Società postindustriale
Il concetto di società postindustriale appare al termine del periodo di ricostruzione e di crescita economica nazionale del dopoguerra, allorché entrarono in scena movimenti culturali che mettevano in discussione un''etica industriale' rigidamente normativa in nome di più larghe aspettative di consumo e al tempo stesso della contestazione dell'ordine stabilito. Esso ebbe due significati assai diversi. Per Daniel Bell, che esercitò una grande influenza negli Stati Uniti ma anche in Europa, la società postindustriale era innanzitutto una società iperindustriale, il risultato di una nuova rivoluzione industriale. Le nuove tecnologie portavano con sé lo sviluppo dei servizi, soprattutto per le imprese, la crescita del livello di istruzione e di qualificazione, rapide trasformazioni nella produzione e nell'insieme dell'organizzazione sociale. La società postindustriale rappresentava dunque per Bell il trionfo della società industriale, il rafforzamento dei legami tra scienza, tecniche e organizzazione del lavoro. Secondo Alain Touraine, invece, più influenzato dai movimenti culturali - soprattutto quelli studenteschi, che avevano segnato la società americana a partire dal 1964 e molti paesi europei nel 1968 -, occorreva insistere sulla discontinuità rispetto alla società industriale piuttosto che sull'accelerazione di tendenze già evidenti fin dal suo inizio. Nell'espressione 'postindustriale' Touraine metteva l'accento su 'post', Bell su 'industriale'. Per entrambi, comunque, ciò che si stava formando era un nuovo tipo di società che, come la società industriale e ancor prima quella mercantile, doveva essere definito sulla base di un modo di produzione piuttosto che di altre caratteristiche sociali o di un processo di trasformazione economica e sociale. Negli anni in cui Touraine pubblicava La société post-industrielle (1969) e Bell The coming of post-industrial society (1973, ma preannunciato da diversi articoli) si potevano percepire i profondi mutamenti della società industriale, ma non era ancora possibile descrivere e analizzare il nuovo tipo di società che si andava formando, cosicché il ricorso al concetto di società postindustriale non poteva essere del tutto persuasivo, in quanto dava per acquisito, ma non poteva dimostrarlo, il fatto che andava emergendo un nuovo tipo di società che doveva essere definito sulla base di una forma di produzione.
Questa relativa debolezza - che non ha impedito al concetto di società postindustriale di essere ampiamente utilizzato nei decenni successivi - senza togliere a tale idea la sua pertinenza, le ha tolto il posto centrale che aspirava a occupare. Essa è stata superata dalle trasformazioni introdotte non nel sistema di produzione, ma nel modello di regolamentazione economica. A partire dalla metà degli anni settanta si è assistito ovunque alla caduta o al regresso dei modelli globali di regolamentazione statale che combinavano obiettivi economici, sociali e politici nel nome delle analisi keynesiane, della creazione del Welfare State e talvolta di una pianificazione indicativa alla francese. L'impennata del prezzo del petrolio segnò l'inizio della mondializzazione dell'economia: le somme prelevate soprattutto dalle economie europee vennero in larga parte collocate dai paesi produttori di petrolio nelle banche americane, che aprirono linee di credito a numerosi paesi, per esempio a quelli sudamericani, dove regnava allora il 'denaro facile'. Nel corso dei vent'anni successivi il tema della globalizzazione è divenuto sempre più importante, ma non si deve vedere in esso la rappresentazione completa del nuovo tipo di società, poiché non vi è alcun legame necessario tra l'aumento degli scambi mondiali, lo sviluppo delle industrie del settore dell'informazione, la comparsa di nuovi paesi industriali, l'amplificazione di un'economia finanziaria che eccede di gran lunga i bisogni degli scambi economici internazionali, e infine l'egemonia americana seguita al crollo dell'impero sovietico. Si deve inoltre diffidare dell'affermazione puramente ideologica secondo cui il mercato mondiale si autoregola mentre gli Stati nazionali sono diventati impotenti, perché, ad esempio, gli scambi internazionali rappresentano soltanto il 7% dell'economia americana, il che lascia ampi spazi di intervento allo Stato e alle forze sociali nazionali. Resta il fatto, però, che il modello di sviluppo di tutti i paesi del mondo si è trasformato, e soprattutto che è nei termini del modo di sviluppo e non più in quello del 'modo di produzione' che leggiamo i cambiamenti in corso. Parliamo meno di società postindustriale e più di economia di mercato e di globalizzazione, e ciò impone di rispondere all'interrogativo che i primi autori non poterono analizzare concretamente: stiamo assistendo alla formazione di un nuovo tipo di produzione, di organizzazione e di gestione economica? sta nascendo sotto i nostri occhi un nuovo tipo di società e di organizzazione sociale, di orientamenti culturali e di obiettivi politici?
Occorre comunque evitare qualsiasi confusione tra modello di sviluppo e modo di produzione. Si potrebbe pensare che la mondializzazione dei mercati sia oggi un fenomeno più sconvolgente dello sviluppo di una società dell'informazione, così come nel secolo scorso fu a lungo più utile parlare di società capitalistica che di società industriale, ma questa constatazione di carattere storico non può assolutamente portarci a rigettare come inutili categorie quali 'società industriale' o 'società postindustriale'. Se hanno avuto torto coloro i quali pensavano, come Raymond Aron, che il concetto di società industriale dovesse rimpiazzare quello di società capitalistica, è altrettanto arbitraria l'affermazione secondo cui i concetti economici di mercato e di globalizzazione rendono inutile l'idea di società postindustriale o tutte le altre definizioni di un tipo nuovo di società.
L'idea di un nuovo tipo di società deve essere difesa non solo contro una visione puramente economica e non sociale della globalizzazione, ma anche e a maggior ragione contro l'idea di società o di cultura postmoderna, poiché questa idea rifiuta l'esistenza di qualsiasi principio unificante della vita sociale e afferma la scomparsa o la crisi irreversibile delle 'grandi narrazioni storiche' (come dice François Lyotard), e cioè della concezione storicistica della società, tanto liberale quanto socialista. Si deve tuttavia evitare, ancora una volta, di confondere quel che va tenuto distinto. Il pensiero postmoderno può essere un elemento importante della cultura postindustriale nella misura in cui rigetta un evoluzionismo fondato sullo sviluppo dei mezzi di produzione, sulla loro complessità e integrazione crescente, e soprattutto sul trionfo sempre più completo della ragione e della razionalizzazione. Ma esso esprime innanzitutto il venir meno del nesso tra l'attività economica e quegli orientamenti culturali che, in una prospettiva liberale, portano a un relativismo culturale che non lascia spazio ad altra regolamentazione che non sia quella del mercato, e in una prospettiva contestataria portano alla denuncia di un mondo dominato dalla tecnica, dal denaro e dal potere. Il pensiero postmoderno, in tutti i casi, prende atto della scomparsa delle mediazioni sociali o le riduce a un'immagine tradizionale delle libertà politiche o al tema della complessità, versione moderna del liberalismo, in quanto una società complessa non è altro che un insieme di mercati che non possono essere organizzati attraverso interventi normativi, essendo per definizione mutevoli, incerti e imprevedibili. Sono termini che corrispondono a esperienze reali, più reali dei riferimenti a una società postindustriale che sembrano sempre carichi di elementi volontaristici e ideologici. Ma se consideriamo impossibile descrivere la nostra situazione come 'postmoderna' è perché la separazione radicale del mondo degli scambi e del mondo delle credenze conduce a una loro 'degradazione' parallela, alla loro deculturazione. A partire da questa constatazione si rende necessario riscoprire la realtà 'sociale' di situazioni che non sono né puramente economiche né puramente culturali, e che dunque non possono essere comprese né per mezzo dell'economicismo, né facendo ricorso al culturalismo idealistico. Questa realtà sociale si rivela anche all'interno del modello di sviluppo economico dominante, sotto forma dei conflitti che hanno già colpito i paesi industriali - Germania, Corea, Belgio in particolare - esposti alle costrizioni della concorrenza internazionale e delle trasformazioni tecnologiche. Ma la portata dei nuovi conflitti che agitano l'economia mondiale globalizzata non è sufficiente per definire la società postindustriale e per affermare che essa costituisce un tipo nuovo di società, come già fu la società industriale.
