RESTAURO
di Bruno Zanardi eSebastiano Sciuti
Restauro
di Bruno Zanardi
sommario: 1. Il concetto di restauro nel Novecento e la figura di Cesare Brandi. 2. Il corpo delle leggi di tutela promulgate in Italia nel 1939 e la rimozione della questione ambientale. 3. L'applicazione della Teoria del restauro di Brandi e le attività dell'Istituto Centrale del Restauro (ICR) fino al 1973. 4. La direzione dell'ICR di Giovanni Urbani (1973-1983) e il rapporto tra restauro e conservazione dell'ambiente. 5. La prevenzione e la manutenzione quali fondamenti della 'conservazione programmata' di Urbani. 6. Alcuni esiti delle attività dell'ICR dopo il 1973. 7. L'Opificio delle Pietre Dure e altri istituti italiani e stranieri per la conservazione e il restauro. □ Bibliografia.
1. Il concetto di restauro nel Novecento e la figura di Cesare Brandi
Tradizionalmente, il termine restauro ha sempre avuto il significato di operazione tesa a rimettere in efficienza d'uso l'oggetto su cui si interviene, senza distinguere tra semplice manufatto e opera d'arte. Questo vale fino all'avvento dell'illuminismo, quando viene definitivamente acquisita la nozione umanistica delle testimonianze artistiche come "spettacolo del passato" (v. Minguet, 1981). Ed è proprio in funzione di questa nuova visione storicistica del patrimonio artistico che, da quel momento, il termine restauro inizia a essere utilizzato soprattutto per indicare gli interventi che si conducono su opere d'arte antiche, limitatamente, tuttavia, alle sole sculture e architetture. Nel Novecento, infine, si produce il definitivo spostamento del significato di questo termine da 'intervento per somma di aggiunte funzionali all'uso' a 'intervento per distinzione e, nella quasi totalità dei casi, sottrazione di quelle stesse aggiunte': ad esempio, la rimozione di una o più ridipinture d'invenzione condotte su di un dipinto lacunoso, l'eliminazione di uno o più ripristini in anastilosi delle zone rotte o perdute di una scultura, la demolizione di una o più ricostruzioni nello stile volta a volta 'moderno' di un'architettura antica, e così via.
Due sono i principali indirizzi metodologici seguiti nel restauro del Novecento, ed entrambi si affermano negli anni trenta, superando il filologismo stilistico ottocentesco che ancora caratterizzava gli interventi dei primi decenni del secolo. Uno è quello strettamente tecnicistico, che nasce negli Stati Uniti (v. Pease, 1950) e si fonda sulla presunzione dell'esattezza scientifica, di natura analitica, della distinzione tra materia originale (quindi da conservare) e tutto quanto è spurio (perciò da eliminare). L'altro indirizzo è quello che sottopone ogni dato tecnico-scientifico relativo alla materia del manufatto su cui si interviene a una riflessione critica di natura estetica e storica; indirizzo che vede il suo fondamento disciplinare nella Teoria del restauro, un'opera che Cesare Brandi inizia a elaborare sul principio degli anni quaranta e che sarà pubblicata in volume nel 1963 (v. Brandi, 1963; v. Petraroia, 1986), per poi confluire in gran parte nella Carta del restauro del 1972. Un testo, la Teoria di Brandi, in cui un'applicazione inevitabilmente parziale degli strumenti di indagine della filologia testuale ottocentesca (v. Timpanaro, 19812) si trova riunita in forma nuova e innovativa con le dottrine estetiche di Benedetto Croce (queste ultime tuttavia temperate da una precoce conoscenza della fenomenologia husserliana: v. Cordaro, 20032, pp. 45-47). Una teoria, quella di Brandi, che inevitabilmente paga un tributo all'egemonia che la pittura ha sempre più risolutamente esercitato, dall'Ottocento in poi, su scultura e architettura, e che troverà forma definitiva nel volume del 1963. Ma anche una teoria che subito si pone come punto di partenza metodologico delle attività operative dell'Istituto Centrale del Restauro (ICR), istituito a Roma nel 1939 con la legge n. 1240. Quest'ultima è parte dell'organico corpo di leggi inerenti la tutela del patrimonio artistico promulgate in quello stesso anno: allora certamente il più avanzato nel mondo, oltre che il primo del genere, dopo le celebri leggi inglesi settecentesche sulla protezione del paesaggio (v. Cazzato, 2001). L'ICR viene inaugurato il 18 ottobre 1941 e Cesare Brandi ne è subito direttore, restando tale fino al 1961. E sarà la nozione brandiana del restauro come "atto critico" a raccogliere immediatamente una vasta adesione anche in ambito internazionale.
2. Il corpo delle leggi di tutela promulgate in Italia nel 1939 e la rimozione della questione ambientale
Le leggi di tutela del 1939 senz'altro miglioravano quelle precedenti, e in particolare la principale tra loro, la n. 364 del 1909, integrandone molte lacune. Del resto, se è noto come il corpo delle nuove leggi sulla tutela sia nato per i timori di prossime e sempre più allargate guerre, è altrettanto noto come esso facesse parte del lungimirante e organico disegno di una 'politica delle arti' ideata nella seconda metà degli anni trenta da Giuseppe Bottai, allora ministro dell'Educazione Nazionale (v. Bottai, 1992). Si può dunque ipotizzare che quelle leggi nascessero dalla convinzione - peraltro mai emersa nei documenti ufficiali, ma con ogni probabilità presente nelle menti dei loro promotori (Bottai, Brandi, Giulio Carlo Argan, Santi Romano e altri ancora) - di una crisi irreversibile delle ragioni culturali e socio-economiche che fino a quel momento avevano mantenuto pressoché intatto il patrimonio storico-artistico e paesistico dell'Italia. Se questa ipotesi fosse vera andrebbe riconosciuto enorme merito alla precocità di quell'intuizione, visto che la stessa 'crisi di civiltà' valeva (e vale) per l'intero Occidente.
In ogni caso, nessuna di quelle leggi prevedeva norme diverse dal restauro circa la conservazione materiale dei manufatti artistici; nemmeno la principale tra loro, la n. 1089 del 1939, esplicitamente intitolata alla "Tutela delle cose d'interesse artistico e storico". Quindi, per legge, la tutela materiale del patrimonio artistico coincideva con il suo restauro; e la stessa fondazione dell'ICR finiva di fatto con l'essere la certificazione tecnico-scientifica di quel modo di intendere la tutela. Così procedendo, si operava però una completa dissociazione del restauro dal problema ambientale, affrontato come una questione sostanzialmente storico-estetica nella specifica legge n. 1497, sempre del 1939, dedicata alla "Protezione delle bellezze naturali". Né ciò avvenne per caso. L'omissione del problema ambientale era infatti dovuta alla condizione ancora sostanzialmente precapitalistica dell'Italia di quel momento, che consentiva di guardare all'ambiente come a un'entità per così dire 'autoconservata'. Prima della seconda guerra mondiale, infatti, pochissimi erano gli insediamenti industriali presenti nel paese. Le campagne, le zone appenniniche e quelle montagnose erano ancora tutte capillarmente abitate (e coltivate), e solo alcune grandi città presentavano il problema delle moderne periferie, mentre le altre ancora coincidevano con i propri centri storici. In più, una tutela che si identificava con una somma di singoli restauri, soprattutto finalizzati a esigenze critico-filologiche, ben si conciliava con un'altra importante ragione per la quale l'ICR era nato: essere lo strumento esemplare della riscoperta - su documenti filologicamente certi - delle radici figurative romanze e risorgimentali della nuova Italia unita; così che il disegno di Giulio Carlo Argan per l'istituzione dell'ICR, del quale subito Cesare Brandi fu parte integrante, veniva per molti versi a collocarsi ancora idealmente al seguito della riformulazione romantica del concetto di nazione: un concetto che, nell'Ottocento, aveva investito l'intera Europa.
3. L'applicazione della Teoria del restauro di Brandi e le attività dell'Istituto Centrale del Restauro (ICR) fino al 1973
L'indirizzo scientifico subito preso dall'ICR assumeva come premessa fondamentale il concetto di reversibilità dei materiali utilizzati negli interventi - un concetto peraltro di base nel restauro del Novecento - e in termini generali si identificava nella definizione data da Brandi del restauro quale "momento metodologico del riconoscimento dell'opera d'arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro" (v. Brandi, 1963, p. 34). Uno dei cardini della teoria brandiana diviene l'elaborazione del concetto di "unità potenziale dell'opera d'arte" (v. Brandi, Il ristabilimento…, 1950), la quale, servendosi anche della psicologia della Gestalt, serve a sostenere le ragioni di una presentazione estetica di testi critici originali quasi sempre restituiti dal restauro in condizioni frammentarie. Le lacune di colore che non siano "ricostruibili in base alla speciale metalogica che l'immagine possiede e che il contesto dell'immagine consente senza possibili alternative" (v. Brandi, 1963, p. 102) verranno perciò lasciate sotto il livello della pellicola pittorica, anche se ciò costasse il lasciare in vista la materia del supporto (quindi intonaco, legno, tela, ecc.); ove invece quei nessi metalogici esistano, le lacune saranno stuccate al livello della pellicola pittorica e reintegrate con colori all'acquarello stesi a 'tratteggio', vale a dire con una serie di tratti verticali che infine si compongono tra loro assumendo forma e colore del contesto figurativo originale, così da rendere subito riconoscibile - e, nel caso, facilmente reversibile - l'intervento. Una tecnica di reintegrazione delle lacune, questa del tratteggio, applicata da Brandi per la prima volta nel 1946 in uno dei tanti restauri storici dell'ICR: la ricomposizione e la ricollocazione in sito degli affreschi di Lorenzo da Viterbo nella cappella Mazzatosta, della chiesa di Santa Maria della Verità a Viterbo (1469), che erano stati ridotti in frammenti da un bombardamento del 1944.
