societa
Insieme di individui uniti da rapporti di varia natura, tra i quali si instaurano forme di cooperazione, collaborazione e divisione dei compiti, che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri.
Il concetto di s. si distingue soltanto assai tardi da quello di Stato e, più in generale, di politica. Il mondo antico comprende nell’unico concetto del πολιτικῶς ξῆν il «vivere socialmente» e il «vivere politicamente»: non emerge ancora il problema della distinzione tra legami sociali e legami statali. Così, si riferiscono contemporaneamente alla s. e allo Stato le riflessioni di Aristotele (nel libro I della Politica) che considera la dimensione politico-sociale come pertinente «per natura» all’uomo (definito φύσει πολιτικὸν ζῷον «essere sociale-politico per natura»), e per il quale la πόλις (per i latini civitas) non si distingue formalmente dalle più elementari forme di κοινωνίαι (o societates). Analoga è anche l’impostazione di coloro (sofisti, cinici, epicurei) che invece considerano la πόλις risultante da una convenzione che altera l’originario e naturale stato dell’umanità. Un modello diverso è invece rappresentato dall’ideale stoico del ‘cosmopolitismo’ (inteso come la comunità dell’intero genere umano), poi ripreso da Cicerone (De finibus, IV, 2, 4). Tale ideale consente infatti di dissociare l’aspetto sociale da quello statuale, e quindi di considerare la s. come indipendente dall’organizzazione politica.
L’impostazione aristotelica continua a segnare la riflessione politica medievale e rinascimentale fino al Seicento. Ancora per Grozio (De iure belli ac pacis, 1625, Prolegomeni) l’uomo è «per natura» un essere razionale e sociale, cioè atto a vivere in s., ma non in un qualsiasi raggruppamento bensì in una s. razionalmente organizzata, cioè la civitas, ossia la s. civile o politica, termini sinonimi nel linguaggio dei giusnaturalisti. È Hobbes il primo a contestare lo Stagirita affermando nel 1° cap. del De cive (1641) che l’uomo non è socievole per natura, ma lo diventa in seguito a un ragionamento e a un calcolo di vantaggi: una s. pacifica offre infatti all’individuo le maggiori opportunità di sopravvivenza. L’uomo è invece per natura «lupo per l’altro uomo», un essere egoisticamente concentrato su sé stesso, spinto da pulsioni aggressive e competitive. La s. è quindi una costruzione artificiale, che nasce da un atto volontario, attraverso un contratto: quel pactum unionis che tramite la sottomissione a un potere centrale dà origine alla vita sociale e politica, e alla pace. Dunque, per Hobbes s. e Stato coincidono; il pactum unionis è infatti allo stesso tempo patto di associazione e di sottomissione: non esiste socializzazione fuori dallo Stato e se si dissolve lo Stato – per es., in caso di guerra civile – si dissolve anche la s. e gli individui tornano nello stato di natura. Diverso è il caso di Pufendorf (De iure naturae et gentium, 1672), che prospetta un doppio contratto articolato in due patti diversi: il pactum societatis che dà origine alla s. (come mera associazione di mutuo soccorso) e il pactum subiectionis che istituisce un summum imperium (al quale tutti si sottomettono rinunciando a parte della libertà naturale per avere in cambio sicurezza) e crea quindi una vera Civitas. Ma è soprattutto Locke che nel Secondo trattato sul governo civile (1690) mette in luce come nello stato di natura (almeno in una prima fase), e dunque prima di ogni forma di patto, esista già una vita sociale: l’uomo naturale conosce infatti quelle forme di associazione (uomo-donna, padre-figli e padrone-servo) che sono comprese nell’istituto della «famiglia», esiste la proprietà privata fondata sul lavoro, sono possibili commerci, scambi e, una volta introdotta la moneta, anche l’accumulazione di ricchezza. Per Locke, che critica lo stato di natura di Hobbes, la discriminante tra stato di natura e s. politica non è quindi data dall’assenza o presenza di forme di vita associata, bensì dall’assenza o presenza di un’autorità politica e di tribunali, cioè di un potere centrale in grado di dirimere le controversie e far rispettare le leggi. Lo stato naturale (➔ natura, stato di) si delinea così nelle pagine dei giusnaturalisti come il luogo dei rapporti non politici, mediati da legami familiari, oppure di interesse e di reciproco aiuto. Quindi rispetto a Hobbes – di cui pure viene recuperata quella concezione individualistica della s. che, affermata in polemica con Aristotele, avrebbe poi caratterizzato il pensiero moderno, dalle teorie politiche a quelle economiche – le pagine di Pufendorf e di Locke segnano la scoperta di una sfera di rapporti tra gli uomini non caratterizzata da legami politici. Inoltre, nelle pagine di Locke (secondo un’impostazione che sarà anche quella di Kant nella Metafisica dei costumi, 1797, Dottrina del diritto) lo stato di natura precedente la s. politica è già uno stato morale. L’individuo appare infatti già titolare di diritti innati e inalienabili, che egli non deriva dalla s. e quindi dal rapporto storico con gli altri, ma dalla sua spiritualità e razionalità. A tale condizione l’istituzione della s. civile mediante il contratto non aggiunge nulla se non la legge positiva che garantisce e rende sicuro l’esercizio di quei diritti naturali che l’uomo già possiede, ma che nella condizione naturale sono costantemente esposti alla violenza e al sopruso. La s. quindi non si presenta come un fine, ma come un semplice mezzo per difendere, con la forza comune, la persona e i beni di ogni singolo associato. Il contratto non produce un’associazione reale (cioè una comunità effettiva di interessi), bensì si limita a creare un ordine formale che consolidi le prerogative dei singoli e renda possibile la coesistenza degli arbitri privati, cioè la concorrenza degli interessi reali individuali.