Come non si descrive una città dicendo che vi si è arrivati in treno, in auto o in aereo, così non si può definire un tipo di società in base a un processo di cambiamento. Occorre in via preliminare dire che cosa definisce un tipo di società e, nel caso specifico, che cos'è la società postindustriale. L'ipotesi più attendibile è che a definire questa società sia la tecnologia, e cioè, in realtà, l'applicazione della razionalità e della scienza alle tecniche di produzione di beni culturali. È questa l'idea che ritroviamo nell'espressione 'società dell'informazione' (adottata grazie alla convincente argomentazione di Manuel Castells). In pochi anni e pressoché in un unico luogo - la regione di San Francisco - furono scoperte e messe a punto le tecnologie che in tre decenni avrebbero fatto trionfare l'informatica e creato degli 'spazi' nuovi. Come non parlare di terza rivoluzione industriale, dopo quelle che hanno visto il dominio del vapore e dell'elettricità? È impossibile definire una società moderna prescindendo dai suoi strumenti, dalle sue tecniche, e dunque dall'azione che essa esercita su di sé e sul proprio ambiente, ma questa affermazione mostra il carattere tautologico della definizione appena data della società postindustriale. Se si assume che un tipo di società dev'essere definito anzitutto attraverso il suo apparato tecnologico, è evidente che l'universo informatico e più generalmente elettronico costituisce lo 'zoccolo' della società postindustriale. Ma nulla impedisce di pensare che queste tecnologie non abbiano più il ruolo di infrastruttura della nuova società, che abbia cessato di essere utile e sia anzi diventata artificiale e ingannevole questa immagine architettonica che sistema e ordina i livelli della vita sociale - dalle tecniche alle rappresentazioni morali o estetiche, passando per l'economia, l'organizzazione sociale e le forze politiche - che era valida forse nella società industriale o almeno ne fu l'ideologia centrale. L'universo della ragione strumentale e quello dei valori e dei comportamenti morali si allontanano sempre più, come sappiamo dopo Max Weber e la separazione da lui stabilita tra l'etica della convinzione e l'etica della responsabilità o tra il potere razionale legale e quello carismatico, e in senso lato tra l'ambito della razionalità strumentale e quello dei valori in conflitto. Di conseguenza, se è vero che non si può definire il nuovo tipo di società prescindendo dal suo apparato tecnologico, per poter parlare di una società dell'informazione si deve scoprire una relazione necessaria tra il livello tecnologico e altri livelli della vita sociale. Il che deve condurre i sociologi a ricercare i legami che uniscono le tecnologie dell'informazione a nuove forme di organizzazione, di gestione e di dominio sociale. Si deve parlare di società postindustriale in quanto le nostre risorse tecnologiche si sono profondamente trasformate e la nostra produzione è guidata sempre più da modelli di pensiero linguistici e matematici piuttosto che dal semplice possesso di fonti di energia o da modelli di organizzazione della produzione. Certo, non si deve credere che tutto l'insieme della vita sociale segua questi modelli tecnologici, creando così la società positiva preconizzata da Auguste Comte.
Questa affermazione si scontra con una obiezione sempre ricorrente: le nostre società sarebbero meno di una volta società di produzione e sempre più società di consumo o del tempo libero; staremmo assistendo alla fine del lavoro. Questa obiezione è valida nella misura in cui, nelle società del passato, la riproduzione delle condizioni di esistenza e il loro miglioramento hanno occupato la grandissima parte della popolazione, mentre alle soglie del XXI secolo l'agricoltura e l'industria occupano solo il 20% della popolazione attiva dei paesi già industrializzati che passano alla postindustrializzazione. Ma dallo sviluppo dei servizi non si può concludere che questi sfuggano a un modello tecnologico che sarebbe applicabile solo alla produzione diretta. Quando parliamo di società postindustriale pensiamo immediatamente alle attività ad alta tecnologia, alla ricerca, ai settori di punta della medicina nonché all'istruzione di massa e ai mass media, piuttosto che alla produzione di apparecchi elettronici. Inoltre, se è vero che molte società industriali conoscono un tasso elevato di disoccupazione e di lavoro precario, probabilmente ciò avviene perché esse non hanno saputo sviluppare le necessarie nuove attività e restano troppo attaccate ai modi di produzione e di gestione propri della società industriale. Le nuove tecnologie che ci fanno parlare di società dell'informazione si diffondono in tutti gli ambiti della vita sociale, di modo che la società postindustriale è innanzitutto una società dell'informazione. Dopo aver conosciuto società in cui la produzione e la distribuzione erano guidate da istituzioni religiose e poi politiche, e più recentemente dagli interessi di quella che si può chiamare una classe o una élite dirigente, entriamo in una società che non si può ridurre interamente alla sua tecnologia più di altri tipi di società, ma che più di questi può essere compresa a partire dall'autonomia crescente della tecnologia e dunque dal ruolo centrale attribuito alla relazione delle società con la loro tecnica. Giova ripeterlo: la società postindustriale va definita innanzitutto come società dell'informazione. Lo aveva intuito Georges Friedmann quando, fra i primi, parlò della formazione di un nuovo milieu tecnico: i rapporti di classe non hanno perduto la loro importanza, ma gli effetti delle tecniche su individui e società non possono essere ridotti alle conseguenze di un dominio di classe. Questo cambiamento di prospettiva ci fa chiaramente avvertire il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale. Come vedremo subito, in quest'ultima il dominio delle industrie culturali implica una forte capacità d'azione sulla cultura e sulla personalità. Quanto si è detto finora ci permette di definire innanzitutto la società postindustriale come quella società in cui l'attività tecnica è separata da tutte le forme di potere sociale e costituisce dunque un 'universo' tecnico. Non si tratta comunque di una sfera 'isolata': la tecnica è assai più di una risorsa utilizzata da sistemi di potere talvolta lontani dalla modernità tecnica quanto quelli dei regimi religiosi autoritari. Questo universo tecnico è legato direttamente alla vita sociale, in quanto interviene sulle rappresentazioni che noi abbiamo di noi stessi e del mondo e in quanto una società dell'informazione deve essere immediatamente definita come una società dei consumi: definizione propriamente sociologica, se si ammette che l'azione sociale è quella di un attore normativamente orientato verso un altro attore sociale. I rapporti sociali di produzione sono sostituiti da rapporti sociali di consumo e da conflitti che vertono sulla formazione della self-identity.
