RAVENNA
Città dell'Emilia-Romagna, situata nella bassa pianura padana, nell'area meridionale del delta del Po, a poca distanza dal litorale adriatico.In epoca tardoantica R. fu l'ultima delle capitali dell'Occidente romano, assurgendo a tale rango nel 402, a seguito del trasferimento da Milano della sede della corte imperiale di Onorio. Mantenne il medesimo ruolo con la legittima successione dei sovrani della dinastia valentiniano-teodosiana: la reggenza dell'augusta Galla Placidia (425-437) per il giovane figlio Valentiniano III (425-455) e successivamente durante il regno dell'ostrogoto Teodorico (493-526), inviato dall'imperatore di Costantinopoli per debellare Odoacre.Nel 540, nel corso della guerra greco-gotica (535-554) promossa da Giustiniano, R., ritornata a far parte dell'impero romano di Costantinopoli, fu sede amministrativa della prefettura e poi dell'esarcato d'Italia, fino alla conquista longobarda di Astolfo (751). Un nuovo felice periodo di fioritura edilizia si ebbe tra la metà del sec. 10° e gli inizi del 13°, con gli imperatori germanici della dinastia ottoniana e con la signoria arcivescovile (v. Esarcato).
La singolare posizione geografica che connota R. nei suoi rapporti con il mare e con l'idrografia del delta del Po fu certamente determinante per la scelta di Onorio. R., collegata con la valle Padana dalla grande via fluviale e con Costantinopoli e la pars Orientis dell'impero attraverso i suoi porti, si configurava come luogo certamente privilegiato anche per il suo carattere di roccaforte, protetta verso O dalla vasta area paludosa cui alludono le fonti dei secc. 5°-6° e la cui esistenza è stata comprovata da indagini territoriali (Roncuzzi, Veggi, 1970). Sidonio Apollinare, che visitò R. verso il 467, descrive la città interessata da un ramo derivato dal Po, che circondava e proteggeva le mura e che si suddivideva in canali che attraversavano l'abitato agevolando i commerci (Ep., I, 5, 5); lo stesso paesaggio urbano già in epoca romana caratterizzava la città, attraversata dalle acque e percorribile con ponti e traghetti, secondo quanto riferisce Valafrido Strabone (Geographia, V, 1, 7). Questo singolare quadro idrografico perdurò nel tempo e mutò definitivamente nel Tardo Medioevo, a opera dei Veneziani, con la chiusura dei corsi d'acqua, trasformati in rete fognaria sottostante alla nuova urbanizzazione quattrocentesca.Quanto alla denominazione, probabilmente medievale, delle porte urbiche, a iniziare da N-E sono attestate la porta Artemidoris (che conduceva al porto Coriandro e al mausoleo di Teodorico), le porte Palatii e Sancti Laurentii, sui lati E e S-E, e infine le porte Ursicina e Sanctae Mamae nel tratto meridionale. Le denominazioni della porta Teguriensis, della posterula Ovilionis e della porta Sancti Victoris o Guarcinorum dovrebbero essere ancora tardoantiche (Deichmann, 1969-1989, II, 3), come quella della porta Aurea.La strana forma urbis di R. capitale, rimasta immutata fino all'epoca veneziana, si rileva dal tracciato delle sue mura (ricostruite infatti nel sec. 15°), che racchiudono un'area di ha 166, che dovette definirsi all'epoca di Valentiniano III, secondo il Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis di Agnello di R. (RIS2, II, 3, 1924, p. 116, n. 2; Christie, Gibson, 1988), con l'inglobamento della fascia di necropoli verso il mare, attive fino al sec. 4° (Ravenna e il porto di Classe, 1983). La pianta, secondo la ricostruzione di Testi Rasponi (RIS2, II, 3, 1924, pp. 196-197), evidenzia tre canali, due dei quali, il Flumisellum Padennae e il Padenna, sono stati accertati, al pari di vari ponti.La via principale, che terminava alla confluenza dei due canali maggiori, aveva inizio dall'arco di Claudio (eretto nel 43), inglobato nelle mura di S-E, che, secondo Farioli Campanati (1990), prese il nome di porta Aurea dopo il 425, per commemorare - come l'omonima porta delle mura di Costantinopoli - la vittoria di Teodosio II sul tiranno usurpatore.Nell'area della R. quadrata - ove alcuni toponimi medievali (Regio Herculana q.v. Miliarium Aureum) consentono l'ubicazione del Foro e del Miliario Aureo insieme con la Basilica Herculis, restaurata da Teodorico (Cassiodoro, Variae, I, 6) - recentissimi scavi nell'area di via D'Azeglio (Maioli, 1994) hanno messo in luce una domus di grande prestigio, la cui ultima fase è assegnabile al 6° secolo. Nella parte sudorientale di questo settore urbano si collocavano inoltre la cattedrale, fondata verso la fine del sec. 4° dal vescovo Orso (da cui il nome convenzionale di basilica Ursiana), dedicata all'Anastasi e ricostruita nel sec. 18°, con il battistero ristrutturato verso il 458 dal vescovo Neone (c.d. battistero degli Ortodossi), e gli edifici costituenti il palazzo episcopale, che, stando alle fonti, dovevano formare un vasto e articolato complesso di fabbricati, con funzioni diversificate, frutto di aggregazioni e trasformazioni diacroniche. Al palazzo episcopale appartengono la cappella arcivescovile, d'epoca teodoriciana, dedicata verso la metà del sec. 6° a s. Andrea, patrono di Costantinopoli, e i c.d. bagni del clero della cattedrale, ritrovati negli scavi presso piazza Arcivescovado (Bermond Montanari, 1984-1985). Queste indagini archeologiche hanno rivelato anche strutture medievali (sec. 11°-12°) relative al praetorium archiepiscopi, che assicurano sulla continuità topografica dell'estesa area interessata dal complesso episcopale fra Tarda Antichità e Medioevo.Il quartiere del Miliario Aureo era collegato con quello del palazzo imperiale da una strada porticata che attraversava il Padenna e sfociava nella platea maior (od. via di Roma), sulla quale si affacciavano gli edifici costituenti il vasto complesso palaziale e in particolare la zecca (Moneta aurea), sita "in porticu sacri Palatii", come recita un documento del 572 (Marini Calvani, Maioli, 1995, nr. 120), che si doveva trovare al termine della via colonnata presso lo scubitum, che richiama l'analogo termine (exkúbita) del Grande Palazzo imperiale di Costantinopoli, relativo al corpo di guardia che vegliava sul deposito aureo della zecca imperiale. Questo sito, individuato in area prossima alla basilica di S. Giovanni Evangelista (cappella palatina fondata da Galla Placidia, presso il porto; Deichmann, 1969-1989, II, 1), costituirebbe il limite settentrionale del palazzo, che - come assicurano ritrovamenti archeologici, sia pure sporadici - si estendeva a S fino alle mura. Qui sorgeva il palazzo di Valentiniano, detto il Laureto, che ripete, latinizzandola, l'identica denominazione, Dáphne (Farioli Campanati, 1990), del nucleo palaziale costantiniano nella metropoli orientale, come del resto, al centro del complesso, presso la cappella palatina di Teodorico (S. Apollinare Nuovo), il toponimo ad Calchi, che contrassegna anche la vicina chiesa di S. Salvatore, ricorda la denominazione (Chalké) dell'ingresso monumentale al Grande Palazzo costantinopolitano. Di fronte si dipartiva una via che, come a Costantinopoli, congiungeva il palazzo con la basilica degli Apostoli (od. S. Francesco).Sull'altro lato dell'od. via di Roma (Regio Circli) si può collocare agevolmente l'ippodromo (Farioli Campanati, 1992), ubicazione che rispetta la reciprocità palazzo-circo, tipica dell'architettura imperiale della tetrarchia.Del palazzo imperiale, che si doveva configurare come un complesso di edifici a carattere residenziale, pubblico e militare, con chiese, viridari e corti porticate, è stata ritrovata da Ghirardini (1918) solo una parte a tergo di S. Apollinare Nuovo: si tratta del noto edificio a peristilio con sale di rappresentanza, di cui è certa l'estensione oltre l'od. via Alberoni. Pertanto non v'è ragione di dubitare, anche per la vicinanza con la cappella palatina, che l'edificio ritrovato facesse parte della residenza di Teodorico (v.), che, come indicano le fonti, avrebbe costruito a R. la sua reggia, verosimilmente una ristrutturazione del precedente palazzo imperiale, come mostra, tra l'altro, la fase databile al sec. 5° dei suoi pavimenti musivi (Berti, 1976).La raffigurazione del palatium (o del suo ingresso monumentale) fa parte del programma decorativo glorificante (poi eliminato e sostituito in