STATI UNITI (A. T., 127-146)
Stati Uniti è il nome adottato dalle 13 antiche colonie britanniche situate lungo la costa atlantica dell'America Settentrionale, che dichiararono la loro indipendenza dalla Gran Bretagna il 4 luglio 1776, ottenendone poi da quella il riconoscimento il 30 novembre 1782. In progresso di tempo la confederazione si estese, includendo, oltre i 13 stati originarî, altri 7 stati, aggregati senza essere stati prima organizzati a territorî, e 28 stati, passati precedentemente per lo stadio dei territorî; in tutto 48 stati. Di territorî, contigui spazialmente agli stati, oggi non ne esistono più; territorî non contigui sono l'Alasca e le isole Hawaii. Il nome "Stati Uniti" fu più tardi assunto anche da altre confederazioni americane (Messico, Brasile, Venezuela); ma esso è rimasto per antonomasia, e senza altra specificazione, alla grande confederazione nordamericana, il cui nome ufficiale è United States of America (U.S.A.).
Sommario. - Geografia: Situazione e confini (p. 523); Storia dell'esplorazione e della conoscenza (p. 524); Struttura e caratteristiche morfologiche (p. 525); Clima (p. 528); Caratteristiche idrografiche (p. 531); Trasformazione del paesaggio naturale (p. 531); Flora e vegetazione (p. 533); Fauna (p. 534); Condizioni demografiche (p. 535); Immigrazione (p. 537); Urbanesimo (p. 540); Agricoltura (p. 544); Allevamento (p. 549); Foreste e industria forestale (p. 550); Miniere (p. 550); Industrie (p. 552); Comunicazioni (p. 553); Commercio interno (p. 557); Commercio estero (p. 557). - Suddivisione politico-amministrativa (p. 559). - Dipendenze coloniali (p. 560); Bibliografia geografica (p. 560). - Ordinamento dello stato: Costituzione (p. 561); Forze armate (p. 564); Culti (p. 565); Finanze (p. 566); Ordinamento scolastico (p. 570). - Storia (p. 571). - Lingua (p. 588). - Letteratura (p. 588). - Arti figurative (p. 593). - Musica (p. 601). - Popolazioni e culture indigene: Archeologia (p. 602); Le culture dell'età coloniale (p. 604); Popolazione odierna (p. 606); Antropologia (p. 607). - I Negri d'America (p. 609). - Tavv. LXXV-CII.
Geografia.
Situazione e confini. - Con una superficie di 7.839.063 kmq. (comprese le acque interne, ma esclusa la porzione dei Grandi Laghi appartenente politicamente alla Federazione, che si ragguaglia a circa 157.850 kmq.), la massa compatta degli Stati Uniti occupa tutto lo spazio fra il Canada e il Messico e perciò una posizione centrale nell'America Settentrionale, ritraendo la sua principale caratteristica dalla situazione nella zona temperata fra i due massimi oceani mondiali, ma con un vasto sbocco anche sul Golfo del Messico, che è già un mare interno subtropicale. Mancano agli Stati Uniti (se si prescinda dall'Alasca) i paesaggi polari e subpolari del Canada e quelli tropicali del Messico; ma i lineamenti morfologici fondamentali del Nordamerica si ritrovano come lineamenti della fisionomia degli Stati Uniti; esclusivi, o quasi, a questi, sono i paesaggi degli Appalachiani.
A N. gli Stati Uniti non oltrepassano il 49° parallelo; a S. toccano 24° 31′ a Key West a SO. della Florida. Estremo punto occidentale è il Capo Flattery all'ingresso S. dello Stretto di Juan de Fuca (125° 5′), il più orientale è allo sbocco del St Croix River (66° 58′). L'estensione da N. a S. raggiunge quasi 3000 km., quella da E. a O. 4500.
Il confine col Canada s'inizia sull'Atlantico, nella Baia di Fundy, all'estuario del St Croix River, che la linea confinaria risale a ritroso per un buon tratto, seguendo poi il meridiano 67° 45′; indi volge alquanto a SO. ed è per lo più indicato da tronchi di fiumi fino al 45° lat. Lungo questo parallelo risale il S. Lorenzo, poi taglia i laghi canadesi, che formano un confine naturale, e tra il Lago Superiore e il Lake of the Woods segue ancora una serie di fiumi e canali finché, raggiunto il 49° parallelo, lo accompagna per quasi 1800 km. fino al Pacifico, dove l'intera isola Vancouver resta esclusa.
A S. il confine col Messico è segnato dal Rio Grande del Norte dalla foce a El Paso, poi è indicato da archi di paralleli o di meridiani fino a Nogales, e da una linea retta che da Nogales raggiunge il Colorado a circa 100 km. dalla foce; il Colorado segna il confine per un breve tratto, a monte, sin presso la confluenza col Rio Gila; di qui la linea si dirige al Pacifico che raggiunge a circa 32° N., lasciando l'intera baia di San Diego agli Stati Uniti. A S. della Florida il confine è stabilito nella parte centrale del Canale di Florida.
