Abstract
Si analizzano i criteri che, in base al regolamento CE n. 593/2008 (cd. Roma I), permettono di individuare la legge applicabile ai contratti di lavoro con elementi di internazionalità, tenendo conto del particolare rilievo assunto dalle norme di applicazione necessaria e dalle disposizioni di ordine pubblico nell’ambito dei sistemi nazionali di diritto del lavoro.
Come qualsiasi contratto, anche quello di lavoro può presentare collegamenti con ordinamenti giuridici diversi che danno origine ad un conflitto di leggi. Il collegamento con un ordinamento straniero può derivare dai più disparati elementi caratterizzanti il contratto: la cittadinanza o il domicilio delle parti, il luogo dove il contratto è stato stipulato o ha trovato totale o parziale esecuzione, la sede dell’impresa che ha assunto il lavoratore o anche semplicemente la presenza di clausole contrattuali che rinviano ad una legge straniera. I criteri che permettono di selezionare la legge applicabile al contratto di lavoro con elementi di internazionalità sono oggi indicati dall’art. 8 del reg. CE n. 593/2008 (cd. Roma I), norma speciale che deroga alle norme generali dello stesso regolamento deputate a risolvere i conflitti di legge per la generalità degli altri contratti.
L’adozione del regolamento Roma I si iscrive nel processo di attrazione delle fonti convenzionali di diritto internazionale privato nell’ordinamento euro-unitario, reso possibile dall’attribuzione all’UE della competenza ad adottare misure volte a garantire «la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di legge e di giurisdizione» (art. 81 TFUE). Oltre al regolamento Roma I sono stati adottati il reg. UE «Bruxelles I-bis» n. 1215/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (che ha sostituito il reg. «Bruxelles I» n. 44/2001 a sua volta subentrato alla Convenzione di Bruxelles del 1968) ed il reg. CE n. 864/2007 concernente le obbligazioni extracontrattuali (cd. Roma II).
Per i contratti stipulati successivamente al 17.12.2009 (data della sua entrata in vigore) il regolamento Roma I sostituisce la Convenzione di Roma del 1980 in tutti gli Stati membri, con l’eccezione del Regno Unito e della Danimarca che non hanno partecipato alla sua adozione. Il rinvio alla Convenzione di Roma contenuto nell’art. 57, l. 31.5.1995, n. 218 di riforma del diritto internazionale privato non osta naturalmente a riconoscere al regolamento efficacia diretta anche nell’ordinamento italiano (Salerno, F., Note introduttive, in Nuove leggi civili commentate, 2009, 534). Tale efficacia configura una sempre più accentuata uniformità nell’applicazione nei diversi Stati membri delle norme internazional-privatistiche; norme sulla cui corretta interpretazione da parte dei giudici nazionali è chiamata a vigilare la Corte di giustizia.
L’art. 8 del regolamento Roma I si applica ai «contratti individuali di lavoro» («individual employment contract»). Per identificare il contenuto della nozione in questione un riferimento ineludibile è rappresentato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di libera circolazione dei lavoratori subordinati (Seatzu, F., La legge applicabile ai contratti individuali di lavoro, in La nuova disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti (Roma I) ,Boschiero, N., cura di, Torino, 2009, 338; in relazione alla Convenzione di Roma, nello stesso senso, Villani, U., La Convenzione di Roma sulla legge applicabile ai contratti, Bari, 2002, 150 e Mosconi, F., Giurisdizione e legge applicabile ai rapporti di lavoro con elementi di internazionalità, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, n. 20, 67; contra Traversa, E., Il rapporto di lavoro con elementi di transnazionalità, in Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Carinci F.-Pizzoferrato A., a cura di, Torino, 2015, 330); il che porta a considerare l’art. 8 applicabile a qualsiasi attività di lavoro subordinato che abbia un minimo di rilievo economico, a prescindere dalla forma contrattuale utilizzata (C. giust., 31.5.1989, C-344/87, Bettray; in dottrina, Giubboni, S., La nozione comunitaria di lavoratore subordinato, in Il lavoro subordinato, Trattato di diritto privato dell'Unione europea, Sciarra, S.-Caruso, B., a cura di, V, Torino, 2009, 45 ss.). La ratio di tutela della parte debole del rapporto sottesa alla norma in commento suggerirebbe di includere nel suo ambito di applicazione anche le forme di lavoro autonomo «economicamente dipendente» (in Italia, il lavoro coordinato e continuativo); con la conseguenza che i criteri in essa contenuti dovrebbero fungere ad identificare l’eventuale legge che prevede norme di tutela per questo genere di lavoratori. Indicazioni in senso contrario però si ricavano dalla sentenza FNV, con la quale la Corte di giustizia ha chiuso ogni spazio di immunità dalle regole della concorrenza alla contrattazione collettiva nell’ambito del lavoro autonomo, disconoscendo così le esigenze di protezione sociale del cd. lavoro “parasubordinato” (C. giust., 4.12.2014, C-413/13, FNV Kunsten Informatie).
