TEODORICO (propriamente Teoderico), re degli Ostrogoti
Nacque intorno al 454 da Teodemiro, uno dei tre fratelli della stirpe degli Amali, che reggevano gli Ostrogoti, stabiliti allora nella Pannonia e nel Norico quali foederati dell'impero. A garanzia di un trattato, per il quale gli Ostrogoti si obbligavano a difendere le frontiere con un annuo stipendio, fu mandato (462) a Costantinopoli quale ostaggio. Qui acquistò una certa cultura, sebbene sia dubbio se sapesse scrivere, o se intendesse la lingua latina. Ma soprattutto conobbe i pregi e le debolezze della società romana e i segreti della politica imperiale, e affinò il suo senso politico.
Ritornato da Costantinopoli (472), atteggiandosi a vendicatore dei Bizantini, vinse e uccise il re dei Sarmati, ma tenne per sé Singidunum (Belgrado), che questo re aveva tolto all'impero. Succeduto al padre per designazione di lui morente e per elezione del popolo (474), condusse i suoi nella Mesia inferiore (Bulgaria), ponendo sede a Novae (Sistova) sul basso Danubio. Combatté quì una lunga e varia lotta con un altro capo di Ostrogoti, Teoderico di Triario, detto Strabone, e, come questo, ebbe parte nelle contese che laceravano l'impero: aiutò anzi (477) Zenone a risalire sul trono e ne ebbe il titolo di patrizio e l'adozione a figliolo. E già forse dal 479, guardava all'Italia, occupata allora da Odoacre, e offriva a Zenone di ricondurvi lo spodestato imperatore Nepote. Non piacque a Zenone questo patteggiare col barbaro; e T. rimase più anni ancora in Oriente, dove la morte di Strabone gli lasciava libero il campo, prima nemico di Zenone e devastatore dell'Epiro, poi protettore di lui, magister utriusque militiae, console (484), onorato del trionfo e di una statua innanzi al palazzo imperiale; e ancora ribelle, saccheggiatore della Tracia, minaccioso alla stessa Costantinopoli (487). Alla fine si trovarono d'accordo, T. nel chiedere di essere mandato a combattere Odoacre e a "liberare" l'Italia, e Zenone nel consentire o nell'incoraggiare la spedizione; se il barbaro desiderava forse di vendicare la sconfitta dei Rugi, rivoltisi a lui contro l'assalto di Odoacre, e certo voleva per il suo popolo sede più stabile e, relativamente, più ricca della già devastata Balcania, non meno bramava l'imperatore di levarsi d'accanto un così pericoloso vicino.
L'impresa fu deliberata dall'assemblea generale dei Goti, e partirono, negli ultimi mesi del 488, innumerae catervae, forse trecentomila, Ostrogoti per la maggior parte, con un forte nucleo di Rugi e nuclei minori di altri barbari, con donne, vecchi, fanciulli, carri, che servivano d'alloggio, suppellettili, arnesi da lavoro. Ma il rex delle gentes barbariche trasmigranti in Italia si presentava insieme come il patricius, cioè l'inviato dell'imperatore a restaurarvi le sorti della romanità. Vinti all'Ulca i Gepidi e i presidî posti qui da Odoacre, T. disperse le milizie di questo all'Isonzo, e il passaggio del fiume (28 agosto 489) considerò come inizio ufficiale del suo dominio sull'Italia. Vinse ancora a Verona (30 settembre), dalla quale città, forse per il valore spiegato nella battaglia, ebbe il nome nella saga tedesca. Vide allora volgersi a lui i più dei Romani e darglisi la maggior parte delle stesse milizie di Odoacre, che si rinchiuse in Ravenna. Poi ebbe di nuovo contro a sé questi barbari e molti Romani, delusi forse i primi nella speranza di spartire con i nuovi venuti le terre italiane, già scontenti gli altri dei pretesi liberatori. Dovette allora ritrarsi a Pavia, in grandi strettezze; poi, con l'aiuto di una discesa di Visigoti, riprese l'offensiva, batté sull'Adda Odoacre (11 agosto 490), lo costrinse a chiudersi di nuovo in Ravenna, mentre infuriava per tutta Italia la guerra fra i barbari e calavano dalle Alpi torme di Borgognoni a predare. Quando Odoacre piegò, dopo tre anni d'assedio, T. gli consentì di rimanere capo dei suoi soldati e dividere con lui il dominio dei Romani (fine di febbraio 494); ma, entrato in Ravenna (5 marzo), lo accusò di tendergli insidie e lo uccise (15 marzo 494). Tutti i parenti del vinto e i suoi comites, dovunque fossero in Italia, ebbero la stessa sorte; ai Romani partigiani di lui fu tolta la libertà di disporre dei loro beni; ma la dura sentenza fu mitigata per l'intervento dei vescovi di Pavia e di Milano, restando esclusi dal perdono solo i capi dell'opposizione.