Altro cardine del pensiero di Brandi è il rispetto dell'autenticità della materia originale. In questo senso assume fondamentale importanza la nozione di 'patina' che egli rintraccia come specifica voce del Vocabolario toscano dell'Arte del disegno di Filippo Baldinucci, edito nel 1681. Il sostanziale apprezzamento fatto da Baldinucci di questa alterazione - "patina […] diconla altrimenti pelle, ed è quella universale scurità che il tempo fa apparire sopra le pitture, che anche talvolta le favorisce" - consente infatti a Brandi di dimostrare come il problema del naturale imbrunimento dei leganti (in particolare oleosi) e delle vernici originali, cioè dell'insieme che appunto forma la patina, fosse già presente nel lessico artistico almeno dal Seicento; e che quindi la conservazione delle patine sia tutt'altro che un sensibilismo romantico, come da molti sostenuto. E proprio sul tema critico della conservazione della patina si incentrano le storiche battaglie accese da Brandi negli ultimi anni quaranta del Novecento sulle puliture, in particolare contro quelle dei dipinti su tavola di scuola italiana della National Gallery di Londra, eseguite in quello stesso periodo dai restauratori inglesi eredi dell'indirizzo tecnicista nato negli Stati Uniti (v. Brandi, 1949; v. Gombrich e altri, 1988). Né termine diverso da 'patina' usa lo stesso Brandi per stigmatizzare le puliture, sempre inglesi, delle sculture di Fidia nel Partenone (450 a.C.) conservate al British Museum di Londra, i cosiddetti Elgin Marbles (v. Brandi, Nota…, 1950), equiparando così, di fatto, le puliture dei dipinti a quelle delle superfici lapidee.
Tutto questo non deve però far pensare che l'ICR lavorasse in quegli anni solo su temi metodologici di natura critico-estetica. Una delle fondamentali funzioni previste dalla legge istitutiva era infatti quella formativa: l'art. 9 prevedeva che all'ICR fosse annessa una scuola per restauratori (come da subito è stato), il cui modello didattico avrebbe poi dovuto essere diffuso in nuove scuole da aprire nelle varie regioni italiane (come mai è avvenuto), per arrivare a una generale uniformità di indirizzo metodologico e di tecniche e materiali utilizzati nei restauri in Italia. L'impeccabile qualità del modello didattico messo a punto dell'ICR è testimoniata dal fatto che esso è stato adottato da quasi tutte le altre scuole di restauro nel mondo (ultima, quella aperta in Cina nel 1995). Un'altra fondamentale funzione svolta dall'ICR è stata quella dell'esecuzione di restauri per così dire esemplari. Basterà citare solo tre casi: 1) l'intera decorazione murale della basilica di san Francesco ad Assisi, con gli affreschi variamente condotti all'incirca in un quarto di secolo (1290-1315 ca.) da Cimabue, Torriti, Giotto, Pietro Lorenzetti, Simone Martini e compagni: un intervento iniziato nel 1941 con le Storie di san Francesco nella chiesa superiore e da allora sempre proseguito in varie stazioni fino a oggi, dopo il gravissimo terremoto del 1997 che ha distrutto gli affreschi di due vele e di parte dell'arcone d'ingresso della basilica superiore; 2) la grande pala lignea della Maestà (1308-1311), dipinta da Duccio di Buoninsegna sulle due facce per l'altare maggiore del duomo di Siena, eseguito tra il 1953 e il 1958; 3) la tela con La decollazione del Battista, dipinta da Caravaggio nel 1608 e conservata nella cattedrale di san Giovanni a Malta, intervento eseguito tra il 1955 e il 1956.
In quello stesso periodo, l'ICR affronta inoltre molti e importanti temi di natura concretamente conservativa. Si migliorano enormemente le tecniche di contenimento elastico degli inevitabili movimenti del legno indotti dalle variazioni termo-igrometriche negli ambienti in cui i dipinti su tavola sono collocati, mediante 'parchettature' di nuova concezione che consentono al legno di muoversi in modo frenato secondo una direzione programmata. Per citare due soli casi, ricordiamo l'applicazione di questa tecnica alla Maestà di Duccio, durante il già citato restauro del 1953-1958, e al Trasporto di Cristo alla tomba di Raffaello (1507), conservato nella Galleria Borghese di Roma, in occasione del restauro eseguito tra il 1966 e il 1972 che provvide anche ad ancorare la cornice alla tavola. Inoltre, si apre un dibattito sui limiti conservativi delle tecniche tradizionali di foderatura 'a caldo' dei dipinti su tela - ancor oggi le più praticate -, vale a dire gli incollaggi con 'colla di pasta' o cera (cioè con materiali collanti inidonei, in particolare la cera) della tela originale su una nuova tela di supporto. Tali interventi sono normalmente condotti con 'stirature' eseguite soprattutto con ferri da stiro o rulli muniti di resistenze elettriche (cioè con mezzi che esercitano calore e pressione incontrollabili), i quali normalmente provocano danni conservativi irreversibili e spesso gravissimi, che vanno da un infragilimento della tela originale (usando la cera) alla sua abrasione, fino allo schiacciamento e alla dislocazione dello strato dipinto e di quello della sottostante preparazione.
Questo dibattito - che purtroppo in Italia non avrebbe avuto seguito - nel 1974 fu oggetto di uno storico convegno tenuto al National Maritime Museum di Greenwich, e proseguì soprattutto tra Inghilterra, Stati Uniti e Olanda, portando alla messa a punto di nuove tecniche di foderatura: queste tendono, in primo luogo, a evitare le foderature stesse tramite interventi localizzati dove occorra, oppure - nel caso in cui questo non sia possibile - a consentirne l'esecuzione esercitando pressione e/o calore (quest'ultimo, solo se necessario) in modo controllato e uniforme, così da ridurre al minimo il trauma alla superficie dipinta (v. Urbani, 1969; v. Berger, 1992).
Di particolare importanza è stato poi il pionieristico interesse dell'ICR per la conservazione del patrimonio artistico all'aperto, sviluppato da Pasquale Rotondi quando, nel 1962, successe a Brandi nella carica di direttore dell'Istituto. È per sua volontà che nel 1964 l'ICR organizzò a Spoleto un Simposio (i cui atti sono rimasti inediti), dove per la prima volta si discusse in termini tecnico-scientifici allargati della conservazione dei metalli non ferrosi, ponendo in tal modo un problema riguardante soprattutto il patrimonio archeologico. Subito dopo lo stesso Rotondi aprì all'ICR una specifica sezione dedicata al restauro dei materiali archeologici diretta da un'altra delle figure 'storiche' dell'Istituto, l'archeologa Licia Vlad Borrelli. Nel 1966 per la prima volta fu effettuato un intervento su una scultura in pietra all'aperto - l'architrave del portale centrale del Duomo di Siena scolpito da Tino da Camaino tra il 1315 e il 1320 - utilizzando gli stessi principî scientifici teorizzati da Brandi e le identiche tecniche di restauro usate negli interventi sulle pitture murali (dai consolidamenti con le resine acriliche, alle puliture con solventi organici in sospensione con gel), come poi avrebbero fatto quasi tutti nel mondo intero. A eseguire questo lavoro sperimentale fu un altro dei protagonisti della storia dell'ICR e del restauro del Novecento, Paolo Mora. Né appare improbabile che l'intervento di Siena sia stato anche la risposta data dall'ICR, quindi in qualche modo dall'Italia, alle forti polemiche internazionali di quegli stessi anni contro la 'Parigi bianca' voluta da André Malraux, allora ministro della Cultura nel governo de Gaulle: polemiche fondate su invalicabili ragioni tecniche e conservative, in quanto si criticava la brutalità dei mezzi utilizzati (sabbiature industriali ad acqua) che in pochissimo tempo trasformarono da nere in bianche le facciate in pietra dei monumenti della capitale francese.
4. La direzione dell'ICR di Giovanni Urbani (1973-1983) e il rapporto tra restauro e conservazione dell'ambiente
Nel 1966 tre avvenimenti danno inequivocabile dimostrazione della gravissima condizione di crisi raggiunta dall'ambiente in Italia. Il primo è di natura urbanistica, e sono gli smottamenti e le frane che conducono al crollo di alcuni palazzi abusivi, costruiti poco prima ad Agrigento, trascinando l'intera città in un immenso disastro non solo ambientale. Il secondo e il terzo sono collegati alle forti piogge del novembre di quell'anno, che investono l'intera Italia producendo ovunque gravi danni; ma che, in particolare, creano le condizioni perché Venezia venga devastata da un fenomeno di 'acqua alta' di eccezionale gravità (194 cm), e perché l'Arno straripi a Firenze, inondando monumenti e case. Diviene così drammaticamente evidente come il tema del restauro non possa più essere affrontato senza tener conto della nuova situazione di degrado ambientale, tanto rapidamente raggiunta dal paese.
