Sceneggiatura
Con il termine sceneggiatura (fr.: scénario; ingl.: screenplay o script; ted.: Drehbuch) viene designata in genere la costruzione della struttura narrativa del film, che precede le riprese, in questo senso individuando un processo produttivo che va oltre il testo vero e proprio.
Il percorso di scrittura di un film ha la sua prima fase nel soggetto, che rappresenta l'idea, il nucleo narrativo del film; può trattarsi di una breve storia, scritta per lo schermo (soggetto originale), oppure essere costituito da un libro, un romanzo, un racconto o un'opera teatrale di cui si sono acquisiti i diritti di adattamento (property) o venire dalla realtà, da una notizia apparsa sui giornali, o riprendere un altro film, nel caso del remake. A seconda delle situazioni produttive, questo processo viene avviato da un regista o da un produttore o da un attore, che invitano lo sceneggiatore a lavorare sul progetto. Mentre nel cinema italiano il soggetto originale è la regola, nel cinema americano è più frequente che si parta da un'opera preesistente, in grado di offrire maggiori garanzie commerciali, dato che dispone già di un suo pubblico. Spesso però si utilizzano questi testi solo come spunti, sfruttando una situazione narrativa o un ambiente, oppure la popolarità della trama; il contratto relativo all'acquisizione dei diritti, infatti, contiene di norma l'avvertenza che, nell'adattamento per lo schermo, l'opera potrà subire modificazioni non contestabili dall'autore. Negli Stati Uniti questa prima stesura del progetto del film viene avviata dall'Ufficio soggetti di uno studio o dal produttore in persona: i materiali vengono letti da personale specializzato (il reader), che compila schede dettagliate di commento, evidenziando debolezze e punti di forza della storia. In situazioni meno standardizzate da un punto di vista industriale, l'idea di partenza può essere un tema da svolgere, o un particolare intreccio narrativo, o uno spunto preso dalla realtà, che uno sceneggiatore o un regista decidono di strutturare. Per lo sceneggiatore Paul Schrader, autore di Taxi driver (diretto da Martin Scorsese nel 1976), il processo ideativo di un film deve partire da un tema, "qualcosa che si vuole dire" (nello specifico, identificato nella solitudine), per il quale "bisogna trovare una metafora che l'esprima" (cioè il tassista), proponendo un intreccio che rifletta al meglio il tema e la metafora prescelti (Taxi driver). Non sono molti però, gli sceneggiatori che seguono un percorso ideativo così complesso; nella gran parte dei casi lo scrittore si muove a partire da una situazione narrativa, da uno spunto per un intreccio che lo incuriosisce, a volte da una geometria di rapporti.
L'ispirazione iniziale, l'idea, è la fase meno tecnica del lavoro di s., quella in cui non esistono regole, ma che tutti, inclusi produttori e registi, considerano essenziale per la realizzazione di un buon film. Non a caso nel mercato del lavoro attuale spesso più che vendere una s. già pronta, cosa che implica un grosso dispendio di energie, lo sceneggiatore propone al produttore un'idea, argomentandola a voce in pochi minuti (pitching), come accade nel film sulla Hollywood di oggi The player (1992; I protagonisti) di Robert Altman, oppure sotto forma di soggetto scritto che, da un punto di vista tecnico, solitamente è costituito da una breve trama, un racconto che contiene personaggi e azioni, lungo dalle 10 alle 15 pagine.