Ancora prima della resa di Ravenna, T. s'era dato pensiero di precisare la base giuridica del suo dominio. E aveva mandato all'imperatore, o fatto mandare dal senato, Fausto Negro, uno dei primi dell'alta assemblea, a chiedere la "veste regia". Non ottenne il consenso dell'imperatore, forse perché non volle promettere a questo l'appoggio nella contesa religiosa che, dopo la pubblicazione dell'Henoticon di Zenone favorevole ai monofisiti (482), divideva l'Impero dalla Chiesa romana. Ma, dopo l'ingresso in Ravenna, fu, senz'attendere l'ordine imperiale, confermato re dai suoi Goti, riconosciuto cioè come legittimo rappresentante della sovranità sul paese conquistato; assunse allora il titolo di dominus e rivestì la porpora "come già sovrano dei Goti e dei Romani" (Jordanes, Get., 295). Fu quindi in conflitto più anni con la corte bizantina e tenuto da questa come "tiranno". Nel 498, per opera del patrizio Festo, seguì un accordo, per il quale l'imperatore rimandò gli ornamenta palatii, inviati già da Odoacre nell'Oriente, riconoscendo l'autorità personale di T. Questi rimaneva in teoria subordinato, non sappiamo bene con quale titolo, all'imperatore. Ma in realtà egli pensava ormai distinte le due respublicae, l'orientale e l'occidentale; nell'imperatore non ammetteva altro primato fuor che morale, a sé attribuiva per volere divino quello stesso potere illimitato, che il diritto romano riconosceva all'imperatore, e qualificava il suo come Romanum imperium. La nomina dei consoli, dei patrizî, dei senatori era fatta da lui senz'attendere designazione o conferma imperiale; l'erario pubblico era confuso col tesoro privato del re. Se T. non promulgò leggi, ma editti, non era però in questi alcun accenno al supremo potere legislativo dell'imperatore; le monete avevano bensì, quelle che noi conosciamo almeno, l'effigie imperiale, ma questo dipendeva soprattutto dalla necessità di assicurarne il corso nei paesi orientali, da cui gli occidentali dipendevano commercialmente. Del resto, medaglie commemorative, statue, iscrizioni salutavano T. come solo dominus, un'iscrizione, anzi, come victor ac triumphator semper Augustus; Procopio scrisse ch'egli aveva titolo di rex, cioè di capo barbarico, ma di fatto era vero imperatore. T. si vantava che il suo regno fosse copia dell'unico impero; venendo a Roma nel 500, promise al popolo di osservare le disposizioni prese in altri tempi dagl'imperatori e, come già questi, distribuì doni e offerse spettacoli; conquistata la Provenza, la disse restituita all'antica libertà, cioè alla sovranità di Roma. E conservò infatti le forme dell'antico ordinamento romano, con la gerarchia delle dignitates alla corte di Ravenna e nelle provincie, e diede, generalmente, a Romani le magistrature civili. Ma la romanità del linguaggio è attribuita al re barbaro da Cassiodoro Senatore e da Ennodio, ed è difficile dire fino a qual punto lo scrittore delle lettere del re e il suo panegirista ne interpretassero l'intimo pensiero. E alcune delle più alte magistrature civili, come quella di comes patrimonii, o amministratore del patrimonio regio, e di praepositus sacri cubiculi, o capo della casa del re, erano tenute non di rado da barbari; e il comitatus, raccolto intorno al re, poté avere l'antico nome di consistorium, ma era costituito in parte di Goti; e i saiones, anch'essi goti, rappresentavano l'ingerenza diretta del re in tutti i rami della pubblica amministrazione e non di rado si sostituivano, per volere di lui o per usurpazione, alle ordinarie magistrature; Roma stessa fu per un certo tempo sottoposta all'autorità eccezionale di un comes goto.