Nella società postindustriale il rapporto tra informazione e comunicazione è centrale quanto lo è stato quello tra capitale e lavoro nella società industriale. I due termini, dunque, non sono affatto sinonimi. L'abbondanza di informazione non determina per se stessa la comunicazione: sarebbe anzi più utile, all'inizio di un'analisi, partire dall'ipotesi opposta, perché le informazioni che circolano sono codificate in maniera impersonale; ne consegue che si parla a torto di comunicazione di massa in quanto, il più delle volte, non vi è affatto una comunicazione, vale a dire uno scambio di informazione. Se è importante definire la società postindustriale come il tentativo - più o meno riuscito - di passare dall'informazione alla comunicazione è perché questa società non ha più alcun principio centrale di funzionamento, come l'aveva ancora la società industriale che voleva razionalizzare tutte le attività. Tra produzione e consumo dell'informazione la distanza aumenta sempre più, perché la standardizzazione della prima si oppone alla personalizzazione e quindi alla differenziazione delle domande culturali. Una distanza talmente grande che i pensatori postmoderni l'hanno interpretata come una frattura, il che corrisponde solo a situazioni di scacco e di 'decomposizione'. La società industriale ha lasciato un'immagine di integrazione forzata, ben simbolizzata dallo sfruttamento del lavoro e anche, secondo i pensatori radicali, dalla sempre maggiore subordinazione delle situazioni e delle condotte di vita individuale alle istituzioni del Welfare State. Al contrario, la società postindustriale è per natura una società disintegrata, in cui esiste una dissociazione sempre più completa tra il sistema e l'attore. Quando messaggi e norme sono trasmessi attraverso un contatto interpersonale diretto all'interno di un gruppo ristretto, come la scuola o la famiglia, essi si incidono nella personalità dell'individuo. Viceversa, la comunicazione di massa non si trasforma in motivazioni: guardiamo la violenza in televisione ma non per questo diventiamo più violenti. È come se la capacità di trasmettere valori culturali o norme sociali fosse costante; ma quando si esercita su un piccolo numero essa è intensa, quando si esercita su un gran numero ha effetti superficiali o nulli. Questa prima obiezione all'ideologia pessimistica che afferma l'esistenza di una manipolazione completa delle rappresentazioni e dei bisogni individuali attraverso la diffusione massiccia dell'informazione porta a rigettare un'affrettata condanna dei media. Chi oserebbe negare oggi alla libertà di stampa, conquistata quasi ovunque nel XIX secolo, il ruolo di fattore di democratizzazione? Allo stesso modo, le distorsioni apportate dalla televisione all'informazione, per quanto evidenti, nulla tolgono al fatto che le informazioni trasmesse sono meno codificate socialmente di quelle veicolate dai sermoni dei preti o dalle lezioni dei professori: infatti il telespettatore può scegliere i messaggi che vuole ricevere ed integrarli in funzione delle proprie esigenze. E ancora, è chiaro che la manipolazione si opera solo là dove esiste un monopolio dell'informazione, caso che non si verifica che nei regimi autoritari e che evidentemente non è creato dalla tecnica della comunicazione di massa. L'obiettivo principale per una società dell'informazione è dunque quello di trasformarsi in una società della comunicazione. Obiettivo difficile da raggiungere, per le ragioni anzidette e soprattutto per la dissociazione tra sistema e attore. Il tempo dell'homo sociologicus è finito; non vi è più corrispondenza tra le norme e le motivazioni. La comunicazione non può dunque ridursi alla trasmissione e neppure allo scambio di informazione all'interno di una definizione comune della situazione. Essa deve stabilirsi tra interlocutori che appartengono allo stesso universo tecnico o economico, ma che hanno personalità, e dunque aspettative e definizioni della situazione, sempre diverse. È per questo che un'organizzazione postindustriale combina, nelle sue comunicazioni interne, fatti tecnici e personalizzazione dello scambio; più in generale queste organizzazioni funzionano bene solo quando fanno comunicare realtà personali differenti invece di contentarsi di isolare un universo tecnico dal resto dei bisogni e delle aspirazioni degli attori che si confrontano. Questa concezione dell'organizzazione si distingue nettamente dalle due che l'hanno preceduta e che appartengono l'una alla società industriale e l'altra a una variante particolare dell'industrializzazione. La società industriale si è fondata sulla razionalizzazione, e l'obiettivo del suo management, qual è stato elaborato dalle business schools, è stato quello di razionalizzare l'organizzazione, la decisione e la valutazione nelle imprese precisando funzioni, livello gerarchico e responsabilità di ognuno, secondo metodi utilizzati anche nel sistema scolastico, nell'amministrazione pubblica e negli altri settori di attività che si possono definire burocratici, nel senso positivo che Weber ha dato a questo termine.
Questa concezione, che ha trionfato con il taylorismo e il fordismo, si è venuta a modificare all'indomani della prima guerra mondiale, allorché la General Motors mise fine al dominio della Ford sul mercato automobilistico orientandosi più verso le domande dei clienti che verso la razionalizzazione della produzione, la quale tuttavia restava un obiettivo assai importante. In un periodo più recente, e con l'internazionalizzazione della produzione, si è vista - dapprima negli Stati Uniti e in seguito in altri paesi, ma soprattutto in Giappone - una concezione strategica dell'organizzazione sostituire una concezione razionalizzatrice e, come si è spesso detto, un modello 'militare' sostituire un modello 'amministrativo'. In altri termini l'individuazione degli obiettivi da realizzare diventa più importante della definizione di regole razionali di organizzazione. Ciò comporta l'insistenza sulla lealtà nei confronti dell'organizzazione, sullo spirito di iniziativa e su tutti i metodi che mirano a suscitare o a imporre una partecipazione attiva alla vita dell'impresa. Il terzo modello di organizzazione, che corrisponde alla società postindustriale, non può più basarsi su un principio centrale, ma soltanto sulla combinazione di due approcci più opposti che complementari. Il primo consiste nel far penetrare le domande del mercato il più profondamente possibile nell'impresa. Si è spesso parlato a questo proposito di un 'modello Silicon Valley' per indicare la priorità data alle domande del mercato, e dunque anche all'innovazione tecnologica, sulle regole generali di organizzazione. Più il livello tecnologico è elevato, più gli occupati si professionalizzano: ciò è particolarmente vero nei laboratori, università, ospedali e imprese ad alta tecnologia. Ricercatori, medici, informatici, ma anche attuari, avvocati ed esperti di relazioni internazionali, hanno una propria carriera e sentono di appartenere più a una professione o a un universo tecnologico che a un'impresa. Questa osservazione, ovvia nel caso di individui altamente qualificati, ha una portata generale e deve perciò essere presa in considerazione nel grande dibattito attuale sulla flessibilità del lavoro e sul mantenimento delle garanzie di impiego. Gli occupati vogliono difendere la sicurezza del proprio lavoro e non essere soltanto delle risorse umane che si utilizzano o meno secondo le esigenze del mercato; esiste una forte domanda di continuità professionale, che può essere anche più forte di quella della continuità di appartenenza a un'impresa. La manodopera poco qualificata delle grandi imprese industriali non ha a questo riguardo altra garanzia che la continuità dell'impresa: se questa si chiude o riduce i suoi effettivi, il personale o una sua parte si trova esposto alla disoccupazione, alla dequalificazione o anche all'uscita definitiva dal mercato del lavoro. Ciò richiede interventi sociali specifici, dagli assegni di disoccupazione alla 'divisione' del lavoro (diminuzione del reddito come condizione per conservare il lavoro o, almeno, per una sua riduzione limitata). Quanto più però si accede a livelli elevati della professionalizzazione, tanto più queste misure devono essere integrate - ma non sostituite - dalla difesa di un progetto professionale personale, e dunque attraverso interventi dello Stato, dell'impresa o di enti professionali che mirano ad assicurare una certa continuità delle carriere. Questa osservazione sembra privilegiare una concezione liberale dell'economia di mercato, e quindi concernere un modello di sviluppo e di postindustrializzazione piuttosto che la società postindustriale in quanto tale. L'obiezione non è però giustificata, perché le trasformazioni continue del mercato e delle tecnologie fanno sì che questa gestione dell'unità produttiva orientata verso l'esterno, piuttosto che chiusa al suo interno, sia caratteristica di tutte le società postindustriali e non soltanto di quelle che adottano politiche liberali. Queste trasformazioni comportano cambiamenti importanti nelle relazioni gerarchiche e nelle forme di autorità all'interno delle imprese e di altri tipi di organizzazione.