La scaletta implica la costruzione per punti della struttura narrativa del film ed è lunga di solito 4 o 5 pagine. In essa si propongono gli snodi più importanti del racconto, allo scopo di agevolare il controllo del loro funzionamento e della loro articolazione, risolvendo i problemi di intreccio. Nella scaletta non si discutono le motivazioni dei comportamenti dei personaggi ma si sintetizzano argomento, personaggi e azioni, verificando che il racconto si avvii e proceda con una buona struttura drammatica, ovvero con svolte e colpi di scena opportunamente calibrati. Il trattamento è il 'romanzo' del film, che propone, oltre alla vicenda, la caratterizzazione dei personaggi e i contenuti dei dialoghi; è scritto in forma letteraria, come un lungo racconto non scandito per scene, usando talvolta il passato (e non il presente, il tempo verbale tipico della s.). Esso svolge quelle funzioni che la scaletta trascura, cioè approfondisce la caratterizzazione dei personaggi, fornendo loro motivazioni e backstory (intrecci che riguardano eventi del loro passato, non necessariamente operativi nella vicenda stessa, ma utili a spiegarne la psicologia). Esso fornisce inoltre descrizioni dettagliate di ambienti, azioni, atteggiamenti, e sviluppa l'intreccio nelle sue articolazioni più minute, anche in quei passaggi che la s. potrà elidere; può includere dialoghi o brevi sunti del loro contenuto. Esso serve a chiarire le implicazioni della storia e dei caratteri, permettendo allo sceneggiatore di conferire spessore all'azione, descrivendo età, professione e passato del personaggio, e di spiegare gli stati d'animo dietro ai comportamenti, il che è assolutamente vietato in sede di sceneggiatura. Nel trattamento lo scrittore può anche emettere giudizi e esprimere reazioni, proponendo un substrato etico ed emotivo complesso, non esplicitato di necessità nella sceneggiatura. Il trattamento permette perciò all'attore di capire la psicologia e i tratti del proprio personaggio e al regista di individuare elementi tematici che possono trasformarsi in scelte stilistiche. Il trattamento (con la messa a fuoco dei personaggi), combinato con la scaletta (la macchina narrativa), dovrebbe sgombrare il campo da tutti i problemi di costruzione della s., liberando lo sceneggiatore da queste preoccupazioni, e permettendogli di passare alla visualizzazione dell'azione e dei personaggi, usando le inquadrature e i dialoghi per raccontare la storia sullo schermo, attraverso la s. vera e propria. In Italia scrivere il trattamento non ha costituito una regola, almeno fino alla standardizzazione delle pratiche sceneggiatoriali dopo gli anni Settanta e il diffondersi delle scuole di sceneggiatura. Negli Stati Uniti invece si tratta di una forma di scrittura praticata fin dal muto, rappresentando a volte un approfondimento della vicenda, che può includere la ricerca di materiali storici sulla vita quotidiana per i film in costume, allo scopo di offrire dati alla contestualizzazione visiva operata dallo sceneggiatore.
Nella s. si stabiliscono in dettaglio le inquadrature e i dialoghi, dividendo l'azione in scene che vengono numerate progressivamente. Ogni inquadratura reca una sorta di titolo con l'indicazione del luogo in cui si svolge l'azione, la specificazione tecnica se si tratti di 'interno' o 'esterno' (rilevante per la scelta della pellicola e delle attrezzature) e del momento della giornata in cui si svolge l'azione, come giorno, notte, alba (importante per le luci). In epoca classica, a partire dal muto e all'incirca fino agli inizi degli anni Ottanta, la s. comprendeva anche le indicazioni tecniche sui campi, piani e movimenti di macchina, con le abbreviazioni allora in uso: PPP per primissimo piano, CLL per campo lunghissimo e così via. A questa sintetica indicazione seguiva una descrizione di ambienti e azioni, e l'eventuale dialogo.
Nella s. classica venivano segnalate anche le scelte di montaggio, con l'opzione tra lo stacco (cut up) o la dissolvenza (dissolve) posti a destra in calce alla scena e al suo dialogo, prima di passare all'inquadratura successiva. Si dà invece ormai per scontato che si proceda per stacchi o tagli, e comunque si suggeriscono di rado le soluzioni di montaggio. Il ruolo più centrale acquisito dal regista nel processo creativo del film sconsiglia infatti la proposta di una messa in scena che di solito spetta a lui decidere.