La giustizia era amministrata in nome del re, giudicavano delle cause fra Romani cognitores romani secondo la legge; delle cause fra barbari i loro capi militari secondo le consuetudini barbariche, stabilendosi così un sistema di leggi personali, diverse da Romani a barbari e tra gli stessi gruppi di barbari. Nelle cause miste erano applicati gli editti del re, che avevano carattere territoriale e valevano ugualmente per barbari e Romani; nei casi non contemplati dagli editti, si può ritenere che fosse applicata la legge romana, adattandola alle circostanze nuove; giudicava tuttavia un comes goto, sia pure avendo al fianco un assessor romano, con intrusione dell'elemento militare nel campo della giustizia, la quale intrusione avveniva talvolta anche in casi di controversie fra soli Romani. E il re poteva poi, o per ricorso di una delle parti, o per iniziativa spontanea, avocare a sé la causa, assegnarla alla cognizione di giudici delegati, prescrivere che si desse sentenza non secondo legge, ma secondo equità, sospendere la procedura, cassare il giudizio.
Ai Goti rimanevano tutti gli uffici militari, dai quali i Romani, in via normale, erano esclusi. E a loro, fino dall'inizio della conquista, era stato distribuito il terzo delle terre; e, da prima, sembra, solo quelle confiscate ai soldati di Odoacre; ma certo, almeno più tardi, furono soggette al vincolo delle tertiae anche le terre di privati romani, non nel senso che si venisse a un'effettiva divisione, bensì a un'assegnazione teorica di un terzo del fondo, alla quale corrispondeva il diritto di percepire un terzo dei frutti. La parte non assegnata ai barbari era poi colpita da imposizioni, che andavano di regola al fisco, ma potevano anche essere attribuite dal re a singoli personaggi goti, posti in relazione diretta col contribuente romano.
Si costituivano a questo modo due società parallele e nettamente distinte; il re protestava di volere che esse convivessero in pace, mostrava anche di apprezzare la superiorità della civilitas romana sulla barbarie gotica; ma non pensava a fusione tra Romani e Goti e men che mai a romanizzazione dei Goti, né altrimenti concepiva le relazioni fra i due popoli, se non come quelle di un esercito di armati in mezzo a una popolazione senz'armi. E, anche se egli attribuiva a quelli la funzione di difensori della civilitas, nel fatto appariva, come è detto espressamente da Ennodio, che i barbari erano i vincitori e i Romani i vinti, i subiugati.
Fu tuttavia l'età di T., in paragone a quella che la precedette e la seguì, età di rifiorimento economico, o almeno di arresto nella decadenza; la lunga pace permise la tranquilla coltivazione dei campi e la bonifica di terreni, specialmente nelle Paludi Pontine, onde ebbero incremento la popolazione rurale e la produzione agraria e diminuì il prezzo delle derrate, quantunque non manchino memorie di devastazioni di terre, di requisizioni forzate, di prestazioni coattive e gravose. L'industria e il commercio, posti sotto il diretto controllo dello stato e gravati da pesi, che l'arbitrio dei riscotitori aumentava, non ebbero invece alcun progresso sensibile.
Anche la cultura romana diede allora un nuovo bagliore della sua fiamma inestinguibile. Il re provvide al restauro degli antichi edifici di Roma, costruì, con l'opera di artisti romani, edifici nuovi a Verona, a Pavia, soprattutto a Ravenna, dove innalzò la basilica, mirabile per i suoi musaici, che volle dedicata a Gesù Cristo ed è oggi S. Apollinare Nuovo, e il battistero ariano e il palazzo magnifico, ora interamente distrutto, e il mausoleo famoso per sua sepoltura. E, se non promosse direttamente le lettere, se anzi vietò ai suoi Goti di mandare i figli alle scuole, mostrò tuttavia favore a dotti Romani: Cassiodoro Senatore fu questore e per più anni segretario del re, console (514), maestro degli uffici (523); Severino Boezio, filosofo e scienziato, oratore e poeta, fu console anch'egli (510) e maestro degli uffici (522) e celebrò le lodi del re, al quale Ennodio di Pavia rivolgeva l'ampolloso suo Panegirico.
