rifiuti
Da problema a risorsa
Negli ultimi cinquant’anni i rifiuti sono talmente cresciuti da rendere necessari interventi sempre più articolati, sul piano sia dell’innovazione tecnologica sia delle abitudini di vita delle singole persone e delle comunità. È stato indispensabile ripensare il concetto stesso di rifiuto e considerarlo non più e non soltanto come oggetto inutile di cui disfarsi, ma come risorsa ulteriore per nuovi materiali e nuovi processi produttivi. Si è abbandonata dunque l’idea che l’unica soluzione potesse consistere nella discarica e si è scoperto che i rifiuti possono essere fonte di ricchezza
Per rifiuti dobbiamo intendere sostanze od oggetti – non necessariamente estranei alla natura – di cui colui che li detiene abbia deciso, o abbia il dovere, di disfarsi. In natura non esistono rifiuti, perché nella biosfera nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto continuamente si trasforma (ambiente) in un ciclo continuo ed equilibrato, che entro certi limiti può andare avanti all’infinito. La società industrializzata e urbanizzata ha invece alterato questo equilibrio ciclico immettendo nell’ambiente grandi quantità di prodotti e materiali che la natura non riesce a trasformare per nulla o in tempi troppo lunghi.
Nel linguaggio comune il rifiuto è qualcosa di inutile, che non serve più ad alcuno scopo e che perciò non vediamo l’ora di allontanare da noi. Ma disfarsi di qualcosa non vuol dire risolvere il problema. Una volta allontanati da noi, i rifiuti non scompaiono, non vengono automaticamente eliminati, ma finiscono da qualche altra parte. Inoltre, negli ultimi cinquanta anni la quantità di rifiuti prodotta è continuamente cresciuta, per effetto del maggiore consumo di merci, che a sua volta sta provocando un crescente consumo di risorse naturali non rinnovabili. Che cosa si può fare?
In Europa produciamo giornalmente circa 1,5 kg di rifiuti per abitante, cioè circa 550 kg pro capite per anno. Questo dato riguarda soltanto i rifiuti urbani, che costituiscono il 14% dell’intera montagna di rifiuti prodotta annualmente.
In Italia siamo leggermente al di sotto della media europea con 524 kg per abitante all’anno. Il dato più significativo, però, è che i rifiuti sono l’unico fattore di impatto ambientale che continua a crescere più di quanto cresca la ricchezza. In Italia tra il 1996 e il 2003 la produzione di rifiuti urbani è aumentata di 4 milioni di tonnellate (una crescita del 16%), mentre la ricchezza, misurata dal prodotto interno lordo, nello stesso periodo è cresciuta dell’11%. Per il 2020 l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (ocse), associazione di 30 paesi dedicata a studiare e indirizzare la politica economica, prevede che in Europa si arriverà alla quota di 640 kg di rifiuti urbani a persona per anno.
Più della metà di questa montagna di rifiuti viene smaltita in discarica. Si tratta di un sistema alla lunga non efficace. È infatti limitato nel tempo, perché tutte le discariche, prima o poi, si esauriscono; ha bisogno di molto spazio libero, problema non da poco soprattutto in un continente così densamente popolato come l’Europa; è pericoloso, perché le discariche rilasciano inquinanti (inquinamento) in aria e nel suolo; è, soprattutto, ‘sprecone’.
L’abbondanza di rifiuti e il loro smaltimento in discarica sono un indice di spreco sia perché evidenziano l’eccesso di materie prime non rinnovabili utilizzate nella produzione sia perché, in genere, in discarica finiscono in modo indifferenziato tutti i rifiuti urbani.