Il lavoro svolto in ambito familiare sembra non rientrare nel sistema delle norme di conflitto (lo conferma l'art. 1, par. 2, lett. b e c del Regolamento Roma I, che esclude dal suo ambito di applicazione le obbligazioni derivanti dai rapporti di famiglia e da regimi patrimoniali tra coniugi), al pari del lavoro gratuito (tra gli altri, Villani, U., La Convenzione, cit., 151 e Seatzu, F., La legge applicabile, cit., 339). Anche ai dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni in linea di principio non si applicano le norme internazional-privatistiche (in merito, Audit, M., Les contrats de travail conclus par l'Administration à l'étrager, in Rev. crit. droit int. priv., 2002, 39 ss.); ma ciò limitatamente ai soli rapporti di lavoro implicanti lo svolgimento di funzioni pubbliche, come più volte ribadito dalla Cassazione con riferimento al personale impiegato nelle sedi diplomatiche (da ultimo, in relazione alla giurisdizione competente, Cass., S.U., 4.2.2016, n. 2200, in sintonia con C. giust., 19.7.2012, C-154/11, Ahmed Mahamdia c. Repubblica algerina democratica e popolare).
Certamente l’art. 8 non è applicabile ai contratti collettivi, essendo la norma espressamente rubricata ai contratti individuali. Per risolvere un problema di conflitto di leggi con riferimento ad un contratto collettivo varranno dunque i criteri dettati per la generalità dei contratti dagli artt. 3 («Libertà di scelta delle parti») e 4 («Legge applicabile in assenza di scelta») del regolamento. Il problema si pone in particolare per gli accordi collettivi transnazionali sottoscritti nell’ambito dei gruppi di imprese multinazionali. La pionieristica riflessione dottrinale in materia evidenzia l’inadeguatezza dei suddetti criteri a regolare questa crescente prassi contrattuale, favorita dal processo d’integrazione europea (van Hoeck, A., Finding a legal framework for transnational collective agreements through international private law, Amsterdam Law School Legal Studies Research Paper n. 2016-12).
L’art. 8 del regolamento Roma I si pone in evidente continuità con l’art. 6 della Convenzione di Roma e come questo individua quattro criteri di collegamento per selezionare la legge regolatrice del contratto di lavoro. Il primo di tali criteri conferma la regola valida per la generalità dei contratti – sancita dall’art. 3 del regolamento – per la quale la legge applicabile è quella scelta dalle parti (art. 8, par. 1). L’autonomia delle parti può operare liberamente (in senso critico Venturi, P., sub art.8, in Nuove leggi civili comm., 2009, 772 ss. e Seatzu, F., La legge applicabile, cit., 2009, 341 ss.), anche selezionando la legge di un paese con il quale il rapporto non presenta alcun collegamento oggettivo ed anche regolando il contratto in base a leggi di paesi diversi (cd. dépeçhage), con il solo limite della coerenza interna della disciplina che ne consegue (Polack, M.V., “Laborum dulce lenimen”? Jurisdiction and choise-of-law aspects of employment contract, in Enforcement of international contracts in the European Union, Meeusem, J.-Pertegas, M.-Straetmans, G., a cura di, Anversa-Oxford-New-York, 2004, 327). La volontà può essere espressa tacitamente, se è implicitamente deducibile in modo inequivoco dalle disposizioni del contratto e dal comportamento delle parti; ciò può avvenire anche attraverso il recepimento delle clausole di un determinato contratto collettivo o l’esplicito rinvio ad esso nel contratto individuale (Traversa, E., Il rapporto di lavoro, cit., 330).
Gli altri criteri di collegamento limitano però la rilevanza della legge scelta dalle parti, dal momento che – a norma dell’art. 8, par. 1 – questa non può privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle «disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente in virtù della legge che, in mancanza di scelta, sarebbe stata applicabile a norma dei par. 2, 3 e 4».
Il criterio di collegamento principale per individuare la legge applicabile al rapporto di lavoro in mancanza di scelta è quello della lex loci laboris, ovvero della legge del «paese nel quale o, in mancanza, a partire dal quale, il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro» (art. 8, par. 2). Se tale paese non è identificabile, si applica la legge del paese della sede di assunzione (art. 8, par. 3). Se dall’ «insieme delle circostante» emerge l’esistenza di un collegamento più stretto del contratto con un paese diverso, si applica comunque la legge di quest’ultimo (cd. clausola d’eccezione) (art. 8, par. 4). Questi criteri valgono per individuare le norme inderogabili di tutela del lavoratore, rispetto alle quali dunque l’autonomia individuale può solo definire condizioni di lavoro più favorevoli (considerando 35).