Nella sezione dedicata al sonoro sono compresi i dialoghi, i rumori e soltanto raramente la musica. Nella s. italiana, a due colonne, il visivo si trova a sinistra e il sonoro a destra; in quella americana invece il dialogo è incolonnato al centro della pagina, a seguire il testo che descrive l'azione. Un po' come il copione teatrale, per via dei suoi te-cnicismi, la s. non è sempre di agevole lettura, anche perché nel cinema classico conteneva le indicazioni te-cniche e le descrizioni dettagliate dell'azione, che il regista non poteva variare. Agli inizi del 21° sec., fuori dallo studio system, dalle gerarchie industriali e dalla divi-sione del lavoro che esso implicava, la s. si è ormai modificata anche negli Stati Uniti. L'attuale tipologia per master scenes organizza le scene in unità spazio-temporali, riportando in maiuscolo Esterno-Interno, una breve definizione dell'ambiente e il momento del giorno in cui si svolge l'azione, come in quella classica, ma non utilizza indicazioni tecniche. Nella descrizione delle azioni di solito ogni diverso paragrafo segnala un cambio di inquadratura; non essendovi indicazioni di piani o campi, deve essere la descrizione a implicare il punto di vista, quindi l'inquadratura: lo sceneggiatore abile non indica PPP ma se descrive l'espressione di un volto, costringe il regista a farlo.Nel processo produttivo dopo la s. viene il découpage, in cui il regista organizza i materiali, predisponendoli alla messa in scena. In alcuni casi si attua anche una visualizzazione più tecnica del copione, come lo story board, una 'striscia' di disegni che propongono l'azione con precisione visiva, scandendola in inquadrature; lo story board viene utilizzato spesso in film che investono sugli effetti speciali, dei quali si vuole prevedere con meticolosità ogni dettaglio visivo.
Considerando le numerose varianti che può avere, la s. va studiata diacronicamente, ponendo particolare attenzione ai processi produttivi e culturali che ne hanno condizionato la forma.
Nel cinema delle origini più che di una s. si dovrebbe parlare di liste di inquadrature o, al massimo, di scalette. Il regista (che spesso era anche l'operatore) inventava lì per lì un breve intreccio, o se lo faceva suggerire da qualche collaboratore. Ben presto ci si rese conto però dell'utilità di disporre di una scaletta di inquadrature, che agevolava l'organizzazione delle riprese, se pure dei brevissimi film del periodo. Questa scaletta o lista era lunga da una a tre pagine dattiloscritte; ne esistono esemplari incollati sul cartoncino e piegati in tre, in modo da adattarsi alla tasca del regista. La scaletta indicava il luogo in cui si svolgeva l'azione e l'azione stessa, per sommi capi; più che una s. era una storia divisa in quadri, che divenne un testo diviso in inquadrature già agli inizi degli anni Dieci. Le didascalie erano dei cartelli esplicativi che interrompevano il flusso delle immagini per fornire informazioni spazio-temporali o narrative per es. "Dieci anni dopo" oppure "In un'altra città", ma anche elementi del racconto altrimenti non comprensibili dalle immagini mute, come uno scambio di battute, oppure un'azione dalle motivazioni non autoevidenti. Le didascalie, in prevalenza di tipo descrittivo, apparvero fin dal 1904; nel 1909 erano diventate una convenzione così radicata che ne esistevano di prestampate. La didascalia andò assumendo importanza crescente mano a mano che il racconto si faceva più complesso e la sua scrittura si trasformò in un'attività specialistica: Anita Loos e Ralph Spence erano famosi per le loro didascalie piene di humour, l'una per mettere a fuoco il personaggio comico di Douglas Fairbanks, l'altro in quanto in grado di salvare una pellicola fiacca, con tocchi di ilarità. Il titlist, ovvero lo scrittore di didascalie, presenziava dunque al montaggio, anche perché nel cinema muto in questa sede si poteva in pratica cambiare la storia del film, con l'uso dei cartelli appropriati. In quel periodo nel cinema americano la s. si chiamava continuity, a segnalare la necessità di verificare l'organicità del racconto e del film, cioè che esso si snodasse per quadri ordinati secondo una continuità logica. Lo sceneggiatore non smetteva di scrivere per un film nel momento in cui completava il copione, ma restava sul set per inventare, per es., le battute leggibili sulle labbra degli attori e non riportate nelle didascalie, o per adattare la storia, se si presentavano delle emergenze; seguiva poi il montaggio, per inserirvi i cartelli e controllare la continuità narrativa del film.