epoca giustinianea) dei mosaici di epoca teodoriciana di S. Apollinare Nuovo, insieme all'immagine della città di R. con i suoi edifici. Di fronte, sull'opposta parete, appaiono il porto e la civitas Classis, connotata da edifici oltre la cinta muraria. Le due figurazioni musive - il palazzo-simbolo del potere e il porto-centro commerciale - al di là dell'accento celebrativo proprio delle immagini urbiche, contemplano due realtà urbane cui certamente Teodorico dedicò la sua attenzione, come attesta l'intensa e nota attività edilizia promossa dal re in varie città d'Italia nel settore pubblico, esaltata anche dalle fonti (Anonimo Valesiano, IV, 18, 18). È verosimile che il sobborgo di Classe sia assurto al rango di città proprio con Teodorico, quando la c.d. basilica Petriana, che trae il nome dal vescovo fondatore Pietro I Crisologo (432-450), fu dotata di battistero, complesso che indica certamente la qualificazione di centro urbano di Classe, cui rimanda la didascalia musiva di "Civitas Classis".A Classe, nell'area agricola (podere Chiavichetta) a S dei Fiumi Uniti, le esplorazioni archeologiche degli ultimi decenni hanno messo in luce, oltre al porto-canale, riattivato verso il sec. 5°, il coevo quartiere del porto, con magazzini, strade, fabbriche di ceramica e di vetri (Ravenna e il porto di Classe, 1983; Maioli, 1990; 1991). L'unica chiesa totalmente scavata è la basilica di S. Severo, dell'ultimo trentennio del sec. 6°, con gli attigui sacelli (Bermond Montanari, 1964; Farioli Campanati, 1983b). A S e a S-E della chiesa è stato individuato un tratto delle mura urbiche, il cui tracciato segue un andamento 'a sigma', collegandosi a E con il porto-canale.R. e il suo suburbio, con l'intermedia Cesarea - sobborgo che si localizza oltre il lato sud delle mura -, divennero effettivamente un'unica, se pur policentrica, realtà urbana. Uno sviluppo si ebbe tuttavia già nel sec. 5°, come documentano, oltre alla fondazione della basilica Petriana, anche i ritrovamenti di Classe e le notizie su Cesarea.Sembra che Onorio abbia rivolto una particolare attenzione a quest'ultimo sito, come si rileva da un confuso racconto di Agnello (Liber; RIS2, II, 3, 1924, p. 94ss.) circa un palazzo che l'imperatore intendeva costruire. Di certo si sa che la basilica di S. Lorenzo, con l'annessa cappella sepolcrale dedicata ai ss. Stefano, Gervasio e Protasio (mausoleo di Lauricio), era un complesso riferibile all'ambito della corte, consacrato sotto Valentiniano III nel 435. A scopo difensivo contro i Longobardi, che avevano saccheggiato Classe, il prefetto Longino (568-584) racchiuse Cesarea in una cinta fortificata: il centro fu poi sede del palazzo degli Ottoni. Accanto al fiorire delle intitolazioni di edifici di culto a santi venerati in Oriente, tra cui s. Andrea Apostolo, patrono di Costantinopoli, poco dopo la 'riconquista bizantina', si attuò a R. a opera di Massimiano (m. nel 556) - il primo dei presuli ravennati a fregiarsi, per intervento imperiale, del prestigioso titolo di archiepiscopus, che lo equiparava al papa e ai patriarchi - un programma volto al potenziamento della sede ravennate e al riconoscimento delle sue origini. Si spiegano in tal modo la traslazione delle tombe degli antichi vescovi dal sepolcreto subdiale nell'attigua basilica Probi (S. Probo) del territorio di Classe, rinnovata da Massimiano, e la collocazione in un'altra basilica classense, consacrata dallo stesso Massimiano nel 549, delle venerate reliquie dell'evangelizzatore e protovescovo di R. Apollinare. Già nel 547-548 l'arcivescovo ravennate aveva consacrato la basilica urbana di S. Vitale, sorta - secondo una leggenda locale - sul luogo del martirio del santo, ove, probabilmente nella prima metà del sec. 5°, era stato costruito un sacello che fu inglobato nella fabbrica dell'edificio. Questa zona della città era particolarmente ricca di edifici religiosi dei secc. 5° e 6°, tra cui la chiesa cruciforme di Santa Croce - nel cui nartece si innestava, a S, il piccolo edificio, anch'esso cruciforme, noto come mausoleo di Galla Placidia - e la chiesa di S. Maria Maggiore, fondata dal vescovo Ecclesio (522-532).A partire dal sec. 6° si ha notizia di edifici adibiti a istituzioni caritative annessi a cappelle: così l'orfanatrofium costruito dal vescovo Ursicino (532-535) in un terreno presso il monasterium di S. Pietro e, nella zona di porta S. Lorenzo, lo ierochomium (gerontocomio) annesso al monastero di S. Andrea e uno xenodochium presso il monastero di S. Maria.Quanto ai veri e propri monasteri, numerosi sono quelli dell'Ordine benedettino, mentre si hanno scarse notizie di monasteri più antichi sede di monaci greci, certamente attivi in epoca esarcale. Due sono certi: il monasterium graecum citato in documenti medievali di S. Teodoro ad Calchi, fondato dall'esarca Teodoro (678-687), e il famoso monastero, di cui si cita l'igumeno, sorto presso la chiesa di S. Maria in Cosmedin (ex battistero degli Ariani), ricordato nel sec. 8° anche a proposito dell'esarca Sergio (Sansterre, 1992).
Aree sepolcrali miste, insediate pressoché continuativamente sul cordone di dune (litoraneo nei primi secoli), sono state individuate a partire dalla zona a N di R. fino a Classe (Roncuzzi, 1983), secondo una dislocazione omogenea che corrisponde al quadro, pur policentrico, dell'abitato tardoantico. Un caso a sé sembra costituire il circoscritto sepolcreto riservato ai Goti, presso il mausoleo di Teodorico. L'unico cimitero d'epoca tardoantica-altomedievale recentemente indagato (Maioli, 1988; Danesi, 1990) è quello sito presso le vasche dello zuccherificio di Classe: dai corredi e dalla tipologia delle tombe si evince una datazione intorno al 5°-6° secolo. La tipologia delle tombe cristiane, che non differisce da quella d'epoca precedente, contribuisce alla conoscenza di tipi diversificati di sepoltura in relazione agli strati sociali della popolazione: dalle povere sepolture in anfora ad altre più costose in muratura, coperte da mattoni o da lastre (spesso di reimpiego) o da un tetto a due falde 'alla cappuccina', alle tombe a forma antropoide che, insieme agli altri tipi in muratura, sembrano via via prevalere sulle sepolture più modeste.A parte le tombe dei primi vescovi di R., site nelle aree cimiteriali delle chiese extramuranee di Classe (basiliche di S. Probo e S. Eleucadio), cui Massimiano dette una più degna sepoltura in chiesa - reliquie che nel sec. 10° furono traslate nella cripta appena costruita della cattedrale -, le tombe di vescovi ravennati, a iniziare da Neone (secondo terzo sec. 5°), si trovano in gran numero, contrassegnate da una lastra di porfido, in un luogo privilegiato, nel pavimento del presbiterio delle chiese cittadine, in genere riservato, ma non sempre, ai vescovi fondatori. Il fenomeno delle sepolture intramuranee presso le chiese, che divenne in seguito usuale senza riferimento allo stato ecclesiastico del defunto, è dimostrato per es. dai sarcofagi ritrovati nel nartece di S. Agata Maggiore o dalle tombe nel portico settentrionale di Santa Croce, chiesa nei cui pressi si sviluppò un cimitero medievale.Un tipo di sepolcro particolare è il mausoleo (v.), proprio di dignitari di corte (come quello di Lauricio nel sobborgo di Cesarea) e di vescovi: tra questi i presuli del sec. 4° nei mausolei di Classe (Severo) e di R. (Fiorenzo e Liberio: Farioli Campanati, 1986; Picard, 1988). Più tardi, i vescovi che attesero alla fabbrica di S. Vitale (Ecclesio, Ursicino e Vittore) furono sepolti entro sarcofagi nell'annesso meridionale della chiesa e, in piena epoca esarcale, l'arcivescovo Pietro III (570-578) trovò sepoltura nel monasterium di S. Giacomo, all'interno del complesso della basilica Petriana. A partire da Giovanni Romano (578-593), che venne tumulato nel mausoleo che egli stesso eresse all'estremità sud del nartece di S. Apollinare in Classe, gli arcivescovi di R. - a imitazione dei pontefici romani tumulati in S. Pietro - riposarono presso la tomba dell'evangelizzatore Apollinare: un segno evidente della parità delle due sedi, del riconoscimento di autocefalia da Roma che la Chiesa di R. ottenne, nel 666, con decreto imperiale e della successiva supremazia degli arcivescovi nell'Esarcato.