Come si legge nel considerando 23 del regolamento, le speciali norme di conflitto relative al contratto di lavoro si ispirano al principio del favor e di tutela del contraente debole. Grazie ad esse si impedisce l’elusione delle norme inderogabili (inderogabilità [dir. lav.]) del paese con il quale il contratto presenta un collegamento reale e significativo (Giuliano, M.-Lagarde, P., Relazione sulla convenzione relativa alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, in GUCE, 31.10.1980, C-282); ma non ne deriva necessariamente l’applicazione della legge che tutela maggiormente il lavoratore tra quelle potenzialmente applicabili. Il principio del favor trova infatti declinazione attraverso il principio di «prossimità» (Lyon Caen, A., Sciarra, S., La Convenzione di Roma e i principi del diritto del lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 20, 1998, 22; Clerici, R., Quale favor per il lavoratore nel Regolamento Roma I?, in Venturini, G.-Bariatti, S., a cura di, Nuovi strumenti del diritto internazionale privato. Liber Fausto Pocar, Milano, 2009, 215 ss.), che porta ad applicare la legge solo presuntivamente più favorevole al lavoratore.
Nonostante l’art. 8 non contenga alcun riferimento al contratto collettivo come “fonte” di regolazione dei rapporti di lavoro, ciò non esclude che lo stesso contratto collettivo entri nel gioco delle norme di conflitto. Nei sistemi che conoscono l'erga omnes, l’applicazione del contratto collettivo al contratto individuale deriva dalla stessa legge, se a sua volta applicabile in virtù dei criteri di collegamento (Villani, U., La Convenzione di Roma, cit., 154). In un ordinamento – come quello italiano – che ignora meccanismi di estensione ex lege del contratto collettivo, quest’ultimo troverà applicazione nei limiti in cui ad esso è riconosciuta generale applicazione (Magnani, M., I rapporti di lavoro con elementi di internazionalità, in Dir. lav., 2004, 410): il che permette di ricondurre tra le norme “inderogabili” quanto meno le clausole del CCNL relative ai minimi salariali (di generale applicazione in virtù della nota giurisprudenza fondata sull’art. 36 Cost. e 2099, co. 2, c.c.).
Il criterio principale della lex loci laboris deve essere interpretato «in senso ampio», dovendosi considerare abituale il luogo con il quale il lavoro «presenta un collegamento significativo» (C. giust., 15.3.2011, C-29/10, Koelzsch, punto 44 e C. giust., 15.12.2011, C-384/10, Voogsgeerd, punto 36). Dalla giurisprudenza relativa all’art. 5 della Convenzione di Bruxelles del 1968 (oggi, art. 21 del reg. UE n. 1215/2012) si ricava che, in mancanza di un unico luogo dove il lavoratore adempie la parte essenziale delle sue obbligazioni (C. giust., 13.7.1993, C-125/92, Mulox IBC, punti 21-23) ovvero dove si colloca il centro effettivo della sua attività (C. giust., 9.1.1997, C-383/95, Rutten, punto 23), la lex loci laboris va identificata con quella del luogo nel quale «il lavoratore ha trascorso la maggior parte del proprio tempo lavorativo per conto del datore» (C. giust., 27.2.2002, C-37/00, Weber, punto 50).
L’ambito di applicazione del criterio de quo è stato ulteriormente ampliato nel regolamento Roma I grazie al riferimento al luogo «a partire dal quale» il lavoratore svolge abitualmente la sua attività; inciso non presente nell’art. 6 della Convenzione di Roma (ma in tal senso già C. giust., C-125/92, Mulox IBC, punto 24, interpretando l’art. 5 della Convenzione di Bruxelles). Si tratta di una precisazione importante per identificare la legge applicabile ai rapporti di lavoro nei trasporti internazionali, terreno d’elezione delle questioni attinenti ai conflitti di legge. Lo confermano le sentenze Koelzsch e Voogsgeerd, nelle quali l’esistenza di un luogo «a partire dal quale» l’attività veniva svolta ed al quale il lavoratore faceva ritorno al termine dei viaggi (il porto di Anversa nel caso Voogsgeerd, una stazione di autocarri in Germania nel caso Koelzsch), è stata funzionale ad evitare l’applicazione della legge scelta dalle parti (in entrambi i casi, del Lussemburgo), pur in assenza di un unico luogo di svolgimento dell’attività lavorativa (Vila, M. L., L’articolo 8 del Regolamento Roma I, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, alla luce delle sentenze Koelzsch, Voogsgeerd e Schlecker, in Dir. rel. ind., 2016, 618).
L’art. 8, par. 2 precisa poi che il luogo di svolgimento abituale non cambia se il lavoratore si trova temporaneamente a svolgere l’attività in un diverso Stato. L’inciso – già presente nell’omologo disposto della Convenzione di Roma – nel regolamento è chiarito ulteriormente dal considerando 36, a norma del quale la presenza si considera «temporanea» se «il lavoratore deve riprendere il suo lavoro nel paese d’origine dopo l’esecuzione del suo compito all’estero». Ciò che rileva non è tanto la durata della permanenza all’estero (che pur ovviamente va tenuta in conto) quanto il fatto che il rapporto di lavoro sia destinato a proseguire nel paese d’origine e quindi ivi trova il suo radicamento.