A mettere in campo la questione del restauro delle opere d'arte in rapporto all'ambiente è Giovanni Urbani - altra figura nodale, non solo per l'Italia, del restauro nel Novecento - il quale pone come premessa generale al suo lavoro il riconoscimento della definitiva sistematizzazione data da Brandi a tutti i problemi di natura essenzialmente storico-filologica ed estetica connessi al restauro: puliture, trattamenti delle lacune, tecniche di reintegrazione dell'immagine (v. Urbani, 2000, pp. 69-74). Dopo di che egli passa a indicare come base necessaria di una nuova concezione del restauro la nozione di 'tecnica' così come l'aveva formulata Martin Heidegger. Per il filosofo tedesco, infatti, nell'essenza della tecnica non vi è nulla di tecnico nel senso di tecnologico - quindi di macchine, strumenti, ritrovati o prodotti - bensì qualcosa di molto più profondo e generale, che Urbani sintetizza in tal modo: "nell'epoca moderna, lo spirito della tecnica è all'opera dovunque l'esistente - sotto qualsiasi forma si presenti, quindi anche sotto quella di un movimento di idee o di una tradizione culturale - venga concepito come un fenomeno finito e concluso in se stesso, riguardo al quale, per una ragione qualsiasi, ci volgiamo come a un oggetto di indagine, o come campo di attività specialistica" (cit. in Urbani, 2000, p. 141). Quindi solo il rafforzamento e lo sviluppo della tecnica, delle cui formidabili potenzialità creative aveva appena dato conto lo sbarco nel 1969 dell'uomo sulla Luna, potranno risolvere il problema conservativo di quel patrimonio storico-artistico di cui si è definitivamente concluso il percorso storico, divenendo perciò un 'passato'. Né a Urbani sfuggiva come il fine eminentemente critico in senso storico-artistico dei moderni interventi di restauro stesse di fatto sostituendo l'originaria funzione d'uso - devota, abitativa o semplicemente decorativa - del patrimonio artistico con una sorta di imbalsamazione storicistica, alla quale non poteva che seguire un'innaturale quanto generalizzata museificazione. Ma un interesse storico verso il patrimonio artistico è inevitabilmente di pochi; ed è evidente che nulla può essere tramandato alle generazioni future se la salvaguardia di tale patrimonio non rientra in un diffuso interesse della società civile. Interesse che Urbani ritrova di nuovo nell'ambiente, e in particolare nella questione ecologica, sottolineando che "in un'epoca come la nostra in cui l'uomo comincia ad avvertire la terribile novità storica dell'esaurimento del proprio ambiente di vita, il fatto che l'arte del passato testimoni della possibilità che il fare umano sia integrativo, e non distruttivo, della bellezza del mondo, può far sì che essa, accanto alla tradizionale destinazione d'oggetto di studio o di godimento estetico, assuma la nuova dimensione di componente ambientale antropica altrettanto necessaria al benessere della specie dell'equilibrio ecologico tra le componenti ambientali naturali" (v. Urbani, 2000, p. 9).
5. La prevenzione e la manutenzione quali fondamenti della 'conservazione programmata' di Urbani
L'attenzione di Urbani al restauro dei manufatti artistici nel rapporto tra 'tecnica' (nel significato heideggeriano) e conservazione dell'ambiente avviene per tappe successive, ed è certamente sollecitata dal dibattito internazionale immediatamente seguito ai citati disastri di Venezia e Firenze e dall'incontro con due figure, non a caso di formazione scientifica, come il fisico tecnico Marcello Paribeni e il chimico industriale Giorgio Torraca. Nella prima di queste tappe, Urbani dichiara inevasa la fondamentale questione di un'esatta definizione dello stato di conservazione del manufatto su cui si interviene, giacché in genere ci si limita a giudizi di natura semplicemente visiva - 'cattivo, mediocre, buono' - e mai fondati su basi scientifiche; in realtà, si potrà dire di non essere intervenuti a caso su un'opera d'arte solo quando sarà stata individuata una "metodologia di indagine che riferisca dello stato attuale della cosa da conservare come di una entità misurabile, a partire dalla quale siano oggettivamente deducibili le tecniche appropriate per rallentarne al massimo la continua evoluzione [del deperimento]" (v. Urbani, 1973, p. 8). Dopo di che Urbani sottolinea come l'inevitabile aggiunta di nuove sostanze connessa a ogni intervento di restauro renda ancora più eterogeneo l'originario complesso di materiali e strutture costitutivo di ogni opera d'arte, e avverte che quanto più un oggetto è eterogeneo, tanto più complessa ne diviene la conservazione. Ciò vale ancora di più quando queste eterogeneità siano indotte da sostanze di formulazione moderna, senza quindi conoscerne esattamente l'evoluzione nel tempo, e quando queste stesse sostanze, pur se in teoria reversibili, non lo siano più, o lo siano soltanto limitatamente, perché divenute parte integrante del manufatto di partenza. Così da poter affermare - allora e oggi - che ogni restauro, oltre a essere un intervento post factum (un intervento, cioè, che riconosce un danno avvenuto), rappresenta anche un potenziale acceleratore del naturale degrado cui è sottoposta nel tempo un'opera d'arte. Il problema che si pone a un conservatore, dunque, non è tanto quello di come arrivare a eseguire restauri sempre migliori, quanto quello di fare in modo che le opere d'arte abbiano sempre meno bisogno di restauri.
Partendo da queste premesse, Urbani passa poi a osservare come nuovissimi e violenti fenomeni di squilibrio ambientale - dalle eccezionali variazioni nella distribuzione della popolazione sul territorio allo sviluppo di una sempre più rapace edilizia speculativa, dall'avanzare di un capillare dissesto idrogeologico all'inarrestabile progredire dell'inquinamento industriale così come di quello derivato dai riscaldamenti domestici e dal traffico veicolare urbano - stiano provocando la manomissione, fino al rischio della cancellazione, della qualità certamente più singolare ed entusiasmante del patrimonio artistico italiano: la sua inestricabile contestualità al territorio sul quale è andato stratificandosi in millenni. E da questa piana constatazione conclude che la nuovissima sfida di fronte alla quale si trova l'ICR - in quanto luogo istituzionale dell'elaborazione delle politiche di conservazione materiale del patrimonio artistico della nazione - è quella di mettere a punto gli idonei strumenti tecnico-scientifici e organizzativi che consentano il passaggio dal restauro alla 'conservazione programmata'. Il passaggio, cioè, da una tutela che si identifica in una somma di singoli interventi di restauro potenzialmente dannosi e sporadicamente condotti su un agglomerato puntiforme di manufatti, a una tutela che si identifica con la programmazione di una ragionata attività di prevenzione dai rischi ambientali e di una manutenzione ordinaria da svolgere sull'insieme del patrimonio artistico, per far sì che questo abbia, appunto, sempre meno bisogno di restauri. È giusto evidenziare che la nozione di 'conservazione programmata' è valida per qualsiasi paese nel quale esistano problemi di tutela di contesti urbani e territoriali segnati da presenze monumentali storiche: dall'Acropoli d'Atene alle case medievali in legno dipinto di Bergen, in Norvegia, dal centro storico di Marrakech, in Marocco, alla Grande Muraglia cinese o ai templi Inca del Perù.
Quello operato da Urbani è dunque un significativo spostamento culturale del fine stesso delle attività di restauro. Durante tutto il periodo della sua direzione dell'ICR (1973-1983) egli ha elaborato una lunga serie di documenti sempre finalizzati a garantire omogeneità metodologica e unità di indirizzo organizzativo per le opere di conservazione del patrimonio artistico italiano (quest'ultimo sempre inteso come un insieme indissolubilmente legato ai vari territori regionali su cui insiste). Tra questi, il più importante e innovativo resta il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria (v. Urbani, 1976). Si tratta di un concreto modello operativo di governo dei problemi conservativi dove, tra l'altro, per la prima volta si opera una 'georeferenziazione' delle zone di rischio ambientale presenti in un dato territorio, collegandole a entità, dislocazione e materiali costitutivi del patrimonio artistico che su quello stesso territorio insiste; e dove di nuovo per la prima volta si procede a un coerente collegamento delle attività di tutela dello Stato centrale - nel caso, l'ICR - con Regioni, Enti locali, Università e impresa privata, seguendo quel filo del "lavoro comune" che per Urbani à il principio di ogni intervento che voglia darsi un fine (v. Cordaro, 20032, pp. 31-34). Ma tra le importanti iniziative avviate da Urbani in quel periodo vanno anche ricordate: a) il tentativo di fondare una ricerca scientifica applicata al settore conservativo, indicandone alcune fondamentali linee di tendenza (v. Urbani, 1973); b) la stesura di un protocollo d'intesa con le Regioni per l'istituzione di laboratori sperimentali d'indirizzo tecnico-scientifico tra loro omogenei, al cui interno - tra l'altro - si sarebbero dovuti formare gli addetti alla tutela, valorizzazione e conservazione del patrimonio artistico dislocato in una specifica Regione, oppure in Regioni tra loro confinanti (così come in qualche modo era già avvenuto riguardo al corso per la formazione di addetti alla manutenzione dei beni culturali da lui stesso sperimentalmente promosso nel 1974 a Spoleto all'interno della redazione del Piano umbro: v. Urbani 1976 e 2000, pp. 43-48; v. Toscano, 1999); c) la mostra La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico, dove si dava specifico rilievo alla fondamentale nozione di 'rischio ambientale' già presente nel Piano umbro (v. Urbani, 1983), una iniziativa la cui importanza emerge chiaramente dal fatto che, se attuata, avrebbe tra l'altro quasi certamente potuto evitare il crollo di parte della volta della basilica superiore di Assisi durante il terremoto del 1997; d) il tentativo di sostituire la legge di tutela n. 1089/39, evidenziando come l'Italia del 1939 a cui quello strumento giuridico faceva riferimento semplicemente non esistesse più (v. Urbani, 2000).
