche una lieve ionizzazione, infatti, può danneggiare le cellule viventi più sensibili e le conseguenze maggiori si registrano quando le radiazioni colpiscono la molecola di DNA presente nel nucleo di ogni cellula. Il DNA può venir distrutto completamente oppure mutato a tal punto da innescare il processo che porta alla formazione dei tumori.
Per misurare questi effetti si usano oggi in genere la dose assorbita e la dose equivalente. Il gray (Gy) misura la dose assorbita: 1 Gy è la quantità di radiazioni che cede 1 J (joule) per 1 kg di sostanza irradiata. L’entità del danno biologico dipende in prevalenza dalla densità e non dal numero assoluto degli ioni prodotti dalla radiazione. Il sievert è la grandezza che permette di misurare questo parametro moltiplicando la quantità di radiazione assorbita (in gray) per un opportuno coefficiente. Si scopre così che i neutroni lenti sono 4÷5 volte più dannosi dei raggi β e γ, quelli veloci addirittura 10 volte più pericolosi e le particelle a hanno effetti 10÷20 volte più devastanti, a seconda della loro velocità.
È tuttavia difficile mettere in relazione l’insorgenza di un tumore con la radiazione assorbita perché gli eventuali effetti cancerogeni possono manifestarsi nell’organismo anche con notevole ritardo rispetto al momento dell’esposizione alle radiazioni. I risultati più attendibili sui danni prodotti dalle radiazioni derivano attualmente dagli studi effettuati su popolazioni vittime di esplosioni o incidenti nucleari, come quelli conseguenti i bombardamenti atomici di Hiroshima e di Nagasaki durante la Seconda guerra mondiale.
Una tecnica consolidata per la datazione dei reperti archeologici è quella che si avvale del radio-carbonio. Tutti gli organismi viventi, infatti, scambiano con l’ambiente il carbonio, presente nell’atmosfera con gli isotopi di massa 12 e 14. L’isotopo 14 è radioattivo e viene continuamente disperso e reintegrato dagli esseri viventi, fino a che l’organismo muore. A quel punto il carbonio 14 comincia a diminuire progressivamente nell’organismo in seguito ai decadimenti radioattivi. Conoscendo il tempo di dimezzamento del carbonio, pari a 5.730 anni, e la quantità di questo elemento abitualmente presente in un certo organismo vivente si può usare il carbonio 14 come ‘orologio nucleare’: il reperto da datare è infatti tanto più antico quanto minore è la quantità di carbonio 14 ancora rintracciabile in esso.