La lex loci laboris va identificata in conclusione in base ad un giudizio relativo alle caratteristiche sostanziali del rapporto, di modo che l'elemento temporale si configura come un indice del legame funzionale tra il luogo di svolgimento dell'attività e gli interessi che il contratto mira a soddisfare; un indice certo prevalente e spesso decisivo, ma non necessariamente risolutivo (Villani, U., La Convenzione, cit., 164; Perone, G.-Spadafora, M.T., Il lavoro all'estero, in Dig. comm., Torino, 2009, 401; Ficari, L., Commento all'art. 6, in Nuove leggi civili comm., 1995, 1006). In tale giudizio non rileva il dato formale della titolarità del rapporto, ma la ragione sostanziale sottesa ad esso (C. giust., 10.4.2003, C-437/00, Pugliese). Ed il considerando 36 del regolamento precisa che, nell’ambito dei gruppi d’impresa, la legge applicabile non cambia necessariamente se la presenza temporanea all’estero si fonda su un diverso contratto di lavoro stipulato con un’impresa del gruppo. È stato così accolto l'invito della Commissione a riconoscere come spesso, nei gruppi, «la conclusione di un nuovo contratto corrisponde solo ad esigenze amministrative», restando nei fatti il lavoratore alle dipendenze della capogruppo (Commissione CE, Libro Verde sulla trasformazione in strumento comunitario della convenzione di Roma del 1980 applicabile alle obbligazioni contrattuali e sul rinnovamento della medesima, del 14.1.2003, COM (2002) 654 def., 39; in dottrina, Corrao, M. E., Profili internazional-privatistici dei rapporti di lavoro nei gruppi di società, in Lav. dir., 2005, 497 ss.).
Soltanto ai profili formali del rapporto, invece, si deve far riferimento se, nell’impossibilità di individuare un luogo di svolgimento abituale del lavoro, si fa ricorso al criterio sussidiario della sede previsto dall’art. 8, par. 3 (C. giust., C-29/10, cit., punto 43 e C-384/10, cit., punto 35). La sede coincide con l’impresa che ha concluso il contratto di lavoro ovvero che ha formalmente assunto il lavoratore; il che significa che il giudice deve considerare gli elementi relativi alla «procedura di conclusione del contratto» e non quelli attinenti alla sostanza del rapporto. Neppure rileva il fatto che la sede di assunzione sia o meno dotata di personalità giuridica, essendo sufficiente che il contratto sia concluso da «qualsiasi struttura stabile di un’impresa» (filiale, succursale o ufficio). La necessaria «stabilità» della struttura organizzativa che procede all’assunzione impedisce però che possa considerarsi «sede» un agente inviato in uno Stato al solo fine di assumere un lavoratore (C. giust., C-384/10, cit., punti 50, 54 e 55).
L’utilizzabilità del criterio della sede è stata significativamente ridotta dal riferimento al «luogo a partire dal quale» il lavoratore svolge abitualmente la sua attività, oggi come detto contenuto nell’art. 8, par. 2; al punto che in dottrina se ne suggerisce il superamento (Grušić, U., Should the Connecting Factor of the ‘Engaging Place of Business’ be abolished in European Private International Law?, in Intern. and Comp. Law Quarterly, 2013, 173 ss.).
La cd. clausola d’eccezione è utilizzabile non solo quando non è possibile localizzare il luogo di abituale svolgimento del lavoro, ma anche quando tale luogo è in ipotesi identificabile, ma dall' «insieme delle circostanze» attinenti ai profili soggettivi ed oggettivi del contratto emerge un legame più significativo (un «collegamento più stretto») con un diverso ordinamento (art. 8, par. 4) (diffusamente, Baratta, R., Il collegamento più stretto nel diritto internazionale privato dei contratti, Milano, 1990, spec. 240 ss.).
L’art. 8, par. 4 ha comunque la sua sede di applicazione elettiva in quei rapporti di lavoro che mancano di un luogo di svolgimento agevolmente identificabile; in primis nell'ambito del trasporto internazionale, dove la sua concorrenza con gli altri criteri appare fisiologica. In particolare nel lavoro marittimo la clausola d'eccezione può permettere di contrastare la prassi dell'adozione delle cd. bandiere di comodo: prassi favorita proprio dall'incertezza circa l'applicazione degli altri criteri di collegamento (sul tema, Munari, F.-Schiano di Pepe, L., Standard di tutela dei lavoratori marittimi: profili sostanziali e internazionalprivatistici nel diritto dell’Unione europea, in Riv. dir. int. priv. proc., 2012, 37 ss.). Il ricorso alla clausola d’eccezione s'impone poi come necessario nel caso del telelavoro internazionale, strutturalmente privo di un centro “fisico” di gravità del rapporto (Commissione CE, Libro Verde sulla trasformazione, cit., 40).