Il disegno tecnico-scientifico e organizzativo di tutela messo a punto da Urbani non ha trovato tuttavia accoglienza alcuna in ambito ministeriale, così come in quello universitario; e nessuna delle sue iniziative ha avuto seguito. A cambiare le cose non è bastata nemmeno la nascita del Ministero per i Beni Culturali, istituito nel 1975 sulle ceneri di quella Direzione generale delle antichità e belle arti che, dall'interno del Ministero della Pubblica Istruzione, aveva retto dal 1939 i destini del patrimonio artistico italiano. Il nuovo Ministero si è insediato infatti in modo del tutto nominalistico, senza cioè modificare in alcun modo l'organizzazione dell'apparato amministrativo e senza provvedere al varo di una nuova legge di tutela su cui fondare le proprie attività (v. Cassese, 1976); e ha fondato la propria diversità dall'amministrazione precedente sul solo fatto di assumere nella sua stessa titolazione la nozione di bene culturale. Quest'ultima (una semplice nozione riassuntiva delle infinite tipologie dei manufatti costituenti un patrimonio storico e artistico) era stata adottata, in senso giuridico, per la prima volta dall'UNESCO nel 1954 nella Convention pour la protection des biens culturels en cas de conflit armé. Negli anni settanta tale nozione si è trovata al centro di un importante dibattito nato per forti ragioni culturali, ma che - non essendosi mai concretizzato in indicazioni tecniche - ben presto si è ridotto a una serie di fumose discussioni tese a riunire nella sempre più ipertrofica quanto indifferenziata categoria di 'beni culturali' tutto ciò che attiene al fare umano: dalla scultura adrianea al polittico trecentesco, fino a una cancellata in ferro o alla pantofola di una badessa. Con il risultato di allontanare sempre più la conservazione del patrimonio artistico della nazione, cioè dei 'beni culturali', dalla condizione preliminare perché una qualsiasi impresa scientifica possa essere perseguita: delimitare l'ambito dell'universo che si vuole esplorare (v. Zanardi, 1999).
6. Alcuni esiti delle attività dell'ICR dopo il 1973
Pur inascoltato nelle sue linee metodologiche generali, il pensiero di Urbani produce comunque alcuni effetti sugli interventi di restauro condotti, non solo in Italia, durante e dopo il periodo della sua direzione dell'ICR. Il più significativo, per i suoi risvolti eminentemente conservativi, è la progressiva messa al bando di tutte le forme di trasporto della pellicola pittorica originale su un nuovo supporto; e ciò vale soprattutto per tele, tavole e dipinti murali, per i quali ultimi si parla di 'strappo' (per il distacco del solo colore) o di 'stacco' (per il distacco dello strato colore-intonaco). È questa una tecnica di restauro assolutamente brutale, con gravissime quanto irrisarcibili ricadute conservative, storico-tecniche ed estetiche. Per convincersene, basti pensare a come l'eliminazione del supporto riduca a uno o due millimetri la materia originale da conservare, compromettendo irreparabilmente una componente essenziale dell'originalità dell'opera d'arte: vengono infatti modificati per sempre alcuni aspetti ottici di cui certamente gli artisti tenevano conto in partenza, quali la rugosità o meno dell'intonaco, la levigatezza dell'imprimitura a gesso e colla di una tavola, la trama di una tela, così come la riflessione sul colore della preparazione e la tridimensionalità dello spessore del colore (quest'ultima, in particolare, importante per la calce usata nella pittura murale). Va però anche detto che l'uso di trasportare i dipinti su nuovi supporti iniziò nel Settecento (v. Conti, 19882) e che quello di strappare gli affreschi trova una decisiva diffusione soprattutto dopo il 1945, per una ragione che appare comprensibile se riportata a quel contesto, vale a dire la diffusa convinzione del prossimo arrivo di una terza guerra mondiale. Gli immensi danni provocati dai bombardamenti condotti nella guerra da pochissimo conclusa - in particolare quello che nel 1944 determinò la semidistruzione del Camposanto di Pisa e, con esso, di uno dei più importanti cicli di affreschi della civiltà figurativa dell'Occidente (XIV-XVI secc.); e l'altro che, a Padova, mancò di un nulla la Cappella degli Scrovegni di Giotto (1304), colpendo peraltro la vicinissima chiesa degli Eremitani e devastando gli affreschi di Andrea Mantegna nella Cappella Ovetari (1449-1556) - fecero invocare da uno dei grandi storici dell'arte del Novecento, Roberto Longhi (v., 1950), lo strappo preventivo di tutti i più importanti cicli di affreschi italiani. Fortunatamente nessuna nuova guerra venne però intrapresa in Europa, così che non trovano giustificazione le decine e decine di migliaia di metri quadrati di affreschi che furono strappati in Italia negli anni cinquanta-sessanta. A meno di non sostenere che quegli strappi vennero condotti per ragioni scientifiche, legate alla ricerca dei disegni di progetto in dimensione al vero realizzati sullo strato di intonaco sempre sottostante quello finale affrescato: quelle sinopie, che prendono il nome dal colore, appunto il 'rosso sinopia', con cui erano per lo più realizzate. Ma l'assai cospicuo numero di sinopie ritrovate sotto gli affreschi non ha di fatto fornito sostanziali contributi alla storia dell'arte, per la quasi costante semplicità formale dei loro disegni, né ha prodotto importanti acquisizioni per la storia delle tecniche della pittura murale. Così da poter considerare come epigrafe della lunga stagione delle sinopie le decine di migliaia di metri quadrati di dipinti murali strappati da chiese e palazzi di Firenze e della Toscana - la regione dove più estesamente venne applicata questa tecnica: bastino per tutti gli oltre 3.000 metri quadrati di affreschi strappati dal Camposanto di Pisa -, dipinti che di fatto nessuno sa più dove e come riesporre, perché infragiliti a tal punto dagli strappi da non poter più essere ricollocati nei luoghi originari; oppure da esserlo solo a patto di mettere in campo provvidenze ambientali di contorno (vetrate, condizionamenti, tende, ecc.) costosissime per messa in opera e gestione, e difficilissime da far convivere esteticamente con i luoghi in cui impiantarle.
Sempre in questi anni, un altro risultato dell'azione dell'ICR di Urbani - in questo caso raccogliendo parallele iniziative internazionali, ma anche promuovendone in proprio in collaborazione con diversi laboratori di università e industrie private italiane e straniere - è il progressivo perfezionamento degli studi preliminari al restauro con l'introduzione dei più aggiornati metodi di analisi, che man mano divengono possibili senza prelevamento di campioni (metodi non distruttivi, quali riflettografia, termovisione, analisi di fluorescenza indotta in vario modo, ecc.), o con prelevamento di campioni di minime dimensioni (metodi cromatografici, spettroscopici, microscopia elettronica, ecc.). Per quanto perfezionate, non bisogna però attribuire a queste analisi poteri miracolosi, abusandone come spesso si tende a fare (v. Cordaro, 20032, pp. 98-102). Per una corretta interpretazione dei dati ottenuti, fondamentale è infatti uno studio storico che confronti le fonti documentarie, qualora esistano, relative all'oggetto su cui si interviene, con le prescrizioni tecnico-esecutive della coeva (ma non solo) trattatistica tecnica. Mentre quando si volesse procedere alla redazione di un progetto di conservazione di quello stesso manufatto, ai dati analitici e storico-documentari si dovranno anche aggiungere quelli ottenuti da uno studio dell'ambiente in cui l'oggetto è stato esposto in passato e di quello nel quale sarà esposto in futuro. Occorre poi evitare la confusione, assai frequente, fra analisi condotte su un singolo bene e ricerca scientifica nel settore conservativo; quest'ultima richiede un complesso impegno multidisciplinare diretto sia all'approfondimento della conoscenza dei generali meccanismi di degrado di un bene, sia alla sperimentazione dei metodi più adatti per prevenirlo o rallentarlo, la quale rappresenta un campo di studi finora poco o per nulla praticato. Stenta, infatti, ad avviarsi una ricerca di base che riferisca sulla velocità del deperimento dei materiali in condizioni ambientali definite in ogni loro aspetto e, soprattutto, sulle interazioni sinergiche in forma di scambi di energia termica, fotochimica e quant'altro, tra ambiente e manufatti da conservare (v. Lazzarini, 1999).
Infine, un altro tema ripreso dal pensiero di Urbani è quello della redazione di un sistema di carte tematiche georeferenziate: lo stesso da lui posto a cardine del menzionato Piano umbro. Nel 1990 viene infatti avviata la stesura di una 'Carta del rischio' del patrimonio artistico e culturale italiano, alla quale ancora oggi (marzo 2003) l'ICR sta lavorando (v. Cordaro, 20032, pp. 31-34). E forse va qui aggiunto che questa 'Carta' viene elaborata dall'ICR sulla base della classificazione del patrimonio artistico presente nelle 'Guide rosse' del Touring Club Italiano. Tale circostanza segnala il forte ritardo in cui si trova la redazione, comunque in atto, del catalogo generale del nostro patrimonio artistico, ritardo le cui pesantissime ricadute nel settore conservativo non hanno bisogno di essere sottolineate, essendo ovvio come nessuna politica di tutela che voglia fondarsi su basi razionali possa venire attuata in assenza di un catalogo che definisca esattamente tipologia, dislocazione e numero dei manufatti da conservare. E attesta una volta di più la confusione che regna oggi in Italia nel settore della tutela, data l'esistenza di un numero rilevante di catalogazioni parziali di natura centrale, regionale, provinciale, comunale, ecclesiastica e di altri enti ancora, talvolta duplicate o triplicate per uno stesso patrimonio, perché mai collegate tra loro. Un caso finora unico nel paese sono invece le ricerche, ideate da Bruno Toscano, che l'Università di Roma ha condotto per circa un quarto di secolo sulla pittura del Sei-Settecento in Umbria: un lavoro, questo, il cui maggior merito è d'aver dimostrato come la ricerca scientifica universitaria, che in campo umanistico in Italia sembra sia quasi del tutto dimenticata, possa svolgere una fondamentale funzione di tutela; ovviamente non da sola, ma quando sia condotta in collaborazione con le soprintendenze, come peraltro mai è stato. Del resto, nessuna soprintendenza ha tentato una catalogazione territoriale se si eccettuano gli esempi, entrambi degli anni settanta del Novecento, delle catalogazioni della Val di Susa e dell'Appennino pistoiese, curate la prima da Gianni Romano, la seconda da Antonio Paolucci. Ma si tratta di episodi che non hanno poi avuto seguito alcuno.