Lo spreco è ancora più evidente per il fatto che la crescita dei rifiuti degli ultimi anni è dipesa, quasi per intero, dalla grande diffusione di materiali cartacei e plastici – presenti sia nei rifiuti domestici sia in quelli commerciali (negozi, supermarket e così via) – utilizzati per i consumi ‘usa e getta’ e per gli imballaggi. Gli imballaggi devono la loro grande diffusione a ragioni di ‘abbellimento’ del prodotto, al cambiamento delle abitudini di vita – prodotti monodose, precotti e via dicendo – e a nuove regole di igiene, come la diffusione delle confezioni sigillate per gli alimenti. Gli imballaggi oggi costituiscono la metà in volume dei rifiuti urbani, mentre la nostra spazzatura è satura di oggetti ‘usa e getta’, dal fazzoletto al pannolino, dal rasoio alle lattine, dalle macchine fotografiche ai piatti.
Se si vuole affrontare e risolvere il problema dei rifiuti occorre superare la cultura dell’‘usa e getta’ e capire quale ricchezza si depositi ogni giorno nella spazzatura. Occorre, quindi, sviluppare una strategia che coordini quattro regole fondamentali, le cosiddette 4 r: riduzione, riuso, riciclo, recupero di energia.
L’oggetto che noi gettiamo è il risultato di un processo di trasformazione, spesso lungo e complesso. Se analizziamo da un punto di vista ecologico il ciclo di vita del prodotto, ‘dalla culla alla tomba’, scopriamo sia tutto ciò che nel ciclo di produzione si sarebbe potuto risparmiare – in termini di materie prime, energia, scarti ed emissioni – sia tutto ciò che dall’oggetto ‘rifiutato’ è ancora ricavabile.
Oggi, nella maggior parte dei prodotti troviamo una quantità di materia ed energia assai superiore alla loro consistenza finale. Per esempio, un microchip per computer, del peso di 2 g, richiede per la sua produzione prodotti chimici e combustibile fossile pari a 630 volte il suo peso. Per produrre uno spazzolino da denti, un cellulare e un personal computer si crea una quantità di rifiuti pari rispettivamente a 1,5 kg, 75 kg e 1.500 kg.
Un’oculata progettazione dei prodotti serve, quindi, a ridurre il consumo di materie prime e la produzione di rifiuti lungo il ciclo di vita del prodotto. Serve inoltre a facilitare il riuso e il riciclo, ossia l’utilizzo degli stessi prodotti in più cicli d’uso – come accade con i ‘vuoti a rendere’ – e il recupero e la selezione di materie prime che possono essere reinserite in nuovi processi produttivi – come il vetro, l’alluminio e la carta, dette materie prime seconde.
Il recupero dai rifiuti di prodotti e materiali consente vantaggi economici, riduzione dell’impatto ambientale e risparmio di energia. Per esempio, per ottenere 1 kg di alluminio dalla bauxite sono necessari 14 kWh, mentre per ricavarne altrettanto da quello riciclato servono 0,7 kWh, con un risparmio del 95% di energia. Così per produrre 1 kg di carta da cellulosa vergine servono 6,7 kwh, mentre per la stessa quantità ottenuta da carta riciclata sono sufficienti 2,7 kWh. Con l’utilizzo del vetro riciclato si risparmia il 30% di energia (per 1 kg di vetro nuovo occorrono 500 g di petrolio e 6,3 kWh, per 1 kg di vetro riciclato ne occorrono rispettivamente 350 g e 3 kWh).
L’Italia, essendo povera di materie prime, si è trovata costretta a sviluppare un’industria basata proprio sulle materie prime seconde. I rottami di ferro, per esempio, costituiscono la fonte principale per l’industria siderurgica nazionale, che ne ricicla circa 20 milioni di tonnellate all’anno. Per l’alluminio secondario l’Italia è la terza produttrice al mondo con circa 800.000 tonnellate annue. L’industria degli imballaggi utilizza al 90% cartone riciclato. Per la carta, negli ultimi anni, si è assistito a un’inversione di tendenza: da paese importatore – per un milione di tonnellate nel 1997 – l’Italia si è trasformata in paese ‘raccoglitore’, essendo cresciuta la raccolta di carta di più di 2 milioni di tonnellate (+60%), e in produttore di carta riciclata (+25%), arrivando a esportare 100.000 t annue. Così pure nel legno, dove l’industria dei pannelli di truciolato, che produce ogni anno circa 2 milioni di tonnellate, è basata essenzialmente sul legno di recupero per più di 1,5 milioni di tonnellate.