È l'idea stessa di inquadramento, attaccata già da tempo, che è direttamente minacciata, idea che aveva un ruolo centrale nell'organizzazione industriale, tanto al livello della first line supervision e in particolare dei caporeparti (foremen), quanto al livello più elevato dei 'quadri', nel senso francese del termine. L'inquadramento perde la sua importanza a vantaggio di interventi più direttamente professionali e di altri più orientati verso la comunicazione all'interno dell'impresa. Quest'ultima è sempre meno un sistema sociale gerarchizzato - come lo sono ancora le amministrazioni pubbliche, le forze armate, una scuola o un ospedale, tutti campi di attività i cui modelli di organizzazione sono rimasti molto tradizionali - e si avvicina alle forme organizzative dei centri di ricerca e ad alta tecnologia. Specializzazione, mobilità e comunicazione rimpiazzano l'inquadramento, la definizione precisa degli statuti professionali e i criteri formali di valutazione. Dobbiamo quindi, al termine di questa prima parte dedicata ai modi di produzione postindustriali, sbarazzarci della falsa spiegazione 'globale' che il concetto di globalizzazione pretende di offrire, e ciò deve essere fatto in due modi complementari. Innanzitutto, ed è il passo più importante, va ricordato ancora una volta che società dell'informazione, esaurimento delle politiche di costruzione nazionale, massiccio sviluppo degli scambi finanziari internazionali, comparsa di nuovi paesi industriali ed egemonia americana, sono fenomeni indipendenti gli uni dagli altri, uniti solo da una congiuntura storica di breve periodo, in quanto alcuni di essi si sono manifestati solo di recente e non sembrano legati a tendenze di lunga durata. In secondo luogo, dobbiamo fare la scelta intellettuale più importante: o diamo una definizione economica e storica globale dell'economia mondializzata, o manteniamo la priorità di un'analisi delle società reali basata sul ruolo motore della produzione. Parlare di società postindustriale o dell'informazione è indispensabile per indicare il rifiuto di una spiegazione globale e per affermare il ruolo motore della produzione. Il tratto specifico della società dell'informazione consiste nel separare il piano tecnologico, che governa largamente la competitività economica e dove hanno smesso di collocarsi i più importanti rapporti sociali, da quello che si può definire il piano del consumo, dove si collocano ora questi rapporti perché è il piano della costruzione delle identità e dei comportamenti morali. La nostra società postindustriale è guidata, più di qualsiasi società precedente, più della stessa società industriale, dalla tecnologia, ma, rifiutando di sottoporre quest'ultima a controlli sociali e culturali, essa non può più essere dominata dall'idea di progresso, che si fonda sul legame tra lo sviluppo delle conoscenze e delle tecniche e il miglioramento delle condizioni di vita individuale e collettiva. Queste condizioni di vita ormai sono spesso valutate in termini di 'sicurezza' e di 'continuità' (nel senso nuovo che, come abbiamo visto, assumono queste parole) e pressoché sempre in termini di autonomia personale. È questo che ci obbliga a impiegare ancora l'espressione 'società postindustriale' per allontanare il fantasma di una società tecnicizzata e informatizzata, frutto dell'indebita applicazione alla società postindustriale di idee che appartengono alla società industriale e, ancora prima, alla filosofia dei Lumi. La nostra società è una società dell'informazione, ma è anche e soprattutto la società della dissociazione fra tecnologia e vita morale.
La tecnologia non è soltanto il motore della produzione: essa trasforma anche la nostra cultura, il nostro rapporto con l'ambiente e con noi stessi, e ciò giustifica il fatto che definiamo la nostra società, in base alla tecnologia principale che essa utilizza, 'società dell'informazione'. Ecco perché era necessario partire dallo studio del nuovo sistema tecnico di produzione. Ma il tema della società dell'informazione non avrebbe che un interesse limitato se fosse solo un capitolo della sociologia del lavoro. Il concetto di società industriale è stato importante perché con esso si affermava l'esistenza di una cultura industriale e di forme generali di rapporti e azioni sociali che appartengono alla società industriale in quanto tale, al suo modello, e non ai modelli, anch'essi generali ma di altra natura, della società capitalistica o socialista, democratica o autoritaria. Allo stesso modo, dobbiamo ricercare l'esistenza della società postindustriale in ambiti della vita sociale più generali, più astratti di quello della produzione, guardandoci bene dall'attribuire alla società dell'informazione ciò che in realtà appartiene a un tipo particolare di organizzazione economica, sociale e politica. È dalle categorie più fondamentali dell'esperienza umana che dobbiamo partire, vale a dire dalla concezione dello spazio e del tempo. Le tecniche dell'informazione consentono di estendere le forme moderne di produzione e di scambio all'intero pianeta. Ma allo stesso tempo, quel che gli economisti latinoamericani hanno chiamato 'sviluppo dualistico' ed 'eterogeneità strutturale' della loro società si osserva in gran parte del mondo e in modo estremo in Cina, dove si allarga la forbice tra le regioni costiere nelle quali affluiscono i capitali stranieri, che transitano soprattutto per Hong Kong, e le province dell'interno dove spesso l'economia rurale è in crisi e da cui partono ondate di emigranti. Vediamo molti paesi industriali, quelli verso cui sono diretti i principali flussi migratori, assistere in modi assai diversi alla formazione di sub-società che si trasformano più o meno completamente in comunità 'autoamministrate'. Ma sia che un paese abbia una concezione etnico-culturale o economico-sociale della marginalità, sia che si parli di minoranze o di povertà e di underclass, in tutti i casi si profila la medesima frattura dello spazio nazionale. Da un lato cresce la coscienza dell'esclusione, dall'altro il rifiuto delle minoranze, soprattutto da parte di gruppi medi e bassi, dei poor whites come si diceva negli Stati Uniti dopo la guerra di secessione, che si sentono in uno stato di insicurezza crescente e nascondono a se stessi la propria decadenza respingendo molto lontano e al di sotto di sé, in un universo inferiore, le categorie nelle quali rifiutano di trovarsi incorporati. Questo intreccio di mondializzazione e sviluppo dualistico comporta una profonda crisi delle città, che si manifestava già nella società industriale, ma si è ora amplificata e aggravata. La città è stata la cellula base delle società mercantili, in particolare in Italia e in Fiandra o nei Paesi Bassi, in cui i Comuni e le città libere (si pensi anche alle città anseatiche) hanno avuto un ruolo centrale nella modernizzazione, laddove in Gran Bretagna e in Francia, e quindi in Svezia e più tardi negli Stati Uniti, India, Brasile e Messico, ha avuto questo ruolo lo Stato. La società industriale, per contro, sviluppa l'urbanizzazione indebolendo o spaccando le città. Zone industriali fuori dell'agglomerato urbano, sobborghi industriali e 'città operaie' hanno talvolta creato, come a Parigi, una cintura rossa o, come a Londra, hanno contrapposto più nettamente ancora un West End borghese a un East End popolare. La crisi della città corrisponde al passaggio dalle lotte per i diritti del cittadino a quelle per i diritti sociali, e quindi dal cittadino al lavoratore come attore principale della vita politica. Oggi questo processo di frammentazione delle città e dunque dello spazio urbanizzato subisce un'accelerazione.