Oltre a contenere la divisione in inquadrature con le indicazioni tecniche il copione poteva prevedere suggerimenti di regia relativi alla recitazione. Nel cinema muto infatti era necessario fornire dettagli visivi e notazioni psicologiche nella descrizione dei gesti dei personaggi, in quanto l'attore necessitava di chiavi di lettura e di un repertorio di gesti, sguardi e movimenti nell'ambiente, in grado di esprimere per immagini una serie di informazioni in seguito delegate al dialogo.
Nel cinema muto americano lo sceneggiatore aveva quindi una funzione più articolata di quella del regista, ed era presente più a lungo nel lavoro del film, che per il regista spesso si esauriva con le riprese. L'importanza della star nella concezione del progetto e nell'organizzazione dello studio system incoraggiavano infatti una stretta collaborazione tra produttore e sceneggiatore allo scopo di ottimizzare le performances. Anche il cinema muto europeo sviluppò modelli avanzati di scrittura del film, soprattutto in Italia e in Germania. Nel cinema muto italiano si riscontra infatti una forte presenza di letterati, arruolati come sceneggiatori; esperienza chiave è il lavoro di Gabriele D'Annunzio per Cabiria (1914, diretto da Giovanni Pastrone), per il quale il vate scrisse anche le auliche didascalie. All'interno del cinema tedesco muto si segnala Carl Mayer, collaboratore abituale di Friedrich W. Murnau, che tentò la sperimentazione del titlelloser Film, il film senza didascalie, eliminando la parola come testo scritto e puntando sull'espressività dei volti, sulla gestualità e soprattutto, su di un uso simbolico degli oggetti, come l'orologio che scandisce le ore del dramma umano in Sylvester (1923; La notte di S. Silvestro) di Lupu Pick.
L'introduzione del sonoro modificò la grafica e in parte la funzione della s., sia perché si associò a una fase di standardizzazione delle pratiche industriali, sia perché i dialoghi richiedevano una collocazione nel testo, non risolta allo stesso modo nelle varie cinematografie. Nel muto i dialoghi erano sintetizzati in didascalie apposite (chiamate in America spoken titles), che contenevano spesso virgolette o segni convenzionali, per facilitare l'identificazione del testo scritto come battuta di dialogo. Con l'introduzione del sonoro, a Hollywood inizialmente si affidò proprio al titlist il compito di scrivere i dialoghi. Nella s. l'equilibrio tra il testo che serviva a descrivere l'azione e quello che sintetizzava i dialoghi nella didascalia cambiò: come è ovvio, i dialoghi occuparono maggiore spazio nel copione, mentre le descrizioni potevano concentrarsi, dato che alcuni tratti del personaggio o alcune informazioni venivano trasmesse attraverso le battute. Ben presto però la sciocca divisione del lavoro tra sceneggiatore e dialoghista fu superata, anche se il compito dello sceneggiatore americano divenne comunque più specialistico e frammentario, per l'assestarsi dello studio system. La s., oltre che macchina di efficienza narrativa, divenne lo stampo, il modello per la realizzazione del film; si trattava di una 'sceneggiatura di ferro', immodificabile da parte del regista, in cui erano previste sia le indicazioni tecniche dei piani o delle angolazioni di ripresa, sia i dettagli produttivi, per permettere al produttore di controllare che venisse rispettato il budget. Le pratiche produttive cambiavano però di studio in studio. Alla Metro Goldwyn Mayer, per una s. venivano accreditati più scrittori, che spesso non si erano mai neppure incontrati, lavorando uno all'insaputa dell'altro. Inoltre, sotto la guida del giovane produttore Irving G. Thalberg, c'era l'uso frequente di retakes, ovvero di nuove riprese girate dopo le anteprime con il pubblico, per modificare le sequenze mal riuscite. Il lavoro di s. alla MGM, quindi, non era mai definitivo; il copione inoltre era costruito per scene madri, capaci di valorizzare le numerose star sotto contratto, più che contenere un progetto organico di racconto. Il contrario accadeva invece alla 20th Century-Fox, dove Darryl F. Zanuck considerava intoccabile ed essenziale la s., ponendola al centro del processo produttivo.