Lo sviluppo in elevato dell'architettura ravennate si può apprezzare solo in ambito religioso, dal momento che l'edilizia pubblica e privata è nota solo limitatamente agli sporadici e occasionali rinvenimenti archeologici. Le chiese ravennati dei secc. 5° e 6°, di cui rimangono solo alcuni esempi rispetto ai numerosissimi edifici ricordati da Agnello di R. (v.), sono caratterizzate da una planimetria 'basilicale', priva di transetto, che presenta un deciso sviluppo dell'asse longitudinale, a eccezione della cattedrale ariana e della chiesa di S. Michele in Africisco, che si accostano, per la loro pianta quasi quadrata, a una tipologia tipica di Costantinopoli. Per quel che riguarda l'alzato, la chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo, consacrata da Massimiano nel 545, era scompartita da pilastri, come le chiese della Siria. A parte questi due esempi, tutte le basiliche ravennati appaiono suddivise in tre navate da file di colonne (solo la cattedrale era a cinque navate). Sono illuminate da ampie finestre con arco a tutto sesto, che si aprono nei fianchi della navata mediana, nell'abside, ma anche - come nelle chiese dell'area orientale - nelle navatelle. La forma dell'abside, poligonale all'esterno, che si distingue da quella canonica semicircolare degli edifici di Roma e Milano, riporta decisamente all'architettura di Costantinopoli, mentre un carattere occidentale si rileva nell'accentuato sviluppo degli elevati, attualmente apprezzabile solo se si tiene conto dell'originario livello, mutato a seguito delle notevoli sopraelevazioni dei piani d'uso. Solo S. Apollinare in Classe, interessata in misura trascurabile dalla sopraelevazione pavimentale, e soprattutto S. Vitale - il cui piano è stato riportato alla quota antica - conservano le proporzioni dei loro elevati. A causa di tale innalzamento, non è chiaro l'assetto del presbiterio delle chiese, che si è potuto appurare solo con alcuni scavi: in S. Giovanni Evangelista (Farioli Campanati, 1995) e in S. Vitale risulta sopraelevato sul piano della navata; in altri casi (S. Apollinare in Classe, basilica della Ca' Bianca a Classe: Mazzotti, 1954; Farioli, 1968) la configurazione planimetrica del bema è quadrangolare; in Santa Croce e in S. Severo è provvisto di solea.I paramenti murari in laterizio delle fiancate delle chiese, scanditi da lesene che determinano regolari specchiature o arcate cieche includenti le finestre, sono inquadrabili nella tradizione edilizia dell'Italia settentrionale, che rimanda a quella di Augusta Treverorum (Treviri) e che in seguito finì per caratterizzare, sotto l'influsso di R., anche l'area altoadriatica, le cui chiese appaiono dotate di abside poligonale. Nell'ambito della struttura muraria, gran parte dei catini absidali e le due cupole del battistero degli Ortodossi e di S. Vitale sono costituiti da giri concentrici di tubi fittili foggiati a siringa, inseriti l'uno nell'altro e fissati con gesso: tale sistema costruttivo è noto in Occidente e ha il duplice vantaggio di una rapida messa in opera, senza l'ausilio di centine, e di alleggerire i carichi; per contro, nel caso di volte a mattoni, in riferimento al tipo costruttivo di Costantinopoli, la loro messa in opera è radiale (Deichmann, 1969-1989, II, 3). La copertura lignea delle basiliche, a capriate, potrebbe avvicinarsi al noto esempio superstite della chiesa giustinianea nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai; il manto di copertura a tegole e coppi si può evincere da documenti iconografici dei mosaici ravennati. Tra i paramenti murari, costituiti in generale da mattoni spessi (molti di reimpiego), emergono quelli molto curati di epoca giustinianea, che caratterizzano gli edifici che si devono al banchiere greco Giuliano Argentario (S. Michele in Africisco, S. Vitale, S. Apollinare in Classe). Si tratta di mattoni stretti e allungati (cm 32,4), messi in opera con uno strato di calce pari al loro spessore (massimo cm 3-4) e con doppia lisciatura: un tipo di cortina muraria che riconduce all'area orientale dell'impero (Verzone, 1958).Parimenti a quest'area culturale, oltre all'orientazione a E degli edifici, rimandano i pastofori, annessi absidali tipici dell'area siro-microasiatica, che connotano il S. Giovanni Evangelista, il S. Vitale e, a Classe, le basiliche della Ca' Bianca e di S. Apollinare.Quanto agli avancorpi, la presenza del nartece (o 'ardica'), concepito come portico antistante la facciata, costituisce la regola e frequente è l'atrio porticato. Il nartece con annessi, che compare nella fase placidiana di S. Giovanni Evangelista e in S. Apollinare in Classe, collega R. con l'architettura egea, al pari della 'loggetta' absidale del S. Giovanni Evangelista.Alla tipologia basilicale si affianca quella a croce latina della chiesa di Santa Croce e forse anche della basilica Apostolorum (Mazzotti, 1974), riferibili al sec. 5°; tale tipologia contrassegna altresì edifici di modeste dimensioni, come il sacello di S. Vitale (ritrovato negli scavi) e probabilmente tanti altri oratori e cappelle sepolcrali annessi a chiese maggiori, ricordati da Agnello come monasteria, cui appartengono il mausoleo di Galla Placidia e la cappella arcivescovile (a croce greca). Essi trovano riferimenti tipologici nel ben definito gruppo dell'Italia settentrionale.In particolare, la chiesa di Santa Croce, dotata di portici lungo i fianchi dell'unica navata, oltre a ricordare precedenti milanesi, sembra trovare seguito nell'analoga chiesa di S. Martino (sec. 6°), recentemente scoperta a Cervia (S. Martino, 1996), e in una dell'isola dalmata di Veglia, a Sepen (Sonje, 1976; Chevalier, 1995). Portici addossati, ma in un secondo momento, ai muri perimetrali della basilica della Ca' Bianca ricordano analoghe strutture presenti nell'architettura della Siria (Deichmann, 1969-1989, II, 2).Tra gli edifici con planimetria accentrata, i battisteri presentano un grande interesse per il loro impianto con absidi alternate a pareti piane; quello della cattedrale, a quattro nicchie impostate sugli spigoli di un quadrato di base - che pertanto si differenzia dalla canonica tipologia ottagona del battistero ambrosiano di Milano -, riconduce a un tipo planimetrico più antico (Deichmann, 1969-1989, II, 3); il battistero degli Ariani, ottagonale, mostra tuttavia una soluzione architettonica originale determinata dall'ambulacro che gira su sette lati e che ingloba le nicchie, lasciando libera l'abside maggiore. Quanto all'altro battistero noto, ritrovato a N della basilica della Ca' Bianca, a km 2 a S di S. Apollinare in Classe, e indagato sommariamente, esso sembra conformarsi al tipo planimetrico a doppio anello ottagonale (Gentili, 1972).Al gruppo limitato degli edifici a pianta centrica appartenevano, forse, la chiesa di S. Maria Maggiore, fondata da Ecclesio, e, certamente, quella di S. Vitale, a doppio ottagono, il cui complesso impianto, con matroneo, rimanda a Costantinopoli e in particolare al S. Giovanni all'Hebdomon (Mathews, 1971). Tuttavia, nonostante queste indubbie assonanze con la cultura architettonica bizantina e l'alternanza, come negli edifici giustinianei della metropoli, di pilastri e di una coppia di colonne costituenti un triforio, nonostante le specifiche funzioni statiche - i pilastri conclusi in arconi reggono la cupola e i trifori il piano delle gallerie -, e nonostante infine la dilatazione dello spazio interno, che è reso intercomunicante con la navata avvolgente, il verticalismo degli elevati fa pensare all'intervento di un architetto occidentale.Il solo edificio davvero problematico, che costituisce un unicum nell'ambito dell'architettura ravennate, è il mausoleo di Teodorico, la cui possente struttura a due piani a pianta decagonale è costituita da grandi blocchi in pietra ben squadrati e connessi tra loro e da un monolite di copertura, come una cupola a profilo depresso. Il materiale, definito comunemente pietra d'Istria, sembra provenire - almeno per quanto concerne la copertura - dalle cave dalmate di Aurisina.