Gli studiosi che, a partire da Manuel Castells e Saskia Sassen, si sono occupati del tema della 'città globale', hanno mostrato che le reti internazionali implicano la formazione, dappertutto e anche nelle città dei paesi 'periferici', di élites che non sono più cittadine come lo fu la borghesia, appunto perché appartengono a una rete mondiale. Il rapido sviluppo di Internet crea in modo ancor più massiccio una popolazione di qualche decina di milioni di cybernauti, che si estenderà a diverse centinaia di milioni di utilizzatori di web. Popolazione internazionalizzata, che fa ampio uso della stessa lingua veicolare, che è interessata alle stesse sperimentazioni tecnologiche ed è sempre più estranea alle altre categorie della popolazione presso le quali o in mezzo alle quali vive. Accanto a questa popolazione internazionalizzata ne esiste un'altra inserita in uno spazio nazionale (funzionari, industriali, commercianti che lavorano per il mercato interno). Nel caso americano si è parlato a questo proposito di 'exurbani' che vivono il più delle volte nelle zone residenziali periferiche, isolate e protette, e di 'suburbani'. In Europa, al contrario, le categorie sociali più elevate occupano generalmente il centro delle città, 'protette' dal patrimonio storico. Infine molte zone urbane sono occupate in larga parte da una terza categoria, gli immigrati, che, messi in fuga dalla crisi della loro società d'origine, hanno trovato asilo proprio nella città, o vi sono stati attirati dalle chances di istruzione per i giovani, dagli aiuti sociali e dal mercato del lavoro che nelle metropoli, e non in campagna o nei piccoli centri urbani, è sufficientemente diversificato. Questo rapido schizzo delle trasformazioni sopravvenute nel nostro modo di occupare lo spazio ci obbliga a porre di nuovo la domanda già formulata: questa trasformazione - come quella del tempo, di cui ci occuperemo in seguito - rientra nella definizione della società dell'informazione o si spiega con altre trasformazioni e in particolare con la mondializzazione dell'economia? Domanda difficile e decisiva, perché se la società dell'informazione si limita al campo della produzione, costituisce un fenomeno di importanza secondaria, settoriale, ma se la si considera secondo una prospettiva più ampia, si rischia di ricadere negli errori, già denunciati, che derivano dall'idea di globalizzazione. Si deve rispondere innanzitutto che la società dell'informazione non ha nulla a che fare con il crescente potere del capitalismo finanziario, già analizzato all'inizio del secolo sotto il nome di 'imperialismo', che Hilferding definì - e lo stesso fece più tardi Michel Albert - come il dominio del capitalismo finanziario internazionale sui capitalismi industriali nazionali. In secondo luogo, occorre dire che un aspetto essenziale della società dell'informazione è il rafforzamento e l'estensione del milieu tecnico. Viviamo non soltanto in mezzo ad artefatti, ma in uno spazio, un tempo e dei linguaggi sempre più desocializzati, cioè sempre meno regolati da norme sociali o valori culturali istituzionalizzati.
Questa separazione della tecnica dalla società non è l'effetto di un sistema di dominio sociale o di un'egemonia politica. È insieme positiva, in quanto sulla scia della stessa società industriale libera l'invenzione tecnica e crea nuove aspettative di consumo, e negativa se conduce a una maggiore dipendenza nei confronti di chi gestisce le 'reti' e a una crescente ineguaglianza tra 'cosmopoliti' e 'locali', per riprendere la distinzione di Robert K. Merton. Ciò che si è appena detto delle trasformazioni dello spazio si applica pure ai cambiamenti nella nostra concezione del tempo. Mentre molti studi classici, dai lavori di Halbwachs a quelli di Elias, hanno insistito sul carattere sociale del tempo, assistiamo ora alla sua desocializzazione, e cioè alla separazione di tempo tecnico e 'tempo vissuto' (durée vécue), per utilizzare categorie vicine a quelle di Bergson. Il tempo tecnico non è più orientato verso il futuro, come all'epoca delle filosofie del progresso, e ciò per due ragioni: anzitutto, il predominio del presente in una società in cui molte comunicazioni avvengono in tempo reale, anche tra gli individui, grazie alla posta elettronica; in secondo luogo, e da un punto di vista 'più sociologico', perché l'avvenire non è più percepito come progresso ma come un insieme di rischi, il che ha condotto Ulrich Beck a definire Risikogesellschaft la nostra società. Rischi che non riguardano tanto un'evoluzione negativa di determinate variabili quanto la possibilità di incidenti, i più gravi dei quali hanno scarse probabilità di verificarsi ma avrebbero conseguenze drammatiche (esplosione di una centrale nucleare, aumento rilevante della temperatura atmosferica, avvelenamento delle riserve di acqua potabile, diffusione di un'epidemia o pandemia senza trattamento medico conosciuto, ecc. ). Quel che in una prospettiva ottimistica si interpreta come apertura a esiti diversi e complessità può essere interpretato, nella prospettiva opposta, come l'esistenza di rischi che minacciano la sopravvivenza di una civiltà o di un territorio. La durée vécue è al contrario più orientata verso il passato, perché la formazione dell'identità non si opera più attraverso l'adempimento di ruoli sociali ma attraverso la ricerca di origini, radici e appartenenze culturali e comunitarie dalle quali individui e gruppi possono trarre sostegno per resistere alle pressioni della società di massa. Tutto questo ci conduce a un'osservazione più generale, che caratterizza meglio di ogni altra la società postindustriale in cui siamo già entrati: mentre tutti gli aspetti della società industriale e di quelle precedenti sembravano tra loro coerenti, la società postindustriale è caratterizzata dalla dissociazione tra l'universo della ragione strumentale e quello delle identità e delle comunità. Si tratta di una dissociazione così profonda che possiamo comprendere coloro che rifiutano di parlare di società postindustriale, e capire anche perché sembra adeguato definire questa società come società dell'informazione, con una definizione che non è comunque esaustiva.
Abbiamo chiamato demodernizzazione (v. Touraine, 1997) questa separazione delle due facce della nostra esperienza individuale e collettiva, separazione inaccettabile perché comporta la 'degradazione' da una parte dell'economia, che diventa potere finanziario, e dall'altra della cultura, che diventa potere comunitario e cioè per definizione autoritario. Questo ci costringe a rinunciare a ogni definizione 'obiettiva' della società postindustriale e a non riconoscerla che nella sua riflessività, negli sforzi volti a ricostruire un'unità dell'esperienza. La dissociazione comporta la scomparsa di ogni senso globale della società, distrugge dunque tutte le immagini del soggetto inserito in un ordine esterno alla volontà umana, sia esso religioso, politico o economico. Erano infatti un Dio razionale, la Ragione stessa o la Storia, a dare un fondamento trascendente alle società tradizionali, mercantili o industriali, o alle istituzioni il ruolo di organi di un corpo sociale vivente e orientato secondo valori superiori. Il tratto specifico della società dell'informazione è di non possedere più alcun principio trascendente di definizione e di integrazione. In senso stretto, in una tale situazione non vi è più società. E il pensiero postmoderno, anche se ha il torto di accettare questa 'decomposizione', l'ha perlomeno riconosciuta, permettendoci così di non fare più della società postindustriale un semplice prolungamento della società industriale. È vivendo sia nel locale che nel globale, nel presente e nel passato, che noi comprendiamo la realtà di questa demodernizzazione e di questa dissociazione tra mondo degli oggetti e mondo soggettivo e culturale, finora strettamente associati. Lo spazio sociale postindustriale è il luogo in cui la società si disfa, in cui l'idea di società cessa di essere utile. Quel che i politici hanno chiamato 'rottura del legame sociale' è molto più di una frattura nella società, dell'aumento delle disuguaglianze e dell'esclusione: è la scomparsa del sociale stesso, poiché l'economia diventa un sistema di flussi e rapporti incrociati, dove si formano immagini e messaggi virtuali, mentre la cultura si desocializza anch'essa. Nascono così culture non sociali, chiamate talora sette o teocrazie, che per la loro omogeneità non possono essere considerate delle società, in quanto queste ultime sono sempre differenziate ed eterogenee. Mentre la società industriale voleva essere tutta moderna e rigettava le tradizioni che le sembravano arcaiche e 'inferiori', lo spazio e il tempo postindustriali sono pieni di arcaismi ma anche di possibilità, di ciò che è prossimo e di ciò che è lontano, di avanguardia e di eredità, di progetti e di memoria. Nessun principio, nessun valore, nessun sistema di norme ha più la capacità di unificare ciò che è stato dissociato. La società postindustriale esiste dunque innanzitutto come campo dissociato che non può essere ricomposto se non da un'azione volontaria, una creazione culturale, e non più dalla forza obiettiva di un principio determinante. Mentre è necessario tracciare una netta linea di separazione tra ciò che riguarda la società postindustriale e ciò che attiene a un modello di sviluppo, in particolare quello liberale, è invece impossibile separare la nuova rivoluzione industriale, che fa nascere la società dell'informazione, dalla trasformazione di tutto un campo culturale che modifica le relazioni degli esseri umani con il loro ambiente e fra se stessi.