Complessivamente esistono 1.400 prodotti, realizzati con materiali provenienti da riciclo, che costano meno dei prodotti realizzati con materie prime vergini.
Perché la raccolta differenziata produca effetti sensibili sul sistema produttivo occorre che sia di qualità, ovvero occorre che la selezione sia quanto più accurata possibile, separando il materiale organico (lo scarto di cucina e giardini) dai diversi materiali riciclabili (carta, vetro, alluminio, plastica, acciaio, legno) e dai materiali inerti.
La selezione può essere effettuata in automatico da impianti che sfruttano le caratteristiche fisiche dei diversi materiali, ma ha costi elevati e non raggiunge risultati soddisfacenti. Sono molte le esperienze realizzate a questo proposito in Europa e in Italia; tutte dimostrano che la raccolta differenziata riesce a superare la soglia critica del 20÷25%, raggiunta in genere con il sistema delle campane collocate in strada, solo con la raccolta domiciliare. La raccolta differenziata è stata sostenuta da un’adeguata campagna di sensibilizzazione e integrata dalle isole ecologiche, ossia da piccoli centri di raccolta differenziata distribuiti nel territorio. In questo modo si sono raggiunti ottimi risultati quantitativi e qualitativi per la frazione organica, che può essere trasformata in fertilizzante (compost) di qualità.
La frazione organica dei rifiuti (il cosiddetto umido) viene sottoposta a fermentazione aerobica fino alla sua trasformazione in terriccio in grado di arricchire la costituzione fisica del terreno e la sua fertilità, ricostruendo cioè l’humus. Viene così restituita al terreno la sostanza organica che gli è stata tolta con le coltivazioni: un modo per chiudere il cerchio e rendere superfluo l’uso di concimi chimici. Per questo il compost deve essere ‘buono’, ovvero privo di materiali inquinanti. Il compost viene utilizzato in agricoltura e nel florovivaismo. Negli ultimi anni ne sono stati prodotti 2,7 milioni di tonnellate annue, con un incremento del 45% in tre anni, mentre in dieci anni si è passati da 10 a 150 impianti industriali di compostaggio. Oggi la raccolta differenziata secco/umido viene praticata in circa 2.000 comuni italiani, tra cui anche alcuni comuni medio-grandi (intorno ai 100.000 abitanti).
Una buona raccolta differenziata è anche la condizione per continuare a utilizzare i rifiuti residui recuperando energia.
Una volta avviata al compostaggio la frazione organica, e recuperati a parte vetro e metalli che non bruciano, la parte residua dei rifiuti – composta per la gran parte di carta, plastiche, legno, stracci non più riciclabili – costituisce un buon combustibile (detto CDR, combustibile derivato dai rifiuti), che viene bruciato negli inceneritori o termovalorizzatori per recuperare, in modo controllato, calore con cui produrre energia elettrica, riducendo al contempo almeno del 30% il peso e il volume dei rifiuti.
Compostaggio per la frazione organica, selezione e recupero per i materiali riciclabili, epurazione degli inquinanti per la frazione avviata al recupero energetico e, infine, avvio alla discarica per la sola frazione inerte: sono questi i segmenti di un sistema articolato per gestire il problema rifiuti traendone tutta la ricchezza ottenibile.