In Italia con il sonoro il modello grafico della s. si trasformò, con la scelta della grafia 'alla francese' su due colonne. La pagina veniva divisa in due colonne, ponendo il visivo a sinistra (inclusi campi o piani, movimenti di macchina, stacchi di montaggio o dissolvenze) e il sonoro a destra (con dialoghi, rumori, musica ed eventualmente, tra parentesi, le modalità espressive, come in un copione teatrale). A Hollywood invece si è sempre scritto a tutta pagina, con precise indicazioni sulle inquadrature da usare e su altri dettagli utili alla lavorazione del film, in quanto la s. era ritenuta alla base del processo produttivo, come strumento di controllo del produttore, sul quale si stampigliava a volte la dicitura corrispondente a "da girarsi come scritto", secondo il precoce modello operativo istituito da Thomas Ince negli anni Dieci, e in quanto testo operativo condiviso da tutta la troupe. Le differenze tra s. italiana a due colonne e modello americano a tutta pagina non sono solo grafiche, ma implicano una diversa relazione tra immagine e suono, un ruolo differente del dialogo e del sonoro (che può essere lasciato all'improvvisazione nel caso di attori presi dalla strada, come nel cinema neorealista). A Hollywood invece il sonoro è concepito in una relazione organica con l'azione già sulla pagina. Anche da un punto di vista storico si profilano differenze culturali significative: mentre il cinema europeo ha sempre intrattenuto un fitto rapporto con la cultura alta, e spesso ha utilizzato letterati e opere letterarie, il cinema americano ha invece sempre mirato a un pubblico popolare e ha sviluppato la s. come tecnica narrativa adatta alla costruzione in serie, alla catena di montaggio dello studio system volta a consentire un maggior controllo da parte del produttore, ma anche a garantire l'efficacia narrativa. Sbagliava però l'estetica di stampo idealistico che identificava la s. con l'industria e il lavoro di regia con l'arte: nell'Espressionismo e nel Neorealismo, come nel cinema d'autore, per es., la s. ha giocato un ruolo essenziale.