Abile e per lungo tempo fortunata fu la politica estera di T. Questo barbaro, che era vissuto nella giovinezza fra le armi e con le armi aveva acquistato l'Italia, non amò la guerra; anzi non trasse più la spada dal fodero, lasciando, ove occorresse, ai suoi generali di combattere per lui. Con l'Impero d'Oriente, dopo i primi conflitti, stette in pace, finché la necessità di assicurare le frontiere non lo obbligò nel 504 ad aggiungere alla Penisola, all'Istria, al Norico, alle Rezie, che formavano il regno fin dall'inizio, Sirmium, alla confluenza della Sava col Danubio, "limite antico d'Italia"; solo per questo affrontò una guerra con i Bizantini, che, risoltasi per terra con la vittoria dei Goti, si prolungò più anni per mare con devastazioni piratesche dei Greci sulle coste italiane, finché, intorno al 510, fu ristabilita la pace. Sulle gentes barbariche affermò la propria superiorità, come signore di Roma e d'Italia; ma la volle attuare per mezzo di relazioni di parentela, che stringessero intorno a lui i diversi re barbari: diede una figlia al re dei Visigoti e un'altra al figlio del re dei Burgundi, e una sorella al re dei Vandali, e una nipote a quello dei Turingi, e sposò egli stesso una sorella di Clodoveo re dei Franchi e accolse come figlio d'armi il re degli Eruli; per più anni apparve quasi capo di una grande federazione barbarica. Ruppe questo equilibrio di forze la guerra che Clodoveo, forse eccitato dall'imperatore bizantino, mosse al genero di T., il re dei Visigoti Alarico II, che fu vinto e ucciso a Vouillé (507). T. mandò allora eserciti, che vinsero i Franchi ad Arles (509), riunì all'Italia la Provenza, alla quale diede amministrazione romana, e assunse dal 511 il governo della Spagna in nome del giovine nipote Amalarico, affidandolo a Teudis, "armigero" suo. Il dominio di lui era così notevolmente ampliato; ma il disegno suo, di legare a sé tutte le gentes, era fallito. Più tardi anche i Burgundi si staccarono dall'amicizia di lui, ch'ebbe scarso compenso nell'acquisto di una striscia di terreno a nord dell'Isère; e si staccarono i Vandali, senza che egli osasse nemmeno vendicare l'uccisione della sorella (523); lo stesso Teudis nella Spagna assumeva qualche atteggiamento d'indipendenza.
Il re invecchiava; e la stessa continuità della dinastia non appariva sicura. Non avendo figli maschi, egli diede nel 515 in sposa la figlia Amalasunta a Eutarico, discendente degli Amali, ma vissuto nella Spagna, e ottenne a questo dall'imperatore l'adozione a figlio e la dignità di collega dell'imperatore stesso nel consolato per il 519, come a riconoscimento del suo diritto alla successione del re. Ma il carattere di Eutarico, assai ostile ai Romani, rendeva più grave la difficoltà di mantenere nel regno la convivenza pacifica di due società così diverse e provvedute di forze così disuguali: la parte più intollerante dei Goti guadagnava terreno, crescevano le violenze a danno dei vinti, né gli sforzi del re riuscivano sempre a impedirle o a punirle.