La legislazione italiana in materia di rifiuti è stata rivoluzionata nel 1997 (con il cosiddetto decreto Ronchi), con un piano d’azione ispirato alle 4 r che interviene su tre piani: integrazione delle diverse tipologie di intervento; organizzazione del mercato del riciclo attraverso la costituzione di consorzi specializzati nella raccolta di materiali specifici e nel loro avvio al riciclo per essere utilizzati come materie prime seconde; sostegno al mercato del riciclato. Quest’ultimo asse normativo prevede, per esempio, che la pubblica amministrazione – ministeri, enti locali, caserme, scuole – e le società a prevalente capitale pubblico – autostrade, ferrovie, municipalizzate, aziende ospedaliere – sono obbligate ad avvalersi di prodotti riciclati per almeno il 30% dei propri acquisti.
Tutto questo sistema risulta però destinato al fallimento se i rifiuti continueranno ad aumentare. Accanto all’incremento della raccolta differenziata, per ridurre al minimo la quota di rifiuti da smaltire in inceneritori e in discarica, occorre intervenire sulla produzione ‘usa e getta’ e sul consumo di materia prima vergine, da un lato con innovazioni tecnologiche e dall’altro con interventi sugli stili di vita dei paesi più consumistici. Solamente così sarà possibile ‘chiudere il cerchio’ senza sprechi.
Ecomafia è un neologismo coniato a metà degli anni Novanta dall’associazione ambientalista Legambiente, per indicare lo smaltimento illegale dei rifiuti – prevalentemente rifiuti speciali e pericolosi – gestito da organizzazioni mafiose, reato divenuto sanzionabile soltanto nel 1997 con il decreto Ronchi. Il fenomeno è più vasto di quanto non si pensi. Dal 1994 al 2004 sono state accertate 21.170 infrazioni relative al ciclo dei rifiuti per un giro d’affari stimato in 30 miliardi di euro: intere zone del paese, soprattutto nella provincia di Caserta e di Napoli, sono irrimediabilmente contaminate dai rifiuti pericolosi gettati sul terreno, in vecchie cave abbandonate o in scavi appositi, oppure bruciate a cielo aperto.
Attraverso questo circuito illegale si stima che nel solo 2002 siano scomparsi 14,6 milioni di tonnellate di rifiuti speciali – equivalenti a una montagna di tre ettari di base e alta quasi 1.500 m –, prevalentemente provenienti dall’Italia settentrionale e fatti scomparire illegalmente nell’Italia meridionale anche se più recentemente sembra che le ecomafie preferiscano smaltire i rifiuti direttamente al Nord.
I rifiuti hanno un forte potere di autocombustione, sicché una volta accesi continuano a bruciare da soli (1 kg di rifiuti domestici contiene circa 2.000 kcal, mentre il cdr supera le 4.000 kcal). Per abbattere il potere inquinante dei rifiuti bruciati occorre, oltre a una corretta raccolta differenziata, utilizzare le nuove tecnologie, applicando anche le nuove norme europee per la gestione, che consentono di abbattere da dieci a cento volte gli inquinanti presenti nei fumi emessi dagli inceneritori. Rimane comunque la necessità (e l’opportunità) di collocare gli inceneritori in aree industriali vicino alle città, per diminuire il più possibile i costi (in città si producono gran parte dei rifiuti), l’impatto ambientale e il recupero efficiente di energia.
La composizione dei rifiuti solidi urbani è così suddivisa: organico 33%, carta 24%, plastica 11%, vetro 8%, legno 4%, metalli 4%, tessili 3%, altro 13%. Il 54% dei rifiuti urbani in Europa è smaltito in discarica, il 19% è trattato negli inceneritori con recupero di calore ed energia, il 27% è recuperato come compost e attraverso attività di riciclaggio. Va comunque considerato che la situazione tra i diversi paesi europei è molto differenziata: si va infatti da quella della Danimarca – dove la discarica copre solo l’8%, i termovalorizzatori (inceneritori con recupero energetico) il 60% e le altre forme il 32% – a quella della Grecia e dell’Irlanda – dove i rifiuti sono smaltiti al 90% in discarica.In Italia siamo al 51,7% di smaltimento in discarica, l’incenerimento copre l’8,8%, mentre sono 600 i comuni italiani che avviano al riciclo oltre il 50% dei rifiuti.