Anche nell'ambito di queste classi di scultura in marmo proconnesio si osservano una diretta dipendenza da Costantinopoli e una quasi totale assenza del ricorso, così diffuso in Occidente, a materiali di spoglio. Fanno eccezione i fusti di colonna e i capitelli - sormontati però dall'elemento innovatore rappresentato dal pulvino - della chiesa di S. Giovanni Evangelista. Da questo periodo in poi, l'uso del pulvino a R. divenne generale, anche su capitelli la cui struttura non lo avrebbe comportato (S. Vitale).L'importazione di serie omogenee di elementi architettonici, che in gran parte si trovano nella collocazione originaria o di cui si conosce la provenienza, è certamente un segno del progetto unitario degli edifici e del prestigio della committenza. Così è, in epoca teodoriciana, per i capitelli compositi con acanto 'mosso dal vento' o 'a farfalla' della Ecclesia Gothorum o per i più comuni d'ordine corinzio 'a lira' di S. Apollinare Nuovo (ove si trova il bell'ambone del tipo a rampe opposte di scale, proprio di Costantinopoli) e, in epoca giustinianea, per le basi, le colonne e i capitelli di S. Apollinare in Classe e di S. Vitale. Qui è in opera un tipo di capitello innovatore e di grande attualità in Oriente, il capitello-imposta (Kämpferkapitell) a forma di piramide tronca rovesciata, lavorato a giorno, in molte varianti ben note al repertorio decorativo delle qualificate botteghe attive per la corte imperiale: tra queste emergono i raffinati capitelli 'increspati' (Faltenkapitelle), analoghi a quelli della chiesa dei Ss. Sergio e Bacco di Costantinopoli, costruita da Giustiniano nel suo primo anno di regno (527), e quelli ornati nelle quattro facce trapezoidali, al centro della cornice viminea, dal motivo orientaleggiante 'a foglie di loto', che è documentato nei capitelli costantinopolitani del S. Polieucto, chiesa promossa dalla principessa Anicia Giuliana nel 524.A questi esemplari di capitelli-imposta, si aggiunge la variante ornamentale 'a zig-zag' nell'esemplare (Ravenna, Mus. Naz.) ritrovato negli scavi dei c.d. bagni del clero, ristrutturati dal vescovo Vittore (537-544; Farioli Campanati, 1991b). È probabilmente a questo presule, che portò a compimento gli elevati della fabbrica di S. Vitale, che si deve l'importazione 'programmata' di serie omogenee di elementi architettonici di epoca giustinianea e anche delle pregevoli transenne traforate di S. Vitale e della basilica Ursiana, rari esempi integri, che hanno un corrispettivo nelle due transenne costantinopolitane del matroneo della Santa Sofia e nei due esemplari dei Ss. Sergio e Bacco (Farioli Campanati, 1983b).Anche i più comuni plutei in marmo proconnesio sembrano importati già lavorati; in gran parte gli elementi marmorei menzionati recano incise sigle in lettere greche che comprovano la provenienza dalle cave imperiali dell'isola di Proconneso nel mar di Marmara (Deichmann, 1969-1989, II, 2; II, 3). A lavorazione locale è attribuibile invece un numero esiguo di elementi, tra i quali i capitelli in pietra d'Istria e l'ambone della cattedrale ariana, il fregio 'a tenaglia' del rifascio superiore del mausoleo di Teodorico, le transenne di S. Apollinare Nuovo (Deichmann, 1969-1989, II, 1) e gran parte degli altari. Alcuni di questi - insieme alla fronte pertinente a un altare a cassa conservato nella cattedrale di Parma (Farioli Campanati, 1984-1985) con decorazione architettonica tripartita - derivano da un tipo metropolitano, rappresentato dalla fronte d'altare conservata a Cleveland (Mus. of Art), proveniente da R., ma verosimilmente lavorata a Costantinopoli (Farioli Campanati, 1982b). Tra gli amboni, oltre a quelli citati, va segnalato il c.d. ambone di Agnello, nella cattedrale, che si distingue per la struttura cilindrica e la decorazione che riveste come una stoffa la parte centrale e le fiancate trapezoidali (mancanti) e che, insieme a frammenti di amboni analoghi di R. e dell'opposta costa adriatica (Farioli Campanati, 1994), trova seguito in epoca esarcale.
La decorazione policroma e polimaterica degli interni degli edifici di culto ravennati, esaltati dalla luce che penetra dalle molteplici finestre chiuse da vetri o da lastre traforate, si apprezza nei resti originali e da quanto si può evincere dalle descrizioni delle fonti. Il rivestimento in generale risulta articolato da un alto zoccolo in marmo, rifinito da una cornice in stucco che media il passaggio alla decorazione musiva che copre completamente pareti e volte. Nei muri perimetrali il rivestimento marmoreo giunge fino alle finestre, come in Oriente (Deichmann, 1969-1989, II, 3); nelle absidi la decorazione in marmi pregiati si configurava in preziose tarsie policrome (S. Giovanni Evangelista; Farioli Campanati, 1995), costituite da marmi e porfidi, con la presenza di rotae di porfido egiziano, con inserti in madreperla, come si evince da originali (basilica Eufrasiana di Parenzo; Terry, 1986) o dai pannelli rettangolari, restaurati, dell'abside di S. Vitale. Il ritrovamento di elementi di tarsie negli scavi di chiese di R. (S. Agata Maggiore; Russo, 1989) documenta la diffusione di questa preziosa ornamentazione dello zoccolo absidale tra i subsellia e le finestre.Della decorazione a stucco, di cui si hanno notizie nel Liber di Agnello di R., rimangono integre soprattutto le cornici di rifinitura del rivestimento marmoreo parietale e le ampie stesure figurate entro scomparti architettonici del battistero della cattedrale, cui si aggiungono i frammenti architettonici ritrovati negli scavi di Santa Croce (Pavan, 1980) e quelli del battistero degli Ariani, che conservano tracce dell'originaria policromia. In S. Vitale, oltre ai sottarchi dei trifori presbiteriali, il rivestimento gipseo a tema geometrico e vegetale si diffonde su pareti e volte (vano triangolare meridionale), richiamando temi e modi decorativi propri dell'arte sasanide.