Profondamente diversa è la posizione di Rousseau. Mentre per Hobbes e Pufendorf lo stato di natura si oppone alla s. civile nel doppio significato di s. politica e di s. civilizzata, in Rousseau questo significato si disarticola. Nell’analisi elaborata nel Discorso sull’origine della disuguaglianza (1754) la condizione naturale dell’uomo si presenta come un originario stato di innocenza ma di semi-bestialità, e la s. politica o Stato arriva alla fine di un lungo processo di snaturamento e di civilizzazione, che è nello stesso tempo un processo di corruzione e di decadenza morale. L’uomo naturale, inconsapevole e felice, non è un soggetto morale né un essere razionale, bensì una creatura solitaria che non conosce né desidera la s., perché autonomo e autosufficiente. Il bisogno (collegato a eventi casuali, quali aumento demografico, mutamenti climatici, calamità naturali) lo spinge a cercare gli altri e a diventare un essere socievole e razionale, capace di linguaggio. La s. civile si sviluppa così attraverso una serie di passaggi, trasformazioni, crisi, che portano gli uomini a intrecciare rapporti, commerci e interessi. Attraverso queste relazioni di scambio con gli altri l’uomo può sviluppare le facoltà propriamente umane che possedeva originariamente solo in potenza. È dunque soltanto la vita sociale che – come si legge nel Contratto sociale (1762) – fa «di un animale stupido e limitato un essere intelligente e un uomo». Questo processo che civilizza ma snatura l’uomo culmina nella istituzione della proprietà privata: «il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il vero fondatore della s. civile». L’insicurezza dei propri possessi, da un lato, e la povertà, dall’altro, spingeranno – in un clima di violenza e di brigantaggio – al patto iniquo e alla nascita della s. politica, che però si limiterà a istituzionalizzare le disuguaglianze di fatto. A questo punto il quadro della moderna s. civile è tracciato: una rete di dipendenze reciproche in cui ciascuno ha bisogno degli altri per soddisfare i propri bisogni e non esita a ingannare, sopraffare, dominare per ottenere ciò che gli serve. La s. politica si presenta così solo alla fine di un complesso processo di incivilimento, e la sua storia è anche la storia della caduta dell’uomo. Di qui la necessità di un nuovo contratto sociale che ponga le basi di una nuova s. politica.
Nei suoi scritti politici e di filosofia della storia, Kant sottolinea come l’uomo sia spinto verso la s. da tendenze diverse e opposte: «L’uomo ha un’inclinazione ad associarsi perché egli nello stato di s. si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, perché ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa che egli deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri». Tuttavia proprio questo conflitto di tendenze, questa «insocievole socievolezza», viene indicata da Kant come uno dei più potenti fattori di sviluppo storico e di progresso («Il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è il loro antagonismo nella s.», Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, 1784, IV), perché essa eccita le energie dell’uomo, lo induce a vincere la sua inclinazione alla pigrizia e lo stimola a sviluppare tutte le sue capacità. È necessario però, affinché questa «insocievole socievolezza» dia tutti i propri frutti, che essa sia disciplinata da regole che ne assicurino il funzionamento: occorre, cioè, «una s. civile che faccia valere universalmente il diritto». Solo all’interno della s. civile regolata da «leggi esterne» l’antagonismo degli individui può realizzarsi in modo tale che la libertà di ognuno possa coesistere con la libertà di tutti gli altri.