7. L'Opificio delle Pietre Dure e altri istituti italiani e stranieri per la conservazione e il restauro
Gli immensi danni prodotti al patrimonio artistico di Firenze dall'alluvione del 1966 - ad esempio, la sostanziale perdita del Crocifisso di Cimabue (ante 1280) conservato nella chiesa di Santa Croce a Firenze - hanno fatto sì che lo storico Opificio delle Pietre Dure, nato nel 1588 come officina dei Medici, si trasformasse, sotto la direzione di Umberto Baldini, in uno dei più importanti e attrezzati centri di restauro in Italia e nel mondo, con sede nella Fortezza da Basso (v. Paolucci, 1986). Da allora a oggi moltissimi sono stati i lavori esemplari eseguiti quando si trattava di porre rimedio a una catastrofe, anche grazie alla scuola di formazione per restauratori aperta dallo stesso Opificio nel 1975 sul modello di quella annessa all'ICR: per citarne solo alcuni, l'ingentissimo numero di opere restaurate dopo l'alluvione del 1966, esposte nel 1972 alla storica mostra Firenze restaura (v. Baldini e Dal Poggetto, 1972), fino al recentissimo intervento condotto sulla Croce di Giotto conservata nella chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze. Né va dimenticato il decisivo impulso che i massicci interventi di recupero dei materiali membranacei e cartacei della Biblioteca Nazionale e dell'Archivio di Stato di Firenze, ridotti dall'alluvione a meri blocchi di fango, hanno prodotto in questo settore.
Negli anni settanta e ottanta del Novecento hanno avuto una certa importanza, in Italia, anche altri istituti per la conservazione e il restauro del patrimonio artistico, quali i Laboratori della Misericordia e di San Gregorio della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Venezia, il Centro per la conservazione delle sculture all'aperto Cesare Gnudi di Bologna, e il Centro di restauro della Soprintendenza archeologica di Firenze. Inoltre, negli anni sessanta il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha aperto a Milano, Firenze e Roma centri specificamente dedicati alla conservazione del patrimonio artistico. All'estero, l'istituto per il restauro e la conservazione storicamente più vicino all'esperienza dell'ICR è l'Institut Royal du Patrimoine Artistique (IRPA) di Bruxelles, fondato nel 1948, ma ne esistono molti altri, nati in gran parte a partire dagli anni sessanta, in assoluta sintonia con il rapido, oltre che notevole, sviluppo che questa materia ha avuto in tutto il mondo da allora. Tra essi ricordiamo, in Inghilterra, i londinesi Conservation Laboratory della National Gallery e il Courtauld Institute of Art; in Germania, il laboratorio scientifico dello Staatliche Museum di Berlino; in Spagna, l'Instituto de Patrimonio Histôrico Español di Madrid; in Portogallo, l'Escola Superior de Conservação e Restauro di Lisbona; negli Stati Uniti, lo Smithsonian Institute di Washington e il Getty Conservation Institute di Los Angeles; in Canada, il Canadian Conservation Institute di Ottawa.
Di grande importanza è il lavoro di ricerca e di indirizzo svolto dall'International Institute for Conservation of Historic and Artistic Works (IIC). Fondato nel 1950, ha sede a Londra e conta su una rete di 3.500 esperti del settore sparsi in 75 paesi; dal 1952 pubblica la più importante tra tutte le riviste scientifiche di conservazione e restauro - "Studies in conservation", dal 1932 al 1942 edita con il titolo "Technical studies" -, mentre dal 1955 ha sostituito il Fogg Art Museum e la Freer Gallery of Art nella pubblicazione del fondamentale repertorio su quanto si pubblica nel mondo in questo campo: gli "Art and archaeology technical abstracts", alla cui edizione dal 1983 collabora anche il Getty Conservation Institute, e dal 2001 disponibili on line. Strettissimi sono inoltre i rapporti tra l'IIC e altri istituti di ricerca e indirizzo creati dall'UNESCO per la conservazione e il restauro. Uno è l'International Centre for the Study of the Preservation and the Restoration of Cultural Property - Rome (ICCROM), nato nel 1956 come centro di documentazione e di assistenza tecnica; dal 1959 ha sede stabile a Roma, e a esso è annessa la ICCROM Library, probabilmente la più completa biblioteca tematica su conservazione e restauro del mondo. Un altro istituto è l'International Council of Museums (ICOM), fondato nel 1946; con i suoi 17.000 membri è presente in 140 paesi e ha anche un Comité de Conservation (o Conservation Committee) che prende la sigla ICOM CC. L'ultimo di questi istituti è l'International Council on Monuments and Sites (ICOMOS); nato nel 1965, è costituito da 21 comitati scientifici internazionali formati da esperti provenienti dal mondo intero. Sia l'ICOM che l'ICOMOS hanno sede a Parigi. Tutti questi istituti organizzano periodicamente convegni e seminari specialistici, i cui contributi sono pubblicati in specifici atti e memorie.
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Archeometria
di Sebastiano Sciuti
sommario: 1. Introduzione. 2. I metodi per lo studio e la diagnostica: a) tipi di analisi; b) riprese di immagini; c) sistemi di datazione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Con l'espressione 'scienza per l'arte' si indica generalmente il complesso dei metodi sperimentali delle scienze fisiche, chimiche, biologiche, geologiche e informatiche impiegato per lo studio e la diagnostica di opere d'arte di ogni epoca e stile. Gli archeologi, che hanno applicato per primi i metodi scientifici moderni, hanno coniato per queste attività il termine 'archeometria'. Con l'affinarsi delle tecniche elettroniche e con l'introduzione delle analisi di tipo non distruttivo, il campo delle applicazioni della scienza per l'arte si è esteso - e con esso anche l'uso del termine archeometria - fino a comprendere lo studio e la diagnostica della totalità dei beni culturali: archeologici, storici, artistici, archivistici e librari.
Le attività di ricerca e di diagnostica sono svolte in laboratori specializzati; tuttavia, nel caso in cui il bene artistico sia un dipinto murale, una statua, una vetrata o qualsiasi altro tipo di opera giudicata intrasportabile, si ricorre a esami e diagnostiche in situ. In questi casi, molto frequenti in Italia, si impiegano apparecchiature portatili che, grazie alle ultime innovazioni tecnologiche, forniscono prestazioni confrontabili con quelle ottenute nei laboratori con strumentazioni 'convenzionali'. Oggi si tende a raggruppare in una stazione mobile tutte le strumentazioni portatili richieste per una completa caratterizzazione del bene artistico in questione.
I metodi impiegati in archeometria consentono di aprire due distinti campi d'indagine. Il primo permette di ampliare le conoscenze relative a un bene culturale. Infatti, una ricerca di storia dell'arte o di archeologia, oltre a essere condotta secondo i canoni classici usati dagli esperti umanisti, può essere estesa all'analisi della materia plasmata dall'artista e della tecnica di esecuzione da lui impiegata con l'ausilio del 'riprocessamento' di immagini digitali dell'opera. Il secondo campo di indagine, di fondamentale importanza per la conservazione e il restauro, riguarda tutti i tipi di analisi che consentono di mettere in luce lo stato di conservazione dell'opera artistica, di evidenziare eventuali restauri del passato, spesso rivelatisi dannosi e/o effimeri, e quindi da rimuovere, e infine di formulare opportuni piani di restauro. I risultati di queste diagnostiche, opportunamente memorizzati, costituiscono la cartella clinica che accompagnerà sempre, con i debiti aggiornamenti periodici, l'opera d'arte.
Purtroppo, la gestione del nostro immenso patrimonio di beni immobili non trasportabili comporta difficili problemi di conservazione, restauro e fruizione. Mentre le opere d'arte facilmente rimovibili trovano sistemazione e 'cure' adeguate nei musei, quelle inamovibili, forse le più numerose ed egualmente importanti, si trovano sparse in tutte le regioni della penisola, isole comprese. Per quanto riguarda gli interventi archeometrici, si richiederebbero particolari analisi in situ effettuate con le stazioni mobili sopra menzionate. Si prospetta pertanto l'urgente necessità di varare una complessa campagna diagnostica in situ, che dovrebbe rappresentare l'inizio di una sistematica rivalutazione di quella parte del nostro patrimonio artistico di grande rilevanza storico-artistica ma poco protetta. Se fino a poco tempo fa un programma di interventi di questo tipo comportava notevoli difficoltà e costi elevati, oggi esso è tecnicamente realizzabile con spese contenute. L'archeometria, servendosi delle diagnostiche sopra menzionate, consente infatti di elaborare piani di restauro dettagliati che garantiscono un'esecuzione in tempi più brevi e con risultati più sicuri.
In conclusione, è auspicabile che anche in Italia alle attività di ricerca e di diagnostica svolte nei laboratori specializzati dei musei si affianchino quelle per le opere inamovibili, che impiegando stazioni mobili con strumentazioni portatili permettono di operare in situ.