La questione religiosa s'intrecciava con la politica. Ariano e re di un popolo ariano, T. aveva rispettato la religione dei vinti, conservato i privilegi della Chiesa, accolto le preghiere di pontefici e di vescovi, tanto più che la madre sua Ereleuva era cattolica. Non s'era però astenuto dall'ingerirsi alcuna volta in questioni ecclesiastiche. Chiamato ad arbitro nella duplice elezione pontificale del 498, aveva dato dapprima giudizio favorevole a Simmaco, eletto dalla maggioranza, e da questo era stato accolto a Roma con grande onore (500). Ma, scoppiata poco dopo una nuova contesa per le accuse mosse a Simmaco da una fazione, che aveva per sé quasi tutto il senato e parte del clero romano, aveva citato a Ravenna Simmaco, mandato a Roma il vescovo di Altino come visitatore, convocato, con l'assenso di Simmaco, un sinodo; e, pure dichiarando che non toccava a lui decidere in materia ecclesiastica, aveva insistito perché questo pronunziasse un giudizio, e privato intanto il papa delle chiese e dei beni. E anche quando (23 ottobre 501) il sinodo, rimettendo la causa del pontefice al giudizio divino, lo aveva dichiarato quanto agli uomini libero dalle accuse e rimesso nella pienezza dei suoi poteri, il re aveva consentito che l'avversario di lui venisse a Roma ed esercitasse fra i tumulti le attribuzioni pontificali, e aveva atteso quattro anni prima di far restituire al pontefice le chiese e il patrimonio. Dopo d'allora, tuttavia, le relazioni fra T. e la Chiesa di Roma e il popolo cattolico non erano state per più anni turbate; anzi il re, forse nell'intento di assicurare la pacifica successione nel regno suo, aveva cooperato alla fine dello scisma, che separava la Chiesa greca dalla romana (518). Ma questa riconciliazione, abbattendo la barriera che aveva diviso per più anni i Romani d'Italia dall'impero, portava quelli di loro, ch'erano più intolleranti del giogo barbarico, a vedere nell'imperatore orientale la sola speranza per la restaurazione della romana libertas e dava agli ariani più accesi, quale era Eutarico, buon pretesto per accentuare l'avversione, come alla stirpe, così alla fede romana.
La morte di Eutarico parve riavvicinare T. ai Romani: Boezio fu magister officiorum e due figli suoi consoli nel 522. Ma l'accusa fatta da Cipriano, un romano goticizzante, al patrizio Albino, di avere relazioni con l'imperatore orientale, coinvolse Boezio, che aveva preso le difese di lui, come d'altri Romani perseguitati dai Goti, e minacciò l'intero senato. Questo, intimidito, abbandonò alla propria sorte Boezio, che fu chiuso in carcere, probabilmente nel 523, sotto l'accusa di arti magiche e condannato per giudizio del senato alla confisca dei beni e all'esilio. La pubblicazione (523 o 524) di un editto dell'imperatore Giustino contro pagani, ebrei ed eretici, che erano esclusi dai pubblici uffici, anche se lasciava all'arbitrio dell'imperatore la sorte dei Goti, inaspriva la contesa fra ariani e cattolici. T. pigliò le difese dei suoi correligionarî e, mentre allestiva una flotta col duplice fine di rendere l'Italia indipendente dal commercio bizantino e d'intimidire l'imperatore, costrinse il pontefice Giovanni I a recarsi a Costantinopoli, imponendogli di perorare la causa degli ariani. Le accoglienze assai onorevoli fatte al papa in Oriente (524-25) e l'insuccesso almeno parziale della sua missione accrebbero i sospetti del re, il quale si sfrenò ora a crudeltà; fece uccidere Boezio, che poté essere così considerato quale martire della fede, e il suocero di lui Simmaco, capo del senato; e tenne prigione a Ravenna il papa, che ben presto venne a morte (18 maggio 526) e fu venerato fin d'allora come victima Christi. Il re cercò d'imporre come successore persona a lui grata; ma contemporaneamente ordinò che le basiliche cattoliche fossero invase dagli ariani, mentre ai Romani era tolto fino l'uso del coltello.
Morendo poco appresso, il 30 agosto 526, T. raccomandò ai Goti di rispettare come re il piccolo nipote Atalarico, di amare il senato e il popolo romano, di placare l'imperatore d'Oriente e tenerlo propizio dopo Iddio. Egli riconosceva così il fallimento dell'opera sua, che non era riuscita a creare una tale realtà politica da rendere sicura, nell'accordo fra i due popoli e nella stabilità nelle relazioni con l'Oriente, la continuità della dinastia e del regno stesso dei Goti in Italia.
Il giudizio assai diverso dato sopra di lui dai contemporanei, il contrasto tra le leggende cattoliche e romane, che lo fanno morire tra i rimorsi o essere rapito vivente dal demonio e precipitato nel cratere di Lipari, e la saga germanica, la quale canta il giusto e savio e prode Dietrich von Bern, sono prova non solo della divisione profonda tra Romani e barbari, ma della contraddizione, in cui si aggirò, inevitabilmente forse, ma certo vanamente, tutta l'opera di Teodorico.