La dottrina auspica un utilizzo parsimonioso (così Clerici, R., Quale favor, cit., 222) ed un’interpretazione restrittiva del criterio in questione, che gli faccia assumere un ruolo residuale rispetto agli altri (Mosconi, F., Giurisdizione e legge, cit. 61; Seatzu, F., La legge applicabile, cit., 355); ciò al fine di limitare l’ampio spazio di discrezionalità che altrimenti si aprirebbe per il giudice. Il carattere residuale del criterio in questione non ha però impedito alla Corte di giustizia di giustificarne l’utilizzo nella sentenza Schlecker (C. giust., 12.9.2013, C-64/12). Il caso riguardava una cittadina tedesca impiegata senza interruzione per 11 anni come dirigente presso una filiale olandese di una multinazionale tedesca e trasferita in Germania in forza della normativa tedesca, a lei meno favorevole. Nessun dubbio che nel caso di specie il luogo abituale di occupazione fosse l’Olanda, ma una pluralità di elementi hanno indotto la Corte a riconoscere come legittima l’applicazione della legge tedesca; in specie, dando rilievo al luogo in cui «il lavoratore versa le imposte e le tasse sui redditi della sua attività nonché quello in cui è iscritto al sistema di previdenza sociale», ed ai «parametri presi in considerazione per stabilire la retribuzione e le altre condizioni di lavoro» (C. giust., C-64/12, cit., punti 40 e 41).
Dalla sentenza Schlecker si ricava la conferma che i criteri di collegamento non debbano necessariamente garantire al lavoratore il trattamento più favorevole e che la clausola d’eccezione abbia natura neutra ed asettica e non sia invocabile per perseguire obiettivi di equità sostanziale (tra gli altri Krebber, S., Conflict of laws in Employment in Europe, in Comp. Labor Law & Pol'Y Journal, 2000, 527).
Se l’art. 8 permette di identificare la legge regolatrice del contratto di lavoro, è vero però che proprio tale contratto è l’ambito tipico nel quale si giustificano deroghe all’applicazione delle norme di conflitto; ciò sia dando rilievo alle norme di applicazione necessaria del paese del foro (o di quello di esecuzione del contratto, se queste ne rendono illecito l’adempimento) (art. 9 del regolamento), sia giustificando la disapplicazione della legge straniera qualora «manifestamente incompatibile» con i principi di ordine pubblico del foro (art. 21) (Bonomi, A., Le norme imperative nel diritto internazionale privato, Zurigo, 1998, spec. 195 ss.; da ultimo, Feraci, O., L’ordine pubblico nel diritto dell’Unione europea, Milano, 2012, 27 ss.).
In quanto di applicazione necessaria, una norma nazionale prevale sempre sulla legge straniera individuata in base alle norme di conflitto. Le norme di applicazione necessaria ovviamente (come opportunamente ricorda il considerando 37) non coincidono con tutte le disposizioni inderogabili richiamate dall’art. 8, derivandone altrimenti l’inoperatività di questo stesso articolo (per tutti, Giubboni, S., Diritti e solidarietà in Europa, Bologna, 2012, 98 ss.). Esse identificano piuttosto le disposizioni ritenute funzionali per la «salvaguardia dell’organizzazione politica, sociale o economica» di un paese, secondo la celebre formula Arblade (dal nome della sentenza della C. giust., 23.11.1996, C-369/96 e C-376/96, nella quale per la prima volta è stata enunciata), testualmente recepita nell’art. 9.
Al contrario delle norme di applicazione necessaria, il limite dell’ordine pubblico opera “negativamente” – impedendo cioè l’applicazione della legge straniera – ed a posteriori, ovvero a seguito di una valutazione comparativa tra il contenuto della legge applicabile ed i principi fondamentali riconosciuti come ineludibili nell’ordinamento giuridico del foro.
Nella giurisprudenza italiana a lungo è prevalsa una lettura estensiva dell'ordine pubblico che ha portato ad identificarlo con l'insieme delle norme inderogabili poste a tutela del lavoratore nell'ordinamento nazionale. A tale conclusione la giurisprudenza di legittimità è giunta riconducendo alla nozione in parola il principio del favor laboris, in ragione del fatto che esso informerebbe l'intera legislazione in materia di lavoro (Cass., 6.9.1980, n. 5156; in dottrina, Pocar, F., Norme di applicazione necessaria e conflitti di leggi in tema di rapporti di lavoro, in Riv. dir. int. priv. proc., 1967, 734 ss.).