2. I metodi per lo studio e la diagnostica
I metodi impiegati per lo studio di un bene artistico consentono di effettuare le seguenti operazioni: 1) analizzare il materiale - sia esso una statua, un dipinto, una ceramica, ecc. - determinandone i vari componenti a livello atomico e molecolare; 2) effettuare la ricostruzione virtuale delle principali caratteristiche (geometriche, fotometriche e colorimetriche) mediante riprese di immagini; 3) esaminare le strutture interne; 4) determinare l'età; 5) determinare il luogo di fabbricazione. Per l'analisi dei reperti di epoca preistorica l'archeometria si avvale anche di sofisticati metodi di datazione, nonché di tecniche biofisiche.
a) Tipi di analisi
I metodi più impiegati in archeometria sono la spettrometria di fluorescenza a raggi X (XRF, X-Ray Fluorescence) e la spettrometria Raman. La prima analizza gli atomi degli elementi chimici, la seconda analizza le molecole, cioè i composti chimici. Lo strumento più usato per le analisi XRF è lo spettrometro EDXRF (Energy Dispersive XRF), realizzato in diverse versioni, compresa quella portatile. La fluorescenza a raggi X in un atomo consiste nella diseccitazione dei tre livelli più vicini al nucleo atomico (k, il livello più vicino, l e m). L'eccitazione per produrre la fluorescenza è effettuata asportando un elettrone appartenente a uno dei suddetti tre livelli. L'asportazione (ionizzazione) può essere ottenuta in due modi diversi: attraverso una sorgente di raggi X, oppure mediante l'urto particella carica-atomo. La particella carica può essere un elettrone, un protone o una particella alfa con opportune energie. L'asportazione dell'elettrone k provoca un'emissione a cascata di radiazioni che iniziano con le righe X di maggiore energia, le k, seguite dalle l e dalle m, e quindi da altre righe di energie che non interessano i raggi X, ossia nell'ultravioletto (UV), nel visibile (VIS) e nell'infrarosso (IR). Il modo più semplice ed economico per produrre la fluorescenza è il primo, ossia quello che utilizza una sorgente di raggi X. L'analisi XRF si basa sul fatto che gli atomi di un elemento diseccitandosi emettono righe X con valori di energia caratteristici per quell'elemento. Per esempio, la riga k degli atomi del ferro ha un'energia di 6,40 keV, quella dello zinco di 8,64 keV, quella dello stagno di 25,27 keV, quella del piombo di 74,96 keV, ecc., cioè energie crescenti al crescere del numero atomico. Eguale andamento hanno le righe l e m che partono da energie più basse.
Lo spettrometro EDXRF più semplice, impiegato per le misure in situ, è costituito da un piccolo tubo a raggi X (sorgente), dal rivelatore proporzionale per raggi X - un semiconduttore al silicio raffreddato elettricamente - e da un'elettronica che interpreta i segnali trasmessi dal rivelatore catalogando le varie righe emesse e infine riconoscendo, previa taratura, gli elementi che le hanno generate e le loro percentuali relative.
I raggi X escono dal tubo attraverso un opportuno collimatore. Il fascio così prodotto, molto sottile, viene diretto, zona per zona, sui punti prescelti dell'oggetto da analizzare. Il fascio penetra nel punto colpito per uno spessore che dipende dalla materia di cui è fatto l'oggetto: ad esempio, nel caso di dipinti il fascio penetra per qualche decina di micron. Un personal computer (PC) che fa parte integrante dello spettrometro elabora i dati, i quali possono essere raccolti sotto forma di tabelle di conteggi per ogni elemento trovato, oppure di percentuali relative, oppure ancora come spettri di righe.
Le modeste dimensioni di uno spettrometro del tipo descritto (può essere contenuto in una valigetta) permettono di utilizzarlo per analisi in situ. La minima quantità rivelabile con questo spettrometro è dell'ordine di 0,1 mg per grammo di matrice, una quantità piuttosto modesta ma più che sufficiente per analizzare gli elementi più abbondanti, cioè presenti in quantità superiore all'1%; gli strumenti fissi di laboratorio hanno ovviamente maggiore sensibilità. L'EDXRF è impiegata per le analisi di dipinti, di vetri antichi, di porcellane, di terrecotte, di metalli e loro leghe, ecc. Lo spettrometro ora descritto opera in presenza di aria e quindi le righe X di fluorescenza prodotte da elementi leggeri (azoto, ossigeno, magnesio, ecc.) non sono rivelate, in quanto la loro energia è così bassa da essere assorbita dalla finestra di protezione del rivelatore e dallo strato d'aria interposto. Gli elementi rilevabili, in ordine di peso molecolare crescente, sono alluminio, silicio, zolfo, fino al piombo e all'uranio. La XRF portatile ha l'enorme vantaggio di essere facilmente brandeggiabile e quindi può essere spostata agevolmente al fine di analizzare, per punti, oggetti di dimensioni anche molto estese, per esempio un intero dipinto murale di 100 m2 di superficie.
Se l'oggetto da analizzare è un dipinto, la XRF consente di individuare non solo gli elementi in superficie che caratterizzano i vari pigmenti di colore, ma anche gli elementi dello strato sottostante, cioè dell'intonaco, in quanto la radiazione primaria ha, come già detto, una penetrazione dell'ordine di una decina di micron.
Oggi, oltre alle analisi atomiche fornite dalla EDXRF, si possono effettuare in situ anche analisi molecolari mediante uno spettrometro Raman portatile. Lo spettrometro impiega una sorgente di luce (monocromatica) laser che viene diretta attraverso un microscopio ottico su determinati punti dell'oggetto integro o di un suo frammento. Lo spettro Raman è raccolto e letto dal PC mediante una scheda dotata di monocromatore alloggiata nel PC stesso. I percorsi ottici sono effettuati mediante opportune fibre ottiche. L'impiego dello spettrometro Raman è indispensabile per individuare la presenza di composti, specialmente di tipo organico, non identificabili con la XRF.
Descriveremo ora brevemente gli strumenti che si impiegano nei laboratori di archeometria, i quali, essendo più sensibili e più versatili del tipo portatile, permettono di effettuare analisi più accurate e approfondite di quelle che possono essere condotte in situ.
Lo spettrometro EDXRF da laboratorio, disponibile in diverse versioni, è simile a quello portatile già descritto, con due differenze: opera sotto vuoto e impiega come sorgente eccitatrice un tubo a raggi X di elevata potenza, per cui si raggiungono sensibilità di analisi dell'ordine dei microgrammi per grammo di matrice. Il rivelatore è un semiconduttore a silicio-litio raffreddato ad azoto liquido. Questo spettrometro permette di analizzare anche elementi in tracce.
All'interno di microscopi elettronici operanti in riflessione (SEM, Scanning Electron Microscope), è possibile effettuare microanalisi XRF. La fluorescenza è provocata dalla ionizzazione da parte del fascio di elettroni, che incide su un campione del reperto in studio. Grazie a questa estensione si effettuano microanalisi delle stesse parti visualizzate al microscopio.
Nello spettrometro PIXE (Proton Induced X-ray Emission) l'eccitazione degli atomi da analizzare è prodotta dalla ionizzazione 'profonda' effettuata da un fascio di protoni con energia di qualche MeV in un acceleratore elettrostatico di tipo Van de Graaff. Questo tipo di spettrometro presenta una migliore sensibilità e ha inoltre il vantaggio di impiegare opportuni campi elettrici e magnetici deflettori per dirigere il fascio di protoni su qualsiasi punto del reperto, effettuando una scansione automatica della sua superficie e analizzando ogni punto con un passo molto piccolo. Registrando la riga di un elemento per volta si ottengono mappe che riproducono le singole distribuzioni di un dato elemento chimico su tutta la superficie del campione. Inoltre, variando l'energia dei protoni si possono includere o escludere dall'analisi strati a diverse profondità (si parla di spessori microscopici) dalla superficie. Il processo di ionizzazione, diversamente dagli effetti di piccola entità prodotti dalla radiazione X, genera nel punto in esame aumenti di temperatura che in alcuni casi possono danneggiare l'oggetto. La corrente del fascio deve essere quindi opportunamente regolata. Anche per la PIXE si usano rivelatori a semiconduttore e un sistema elettronico di analisi particolarmente complesso.
L'analisi SIXRF (Synchrotron Induced X Ray Fluorescence) è un'analisi XRF in cui i raggi X sono prodotti da elettroni relativistici accelerati. Si utilizza a questo scopo un acceleratore nucleare ad anello chiuso, l'elettrosincrotrone, del diametro di decine di metri. Il percorso degli elettroni nel grande anello non è tutto circolare, ma presenta tratti curvi e tratti rettilinei. Questa analisi consente di raggiungere sensibilità estremamente elevate, ad esempio dell'ordine di un miliardesimo di grammo per grammo di campione, in quanto l'intensità del fascio di raggi X è superiore di almeno un fattore mille a quella di un potente tubo a raggi X. Il metodo SIXRF è senza dubbio il sistema ideale per sostituire vantaggiosamente il metodo di analisi per attivazione di neutroni (NAA, Neutron Activation Analysis), effettuato nei reattori nucleari, un metodo che ha permesso di risolvere alcuni problemi fondamentali dell'archeologia per quanto concerne gli artefatti ceramici e metallici dell'antica Grecia, di Roma e di altri paesi del bacino mediterraneo. Per conoscere la provenienza geografica di un artefatto ceramico (o metallico) si devono individuare gli elementi che con la loro presenza e la loro quantità relativa caratterizzano il sito geologico della cava (o della miniera) di provenienza. Purtroppo questi elementi rivelatori sono così diluiti nella materia massiccia da essere presenti solamente in tracce. Da qui la necessità di impiegare strumenti di analisi a elevata sensibilità. Oggi è più conveniente impiegare la SIXRF al posto della NAA per varie ragioni: in primo luogo, perché i tempi di misura sono di pochi minuti rispetto alle ore o ai giorni richiesti dalla NAA; in secondo luogo, perché, a differenza della NAA, la SIXRF non genera radioattività; infine, perché con la NAA diversi elementi non sono analizzabili con la sensibilità richiesta.