Per la leggenda di T. nelle saghe germaniche, germania: Letteratura, XVI, p. 791.
Fonti: Cassiodoro Senatore, Variae, in Mon. Germ. hist., Auct. antiq., XII; Fragmenta historica (Anonymus Valesianus), ed. Cessi, in Rer. Italic. Script., XXIV, 4; Severino Boezio, De consolatione philosophiae, Londra 1925; Ennodio, Opera, ed. Vogel, in Mon. Germ. hist., VII; Chronica minora, ivi, IX, XI, XIII; Jordanes, Romana e Gotica, ivi, V; Liber pontificalis, ed. Duchesne, I, Parigi 1886; Procopio, La guerra gotica (Fonti per la storia d'Italia), Roma 1895; id., Historia arcana, in Opera, ed. Haury, III, 1, Lipsia 1905.
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Editto di Teodorico.
Si suole per eccellenza chiamare così un corpo di leggi pubblicato per la prima volta da Pietro Pictet di su un manoscritto ora perduto che fu subito e giustamente riferito a T. poiché presupponeva la riverenza dello ius publicum e delle leges romanae e voleva essere obbedito da Goti e Romani considerati come fattori equivalenti di una medesima unità politica. Intendeva non solo di supplire alle leggi stesse, ma di ristabilirne l'impero in quanto non fossero debitamente osservate. Consta di centocinquantaquattro capitoli, preceduti da un proemio e seguiti da un epilogo. Non si riscontra un piano sistematico che abbia servito di base alla distribuzione dei capitoli emanati pro omnium provincialium securitate. Sono frammischiate norme penali e civili, sostanziali e formali. Attinte in generale a costituzioni imperiali desunte dal Codice teodosiano o dalle successive novelle e, quanto agli iura, alle opere più correnti di Paolo, hanno però cercato di renderne il contenuto con forma propria. E, occorrendo, si staccano dalla fonte sia per svecchiarla, sia per chiarirla. Nessuna sicura influenza del diritto germanico; piuttosto tengono conto del diritto volgare. L'editto di T. si soleva già attribuire di preferenza al 500 d. C., pensandosi che la celebrazione dei decennalia allora fatta potesse ben essere concomitante a un'opera di legislazione; l'editto sarebbe la διάταξις riferita da Agatia a quel tempo. Altri pensa a tempi più recenti. Il Gaudenzi lo poneva tra il 514 e il 526 e lo metteva in relazione con la conquista della Provenza. Il Patetta dall'iscrizione che accompagna due capitoli dell'editto, aggiunti già all'edizione del Codice che fu di base alla collezione di legge romana sfruttata dalla Collectio Anselmo dicata, pensò più specialmente al 524.
Non fu certo la sola opera legislativa di T., che si compiacque di esercitare frequentemente il suo ius edicendi con la collaborazione del senato e dei proceres sacri palatii. Alcuni editti furono anche pubblicati per uso particolare dei Goti.
I suoi successori legiferarono meno e meno bene. Gli editti di Atalarico, di cui uno, in undici capitoli, si suol chiamare l'editto di Atalarico per eccellenza, chiudono sotto un pomposo manto di retorica un ben tenue contenuto.
Bibl.: I. von Glöden, Das römische Recht im ostgothischen Reich, Jena 1843; A. Gaudenzi, Gli editti di Teodorico e di Atalarico e il diritto romano nel regno degli Ostrogoti, Bologna 1884; id., Die Entstehungszeit des Edictum Theodorici, in Zeitschrift der Sav. St. f. Rechtsg. (rom. Abt.), XII (1891); F. Schupfer, L'editto di Teodorico, in Rend. Accad. Lincei, 1887; F. Patetta, Sull'anno della promulgazione dell'editto di Teodorico, in Atti Accad. Torino, 1893; Trombetti, L'editto di Teodorico, Verona 1895; P. Del Giudice, Due note all'editto di Atalarico, Torino 1898; A. von Halban, Das römische Recht in germanischen Volksstaaten, Breslavia 1899; L. Sorrentino, Il regno di Teodorico rispetto alla politica e al diritto, Napoli 1904.