Filosofo greco (n. Abdera tra il 484 e il 481 a. C. - m. fine sec. 5º), il maggiore rappresentante dell'antica sofistica greca. Originario di Abdera, fiorì ad Atene all'incirca nella metà del V secolo. Delle opere di P. non restano che pochi frammenti. Dal punto di vista conoscitivo fu un relativista: poiché l'uomo «è misura di tutte le cose», non esistono verità assolute, ma soltanto opinioni che variano a seconda degli individui. Dal punto di vista politico, tuttavia, riteneva che fosse possibile stabilire, attraverso la discussione pubblica, cosa sia più utile per la pòlis. Per il suo agnosticismo religioso fu bandito da Atene.
Esercitò per quarant'anni, dai trenta in poi, la professione del sofista, insegnando ai giovani l'arte oratoria e dialettica, e acquistando con tale opera prestigio e ricchezza enormi. Ma il contrasto tra l'illuminismo sofistico, da lui eminentemente rappresentato, e la cultura tradizionale suscitò il sospetto degli ambienti a questa più fedeli; e la pubblicazione del suo scritto Sugli dèi (dove, stando all'unico frammento superstite, egli sosteneva di «non potere asserire nulla circa gli dèi, né se esistano, né se non esistano, né quale natura abbiano, giacché molte sono le cose che impediscono di saperlo, come l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana») dette occasione a Pitodoro, uno dei Quattrocento, di accusarlo di ateismo. Condannato, fu costretto ad abbandonare Atene dove, nella piazza del mercato, venne arso il libro Sugli dèi. Morì, forse per naufragio, mentre navigava verso la Sicilia.
Benché l'importanza del pensiero protagoreo nell'evoluzione della filosofia classica appaia indiscussa, assai controversa è la determinazione della sua esatta fisionomia storica, soprattutto a causa della scarsezza dei documenti e della loro natura. Di frammenti autentici di P. non rimangono infatti che le celebri frasi iniziali dello scritto Sugli dèi e di quello intitolato 'Αλήϑεια («Verità»), che cominciava con le parole superstiti nel frammento fondamentale di P., quello sull'uomo quale misura di tutte le cose (v. oltre); e giacché queste parole sono pure citate come inizianti i Καταβάλλοντες (sottinteso λόγοι, cioè «Ragionamenti demolitori, stroncatori»), è lecito supporre che i due titoli si riferissero a un'unica opera. Secondo alcuni studiosi non diversi dai Καταβάλλοντες potrebbero essere il Περὶ τοῦ ὄντος («Sull'ente») e le 'Αντιλογίαι («Confutazioni»). Quest'ultima opera comunque, dalla quale, secondo la tendenziosa testimonianza di Aristosseno, Platone avrebbe attinto la massima parte della sua Repubblica, doveva proprio per questo occuparsi di problemi politici, mentre nella sua struttura formale rispondeva al metodo protagoreo della ἀντιλογία, della contradictio, mediante il quale a ogni tesi poteva sempre essere vittoriosamente contrapposta la sua antitesi. Infatti, poiché per P. ogni opinione soggettiva è vera e potendo quindi a proposito di ogni argomento sussistere opinioni contrarie (esistenza del δισσὸς λόγος, del «ragionamento duplice»), l'abilità dell'oratore deve consistere nel sostituire, nel convincimento dell'ascoltatore, un'opinione a un'altra: e giacché tale abilità è naturalmente tanto maggiore quanto più valide radici ha l'opinione da oppugnare, si intende come questo ideale della retorica-dialettica protagorea potesse essere simboleggiato nella formula del «far prevalere la tesi altrimenti destinata alla sconfitta» (τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν, letteralmente «render più forte l'argomentazione più debole»). D'altronde, la tesi fondamentale della gnoseologia di P. che, come si è detto, costituisce l'inizio dell'opera intitolata 'Αλήϑεια o Καταβάλλοντες, ammette, per la stessa sobrietà della sua formula, più di un'interpretazione. Il frammento (1 Diels) suona: πάντων χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἅνϑρωπος, τῶν μὲν ὄντων ὡς ἔστιν, τῶν δὲ οὐκ ὄντων ὡς οὐκ ἔστιν, e cioè, letteralmente: «Di tutte le cose è misura l'uomo, di quelle che sono, in quanto sono, di quelle che non sono, in quanto non sono». Le controversie nascono a proposito dell'interpretazione di ὡς nel senso di «che» o di «come». Ma tali sensi dovevano convivere indifferenziati nella formula di P., la cui concezione voleva essere soltanto una generalissima conversione, tipicamente antieleatica, della verità dell'«essere» in quella del «sembrare» (δοκεῖν). Di P. si occupò Platone nel Protagora e nel Teeteto.