La s. non ha ricevuto una grande attenzione critica, se non nel periodo del muto, quando i letterati che vi si cimentavano si interrogavano sulle differenze tra la scrittura in sé e quella destinata a trasformarsi in racconto per immagini. Spesso poi i lavori sull'argomento si rifacevano ampiamente ai testi di drammaturgia teatrale, o ai repertori tematici, utilizzati anche in altri settori. Fu il cinema sovietico a dare una forte spinta a una riflessione originale e complessiva sull'estetica (e la pratica) cinematografica, con un'onda lunga che arrivò anche in Italia, negli anni Trenta. Le opere del regista e teorico russo Vsevolod I. Pudovkin in particolare analizzavano la funzione della s. nel percorso ideativo e realizzativo del film. Secondo il regista russo, in una prima fase bisognava isolare il tema che si intendeva trattare, trasformandolo in un racconto (ovvero nel soggetto), per giungere poi a una dettagliata s. tecnica, contenente le indicazioni sulle inquadrature e sulle posizioni della macchina da presa. Pudovkin scriveva di una 'sceneggiatura di ferro' sui generis, che non nasceva da motivazioni produttive, come nello studio system, ma dal desiderio di un controllo estetico complessivo della realizzazione del film, che mantenesse in primo piano la relazione tra il soggetto e la forma più adatta a esprimerlo. A Pudovkin non interessava quindi l'intreccio in sé, la struttura drammaturgica della s., ma piuttosto l'idea di partenza, il messaggio da mettere in scena, e la sua relazione, quasi necessaria, con un racconto per immagini, ottimale nell'argomentarlo. In seconda battuta infatti, il tema doveva organizzarsi intorno a un nucleo narrativo, uscendo dall'astrazione, per trovare un collegamento organico con una storia. La s. nasceva quindi da un progetto comunicativo e ideologico, per trasformarsi in un racconto sceneggiato, in cui si descrivevano in dettaglio personaggi e azioni, con attenzione sia agli elementi visivi sia a quelli drammaturgico-narrativi, visualizzando con cura l'azione e prevedendone risvolti psicologici e struttura drammatica. Per Pudovkin il lavoro di s. non si esauriva nell'intreccio e nella sua visualizzazione, ma implicava anche la ricerca di volti e gesti, oggetti e spazi, capaci di raccontare al meglio, con una forza quasi simbolica di rappresentazione, quella storia. Attraverso i testi filmici e quelli critico-teorici dei suoi maggiori esponenti, pur con le marcate differenze espresse da Sergej M. Ejzenštejn, il cinema sovietico conferiva un ruolo importante sia alla s. sia al montaggio, enfatizzando il processo di ideazione e organizzazione del testo filmico.
La funzione della s. non è quindi legata solo alle pratiche dell'industria ma anche a quelle del cinema di qualità, per via del ruolo di nucleo organico del film che essa riveste. Nel cinema sovietico vi era un intenso rapporto tra sceneggiatori e regista; il regista era spesso partecipe della stesura della s., secondo un modello di interazione creativa che venne adottato in seguito dal cinema europeo di qualità. La teoria sovietica ebbe in particolare un forte impatto sulla storia del cinema italiano in quanto la lezione di Umberto Barbaro, traduttore dei testi russi, e quella di Luigi Chiarini, che li aveva divulgati, venne recepita dalla generazione degli sceneggiatori e registi neorealisti. Il ruolo centrale del tema da metaforizzare e trasformare in un racconto cinematografico ben articolato ha trovato un sorprendente sostenitore nel cinema statunitense nelle ottenute riflessioni del regista e sceneggiatore P. Schrader (v. supra).
Dagli anni Settanta il sistema dei media ha subito una profonda trasformazione ovunque, con una sorta di standardizzazione mondiale dei metodi di lavoro che ha riguardato anche la sceneggiatura. Le multinazionali dello spettacolo e dell'etere e le coproduzioni internazionali hanno favorito un'osmosi sia in senso geografico sia tra i media stessi. Il modello di sceneggiatura a tutta pagina 'all'americana' è diventato quello più diffuso nei vari media, di qua e di là dell'Atlantico; al contrario, le indicazioni tecniche sono andate scomparendo, a favore di un copione di più facile lettura. Dopo il crollo dello studio system e l'affermarsi negli Stati Uniti del modello produttivo del cinema indipendente (anche quando poi il prodotto viene distribuito dalle majors sopravvissute), il lavoro dello sceneggiatore americano è cambiato in modo radicale, dovendo funzionare non in una catena di montaggio, con contratti pluriennali, ma film per film. La s. e soprattutto 'l'idea' venduta a un produttore devono essere professionali, ma anche accattivanti e agevoli da leggere, quindi prive di indicazioni tecniche e ben costruite.