Lo studio dei rapporti sociali di dominio impone di individuare anzitutto le organizzazioni e i campi di attività più caratteristici della società postindustriale. Si tratta beninteso di ciò che Adorno ha chiamato "industrie culturali", quelle che producono e diffondono beni simbolici, culturali, piuttosto che beni materiali. Definizione in realtà troppo angusta, poiché è impossibile separare completamente le industrie culturali dalle industrie della filiera elettronica che producono le macchine per il trattamento dell'informazione. Istruzione, sanità, informazione sono le più importanti industrie culturali. Indubbiamente esse esistevano già prima della società postindustriale, ma questa ha dato loro rilievo e contenuto nuovi. La scuola non è semplicemente mutata perché vi si utilizza il computer, come la ricerca lo è per l'accesso informatizzato alle basi di dati o per la comunicazione diretta su Internet; essa ha soprattutto cessato di essere un'agenzia di socializzazione. François Dubet, in particolare, ha mostrato nelle sue inchieste il crollo della cultura scolastica e di quella relazione insegnante-allievi che faceva del primo un agente della trasmissione delle conoscenze e dei comportamenti ritenuti utili e positivi per la società e la sua integrazione. Oggi si assiste a una brutale separazione: da un lato vi è una concezione utilitaristica dell'insegnamento, il quale deve preparare a un diploma che apra le porte del mondo del lavoro, dall'altro una cultura dei giovani da cui sono esclusi sia gli insegnanti che i genitori. Questa separazione delle due logiche d'azione è per se stessa portatrice di un rapporto ineguale e anzi di dominio, perché la scuola che si adatta al mondo del lavoro riduce i nuovi attori sociali ai loro ruoli professionali ed economici, nel momento in cui i giovani sono impegnati a darsi i mezzi per organizzare in maniera responsabile e libera la propria esistenza - cosa a cui non li prepara nemmeno quella cultura giovanile che li tratta come semplici consumatori.
Questa duplice minaccia e questo duplice dominio che si esercita sugli attori sociali sono presenti anche nel campo della sanità e in quello dei media, cosicché sin da ora è possibile definire gli aspetti nuovi dei conflitti sociali che caratterizzano la società postindustriale. Mentre nella società industriale i dominati, definiti in rapporto a una classe dominante che faceva loro subire direttamente il peso del suo potere, si potevano appellare a una realtà più profonda e più obiettiva dell'ordine sociale, in particolare al senso della storia e a quel regno della ragione che si sarebbe instaurato soltanto con l'eliminazione di una gestione economica e di un potere politico irrazionali, nella società postindustriale, al contrario, non vi sono vie d'uscita naturali contro il potere dei dominanti. In cambio, però, si assiste alla nascita di una difesa del Soggetto individuale in quanto tale, di una volontà di libertà e di responsabilità che combatte da un lato la presunta logica implacabile dei mercati e, dall'altro, la riduzione dell'attore al ruolo di consumatore eteronomo, determinato dall'offerta del mercato. Nasce così, più direttamente che nella società industriale, un conflitto tra le forze dominanti e la resistenza della libertà individuale e collettiva. C'è un legame diretto tra le due caratteristiche generali della società postindustriale sopra indicate: la separazione del mondo strumentale dal mondo culturale e la doppia lotta della libertà contro le forme, insieme opposte e complementari, di dominio. Perché non si può più semplicemente opporre il servo che si libera al signore che lo sfrutta e che trasforma le forze produttive in rapporti di dominio sociale. Il servo è sottomesso anche al mondo dei consumi, di cui fa parte nella misura in cui si è passati dalla società della scarsità a quella dell'abbondanza. Il suo mondo di vita (Lebenswelt), lungi dal potersi opporre al dominio dell'agire strategico, per riprendere l'espressione impiegata dai filosofi della Scuola di Francoforte, è anch'esso esploso, e non è in nome del suo essere sociale, dei suoi ruoli e della sua cultura che il servo si difende contro quel duplice dominio, ma in nome della sua esistenza come Soggetto, della sua libertà creatrice che resiste e rifiuta di essere determinata dalla produzione o dal consumo di massa. Nella transizione dalla società industriale a quella postindustriale si passa da un conflitto tra dirigenti e diretti, tra 'signori' e 'servi' - in cui questi ultimi fanno appello a una logica superiore a quella della società (quella della Ragione o della Storia) - alla duplice lotta condotta dall'attore in nome della sua libertà contro la sua riduzione allo stato di risorsa utilizzata da chi ha in mano produzione e consumo. È una trasformazione che mette fine al ricorso dei dominati a una qualche forza 'sacra', a un garante metasociale dell'ordine sociale. Invece di fare riferimento alle forze produttive contro i rapporti sociali di produzione, nella società postindustriale il Soggetto, poiché non può più fare appello a una realtà più obiettiva e fondamentale del potere della classe dominante, può appellarsi solo alla propria libertà. Ed è questo appello, ed esso solo, a dare un'esistenza reale alla società postindustriale che altrimenti sarebbe completamente divisa tra la logica dello scambio e della strumentalità e quella dell'identità e della comunità. Mentre si poteva parlare dei conflitti che si formavano nella società industriale, la società postindustriale non esiste realmente, non ha unità e logica propria, se non nella misura in cui il Soggetto individuale e collettivo riesce a creare uno spazio d'azione libero che collega fra loro le due logiche che, isolate l'una dall'altra, minacciano la sua esistenza.
Questo tipo di analisi si applica al campo della sanità altrettanto bene che a quello dell'istruzione, con la differenza che l'intervento del sistema sanitario sulla vita individuale è più diretto e più intensamente avvertito. Assistiamo soprattutto all'opposizione tra una logica del risultato (cure) e una logica dell'esperienza vissuta (care). Non esiste una fatalità che obblighi le pratiche mediche più efficaci, vale a dire quelle a più alto contenuto scientifico e tecnologico, a disumanizzarsi, a essere indifferenti a quel che sente il malato; esiste invece una tensione costante, a tutti i livelli del sistema tecnico-scientifico, tra una logica che è insieme quella dell'efficacia e quella della burocrazia e gli sforzi fatti per permettere al malato di riappropriarsi della sua situazione (di cui i servizi specializzati nelle terapie palliative - le cure ai morenti - forniscono un esempio mirabile). Esiste anche in questo campo il rischio della subordinazione del malato alla logica alienante del consumo, in quanto si può ritenere che l'attrattiva esercitata dalle varie forme di medicina alternativa e soprattutto dal ricorso irrazionalistico alla scoperta del destino personale sia una forma di distruzione della libertà e della responsabilità individuali. Il malato è preso tra la logica dell'organizzazione e la sua logica soggettiva, largamente dominata dalla paura o dal rifiuto della realtà. L'una e l'altra distruggono la capacità di azione libera e responsabile dell'attore sociale; è dunque contro l'una e l'altra che l'attore agisce per crearsi uno spazio di libertà. I media, e soprattutto quello più importante, la televisione, ci pongono in una situazione analoga, ma qui è la logica del consumo che sopravanza la logica tecnocratica. Una tendenza profonda della televisione è di desocializzare e isolare dal loro contesto storico gli avvenimenti reali in modo da ridurli a meri stimoli emotivi, cosa che impedisce allo spirito critico di svilupparsi. Tuttavia esiste anche la minaccia opposta e il suo impatto sullo spettatore è ugualmente forte. Un mondo immaginario viene creato dalla tecnica, a colpi di effetti speciali o di immagini virtuali. Preso tra la potenza delle immagini costruite e la pura soggettività delle emozioni, lo spettatore è privato di qualsiasi autonomia decisionale. Ma anche qui, come nel caso di una scuola o di un ospedale, sarebbe falso trarre la conclusione di una disfatta inevitabile del Soggetto e di illimitate possibilità di manipolazione. Sappiamo al contrario, grazie a un gran numero di ricerche, che lo spettatore è generalmente attivo, che opera delle scelte tra i programmi, e soprattutto che reinterpreta i messaggi ricevuti in funzione delle proprie aspettative, così come il malato si sforza di costruirsi una strategia e di reinterpretare i messaggi opposti che gli giungono, e lo studente elabora una strategia di formazione che non è puramente strumentale né di puro consumo culturale. In questi tre campi della vita sociale, la cui importanza non cessa di aumentare e che rappresentano già un quarto del prodotto interno lordo nei paesi più profondamente penetrati dalla società postindustriale, si gioca l'esistenza reale di tale società. Essa scompare se tecnica e soggettività restano due sfere completamente separate - il che corrisponde in gran parte alla nostra coscienza e all'esperienza acutamente avvertita della frantumazione della nostra vita individuale e della decomposizione della nostra società.