La luce di sincrotrone è caratterizzata da uno spettro continuo di radiazione elettromagnetica - dall'infrarosso al visibile, all'ultravioletto e ai raggi X - prodotto dalla radiazione emessa dagli elettroni relativistici sottoposti ad accelerazione nei tratti curvi dell'anello. Per estendere lo spettro anche alla radiazione X occorre produrre accelerazioni più elevate. A questo scopo si inseriscono nei tratti rettilinei dell'anello particolari magneti 'ondulatori', che fanno zigzagare gli elettroni lungo la loro traiettoria.
In Europa vi sono diversi elettrosincrotroni con elettroni circolanti a energie di qualche miliardo di elettronvolt (GeV), dedicati esclusivamente a ricerche di fisica, chimica e biologia con la luce di sincrotrone. Importanti impianti si trovano in Italia, a Trieste e a Frascati, e in Francia, a Grenoble, dove è operante il prestigioso Centro europeo di luce di sincrotrone (ESRF, European Synchrotron Radiation Facility). Le varie ricerche mediante la luce di sincrotrone si svolgono contemporaneamente utilizzando decine di canali di uscita della radiazione, situati nei tratti curvi per esperienze con radiazioni dall'infrarosso all'UV, e negli ondulatori per esperienze con i raggi X. Pertanto vi è la possibilità di creare stazioni permanenti SIXRF dedicate alle analisi archeometriche di elementi in tracce, analisi che possono essere condotte in due diverse condizioni di fascio X: con un fascio di raggi X monocromatici di energia variabile a piacere, oppure con il fascio 'bianco', cioè con l'intenso fascio a largo spettro energetico prodotto direttamente all'uscita dell'ondulatore. Le misure con il fascio bianco, oltre a essere adatte alle analisi di elementi in tracce, sono utilizzate nei casi che richiedono l'impiego di un fascio di sezione microscopica e di alta intensità; ad esempio nelle ricerche di archeometallurgia per sottoporre a microanalisi gli elementi estranei presenti nelle inclusioni: il campione da esaminare, montato su un banco ottico di precisione dotato di microscopio, telecamera e comandi remoti, viene posizionato in modo che il fascio colpisca le inclusioni.
b) Riprese di immagini
Assai importante in archeometria è l'impiego di sistemi optoelettronici per la ripresa di immagini digitali, che vengono analizzate e 'riprocessate' dal computer che fa parte integrante del sistema. La possibilità di riprendere immagini in vari campi spettrali, ciascuno con proprietà diverse, risulta molto utile per lo studio e la diagnostica di dipinti e di documenti scritti su supporti vari.
Le telecamere e le fotocamere impiegate sono dotate di un sensore a mosaico (CCD, Charge Coupled Device) sensibile alla luce in un vasto campo spettrale. Ciascun tassello (pixel) del mosaico opera come un elemento dell'immagine da riprodurre. Al crescere del numero totale di pixel cresce la risoluzione dell'immagine. Oggi sono disponibili telecamere digitali di prezzo contenuto che consentono risoluzioni, ad esempio, di 3.040 × 2.016 pixel. Il rapido sviluppo di queste tecnologie fa prevedere che saranno presto in commercio strumenti con prestazioni più elevate e di costo inferiore. Con un buon obiettivo dotato di uno zoom ottico si ottengono ingrandimenti di ottima qualità, permettendo di distinguere particolari di dimensioni quasi microscopiche. Anche per le riprese di immagini l'impiego di un PC è indispensabile per 'riprocessare' le immagini stesse.
Nel visibile (400 ÷ 800 nm) si opera con fotocamere a CCD di buona risoluzione, a colori o in bianco e nero. In entrambi i casi occorre avere un filtro per eliminare l'infrarosso, che impedisce una messa a fuoco nitida. Le riprese sono utili nel caso di dipinti, di scritte su vari tipi di supporto, di vetrate, ecc. Una ripresa opportunamente 'riprocessata' può dare utili informazioni di carattere fotometrico, geometrico e colorimetrico previe adeguate tarature. La valutazione dei toni di grigio nell'immagine in bianco e nero di un dipinto può essere effettuata a piacere su un punto, una linea o una superficie. Questi dati sono molto utili per fare confronti con altre riprese dello stesso tipo opportunamente normalizzate. Nel caso di istogrammi relativi a linee basterà confrontare le derivate del grafico. I toni di grigio possono essere rappresentati, a gruppi, da colori, ottenendo una rappresentazione in falsi colori. In immagini di questo tipo la distribuzione dei 256 toni è rappresentata da colori: per esempio, in una rappresentazione a sette colori, sei colori raggrupperanno ciascuno 36 toni e uno ne raggrupperà 40.
Per effettuare un restauro virtuale di disegni o scritti scoloriti in dipinti, epigrafi, documenti, fotografie, ecc., conviene prima di tutto scegliere la banda spettrale che riproduce l'immagine con il miglior rapporto segnale/rumore (fondo), provando con opportuni filtri passabanda. Quindi, l'immagine scelta viene nuovamente processata con un programma iterativo che agisca sui toni di grigio fino a ottenere una loro soddisfacente dilatazione verso i due estremi (dal nero al bianco). Spesso conviene effettuare queste procedure nella banda dell'infrarosso vicino.
La radiazione elettromagnetica nell'infrarosso vicino (NIR, Near Infra-Red: 800 ÷ 2.000 nm) è impiegata per l'esame delle superfici pittoriche e del loro strato sottostante. Si può utilizzare ancora la telecamera digitale a CCD, sensibile al NIR fino a 1.200 nm, eliminando il visibile con un filtro passabanda posto davanti all'obiettivo. Essa risulta di grande utilità per un primo esame di un grande dipinto antico: una telecamera in bianco e nero e un buon monitor consentono infatti una visione nel NIR di gran lunga migliore di quella a occhio nudo per quanto riguarda la nitidezza dei contorni, in quanto la polvere che certamente copre il dipinto risulta trasparente al NIR. Nel caso che il dipinto sia un buon fresco, la visione nel NIR permette di leggere più facilmente le linee della 'giornata' e di riconoscere se i cartoni sono stati applicati con la tecnica dello spolvero o con quella dell'incisione. La trasparenza dello strato pittorico al NIR consente di osservare disegni, pentimenti, rattoppi, ecc. sottostanti allo strato. Naturalmente non tutti i pigmenti di colore sono trasparenti al NIR. Sono trasparenti l'indaco, gli smalti (silicati alcalini o alcalino terrosi con alluminio e/o ossidi di Sn, di Sb, ecc.), l'azzurrite grezza (se fine è opaca), l'ocra gialla e l'orpimento. Meno trasparenti risultano il bianco di calce, il minio di ferro, il minio di piombo, il giallo di litargirio (PbO); il vermiglione, rosso artificiale, è meno trasparente del cinabro (entrambi HgS). Infine, la malachite, la biacca e il blu di Prussia sono opachi al NIR.
La radiazione nell'infrarosso lontano (FIR, Far Infra-Red, 2.000 ÷ 10.000 nm circa) viene impiegata per osservare, attraverso l'emissione termica spontanea di un edificio antico, le irregolarità e gli eventuali danni murali nelle sue pareti interne ed esterne; nei dipinti murali per individuare rigonfiamenti e inizi di crepe; ancora in muri e pareti per evidenziare rifacimenti strutturali, come chiusure di varchi o altri cambiamenti di opere murarie, nonché danni incipienti dovuti a infiltrazioni d'acqua. Le analisi nel FIR sfruttano i gradienti termici dovuti a diversa conducibilità termica che generalmente esistono tra la parte sana e quella alterata, oppure tra una fonte di calore e la parte circostante. Le osservazioni vengono svolte mediante termocamere dotate di sensori di tipo radiometrico, cioè sensibili allo spettro termico.
Largo impiego in archeometria trovano anche le immagini radiografiche, che oggi sono prese in tempo reale mediante un opportuno convertitore di radiazione, che sostituisce la lastra fotografica, realizzato in diversi modi. Il sistema radioscopico più semplice usa come convertitore uno schermo fluorescente che riproduce nel visibile l'immagine radiografica. Le immagini vengono riprese da una fotocamera digitale. Le radiografie sono realizzate anche con altre tecniche, ad esempio impiegando convertitori elettronici e, più recentemente, lastre fluorescenti in cui l'immagine formatasi nel visibile resta 'latente', in quanto la radiazione X provoca in questo materiale stati eccitati che non decadono ma restano intrappolati. L'immagine viene restituita istantaneamente e ripresa da telecamera scandendo la lastra con un fascetto di luce laser.
In archeometria si impiega anche la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) per l'esame accurato delle strutture interne di ceramiche e di oggetti lignei. In quest'ultimo caso la TAC viene impiegata anche per contare gli anelli di crescita del tronco d'albero ancora esistenti nella statua o in oggetti di dimensioni trasversali sufficientemente grandi da conservare tali anelli integri nel loro interno. Con la TAC si effettua quindi una datazione dendrologica di tipo non distruttivo.