I pavimenti di chiese ed edifici residenziali sono in genere rivestiti da campiture musive prevalentemente a carattere geometrico, che rispettano la suddivisione orizzontale degli spazi; in epoca giustinianea si osservano intrusioni iconiche o addirittura pseudoemblemata che corrispondono a quel clima di 'rinascenza' già osservato da Kitzinger (1951). Quanto ai materiali, oltre al marmo - impiegato in varie tonalità, specie nel sec. 5°, e poi ristretto a cinque o sei colori contrastati in epoca giustinianea - si riscontra l'uso della pasta vitrea, specie nella resa dei volatili. Mentre sul mosaico pavimentale la bibliografia generale e specifica è molto nutrita (Farioli, 1975; Berti 1976; Marini Calvani, Maioli, 1995), sulla più preziosa decorazione pavimentale a opus sectile di R. manca una trattazione d'insieme (Farioli Campanati, 1978; Guidobaldi, Guiglia Guidobaldi, 1983).La tipologia pavimentale a opus sectile, in marmo a grandi lastre o a combinazioni di piastrelle di piccolo modulo, segno certo di una committenza di prestigio, è documentata in alcuni edifici religiosi o in ambienti o spazi (sacri e profani) di particolare importanza. Il tipo più costoso è quello a grandi lastre rettangolari, disposte 'a stuoia' e collegate da listelli in porfido verde che negli angoli formavano svastiche, nel pavimento dell'abside placidiana di S. Giovanni Evangelista (Farioli Campanati, 1995); così anche l'aula absidata affacciata sul peristilio del palazzo recava lastre di marmi policromi a grande modulo, di varie forme, profilate da porfidi. Sempre in epoca teodoriciana, lastre in marmo proconnesio sono state rinvenute nella navata della basilica della Ca' Bianca (Gentili, 1972) e sembra che pavimentassero anche S. Apollinare Nuovo e il mausoleo del re goto (cella superiore). Il pavimento marmoreo di Santa Croce risulta invece totalmente costituito da ampie stesure di piastrelle a piccolo modulo (Deichmann, 1969-1989, II, 3; Gelichi, Novara Piolanti, 1995). Una tipologia decorativa più complessa, che ricorda gli avvolgimenti dell'opus sectile del Vicino Oriente, presenta il pavimento della cappella arcivescovile, dall'elaborato rifascio definito negli avvolgimenti da listelli sagomati racchiudenti serie di rombi, elementi che si riscontrano anche in una cornice di un lacerto di S. Giovanni Evangelista, forse pertinente al bema. Tra questi bordi emergeva quello a serie di esagoni stellari di una grande lastra rettangolare in porfido del presbiterio di S. Vitale, pavimento che si articolava in grandi pannelli ricostituiti nel 1911. La ricchezza di policromia e l'ampia gamma di marmi pregiati e di porfidi utilizzati, nonché la varietà di combinazioni geometriche, collocano l'opus sectile di R. in una posizione privilegiata rispetto alla restante decorazione pavimentale generalmente bicroma e scarsamente variata dell'Italia settentrionale (a esclusione dei pochi esempi di Grado e Concordia Sagittaria) e fanno pensare a una componente orientale.
Bibl.:
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A R. il mosaico parietale, decorazione privilegiata per edifici religiosi e civili durante i secc. 5° e 6°, ebbe principalmente tre momenti di spicco, che rispecchiano le vicende politiche della città in epoca tardoantica, in età gota e in epoca protobizantina. L'ultima grande decorazione musiva fu quella, realizzata nel 1112, durante il dominio degli arcivescovi di parte imperiale, per la perduta abside dell'antica basilica Ursiana.I mosaici superstiti sono relativamente pochi, ma offrono comunque un'immagine concreta della produzione delle varie epoche. Inoltre, il nucleo conservato a R. è di enorme importanza per lo studio sia del mosaico parietale in generale sia di quello paleocristiano e medievale, perché, nel suo insieme, risulta meglio datato rispetto ad altri monumenti e conservato per lo più negli ambienti ai quali era destinato.Nel primo periodo, dopo lo spostamento della corte imperiale da Milano a R., l'impegno della dinastia teodosiano-onoriana fu quello di dotare la città di strutture monumentali, amministrative ed ecclesiastiche, anche se il campo di maggior successo nei confronti di Costantinopoli e di Roma sembra essere stato quello della decorazione musiva (Deichmann, 1982). Il mosaico parietale, come genere decorativo di lusso, aveva già una sua attestazione a R.: sotto Onorio, il praepositus sacri cubiculi Lauricio fece costruire la chiesa di S. Lorenzo a Cesarea, dove venne seppellito, e ne fece adornare la facciata con mosaici, mentre un altro pio oblatore, Opilio, sepolto nella stessa basilica, "multum eam ornavit in argento et auro" (Agnello di R., Liber, 36), considerato un riferimento a mosaici.Con l'arrivo a R., intorno al 425-426, di Galla Placidia, sorellastra di Onorio e reggente per Valentiniano III, personalità importante anche per la committenza di edifici a Roma, la città si arricchì di numerose decorazioni musive per le nuove costruzioni dell'augusta. La più antica tra esse, la chiesa di S. Giovanni Evangelista, scioglieva un voto fatto, insieme ai figli Valentiniano e Onoria, dalla stessa Galla Placidia, che durante un viaggio per mare da Costantinopoli era stata salvata da un naufragio grazie all'intercessione del santo (Agnello, Liber, 42). Insieme all'ubicazione e alla dedica della chiesa, anche i temi della decorazione a mosaico (scomparsa nel 1568) richiamavano modelli costantinopolitani (Deichmann, 1958-1989, II, 1, pp. 107-124): vi si intrecciavano la glorificazione della dinastia, attraverso pannelli imperiali ed effigi illustranti la genealogia della famiglia sin da Costantino, e la consacrazione della chiesa da parte del vescovo Pietro I Crisologo, rappresentato nell'asse dell'abside (Agnello, Liber, 27); il tutto era dominato dai temi apocalittici legati all'evangelista, il quale compariva anche in prima persona, al timone della nave, nella duplice scena del Salvataggio di Galla Placidia e dei suoi figli.La chiesa della Santa Croce, della quale non si conosce con precisione la data di fondazione - comunque nell'ambito del primo quarantennio del sec. 5°, ma che, secondo Agnello (Liber, 41), sarebbe stata costruita dalla stessa Galla Placidia -, aveva anch'essa una decorazione a mosaico con temi apocalittici, i quattro viventi inneggianti il trisághion, e l'immagine 'imperiale' di Cristo nell'atto di calpestare i simboli del male. Del mosaico parietale non si conserva nulla, salvo pochi frammenti ritrovati negli scavi; quelli con ornati vegetali a file di foglie d'acanto sono identici nella fattura alla decorazione sulle volte est e ovest del sacello annesso alla chiesa, il mausoleo di Galla Placidia (Cortesi, 1978).Quest'ultimo ambiente, che conserva l'unica decorazione integra ascrivibile al periodo di reggenza dell'augusta, è stato considerato fino a epoca recente parte del complesso originale della Santa Croce. Scavi recenti hanno invece mostrato che la sua struttura muraria, diversa da quella della chiesa principale, deve risalire a un momento di poco ulteriore (Gelichi, Novara Piolanti, 1995). L'iconografia funeraria dell'edificio consiste in temi apocalittici e paradisiaci, con l'esaltazione della croce, al centro della volta a vela, da parte dei quattro viventi, simboli degli evangelisti, e, più sotto, da parte di otto personaggi, gli apostoli vestiti con tunica e manto (tra cui si possono identificare Pietro e Paolo), disposti a due a due. Abbondano i motivi paradisiaci: coppie di uccelli e cervi che si abbeverano al folto acanto che riempie le lunette laterali. Le lunette di testata a N e a S, precedute da volte decorate con campiture di motivi geometrico-vegetali a mo' di tessuto, sono occupate rispettivamente dal Cristo Buon Pastore in vesti regali e da un martire con la croce nella destra che si dirige verso la graticola rovente del suo supplizio. Sebbene venga abitualmente identificato con s. Lorenzo, gli altri attributi, tra cui uno scaffale con i libri dei vangeli, rendono possibile anche un'identificazione con s. Vincenzo, martire iberico prediletto da Galla Placidia (Mackie, 1990). Notevole è la ricchezza del repertorio ornamentale di origine classica che si dispiega intorno alle varie composizioni del sacello, collegandole fra loro. Il materiale