Una simile impostazione ha subito una radicale revisione nella più recente giurisprudenza di legittimità. Momento di svolta nell'approccio del Supremo Collegio è rappresentato dalla sentenza n. 14662 del 2000 con la quale è stato espunto il principio del favor dalla nozione di ordine pubblico, espressione di una concezione statalista non più compatibile con «la posizione dell'ordinamento interno nell'ambito di quello internazionale» (Cass., 11.11.2000, n. 14662). Adeguandosi a quanto da tempo suggerito dalla più autorevole dottrina (già Sperduti, G., Ordine pubblico internazionale e ordine pubblico interno, in Riv. dir. int, 1954, 83 ss.) la Corte distingue l’«ordine pubblico internazionale» dall’«ordine pubblico interno», solo il primo potendo impedire l'applicazione di una legge straniera in quanto riflesso dei principi fondamentali dell’ordinamento deducibili dalle norme costituzionali e dalle fonti internazionali che contribuiscono a determinare lo jus gentium.
In sintonia con tale rilettura della nozione di ordine pubblico, i giudici di legittimità hanno riconosciuto che la tutela della stabilità del lavoro rientra tra i principi di ordine pubblico dell'ordinamento italiano, non potendo di conseguenza trovare applicazione in Italia una legge che (come quella dello Stato di New York) si fondi sull'opposto principio dell'employment at will (Cass., 11.11.2002, n. 15822). A questa conclusione la Cassazione è giunta non solo alla luce dei generali principi dell'ordinamento nazionale che trovano fondamento ultimo nell'art. 4 Cost., ma anche considerando quelli che informano l'ordinamento dell'UE e che sono recepiti nell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Tutela in caso di licenziamento ingiustificato). Sempre in base ai principi in materia di licenziamento, è da considerare incompatibile con l’ordine pubblico italiano una normativa che non riconosca un’indennità di mancato preavviso al lavoratore, posto che l’istituto risponde all’esigenza (irrinunciabile) di sostenere il reddito di chi si trova in uno stato di bisogno (Cass., 19.9.2007, n. 16017); mentre può trovare applicazione in Italia una normativa che subordini il recesso per malattia ad un periodo di comporto meno favorevole rispetto a quello assicurato dalla disciplina nazionale (Cass., 4.5.2007, n. 10215).
Meno univoca appare la giurisprudenza in merito alla tutela in caso di licenziamento collettivo. La Cassazione da una parte ha ricompreso nell’ordine pubblico il principio per cui la legge applicabile deve prevedere una forma di controllo procedurale sulla decisione del datore di licenziare (Cass., 19.9.2007, n. 16017), dall’altra sembra ammettere l’applicazione di una legge straniera che non tuteli i lavoratori in caso di licenziamento collettivo, purché sia consentito al lavoratore contestarne i presupposti al fine di accedere alla tutela garantita in caso di licenziamento individuale (Cass., 21.1.2013, n. 1302).
Anche il principio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost. è da ricondurre all'ordine pubblico, mentre ne resta fuori l’istituto del TFR (Trattamento di fine rapporto) (Cass,. 11.11.2000, n. 14662; Cass., 15.4.2013, n. 9067; Cass., 19.9.2007, n. 16017; Cass., 26.11.2004, n. 22332). La valutazione in merito al rispetto dei parametri costituzionali in materia retributiva è rimessa al giudice, chiamato a considerare anche il diverso costo della vita del paese nel quale il lavoratore svolge abitualmente la sua attività. Ciò, se da una parte può portare a ritenere inadeguata una retribuzione (Retribuzione 1. Rapporto di lavoro privato) rispettosa degli standard contrattuali italiani (Perone, G.-Spadafora, M. T., Lavoro all'estero, cit., 417), dall'altra permette di derogare in peius a tali standard in presenza di lavoratori stranieri residenti in paesi nei quali il costo della vita sia significativamente inferiore a quello italiano (Trib. Venezia, 25.8.2001, in Dir. maritt., 2003, 137, in relazione a dei lavoratori egiziani).
La progressiva perdita di centralità della funzione antifraudolenta e garantista della norma lavoristica ha contribuito a rendere l’ordinamento italiano più permeabile alla normativa straniera. Ne è testimonianza la giurisprudenza nella quale la Corte di cassazione ha ritenuto applicabile la legge dello Stato di New York che ammette l'appalto di manodopera, in ragione del fatto che con l’entrata in vigore del d.lgs. 10.9.2003, n. 276 nell’ordinamento italiano non sussiste più un divieto generale di interposizione nei rapporti di lavoro (Cass., 7.12.2005, n. 26979 e Cass., 23.2.2006, n. 4040). Analogamente, il superamento della reintegra come forma tipica di tutela contro il licenziamento illegittimo operato dal d.lgs. 4.3.2015, n. 23, rende ormai obsoleta la questione relativa all’applicabilità da parte del giudice italiano di una normativa straniera che non la preveda (questione per altro già risolta positivamente da Cass. n. 15822/2002).
