sofistica
Il potere della parola
Nel greco antico sophistès indicava chiunque possedesse la sapienza e fosse in grado di comunicarla: in questo senso venivano chiamati sofisti i Sette Saggi, poeti come Omero ed Esiodo, filosofi come Pitagora. Ma nel corso del 5° secolo a.C. il termine finì per indicare quel gruppo di filosofi che – giunti ad Atene da altre città – vi insegnavano, a pagamento, la retorica, ossia l’arte della persuasione tramite la parola
L’insegnamento dei primi sofisti incontrò uno straordinario successo, perché corrispondeva alle esigenze politiche e culturali della democrazia ateniese. Il fatto che le decisioni politiche venissero prese in pubbliche assemblee – e che le cariche più importanti fossero elettive – faceva dell’arte della parola la dote decisiva per chi aveva ambizioni politiche. Molti Ateniesi erano inoltre convinti che la giustizia, le leggi e il destino stesso della città non dipendessero dall’intervento degli dei, ma dalla saggezza delle scelte individuali e collettive. La riflessione sul mondo umano e sui suoi problemi diveniva quindi particolarmente preziosa.
Ma la cultura aristocratica guardò subito con sospetto a questi pensatori, che si facevano pagare per insegnare – cosa scandalosa per l’epoca – e che addestravano i loro seguaci a sostenere qualsiasi tesi. Ripetutamente bersagliati dalle critiche di Socrate, Platone e Aristotele – che li accusavano di essere interessati più al successo e al denaro che alla verità – i sofisti passarono alla storia come falsi sapienti e prestigiatori della parola.
Il termine si caricò così di un significato negativo di cui è rimasta traccia persino nel linguaggio corrente, dove sofisticato è sinonimo di artificioso, truccato o falso.
Da tempo, tuttavia, gli studiosi hanno rivalutato la sofistica, vedendo in essa una sorta di Illuminismo dell’antichità per l’attenzione rivolta ai problemi dell’uomo e della società, per la concezione laica del sapere e per l’atteggiamento anti-dogmatico (dogmatismo). Ai sofisti è stata inoltre riconosciuta la paternità del concetto di cultura, intesa come processo di formazione globale dell’uomo.
È a questa formazione globale che mirava Protagora, il primo dei sofisti, il cui insegnamento consisteva «nel sapersi condurre con senno, così nelle faccende private, in modo da amministrare perfettamente la propria casa, come in quelle pubbliche, tanto da essere perfettamente capaci di trattare e discutere le cose della città». Ma apprendere a discutere significava imparare ad argomentare qualsiasi tesi: e infatti Protagora insegnava ai suoi allievi a sostenere, su ogni argomento, due tesi opposte (antilogie).
Del resto, egli era un relativista: era convinto, cioè, che non esista una verità assoluta, ma soltanto opinioni diverse in relazione ai differenti punti di vista. Tuttavia, secondo Protagora, se non è possibile stabilire in modo assoluto cosa sia giusto, è però possibile – attraverso la discussione pubblica – stabilire cosa sia più utile per la pòlis (la città-Stato). L’insegnamento di Protagora era infine sganciato da qualsiasi presupposto religioso: «Riguardo agli dei», egli diceva, «non ho la possibilità di accertare né che sono né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana».
Con Gorgia il relativismo si trasformò in scetticismo. Convinto che l’uomo non abbia, né possa mai avere, una conoscenza sicura della realtà, Gorgia si affidò interamente al linguaggio, nel quale vedeva un mezzo potentissimo. Con il suo piccolo e quasi impercettibile corpo, la parola – egli diceva – «riesce a compiere le imprese più divine: può eliminare la paura, far cessare il dolore, provocare il piacere, accrescere la pietà». La retorica diventa quindi una psicagogia, una «guida dell’anima» che l’aiuta ad affrontare quel dramma irrazionale che, secondo Gorgia, è la vita umana.
Dopo un importante dibattito sulla giustizia – che ebbe come protagonisti Trasimaco, Ippia e Antifonte – i sofisti della seconda generazione trasformarono la retorica in eristica (dal greco eristikè (tèchne) «arte del disputare»), cioè in una gara verbale artificiosa e fine a sé stessa.
Tale esito – unito alla decadenza politica di Atene, sconfitta da Sparta nel 404 – rafforzò ulteriormente i pregiudizi che già gravavano sui sofisti: molti di loro vennero processati per empietà e dovettero fuggire dalla città che un tempo li aveva accolti così entusiasticamente.