usato per il mosaico è in tutti i casi la pasta vitrea, bianca e colorata, insieme alle tessere di vetro con foglia d'oro o, meno frequentemente, d'argento.La committenza vescovile era rappresentata dal complesso costituito dalla cattedrale, dal battistero degli Ortodossi e dal palazzo episcopale. La cattedrale conteneva varie figure in mosaico sulle pareti ancora ai tempi di Agnello (Liber, 23). Del periodo immediatamente successivo a quello di Galla Placidia si è conservato il mosaico del battistero; questo edificio, fondato originariamente dal vescovo Orso, fu modificato e rialzato dal vescovo Neone (ivi, 28), che aveva inoltre fatto costruire nell'episcopio un triclinio anch'esso decorato a mosaico (ivi, 29).Nel superstite mosaico del battistero, la composizione, che presenta al centro della cupola il Battesimo di Cristo (rifatto in epoca moderna), è scandita radialmente da dodici candelabre d'acanto in altrettanti spicchi, nei quali si dispongono gli apostoli. Nel registro successivo, diviso in soli otto segmenti da candelabre d'acanto che si generano dai pennacchi, si dispiegano architetture all'interno delle quali si alternano troni e altari, adattamento a uso cristiano di motivi del repertorio classico, secondo una composizione la cui rappresentazione più vicina conservata è quella dei mosaici della Rotonda di S. Giorgio a Salonicco, databili solo alla fine del sec. 5°, ma che usano un formulario per certi versi paragonabile, incluse alcune similitudini nella tecnica esecutiva. La composizione viene completata da un registro di stucchi, nelle lunette delle finestre, per finire con un altro registro a mosaico dove, su un fondo blu con motivi vegetali in oro, sono inscritte in medaglioni ovali figure di profeti che ricordano i modi del mausoleo di Galla Placidia. La grande qualità dell'insieme, nonostante i restauri subìti e le parti perdute - tra cui la decorazione delle absidi del piano terreno in cui erano illustrate la Passione e la Risurrezione di Cristo -, ha fatto pensare all'attività di una bottega costantinopolitana. Se tale ipotesi non si può verificare con certezza per mancanza di confronti nella capitale, è comunque possibile constatare il livello 'internazionale' della bottega, che non ha nulla di provinciale, come del resto accade in generale per tutti i mosaici conservati a Ravenna.L'attività di promozione edilizia dei vescovi ravennati proseguì anche nel periodo successivo, quello della dominazione ostrogota, e in taluni casi costruzione e decorazione si protrassero, passando da un vescovo all'altro. Nella schiera delle decorazioni musive ultimate tra la fine del sec. 5° e gli inizi del 6° rientrano nell'episcopio quella di un ambiente cerimoniale, la "domus quae dicitur Tricoli" (Agnello, Liber, 50) - iniziata dal vescovo Pietro II (494-520) e portata a termine soltanto da Massimiano alla metà del sec. 6° (ivi, 75) -, quella di un altro ambiente tuttora conservato con una parte dei suoi mosaici, e il monasterium di S. Andrea (ivi, 50), di cui faceva parte la cappella arcivescovile. La piccola cappella cruciforme è preceduta da un vestibolo coperto da una volta a botte; la dedica originaria dell'oratorio non si conosce, ma è stato ipotizzato (Deichmann, 1958-1989, I, p. 201; II, 1, p. 19; II, 3, p. 196) che per la funzione di cappella palatina e per l'iconografia, che insiste sul Cristo, esso potesse essere dedicato proprio al Salvatore. Nel vestibolo si svolgono temi imperiali (Cristo in abiti militari calpesta i simboli del male, motivo di grande fortuna a R.) e paradisiaci (la volta con l'ornato di uccelli e vegetali), oltre ad affermazioni di dottrina cattolica e antiariana, cioè l'esaltazione della luce contenuta sia in un'iscrizione riportata da Agnello (Liber, 50), della quale sono state ritrovate tracce anche sul mosaico, sia nel testo di Giovanni visibile nel libro aperto tenuto da Cristo. Nella cappella, dove il mosaico è conservato solo in parte (l'immagine del vescovo committente vista da Agnello è scomparsa), il tema è quello della glorificazione di Cristo, rappresentato più volte, in medaglioni o in monogramma. La volta, al centro, dove un clipeo con il monogramma è sorretto da quattro angeli-cariatidi, contiene nelle vele anche i simboli degli evangelisti con i loro libri. L'intero programma dettato dai vescovi si contrappone alla dottrina dei Goti ariani, che in questo stesso periodo si impegnavano nella creazione di un loro centro urbano ed ecclesiastico.Il secondo periodo di fioritura di R. è quello del dominio degli Ostrogoti di Teodorico, il quale scelse questa città, e non Roma, come sua capitale. Fra le strutture create per la nuova sede ci furono anche la cappella palatina - in origine dedicata al Salvatore e oggi S. Apollinare Nuovo -, la cattedrale ariana (od. Santo Spirito) e il suo battistero, tutti edifici decorati con mosaici. Grandi superfici musive sono sopravvissute a S. Apollinare Nuovo e nel battistero degli Ariani, mentre totalmente perduti sono i mosaici del Santo Spirito.Nella cappella palatina teodoriciana, l'abside - ove ancora ai tempi di Agnello, nel sec. 9°, si poteva leggere l'iscrizione dedicatoria in mosaico (Liber, 86) - andò distrutta e venne in seguito ricostruita. Sulle pareti della navata centrale, scandite in tre registri, si svolge in alto un ciclo cristologico (il più antico ciclo monumentale conservatosi), con i Miracoli e la Passione, articolato in una serie di pannelli; nel registro centrale si dispongono pannelli di maggiore altezza, dove personaggi in piedi, forse profeti, vestiti con tuniche e manti, tengono in mano libri o rotuli; infine, nell'ultimo registro, i due cortei che partivano dal palazzo di R. e dal porto di Classe, dirigendosi rispettivamente verso Cristo in trono e la Vergine con il Bambino, pure in trono, hanno subìto delle modifiche nella loro composizione originale. Le file dei martiri e delle vergini nell'ultimo registro sostituiscono infatti le originarie figure di dignitari goti della corte di Teodorico e risalgono al momento della riconsacrazione della chiesa da parte dell'arcivescovo Agnello (Liber, 85-89), dopo la riconquista bizantina dell'Italia alla metà del 6° secolo. Parti delle figure originali, poi rimosse, sono state identificate nei frammenti di mani che compaiono su alcune colonne nella raffigurazione del palazzo; tracce di personaggi, cancellati in occasione di tale damnatio memoriae, sono visibili anche nelle sagome, colmate a mosaico, sullo sfondo delle arcature.È interessante osservare che le decorazioni musive promosse dai Goti non furono caratterizzate né da un proprio stile distinto né da iconografie collegabili con chiarezza alla dottrina ariana. Questa constatazione vale anche per il complesso della decorazione del battistero ariano, il cui mosaico si è conservato soltanto nella parte centrale. Da molti punti di vista un'imitazione più modesta del battistero degli Ortodossi, il mosaico nel battistero ariano, in larga misura pervenuto nella sua stesura originale, presenta al centro il Battesimo di Cristo, attorniato dalla serie dei dodici apostoli che si dirigono verso un centro segnato dal trono vuoto dell'Etimasia; al di sotto il mosaico è andato interamente distrutto.Nel periodo ostrogoto, sotto il vescovo ortodosso Ecclesio (ca. 522-532) - ricordato da Agnello (Liber, 57) per la costruzione e la decorazione a mosaico (oggi scomparsa) della chiesa di S. Maria Maggiore -, venne iniziata anche la chiesa di S. Vitale (Liber, 59; 61), che fu tuttavia consacrata solo dopo la conquista bizantina di R., epoca in cui furono portati a termine anche i suoi mosaici.Primo arcivescovo ravennate, Massimiano fu anche un grande committente. Dopo una iniziale fase di difficoltà, il ruolo del presule appare già chiaro quando, secondo Agnello (Liber, 77), compare come consacrante nell'iscrizione dedicatoria della chiesa di S. Michele in Africisco. Adorna di mosaici, questa era comunque la più modesta delle tre chiese (S. Michele in Africisco, S. Vitale, S. Apollinare in Classe) consacrate nell'arco di tre o quattro anni da Massimiano e costruite con l'impegno finanziario di Giuliano Argentario, banchiere probabilmente di origine greca. Dei mosaici di S. Michele in Africisco - realizzati come