La natura neutra della nozione di “ordine pubblico” può portare anche alla disapplicazione di una normativa straniera più favorevole al lavoratore: è il caso, ad es. della legge argentina ritenuta dalla Cassazione contraria al principio (di ordine pubblico) del concorso di cui all’art. 97, co. 4 Cost., perché garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine (contratti a termine [dir. lav.] 2. Pubblico impiego) illegittimo in contratto a tempo indeterminato nei confronti di una pubblica amministrazione (Cass., 26.4.2013, n. 10070).
L’attrazione delle norme internazional-privatistiche nel sistema delle fonti di diritto dell’UE ne impone il coordinamento con le regole ed i principi che sovrintendendo al funzionamento del mercato unico, dal momento che entrambi i sistemi di regolazione governano gli scambi e la libera circolazione dei fattori produttivi tra gli Stati membri.
In caso di sovrapposizione tra disposizioni del regolamento Roma I ed altre norme di diritto derivato dell’UE che incidono sulle medesime fattispecie, sono comunque le seconde a trovare applicazione. Lo conferma lo stesso regolamento che, in linea con quanto previsto dalla Convenzione di Roma (art. 20), ribadisce il principio della prevalenza delle norme speciali presenti in altre fonti del diritto dell'UE che disciplinano conflitti di legge (art. 23): prima tra tutte, in materia lavoristica, la dir. 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori (Distacco [dir. lav.] 2. Diritto dell’Unione europea) nell'ambito di una prestazione di servizi, che può considerarsi una fonte speciale di diritto internazionale privato (Franzina, P., Questioni relative al distacco del lavoratore nel diritto internazionale privato della Comunità europea, in Lav. dir., 2008, 109).
La direttiva si applica ai lavoratori inviati ad eseguire una prestazione di servizi in uno Stato membro diverso da quello dove ha sede il loro datore e dispone che tali lavoratori siano tutelati da determinate norme di protezione minima previste dalla legislazione e dai contratti di generale applicazione vigenti nello Stato dove avviene il distacco (art. 3, dir. 96/71/CE); ciò al fine di garantire che l’esercizio della libertà di prestazione dei servizi all’interno dell’UE si svolga nel rispetto di comuni regole di contrasto al dumping sociale operato dalle imprese stabilite in paesi con più bassi standard di protezione del lavoro. In ottica internazional-privatistica, si può dire quindi che la direttiva individui le norme di applicazione necessaria cui gli Stati membri devono dar rilievo nel regolare il distacco transnazionale (così, considerando 10, dir. 96/71/CE e considerando 34, regolamento Roma I), laddove la legge applicabile ai lavoratori distaccati resta quella determinata in base all’art. 8 del regolamento Roma I; cioè, di norma, quella del paese d’origine del lavoratore, visto che, come detto, la permanenza temporanea all’estero non modifica il luogo di svolgimento abituale della prestazione (ex art. 8, par. 2).
Ne esce alterato in maniera significativa il funzionamento del sistema delle norme di diritto internazionale privato, riducendosi drasticamente la discrezionalità di legislatori e giudici nazionali in un duplice senso: uno potenzialmente più favorevole ai lavoratori rispetto alle norme «generali» dettate dal regolamento Roma I ed uno più sfavorevole (Mengozzi, P., I conflitti di legge, le norme di applicazione necessaria in materia di rapporti di lavoro e la libertà di circolazione dei servizi nella Comunità europea, in Nuovi strumenti del diritto internazionale privato. Liber Fausto Pocar, Bariatti, S.-Venturini, G., a cura di, Milano, 2009, 715).
Da una parte, infatti, in virtù di un obbligo posto dal diritto dell’UE, ai lavoratori distaccati sono necessariamente applicate le norme che regolano le materie elencate dall’art. 3, par. 1, dir. 96/71/CE: minimi salariali, periodi massimi di lavoro e minimi di riposo e di ferie, condizioni di cessione temporanea del lavoro, salute e sicurezza (salute e sicurezza sul lavoro), tutela della maternità (Lavoratrici madri; Congedi maternità e di paternità [dir. lav.]) e dei minori (Lavoro minorile), tutela antidiscriminatoria. A queste materie vanno poi aggiunti i principi che permettono di identificare la natura subordinata del rapporto; lo prevede l’art. 2, par. 2, dir. 96/71/CE e lo conferma l’art. 4, par. 5 della successiva dir. 2014/67/UE (concernente l'applicazione della dir. 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi e recante modifica del reg. UE n. 1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di informazione del mercato interno («regolamento IMI» )), nel quale si precisa che la natura genuinamente subordinata del lavoratore distaccato deve ricavarsi dalle «circostanze concernenti l'esecuzione del lavoro, la subordinazione e la retribuzione del lavoratore, indipendentemente dal modo in cui il rapporto è caratterizzato in qualsiasi accordo, contrattuale o meno, eventualmente concordato tra le parti]».