Riprese di immagini di tipo radiografico sono impiegate anche per oggetti metallici, che per ragione di spessore non possono essere ripresi con i raggi X. Tale tecnica, denominata 'gammagrafia', utilizza come sorgente le radiazioni gamma emesse da isotopi radioattivi o da macchine acceleratici. Le energie della radiazione gamma impiegata vanno dalle centinaia di keV ai MeV. Il sensore che converte l'immagine radiografica può essere costituito da un'emulsione fotografica di tipo nucleare, oppure dai nuovi convertitori di radiazione che emettono fluorescenza a queste energie. L'immagine viene ripresa da una telecamera digitale.
c) Sistemi di datazione
La valutazione dell'età di un reperto antico viene effettuata con metodi diversi, la cui scelta dipende dalla natura del reperto e dalla presunta epoca di appartenenza. Questi metodi sono basati sui fenomeni della radioattività naturale che scandisce il passare degli anni, dei secoli e dei millenni, fino a risalire al Pliocene-Pleistocene. L'orologio che segna il tempo archeologico, basato sul decadimento radioattivo, impiega radioisotopi naturali come uranio, torio, radio, potassio, o l'isotopo cosmogenico del carbonio, il 14C.
Vi sono anche due metodi di datazione che non sono basati sulla radioattività, bensì l'uno sulla variazione del campo magnetico terrestre nel tempo (archeomagnetismo) e l'altro sulla produzione annuale di anelli negli alberi (dendrocronologia).
I limiti di età databile dipendono dal radioisotopo impiegato. Con il 14C l'intervallo di datazione va da zero a un massimo di cinquantamila anni dal presente, con la termoluminescenza (TL) si va da zero a un massimo di centomila anni. Per datare i reperti più antichi, i fossili, la cui età è dell'ordine di milioni di anni dal presente, si applica il metodo del potassio-argon.
Datazione con il 14C. - Questo radioisotopo artificiale è generato nell'alta atmosfera a seguito della reazione prodotta nell'atmosfera da neutroni su nuclei di azoto:
n + 147N → 146 C + p
ovvero un neutrone, n, 'entra' nel nucleo di azoto 14, e un protone, p, 'esce' dal nuovo nucleo di carbonio 14.
Ogni organismo vivente ha scambi continui con l'esterno, in particolare con le componenti dell'atmosfera tra le quali, oltre l'ossigeno e l'azoto, vi è il 14C, che non viene riemesso, ma è assorbito e va ad aggiungersi agli isotopi stabili del carbonio, 12C e 13C, provenienti dalla catena alimentare. Pertanto nelle ossa, nelle fibre vegetali, ecc., di ogni organismo vivente è fissata una quantità costante di 14C grazie al continuo scambio di CO2 tra l'organismo stesso e l'atmosfera. Alla morte dell'organismo animale o vegetale cessa il ricambio di 14C, il cui tenore comincia a decrescere esponenzialmente nel tempo a causa del decadimento β- in azoto di questo isotopo, che ha una costante di dimezzamento di circa 5.600 anni.
Il primo metodo di datazione con il 14C è stato il RID (Radio Isotope Dating), che consiste nel misurare direttamente la debole radioattività dovuta alla massa sopravvissuta di 14C. Questo metodo, in uso dagli anni cinquanta del XX secolo, richiede misurazioni molte lunghe ed è ormai in declino. Il metodo moderno, che è molto più rapido e richiede prelievi molto modesti, consiste nel confrontare quantitativamente il 14C sopravvissuto al momento dell'esame e le quantità di isotopi naturali del carbonio anch'essi presenti nel campione. Al tempo zero (la morte dell'organismo) erano presenti in un rapporto noto i tre isotopi del carbonio, e cioè i due isotopi naturali 12C e 13C, stabili e quindi più abbondanti, e l'isotopo cosmogenico radioattivo, 14C. Con il passare del tempo i primi due restano in quantità costante, mentre il terzo diminuisce per decadimento radioattivo. I loro rapporti variano nel tempo in modo noto e quindi l'età del reperto viene determinata agevolmente, purché si apportino alcune indispensabili correzioni dovute a variazioni non trascurabili della quantità di 14C iniziale causate da eventi esterni di varia natura. Questa metodica si basa sulla spettroscopia di massa con acceleratori ad alta energia (AMS, Accelerator Mass Spectroscopy). Allo scopo si impiega un acceleratore tandem dotato di una sorgente di ioni di carbonio, cioè i tre isotopi provenienti dal reperto da datare. Alla fine di una misurazione (cioè quando la sorgente è esaurita) si raccolgono i dati relativi ai tre canali, calcolando quindi mediante il computer i rapporti citati con le varie correzioni finali per stabilire l'età del reperto e l'errore associato.
Termoluminescenza (TL). - Si tratta di una tecnica che consente di datare qualsiasi oggetto fatto con sostanze argillose rifinite al forno, come ceramiche, terrecotte, ecc. La datazione con la TL richiede una serie di manipolazioni e valutazioni notevolmente lunghe e delicate, ma di estrema importanza per la grande quantità di informazioni che può fornire lo studio del vasellame.
Per effettuare la datazione occorre prelevare un campione dal reperto e valutare, il più accuratamente possibile, alcune essenziali caratteristiche fisiche dell'ambiente - terra, acqua, sabbia, ecc. - in cui è stato trovato. Il metodo di datazione è basato sul principio che le radiazioni (α, β e γ) emesse da sostanze radioattive alterano la struttura elettronica del materiale argilloso producendo un accumulo di energia, dovuto all'intrappolamento di elettroni in livelli eccitati che non si diseccitano spontaneamente e aumentano nel tempo. Il rilascio di questa energia avviene solo riscaldando il materiale. Per effetto del calore la struttura si rilassa e l'energia immagazzinata viene rilasciata sotto forma di luce (quanti di luce). La luce di TL viene misurata previo un elevato rialzo di temperatura, purché al di sotto della soglia di emissione termica. La radiazione ionizzante che produce queste eccitazioni è dovuta ai materiali radioattivi naturali che possono essere presenti in piccole concentrazioni nel reperto stesso. Inoltre, anche la materia circostante che ha ospitato per secoli il reperto contiene materiale radioattivo che, insieme alla radiazione cosmica, contribuisce ulteriormente ad aumentare l'accumulo di energia TL. Il materiale ceramico si comporta come un orologio marcatempo il cui inizio (tempo zero) risale a quando l'oggetto venne cotto al forno liberando tutta l'energia precedentemente accumulata. Per leggere il tempo trascorso si devono determinare almeno due importanti dati, e cioè la dose annuale di radiazione assorbita dal reperto, D0, e la dose archeologica assorbita in tutto il tempo trascorso, Da. Da questi fattori si ottiene l'età, che viene data dal rapporto Da/D0.
La TL può essere utilmente impiegata anche per determinare indirettamente l'età di una statua antica di bronzo. Infatti, se è possibile recuperare dal suo interno un poco della terra di fusione, la datazione di questo materiale coinciderà con l'età della statua.
Si può utilizzare questa tecnica in modo semplificato, e quindi veloce, per effettuare esami di sola autenticazione: basterà valutare la quantità di luce intrappolata mediante il conteggio dei fotoni di TL per stabilire se l'oggetto è autentico o un falso fabbricato di recente.
Archeomagnetismo. - Il metodo di datazione che si basa sul magnetismo termorimanente consente di datare il materiale ceramico. La datazione (approssimata) di un reperto archeologico di terracotta o di altro materiale fittile può essere effettuata misurando la sua magnetizzazione residua e attraverso mappe che riportino i valori (inclinazione e declinazione) assunti dal campo magnetico terrestre nel corso dei secoli nelle regioni interessate. La datazione è possibile se il reperto alla fine della sua fabbricazione è stato messo al forno, in quanto a temperatura superiore a 700 °C il materiale si smagnetizza completamente, perdendo il ricordo della magnetizzazione che aveva nel luogo dal quale è stato prelevato. Uscendo dal forno si magnetizza nuovamente secondo i valori del campo magnetico di quel momento (tempo zero). Il materiale ferromagnetico (piccole quantità di ossidi di ferro presenti in tutti i materiali fittili) è il responsabile di questo magnetismo, detto termopermanente (o termorimanente). Per la misura di tale debole magnetismo si impiega un sensibile magnetometro dotato di un sensore SQUID (Superconducting Quantum Interference Device) raffreddato in elio liquido. Dal confronto con le mappe menzionate sopra si può desumere la sua epoca di fabbricazione.
Datazione mediante il rapporto 40K/40Ar. - Lo studio del materiale archeologico incontra crescenti difficoltà man mano che si va indietro nel tempo, in quanto i reperti da studiare sono sempre più danneggiati e di difficile interpretazione; ciò è particolarmente vero quando si studiano i primi fossili umani, che potrebbero risalire a milioni di anni fa, cioè alle soglie del Pliocene-Pleistocene. Questa era un'età non databile fino a circa la metà del secolo scorso, quando finalmente si dimostrò che l'isotopo 40Ar prodotto dal decadimento dell'isotopo 40K si accumulava nei minerali vulcanici come la mica, il feldspato, l'orneblenda; si scoprì inoltre che l'argon si libera non appena la lava esce dal vulcano, disperdendosi nell'ambiente, mentre la miscela 39K-40K resta intrappolata. Pertanto la situazione è favorevole per una datazione attraverso il potassio. Il tempo di dimezzamento del 40K è di 1,3 • 106 anni, cioè gli atomi di 40K dopo 1,3 milioni di anni si sono ridotti del 50% trasformandosi in atomi di argon, i quali risultano quindi aumentati della stessa percentuale. Determinando il rapporto fra questi due isotopi si determina l'età del reperto. Le misure di questo parametro sono molto delicate e in continuo miglioramento.
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