Questa consapevolezza ci può condurre ad abbandonarci a due universi ugualmente estranei alla nostra libertà: da un lato l'universo del gioco, dove la tecnica diventa un fine in sé come il profitto è il fine della speculazione, e in cui subiamo la fascinazione dell'immagine o dello strumento; dall'altro, l'universo della pura soggettività, tanto quello del corpo individuale quanto quello del corpo sociale: imponendosi a noi, esso viene 'sacralizzato', come accade all'erotismo quando è separato dalle relazioni amorose (come afferma Georges Bataille), o a quel dominio del corpo che appare come il mezzo per ritrovare il senso del reale, secondo quanto affermano i sostenitori di morali della rinuncia o, viceversa, del piacere. Questa è la principale differenza, nell'ambito dei conflitti e dei movimenti sociali, tra la società industriale e quella postindustriale. Nella prima gli scontri avvenivano principalmente tra gli attori sociali, in particolare tra classi sociali; nella seconda essi oppongono l'attore sociale a forze non sociali, il mondo di Dio e quello dei demoni, il paradiso e l'inferno, il cui ordine immutabile e fuori della sua portata minaccia ugualmente la capacità d'azione del Soggetto. Ciò che dimostra nel modo più immediato la natura dei conflitti nella società postindustriale è il tipo di movimenti sociali che vi si formano. Chi cercasse in questa società l'equivalente di quel che fu il movimento operaio nella società industriale o il movimento per i diritti del cittadino nelle monarchie assolute sarebbe portato a concludere che i movimenti sociali sono scomparsi. Ma il fatto è che si guarda nella direzione sbagliata e si attende il ritorno di attori ben diversi da quelli effettivamente esistenti. Quelli che abbiamo chiamato, a partire dal 1975, i nuovi movimenti sociali, dei quali i movimenti studenteschi degli anni sessanta avevano già annunciato l'apparizione (v. Touraine, 1969 e 1972), si contraddistinguono innanzitutto per l'affermazione e la difesa di un Soggetto che vuole unire nella sua azione la tutela di un'identità minacciata e l'accesso al mondo tecnico-economico. Il più importante di questi movimenti è quello delle donne. Alcune ideologhe lo hanno voluto ridurre alla rivendicazione di diritti uguali, e dunque alla scomparsa del genere come categoria sociale, mentre altre hanno voluto parlare solo di differenze. Tuttavia il movimento delle donne - che, organizzato o no, ha prodotto ovunque trasformazioni profonde nei comportamenti di donne e uomini - è stato forte proprio quando ha combinato questi due obiettivi, quando ha distrutto l'identificazione dell'umanità con l'universo maschile, quando ha dimostrato che il Soggetto umano è sessuato e che maschile e femminile non sono mondi separati, ma figure 'differenti e uguali' dell'universale umano che non ha un'espressione più generale e più astratta della dualità di uomo e donna. Questa affermazione del Soggetto femminile è minacciata da una civiltà tecnologica - un mondo di robot androgini o asessuati - indifferente al Soggetto umano sessuato, e nello stesso tempo da una reificazione, un'essenzializzazione del maschile e del femminile che divengono incapaci di comunicare fra loro come le grandi religioni o le lingue che appartengono a famiglie diverse. Quel che si dice del genere può dirsi anche per le classi di età, ma in forma più attenuata in quanto l'appartenenza a tali classi è ovviamente transitoria. Nondimeno, chi propone di eliminare le classi di età affermando che non vi è niente in comune tra un giovane borghese, un giovane operaio qualificato e un giovane disoccupato, in particolare immigrato, è in errore: l'esistenza di strati sociali non sopprime di per sé altri principî di differenziazione. Il tratto specifico dell'età giovanile consiste nel fatto che essa deve contemporaneamente gestire il proprio inserimento nella società, e in particolare nel mondo del lavoro, e definire la propria individualità e i propri progetti di vita.
L'importanza delle classi di età si è ben vista nel maggio 1968, quando giovani studenti, spesso provenienti da ambienti privilegiati, misero in moto una crisi sociale e culturale generale, laddove il lungo sciopero generale che mobilitò in Francia milioni di lavoratori e paralizzò il paese non ebbe effetti durevoli, neppure sul piano economico. Il terzo movimento sociale importante, quello che più attira l'attenzione in questa fine di secolo, è quello dell'etnicizzazione. Non ogni affermazione di resistenza etnica è un movimento sociale. Essa è spesso la difesa di una soggettività collettiva, di tradizioni, credenze e forme di organizzazione sociale, contro il dominio del sistema economico e politico, e ciò conduce, a livello continentale o mondiale, alla separazione, della quale abbiamo più volte indicato i pericoli, tra il mondo delle tecniche e quello delle credenze. Ma esistono altre forme di etnicizzazione, tanto nei paesi sviluppati che in quelli che si sentono respinti nel sottosviluppo e nella dipendenza. Nessuna nazione si può identificare con l'universale, come hanno fatto tendenzialmente per lungo tempo i paesi che hanno guidato il movimento illuminista, la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti in particolare. Al di là della difesa delle minoranze, si assiste oggi in questi paesi a una trasformazione della propria coscienza nazionale che si carica di etnicità. Ciò è vero in particolare per la Francia, il paese che ha più spesso dato una definizione universalista della sua identità e che oggi parla tanto della propria specificità e del carattere eccezionale della sua esperienza storica, ritenendola minacciata dalla globalizzazione economica e dall'egemonia americana. Ciò rafforza il movimento, visibile in Francia come in tutti i paesi vicini, di etnicizzazione delle minoranze, dagli ebrei agli arabi, dalle minoranze regionali ai gay e alle lesbiche. Una nazione non è più definita soltanto dall'adozione del suffragio universale e dall'idea di sovranità popolare; essa 'combina' una modernità tecnica ed economica con la preservazione e la rinascita di una identità collettiva, come quella emersa già nei movimenti risorgimentali del secolo scorso, dall'Italia, dalla Germania e dal Giappone fino alla Boemia, alla Polonia e ai paesi baltici e balcanici. Infine, vi è il movimento ecologista, che costituisce una quarta famiglia di attori collettivi.