ex voto di un Bacauda, forse suocero dello stesso Giuliano - sopravvivono oggi soltanto tre frammenti originali, mentre la decorazione absidale, ricomposta a Berlino (Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), è una copia del 1850-1851 (Andreescu-Treadgold, 1990). Ma l'iconografia, fedele all'originale, testimonia la predilezione per soggetti antiariani - Cristo nell'abside tiene un libro aperto con due passi del vangelo: "Qui vidit me, vidit et Patrem" (Gv. 14, 9) e "Ego et Pater unum sumus" (Gv. 10, 30) - e apocalittici (la fronte dell'arco mostra Cristo in trono circondato dalle schiere angeliche che suonano le trombe, oltre ai due angeli con gli strumenti della Passione). Ai lati dell'abside erano rappresentati i santi medici Cosma e Damiano, il cui culto orientale era già giunto in Italia alcuni decenni prima, mentre a Costantinopoli era promosso attivamente dallo stesso Giustiniano.La chiesa di S. Vitale, iniziata sotto Ecclesio al posto di un sacello precedente, probabilmente di età placidiana, venne consacrata da Massimiano nel 547 o, al più tardi, nel 548. Nel mosaico absidale compare Ecclesio nell'atto di offrire il modello della chiesa a Cristo, che, a sua volta, porge la corona del martirio a Vitale. Nella zona absidale si trovano anche i due pannelli imperiali, raffiguranti rispettivamente la corte di Giustiniano, accompagnato dal vescovo Massimiano, e quella di Teodora con le sue dame. Recenti studi hanno permesso di stabilire che la testa del vescovo e quella del misterioso personaggio che si intravede tra questi e l'imperatore furono applicate in un secondo tempo: quella del vescovo in sostituzione della testa del suo predecessore, il vescovo Vittore (m. nel 545). Inoltre, in base a notizie tramandate da Procopio (Andreescu-Treadgold, Treadgold, 1997), è stata suggerita un'identificazione di alcuni personaggi di rilievo nei pannelli rispettivamente con parenti di Teodora e di Belisario e di sua moglie.La decorazione musiva di S. Vitale consisteva in una prima fase nell'immagine del catino absidale, con Cristo giovane seduto sul globo terrestre e affiancato da due angeli che presentano Vitale ed Ecclesio, e nelle raffigurazioni, nella volta del presbiterio, dell'Agnello mistico sorretto da quattro angeli-cariatidi e infine, nell'arcone d'accesso al presbiterio, in una serie di clipei con al centro Cristo, affiancato dai ritratti dei dodici apostoli e, per chiudere la schiera dei medaglioni, dai ss. Gervasio e Protasio, presunti figli di s. Vitale. Essa fu iniziata appunto subito dopo le prime sconfitte dei Goti dal vescovo Vittore, la cui attività di committente è attestata anche da alcuni capitelli che recano il suo monogramma. La morte gli impedì di portare a compimento la decorazione e pertanto Massimiano, non appena asceso al soglio episcopale, si trovò nella condizione di doverla completare, aggiungendo le scene dei timpani con il Sacrificio di Abele, quello di Melchisedec e quello di Abramo. La divisione dell'esecuzione del mosaico in due botteghe distinte, identificabili sulla base dei materiali adoperati da ciascuna (Andreescu-Treadgold, 1997a), chiarisce anche la ragione delle differenze formali fra i vari mosaici, prima erroneamente considerate come espressione di 'modi' stilistici (Deichmann, 1958-1989, II, 2, p. 189ss.).Un ultimo monumento che conserva la decorazione a mosaico, collocabile ancora nei primi anni dell'attività di Massimiano, è la basilica di S. Apollinare in Classe. Il grandioso programma, con al centro la raffigurazione in forma simbolica della Trasfigurazione di Cristo, come un'enorme croce posta sullo sfondo di una sfera blu cosparsa di stelle, circondata da discepoli raffigurati come agnelli e, in alto, dai busti di Mosè e di Elia, fu senza dubbio ideato dallo stesso vescovo. La figura del protovescovo Apollinare in posizione di orante, posta sotto il medaglione della croce, al centro della processione di agnelli, fa evidentemente riferimento alla traslazione delle sue reliquie nella nuova chiesa e al tempo stesso, su un piano teorico e propagandistico, sottolinea l'importanza della carica vescovile. Tale programma, come è emerso dai restauri, sostituì una precedente iconografia, mai tradotta in mosaico, della quale si è ritrovato l'abbozzo sui mattoni dell'abside.Delle altre decorazioni monumentali commissionate da Massimiano nulla è pervenuto ma, insieme con altre chiese, tra cui S. Andrea e S. Stefano, Agnello assegna al vescovo anche il completamento della decorazione a mosaico della "domus Tricoli" (Liber, 75), dove fece effigiare se stesso insieme a tutti i suoi predecessori.Dopo la morte di Massimiano (556), il successore Agnello riconsacrò al culto cattolico le chiese dei Goti. In questa occasione, la cappella palatina di Teodorico fu ridedicata a S. Martino - vescovo antiariano per eccellenza - e nel terzo registro della navata centrale i due cortei dei dignitari goti furono rimossi e sostituiti con le due schiere di martiri e vergini ancora visibili. Al momento dello stacco dei mosaici, durante i restauri degli anni Cinquanta, di tale sostituzione si trovò riscontro anche nella malta di allettamento, diversa per le due fasi.Ultimi di questo periodo sono i mosaici superstiti della chiesa di S. Agata Maggiore, commissionati dall'arcivescovo Agnello: si tratta di frammenti interamente a carattere ornamentale, pertinenti agli strombi delle finestre, rinvenuti durante gli scavi (Russo, 1989). Il mosaico nell'abside (distrutto dal terremoto del 1658) rappresentava Cristo in trono tra due angeli silentiarii su fondo d'oro e un prato paradisiaco. Agnello (Liber, 44) vi ricorda inoltre il ritratto del vescovo Giovanni, non più identificabile oggi con il primo o con il secondo vescovo con questo nome, vissuti entrambi nel 5° secolo.La ricchezza di questo gruppo di chiese del periodo della riconquista bizantina di R. è stata finora valutata soprattutto sul piano iconografico (Deichmann, 1958-1989), ma sono ancora da chiarire gli interscambi culturali fra le diverse botteghe e la loro precisa definizione nel quadro d'insieme della produzione musiva del 6° secolo.Al sec. 7° e al breve periodo del privilegio imperiale donato nel 666 alla Chiesa ravennate dall'imperatore Costante II (641-668) risalgono probabilmente gli aggiornamenti portati ai due pannelli laterali nell'abside di S. Apollinare in Classe, la cui composizione si ispira ai mosaici di S. Vitale. Sempre nella stessa chiesa, la fronte dell'arco absidale, rifatta in periodo seriore (forse nel sec. 9°), attende ulteriori chiarimenti in merito alla sua cronologia assoluta.Da ultimo, al sec. 12°, e precisamente al tempo dell'arcivescovo di parte imperiale Geremia (1111-1117), risaliva la stesura del mosaico dell'abside maggiore dell'antica basilica Ursiana. Datato con precisione, sulla base di un'iscrizione, al 1112, lo splendido mosaico rappresentava la Risurrezione di Cristo, tema originale, ma divenuto di grande attualità con il risveglio dell'interesse per i loca sancta e l'inizio delle crociate. La composizione, quasi completamente distrutta nel 1744, è ricordata soltanto da un'incisione (Buonamici, 1748, tav. A), copia non del tutto puntuale, ma indicativa dell'iconografia e, almeno in parte, dell'apparato ornamentale. Interessanti sono anche i sei frammenti di mosaico superstiti: la loro tecnica e certi indizi iconografici riconducono a maestranze bizantine (Andreescu-Treadgold, 1997b) chiamate a eseguire un programma specifico, ideato a uso locale con chiari richiami alla gloriosa storia cristiana di R.; altri pensano invece a una bottega non bizantina (Rizzardi, 1993b; 1997). Sono stati datati intorno al sec. 12° anche importanti restauri a S. Vitale (Andreescu-Treadgold, 1994).Le vaste decorazioni pittoriche eseguite nella prima metà del sec. 14° in molte chiese ravennati sono state variamente danneggiate dai pesanti bombardamenti che colpirono la città durante la seconda guerra mondiale.Oltre ai lacerti conservati a S. Giovanni Evangelista, rimangono infatti alcuni resti e le testimonianze fotografiche degli importanti cicli eseguiti da Pietro da Rimini (v.) in S. Francesco, S. Chiara e S. Maria in Porto Fuori, probabilmente su commissione di Ostasio da Polenta (Medica, 1995).