Esiste a tale scopo una ricca manualistica e la pubblicazione più popolare è Screenplay, scritto da S. Field e pubblicato nel 1979; si tratta di una razionalizzazione divulgativa della prassi hollywoodiana, con un approccio sistematico alle fasi di scrittura e alle loro funzioni. Il manuale propone l'intero percorso dalla scaletta fino alla s. vera e propria, quantificando persino le pagine relative. Il suo carattere portante è la drammaturgia in tre atti, ovvero la scansione del ritmo narrativo, che prevede come primo atto la presentazione dei fatti e dei personaggi in uno stato di quiete; un primo colpo di scena avvia l'azione vera e propria, aprendo il secondo atto, ossia lo svolgimento dell'intreccio nel suo conflitto-tema principale; la conclusione della vicenda avviene infine nel terzo atto. Oltre alla costruzione tripartita, Field propone un dettagliato lavoro sul personaggio, con l'invenzione delle relative backstories (cioè il passato dei personaggi e i retroscena della storia, che possono anche non essere affatto messi in scena). Vi sono poi i sottointrecci che articolano il racconto attraverso i personaggi minori, e che di solito trovano risoluzione narrativa nel sottofinale. È interessante osservare che lo stesso Pudovkin proponeva una suddivisione della storia in parti, a loro volta frazionate in episodi e quindi in scene, assegnando loro una durata media di circa una ventina di minuti. Il manuale di Field invece attribuisce trenta pagine al primo atto, sessanta al secondo e altre trenta al terzo; ogni atto lascia il passo a quello successivo attraverso un colpo di scena, una svolta narrativa, che "spinge avanti la storia". Il primo atto serve a proporre i personaggi, delineando il soggetto e focalizzando gli elementi del dramma o dell'intreccio, fornendo allo spettatore le informazioni necessarie a seguire con interesse la vicenda. Il secondo vede il protagonista alle prese con ostacoli e conflitti che non gli consentono di realizzare i suoi desideri, i suoi progetti. Nel terzo atto vi è la risoluzione del conflitto principale o il raggiungimento dell'obiettivo primario, e la chiusura narrativa di tutti quegli intrecci che il film ha messo in gioco. La tecnica di s. è mutata anche in Italia: non si scrive più a due colonne, ma a tutta pagina, secondo la trasformazione globalizzante dei processi produttivi, per via dell'aumentata mobilità degli sceneggiatori e per la diffusione dei corsi di s., tenuti da docenti americani, che hanno standardizzato conoscenze e modelli. In Italia è rimasta però un'organizzazione meno strutturata del lavoro di s., spesso ancora svolto in coppia, come negli anni Cinquanta. Si riscontra inoltre la tendenza a soluzioni narrative più sperimentali e comunque più vicine agli andamenti liberi della percezione della realtà, che propongono protagonisti antieroici o persino sgradevoli, e strutture del racconto volutamente sbilenche rispetto alla scansione in tre atti, identificata con il cinema commerciale. Il formato tipografico ricalca quello hollywoodiano, ma l'idea, la funzione e il modo di scrivere una s. in Italia rimangono peculiari, non dimenticando il lavoro di inchiesta e documentazione neorealista, con la capacità di aprirsi all'improvvisazione e al guizzo fantastico o lirico, proponendosi come una delle fasi più creative del cinema italiano contemporaneo.
P.A. Gariazzo, Il teatro muto, Torino 1919.
V.I. Pudovkin, Il soggetto cinematografico, a cura di U. Barbaro, Roma 1932.
J.H. Lawson, Theory and technique of playwriting, New York 1936.
F. Marion, How to write and sell film stories, New York 1937.
G.P. Brunetta, Forma e parola nel cinema, Padova 1970.
S. Field, Screenplay, New York 1979 (trad. it. Milano 1991).
G. Muscio, Scrivere il film, Roma 1981.
T. Stempel, Framework: a history of screenwriting in the American film, New York 1988.