Apparentemente questo movimento difende idee lontane da ciò che abbiamo chiamato la libertà e la responsabilità del Soggetto individuale, ma questa interpretazione deforma la realtà. La difesa dell'ambiente può condurre a un naturalismo che sacralizza tutti gli esseri viventi - animali, piante ed esseri umani, ma anche montagne o fiumi - e a un antiumanismo spesso connotato da evidenti componenti religiose, ossia a una nuova forma di paganesimo. Ma essa può condurre, all'inverso, a un interventismo tecnico estremo che procede per interdizione, repressione e controllo, cosa che rappresenta una forma di dominio ancor più 'manipolatrice' di quelle denunciate dai filosofi di Francoforte o da Foucault. Tra queste ideologie estreme, tuttavia, la forza principale del movimento ecologista risiede nella ricerca di una 'mentalità' capace di coniugare scienza e difesa dell'identità e dell'autonomia dei gruppi umani (v. Touraine e altri, 1980). Per quanto brevi, questi cenni ai quattro principali tipi di movimenti sociali mostrano chiaramente che essi hanno un obiettivo comune, la difesa della capacità di individui e gruppi di combinare nel loro progetto di vita la partecipazione al mondo tecnico ed economico e la tutela di una identità collettiva o anche dei valori tradizionali della comunità. Ciò rende chiara la differenza tra questi movimenti e quelli della società industriale, e invalida le obiezioni di chi vorrebbe limitare l'uso della nozione di movimento sociale alla società industriale, e dunque al movimento operaio, vedendo nelle società postindustriali solo una molteplicità di gruppi di interesse e di pressione, di rivendicazioni e di contestazioni, ma non un movimento sociale, vale a dire un'azione collettiva diretta contro un avversario comune e per la gestione dei principali modelli d'azione e delle risorse in una società data. Il concetto di società postindustriale dell'informazione risulterebbe fortemente indebolito se si dovesse accettare questa conclusione negativa. Al contrario, il carattere unitario dei nuovi movimenti sociali è evidente: essi non sono tra loro più separati di quanto lo fossero, nel secolo scorso, i sindacati, i partiti operai, le cooperative, le associazioni mutualistiche e di istruzione popolare, ecc.
La differenza consiste nel fatto che i movimenti della società industriale avevano in comune la mobilitazione di un solo attore, la classe operaia, mentre i movimenti della società postindustriale difendono la libertà del Soggetto umano, e non solo del cittadino o del lavoratore, contro la società di massa e le sue forme di dominio, da una parte, e dall'altra contro la distruzione del Soggetto in nome di un naturalismo carico di tendenze neoreligiose. Nella società industriale le politiche sociali miravano a ristabilire l'integrazione sociale, sia con interventi legislativi che con accordi tra gli avversari. In entrambi i casi si trattava di introdurre più giustizia ma anche più coesione nella società. In tal senso, la società industriale era più vicina ai tipi precedenti di società che alla società postindustriale, a proposito della quale si deve ribadire che è un'unità sociale e culturale priva di principî oggettivi e ha completamente cessato di essere una comunità, malgrado le speranze dei 'comunitaristi', più spesso orientate verso il passato che verso il futuro. Nella società postindustriale le politiche sociali non possono essere dirette che al rafforzamento della capacità di ciascun individuo di unire nel suo progetto personale di vita azione strumentale e identità culturale. Aiutare ogni individuo a combinare progetti e memoria, a superare lo spaesamento che tutti noi sperimentiamo in un mondo in cui gli scambi internazionali si sono moltiplicati: questo deve necessariamente essere il fine tanto delle politiche educative e formative, quanto di quelle urbane che devono innanzitutto scongiurare forme di segregazione, o delle politiche di lotta alla disoccupazione che devono andare al di là dell'aiuto ai disoccupati e trasformarsi in politiche del lavoro. Sarebbe errato credere che questa svolta individualistica sia legata al trionfo dell'economia liberale, che può magari accentuare alcuni aspetti rispetto ad altri: si tratta piuttosto di una mutazione generale che corrisponde al passaggio dalla società industriale alla società postindustriale. La politica sociale postindustriale si muove sempre secondo tre direttrici fondamentali che sono inseparabili. In primo luogo, essa deve essere centrata sulla costruzione di una vita personale, libera e responsabile, individualizzata; ciò presuppone, in secondo luogo, il riconoscimento attivo della diversità e la rinuncia a qualsiasi riferimento a un best way in tutti i domini della vita sociale ed esige, in terzo luogo, la solidarietà, non più intesa come uno sforzo di integrazione sociale ma al contrario come la garanzia collettiva che tutti abbiano delle opportunità di costruirsi una vita personale libera.
Si può andare più lontano e definire il campo e gli attori politici della società postindustriale? Le riserve già avanzate sulla possibilità di definire l'ambito generale delle politiche sociali sembrano ancor più forti in questo caso, perché l'attore e gli obiettivi politici risultano determinati dall'organizzazione del potere, dal sistema elettorale o dalla situazione internazionale di ciascun paese. Ma l'idea secondo cui la vita politica deve 'dare espressione' ai problemi sociali di tutti i tipi di società va mantenuta. La confusione attuale, che rende pressoché insignificante l'opposizione tradizionale di destra e sinistra, non potrà essere superata che restituendo a tale opposizione un senso a partire dalle grandi problematiche sociali e culturali. È tratto specifico della destra favorire l'aumento degli scambi riducendo le barriere culturali e gli interventi politici, mentre la sinistra si definisce sempre più sulla base del rispetto della diversità, dei diritti delle minoranze e anche per il rilievo dato alla solidarietà. La nostra vita politica è ancora dominata dalle categorie della società industriale, che erano - almeno fino al termine del XIX secolo e soprattutto in paesi come la Francia, l'Italia o la Germania - l'espressione di conflitti politico-nazionali piuttosto che sociali. Ma una trasformazione della vita politica non sembra essere stata ancora intrapresa con decisione da alcun paese. Il cambiamento più rilevante si è avuto in Germania con la crescita del movimento dei Verdi, ed è rilevante anche negli Stati Uniti, dove tutte le minoranze votano consapevolmente per il Partito democratico. In Gran Bretagna o in Francia, invece, il problema principale di tale trasformazione consiste nella difficile accettazione, da parte di una sinistra a lungo volontarista, delle regole dell'economia di mercato; in Giappone il problema è rappresentato dalla frantumazione del sistema politico, più evidente che altrove.
Quanto all'Italia, dopo un periodo di crisi drammatica del suo sistema politico, è possibile che essa preceda molti paesi europei nella costruzione di un nuovo sistema politico capace di esprimere le scelte che una società deve fare. Questi tre campi di analisi - il lavoro e la produzione, le categorie culturali dell'esperienza e, infine, i rapporti di potere e l'ambito politico - hanno mostrato che è necessario riconoscere l'esistenza di un tipo di società nuovo, annunciato dall'espressione 'società postindustriale' e meglio definito da quella di 'società dell'informazione'. Questa conclusione generale non è necessaria per farci prendere coscienza del fatto che stiamo uscendo o siamo già usciti dalla società industriale, ma contesta l'opinione di chi, credendo che l'uscita dalla società industriale sia al tempo stesso l'uscita dalla modernità, considera la società postindustriale una società postmoderna. Abbiamo cercato di mostrare che, dalle forme di produzione agli obiettivi politici, esiste una nuova logica sociale le quale, pur essendo ovunque profondamente diversa da quella della società industriale, definisce tuttavia altrettanto chiaramente un sistema d'azione storico - sistema di obiettivi, di attori, di risorse e di strategie: ciò ci costringe a riconoscere l'esistenza di un tipo di società nuovo ma non di una crisi irreversibile dei sistemi sociali. È necessario insistere sulla discontinuità tra la società industriale e quella postindustriale, ma ricordando in conclusione l'essenziale: non siamo entrati in un mondo mutevole e diversificato come sono i mercati; esistono problemi, obiettivi e conflitti che sono fondamentali nella società postindustriale come in quella industriale, e il ruolo degli intellettuali consiste nell'aiutare le nostre società a prendere coscienza non solo della loro mutazione in corso, ma ancor più dell'esistenza di un nuovo campo storico e dunque della ricostruzione possibile e necessaria di una società, una cultura e una politica che corrispondano a una trasformazione profonda della produzione. (V. anche Capitalismo; Conflitto sociale; Informatica; Modernizzazione; Rivoluzione industriale; Tecnica e tecnologia; Telematica).
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