Quest’elenco di materie proietta il suo effetto al di là dello stretto ambito di applicazione della dir. 96/71/CE (appunto, il distacco transnazionale). Ciò emerge dalla letteratura internazional-privatistica, dove proprio alle disposizioni riconducibili all’elenco di cui all’art. 3, par. 1, dir. 96/71/CE si fa comunemente riferimento per identificare le norme di applicazione necessaria ai sensi dell’art. 9 del regolamento Roma I (Montanari, A., Diritto internazionale privato del lavoro e ordinamento comunitario, in Diritto del lavoro dell’Unione europea, Carinci, F.-Pizzoferrato, A., a cura di, IX, Torino, 2010, 835; Bonomi, A., Norme di applicazione necessaria nel Regolamento Roma I, in La nuova disciplina comunitaria della legge applicabile ai contratti (Roma I), Boschiero, N., a cura di, Torino, 2009, 183; e, con riferimento all’art. 7 della Convenzione di Roma, Polak, M. V., “Laborum dulce lenimen, cit., 328; Mosconi, F., Giurisdizione e legge applicabile, cit., 56; contra Krebber, S., Conflict of laws, cit., 353); a conferma del processo di omogeneizzazione e convergenza tra regole internazional-privatistiche e del mercato unico.
D’altra parte però la direttiva limita la possibilità per gli Stati e per i giudici nazionali di individuare altre norme di applicazione necessaria al di là delle materie elencate dal suo art. 3, par. 1. Questa possibilità è condizionata dal successivo paragrafo 10 dello stesso art. 3, che rinvia a riguardo alle sole «disposizioni di ordine pubblico» (con evidente sovrapposizione di termini che nel regolamento Roma I mantengono significati e funzioni diverse); nozione questa da interpretare restrittivamente ed alla luce dei vincoli posti dal diritto materiale dell’UE, perché attraverso di essa si giustifica una compressione da parte degli Stati membri della libertà di prestare servizi (C. giust., 19.6.2008, C-319/06, Commissione c. Granducato di Lussemburgo).
È la libertà economica fondamentale riconosciuta dall’art. 59 TFUE quindi ad ergersi a limite (di ordine pubblico europeo) al potere statale di individuare norme di applicazione necessaria da far rispettare sempre e comunque sul territorio nazionale, in deroga alle norme di conflitto.
Anche i criteri per individuare il giudice competente a decidere delle controversie di lavoro rispondono all’esigenza di tutelare il lavoratore in quanto parte debole del rapporto. Il reg. UE n. 1215/2012, cd. Bruxelles I-bis, prevede che il criterio generale per il quale la giurisdizione è determinata dal domicilio del convenuto (art. 4) possa essere derogato se è il lavoratore ad agire in giudizio contro il proprio datore. Quest’ultimo può essere convenuto anche davanti al giudice del paese nel quale (o a partire dal quale) il lavoratore svolge (o svolgeva) abitualmente la sua attività, oppure (se tale luogo non è identificabile) nel quale è o era situata la sede dove è avvenuta l’assunzione (art. 21). Gli stessi criteri valgono nel caso di citazione in giudizio di un datore situato in uno Stato terzo, con la precisazione che, in tal caso, è possibile incardinare il giudizio anche nello Stato membro nel quale questi abbia (eventualmente) una filiale o succursale (art. 20).
I criteri speciali che permettono di identificare il foro competente ricalcano alla lettera quelli che servono a selezionare la legge applicabile ai sensi dell’art. 8, par. 2, regolamento Roma I; tant’è che la Corte di giustizia legge gli uni e gli altri alla luce dei medesimi principi interpretativi (Traversa, E., Il rapporto di lavoro, cit., 340). Ciò permette al lavoratore di scegliere la giurisdizione del medesimo paese della legge applicabile al contratto di lavoro; il che però non necessariamente risponde al suo interesse. La scelta del foro del paese dove il datore è domiciliato può infatti garantire l’applicazione delle norme di applicazione necessaria ivi vigenti eventualmente più favorevoli, o portare alla disapplicazione della normativa applicabile se contraria all’ordine pubblico del foro stesso.
Nel caso poi di distacco transnazionale, il lavoratore può scegliere anche il foro del paese dove ha svolto temporaneamente l’attività; e ciò, sia durante lo svolgimento dell’attività all’estero (art. 6, dir. 96/71/CE) sia dopo che questa o il rapporto di lavoro è terminato (art. 11, dir. 2014/67/UE). In tal modo, con un’ulteriore deroga alle regole in materia di giurisdizione competente ispirata al favor, si consente al lavoratore di agire davanti al giudice dello Stato le cui norme sono identificate dalla dir. 96/71/CE come di necessaria applicazione al suo contratto di lavoro.
Art. 57, l. 31.5.1995, n. 218; art. 6, Convenzione di Roma del 19.6.1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali; artt. 8 e 9 reg. UE n. 593/08; artt. 20 e 21 reg. UE n. 1215/12.
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