A R. pressoché nulla si è conservato della suppellettile ecclesiastica; alcuni di questi oggetti di culto sono però specificamente menzionati da Agnello di R. nel Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis (Bovini, 1974b), collegati con committenze imperiali e soprattutto vescovili, di alti funzionari o anche di semplici privati. L'arco cronologico delle informazioni si estende dall'epoca di Galla Placidia e del vescovo Pietro I Crisologo fino a quella di Carlo Magno e del vescovo Giorgio (sec. 9°); infine un frammento di cronaca vescovile ricorda che Gebeardo, vescovo del sec. 11°, fece dono di molti oggetti alla sua Chiesa.Ai secc. 5° e 6° risalgono i doni di vasa e diademata sacra (Bovini, 1974b), corone votive, rilegature di evangeliario, rivestimenti d'altare e di ciborio, croci processionali e lampade pensili. Croci processionali d'oro con gemme e perle e altri oggetti di questo tipo sono rappresentate nei mosaici parietali di R.; una variante più modesta, di argento sbalzato, forse quella donata dall'arcivescovo Agnello alla basilica Ursiana, potrebbe essersi parzialmente conservata nella grande croce del 1559 (Ravenna, Mus. Arcivescovile).Per il sec. 7°, Agnello ricorda delle laminae argenteae (Liber, 114) con incisa la Storia di s. Apollinare, riprodotte forse nelle tavolette rinvenute nell'urna del protovescovo al momento di una ricognizione del suo corpo nel 1173 e nuovamente nel 1951. In seguito i doni si fecero meno preziosi e più rari e crebbe invece il pericolo delle spoliazioni, come nel caso del vescovo Giorgio, che portò numerosi oggetti preziosi all'imperatore Lotario.Nemmeno tra gli oggetti di oreficeria alcun manufatto conservato può essere attribuito con certezza a Ravenna. Sulla base delle raffigurazioni a mosaico è tuttavia possibile tracciare un panorama dei gioielli in uso presso la corte ravennate: dai comuni e funzionali accessori dell'abbigliamento (come le semplici fibule d'oro), agli ornamenti più importanti e indicativi del rango sociale degli alti funzionari e dei membri della corte imperiale (fibule con gemme e perle, collane, bracciali, diademi, corone). Versioni più modeste di gioielli di tipologia romano-bizantina, provenienti da ritrovamenti archeologici da collegarsi con ambienti goti e longobardi, fanno luce sul ruolo svolto da R. nella trasmissione di tali oggetti di lusso alle popolazioni germaniche. Si sono conservati pochi oggetti in bronzo, tra cui la croce al battistero degli Ortodossi, quella che in origine sormontava la cupola di S. Vitale (Ravenna, Mus. Naz.) e una transenna di finestra da S. Apollinare in Classe (Ravenna, Mus. Naz.).Il numero e la varietà degli oggetti preziosi, e dei loro committenti, ricordati dal solo Agnello indicano chiaramente l'esistenza nella stessa R. di aurifices, argentarii, magistri phabri, caelatores, oltre a gemmarii e margaritarii (Bovini, 1974b).Sulle preziose tovaglie d'altare adorne di vari soggetti liturgici - anche queste descritte da Agnello (Bovini, 1974a) - il committente, di norma il vescovo, faceva ricamare talora un suo ritratto o un'iscrizione che lo ricordasse. I doni più numerosi dei vescovi Vittore, Massimiano e Agnello - a Massimiano le fonti assegnano ben quattro tovaglie, tra cui una con i ritratti di tutti i suoi ventisei predecessori e un'altra con scene della Vita di Cristo, portata a termine sotto il successore, Agnello, il quale aggiunse i re Magi e il proprio ritratto - corrispondono al momento della riconquista giustinianea; in seguito anche i vescovi Teodoro (677-692) e Sergio (ca. 748-769) sono ricordati come donatori di ricami. Per il problema della provenienza di tali manufatti (da Roma o dall'Oriente) si deve senz'altro considerare che le effigi di vescovi ravennati indicano nella R. della metà del sec. 6° l'esistenza di laboratori dove ricamatrici in oro (auri netrices) eseguivano soggetti con iconografia locale (Bovini, 1974a).Tessuti liturgici dei secc. 7° e 8° che provengono dall'interno di alcuni sarcofagi di S. Apollinare in Classe e una pianeta della seconda metà del sec. 12° sono conservati nel Mus. Arcivescovile, il cui cimelio più importante è la cattedra in avorio del vescovo Massimiano, che reca il monogramma con il nome del destinatario al centro della parte frontale. Il seggio è ricoperto di formelle che illustrano il tema veterotestamentario della Storia di Giuseppe e un ciclo cristologico, oltre a rappresentare sulla fronte i quattro evangelisti e S. Giovanni Battista; il tutto è completato da una ricca decorazione vegetale e zoomorfa. La qualità molto elevata ha fatto ipotizzare una provenienza da centri di prestigio, quali Alessandria d'Egitto o la Siria, delle maestranze attive forse in una bottega costantinopolitana. Oggetto di ampia discussione è stata in particolare la possibilità di riconoscervi un dono dell'imperatore all'arcivescovo o piuttosto una diretta commissione di quest'ultimo. L'ipotesi dell'esistenza di una scuola ravennate di lavorazione degli avori (Volbach, 1977) non trova riscontro nei dati a disposizione.
Bibl.:
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Nelle collezioni del Mus. Arcivescovile, tra i numerosi documenti riferibili ai secc. 5° e 6° (Bovini, 1964), oltre a rilievi e sculture architettoniche (Farioli, 1969) e alle transenne provenienti dalla cattedrale (Deichmann, 1969-1989, II, 3), emerge la statua acefala in porfido (certamente scolpita in Egitto), di un personaggio clamidato, identificabile in un imperatore (Farioli Campanati, 1992), che presenta la tipica astrazione formale della scultura della fine della Tarda Antichità e che potrebbe ambientarsi in R. alla metà del 5° secolo. Del resto nella città dovevano esservi i monumenti ufficiali consoni al suo status di capitale: è testimoniata l'esistenza di una statua equestre di Teodorico, collocata, di fronte alla reggia, su un alto piedistallo decorato da rilievi in bronzo - descritti intorno alla metà del sec. 9° nei Versus de imagine Tetrici di Valafrido Strabone -, che Carlo Magno portò ad Aquisgrana, con l'autorizzazione pontificia, insieme ai marmi dell'ormai fatiscente palazzo.L'altro documento d'eccezione conservato al Mus. Arcivescovile è la cattedra d'avorio di Massimiano, un unicum in questa classe di arredi ecclesiali tardoantichi, che è da ascriversi a un laboratorio di intagliatori dalla diversificata formazione culturale, agevolmente collocabile nella metropoli d'Oriente (Farioli Campanati, 1991a).Nel Mus. Naz. sono conservati marmi e materiali di varie classi provenienti da R. (Bovini, 1951; Deichmann, 1969-1989, I; II, 1-3). Tra questi monumenti emerge la lastra in marmo greco fine, raffigurante Ercole e la cerva di Cerinea, opera costantinopolitana della metà del 6° secolo. Essa richiama pur nella resa piatta tipica del rilievo, l'iconografia del prototipo lisippeo, diffuso ampiamente nella Tarda Antichità, affiancandosi, per il soggetto classico, a quel gusto proprio dell'arte di corte dei secc. 5° e 6° che prediligeva temi mitologici (Farioli Campanati, 1982).
Bibl.:
Fonti. - Valafrido Strabone, Versus de imagine Tetrici, a cura di E. Dümmler, in MGH. Poëtae, II, 1884, pp. 370-378.
Letteratura critica. - G. Bovini, Guida al Museo Nazionale di Ravenna, Ravenna 1951; id., I principali monumenti paleocristiani del Museo Arcivescovile di Ravenna, CARB 11, 1964, pp. 43-99; F.W. Deichmann, Ravenna. Hauptstadt des spätantiken Abendlandes, I-II, 1-3, Wiesbaden-Stuttgart 1969-1989; R. Farioli, Corpus della scultura di Ravenna, III, Roma 1969; R. Farioli Campanati, La cultura artistica nelle regioni bizantine d'Italia dal VI all'XI secolo, in I Bizantini in Italia (Antica Madre, 5), Milano 1982, pp. 137-426; id., La cattedra di Massimiano, FMR, 1991a, p. 66ss.; id., La scultura architettonica e di arredo liturgico a Ravenna alla fine della Tarda Antichità, in Storia di Ravenna, II, 1, Venezia 1991b, pp. 249-267: 245; id. Ravenna capitale, in Felix temporis reparatio, "Atti del Convegno archeologico internazionale, Milano 1990", a cura di G. Sena Chiesa, E.A. Arslan, Milano 1992, pp. 375-394.R. Farioli Campanati