Chi contribuisce soprattutto a distinguere il concetto di s. da quello di Stato è Hegel, che subordina il primo al secondo, considerando la s. civile/ borghese (bürgerliche Gesellschaft) come una fase imperfetta o preparatoria dello Stato (cioè della «s. politica» in senso stretto). Nel sistema hegeliano lo spirito oggettivo (che segue lo spirito soggettivo e precede lo spirito assoluto) è distinto nei tre momenti del diritto, della moralità e dell’eticità (➔). Questa, a sua volta, si articola nei tre momenti della famiglia, della s. civile e dello Stato. La s. civile costituisce quindi il passaggio intermedio del processo dialettico tramite il quale la «sostanza etica» sale, nella sua realizzazione, dall’«immediatezza naturale» della famiglia alla «consapevolezza» dello Stato. Anch’essa si articola in tre momenti: sistema dei bisogni, amministrazione della giustizia, e polizia e corporazione (cioè gli organi che si occupano della mediazione degli interessi particolari). Scrive Hegel: «La sostanza, che, in quanto spirito, si particolarizza astrattamente in molte persone […], in famiglie o individui, i quali sono per sé in libertà indipendente e come esseri particolari, perde il suo carattere etico; giacché queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo l’unità assoluta, ma la loro propria particolarità e il loro essere per sé: donde nasce il sistema dell’atomistica» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817, § 523). Tale sistema rappresenta appunto la dimensione propria della s. civile in quanto luogo della connessione e mediazione di interessi particolari contrapposti. In Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, 1821, §§ 182-256), dunque, la s. civile è qualcosa di superiore alla famiglia (che è una s. naturale, basata sui legami del sangue e dell’affetto, e costituisce una forma solo primordiale di eticità), ma non è ancora quella forma di eticità pienamente dispiegata che è lo Stato, il quale riassume in sé e supera le precedenti forme della socievolezza dell’uomo. In partic., la s. civile rappresenta il momento in cui si configurano i rapporti economici, nati dalla necessità di soddisfare i bisogni mediante il lavoro, le manifatture e i commerci: essa si articola in diverse classi sociali (classe sostanziale o agricola, classe formale o dell’industria, classe generale o burocrazia) che rappresentano il sistema dei bisogni. La classe sociale che più risente del particolarismo della s. civile è la classe dell’industria, che comprende il ceto degli artigiani, quello degli addetti alle manifatture e quello dei commercianti. Questa classe si organizza in corporazioni, che sono associazioni volontarie sulla base del mestiere, le quali svolgono compiti organizzativi e assistenziali contro gli imprevisti economici. Le corporazioni designano i loro rappresentanti, che vanno a costituire la camera bassa (mentre la camera alta è costituita dalla classe agricola, ossia dalla nobiltà fondiaria). L’eticità della classe sostanziale, l’unificazione della classe formale attraverso le corporazioni, la dedizione della classe generale alla cosa pubblica, realizzano il superamento dell’atomismo che affliggerebbe la s. civile se lasciata a sé stessa, e preparano il passaggio dalla s. civile allo Stato, che appare alla fine come il soggetto reale che ricomprende in sé le sfere della famiglia e della s. civile.
Marx conserva la concezione hegeliana della s. civile, ma capovolge il rapporto con lo Stato: famiglia e s. civile non sono sfere derivate dallo Stato, poste e create da esso, ma sono i presupposti dello Stato. Quest’ultimo non può essere concepito idealisticamente come «realtà dell’idea etica», bensì come il complesso delle leggi e degli apparati che tengono insieme i rapporti antagonistici propri della s. civile. Qui ognuno persegue il proprio interesse indipendentemente da tutti gli altri e in contrasto con tutti gli altri. Concorrenza, sfruttamento, disuguaglianza caratterizzano la s. civile/borghese. Lo Stato, mentre garantisce il funzionamento dei meccanismi di riproduzione della s. civile, costituisce una sfera illusoria, in cui tutti sono uguali come cittadini (mentre, in realtà, tutti sono diseguali in quanto membri della s. civile). Sicché per Marx s. civile/borghese e Stato devono essere soppressi, e si deve dar vita a una comunità di liberi e di uguali, che si autogovernano e regolano le forze produttive da essi create, senza che essi debbano sdoppiarsi più nel «cielo» dello Stato e nella «realtà» terrena della s. civile.