Storia dell'esplorazione e della conoscenza. - I navigatori normanni che, all'alba del sec. XI, dalla Norvegia e dalla Groenlandia raggiunsero certamente alcuni lembi dell'America Settentrionale, discesero probabilmente verso sud tanto da veder le coste dell'odierno Maine, né è escluso si spingessero fin verso il C. Cod; furono in tal caso i primi Europei a porre piede nel territorio degli odierni Stati Uniti; ma delle loro scoperte nessuna eco giunse in Europa. Di nessun altro viaggio si ha poi sicura conoscenza fino al 1498, allorché Giovanni Caboto, nella sua seconda navigazione, accompagnato dal figlio Sebastiano, si spinse lungo le coste atlantiche delle nuove terre da lui toccate l'anno precedente, forse fino alla latitudine di New York. I viaggi dei fratelli Cortereal non pare, per quel poco che se ne sa, toccassero le coste degli attuali Stati Uniti, e altre scoperte degli anni successivi sono incerte. Sicuro è invece che nel 1513 Juan Ponce de León, mosso da Haiti, riconobbe la costa orientale della penisola di Florida (della quale si aveva tuttavia forse vaga notizia qualche anno prima); e sicura è la scoperta che Alfonso Alvárez Pineda, navigando nel 1518-19 tra lo Yucatán e la Florida alla ricerca di un passaggio verso ovest, fece delle coste settentrionali del Golfo del Messico e delle foci del Mississippi da lui chiamato Rio dello Spirito Santo. Ma spetta al fiorentino Giovanni da Verrazzano il merito di aver per primo navigato nel 1524 tutta, o quasi tutta, la costa atlantica dal 34° lat. N. fino al C. Bretone; negli anni immediatamente seguenti i portoghesi Lucas Vázquez de Ayllón ed Estevão Gomes (1525-26) facevano accurati rilievi di queste coste, che già nel celebre mappamondo di Diego Ribero (1529) appaiono delineate continuativamente da Terranova all'America Centrale.
Negli anni successivi alcune fra le molte spedizioni inviate per iniziativa di Hernán Cortés aprirono la via alle coste occidentali, che nel 1542 erano risalite fino al C. Mendocino; più a nord arrivò soltanto nel 1578, nel suo arditissimo viaggio, Francis Drake, che toccò il C. Bianco (43° N.), estremo limite delle conoscenze sicure fino al sec. XVIII.
Nel 1528 una spedizione comandata da Pánfilo Narváez e diretta alla Florida naufragò sulle coste del Texas; alcuni superstiti, guidati da Alvaro Núñez Cabeza de Vaca, dopo aver errato per sei anni attraverso il Texas, il Coahuila, il Chihuahua e la Sonora, raggiunsero il più settentrionale dei posti spagnoli nel Messico, Culiacán, sul Pacifico. Nel 1539 Hernando de Soto partito dalla Baia di Tampa, penetrò dapprima nelle regioni pedemontane della Carolina attuale, traversò gli Appalachiani raggiunse il Mississippi all'incirca là dove ora sorge Memphis, e, traversatolo, si inoltrò nelle pianure dell'Arkansas fin verso il sito dell'attuale Oklahoma, poi ritornò indietro seguendo il fiume Arkansas fino alla confluenza col Mississippi dove trovò la morte. I suoi, sotto la guida di Luís de Moscoso, dopo molto peregrinare, poterono discendere su zattere il gran fiume e poi, lungo le pianure costiere, raggiungere Pánuco nel 1543. Altre spedizioni mossero da Culiacán, attratte dalla fama di città ricchissime, fra gli Indiani del Nord: nel 1540 Francisco Vázquez de Coronado, attraverso la Sonora e l'Arizona, raggiunse il Colorado e vide per la prima volta il famoso canyon, visitò i Pueblos del Río Grande e nel 1541 trascorse i piani di Cibola senza trovar traccia della decantata città di tal nome. Questo primo grande periodo di esplorazioni si chiude intorno alla metà del sec. XVI.
Non passano tuttavia molti anni, e gl'Inglesi si fissano sulla costa orientale degli attuali Stati Uniti: dopo i primi falliti tentativi di W. Raleigh nell'isola Roanoke (1584 e 1587), si ha la fondazione di Jamestown, sull'estuario del fiume James per opera della Compagnia dei mercanti di Londra (1607), poi la costituzione delle colonie della Nuova Inghilterra, in seguito all'importante viaggio di ricognizione di John Smith lungo la costa, dalla Baia Penobscot al C. Cod (1616), più tardi di altre colonie. Sopravvengono anche gli Olandesi con la fondazione di Nuova Amsterdam sull'isola Manhattan (1614), e gli Svedesi con la fondazione di una fattoria sul Delaware (1638). Ma tutti questi insediamenti, come pure quelli dei quaccheri a ovest dello stesso Delaware, si limitarono alla stretta fascia costiera, e perciò l'esplorazione del retroterra fece scarsi progressi: la regione montuosa degli Appalachiani era ancora alla fine del sec. XVII interamente ignota e saldamente tenuta dagl'Indiani che respingevano inesorabilmente i coloni europei. Solamente nel 1716 il governatore della Virginia, Spotswood, pervenne a traversare le Blue Mountains e scoprì la grande valle del Shenandoah; da allora s'inizia quel movimento per il quale i cosiddetti backwoodsmen, sorta di posti avanzati, a poco a poco, acquistano, sia mediante operazioni di guerriglia contro gl'Indiani, sia mediante trattative pacifiche, nuovo terreno per la colonizzazione. Si aggiunge anche l'opera di rifugiati religiosi e missionarî: presbiteriani fuggiti dall'Irlanda, Herrnhüter tedeschi, fratelli moravi, ecc. Ai missionarî Chr. Post, David Zeisinger e Johann Hackewalder spetta il merito della scoperta della regione sorgentifera del Delaware e del Susquehanna; altri penetrarono nell'interno, movendo da Charleston, da Savannah fondata nel 1733, e da Augusta (1739); alla metà del secolo gli Appalachiani erano ormai superati, almeno in tutta la sezione settentrionale. Nel 1748 fu poi fondata nella Virginia la Compagnia dell'Ohio, che aveva per scopo la colonizzazione del bacino superiore di questo fiume: dal 1767 al '75 Michele Steiner e Abramo Heit si spinsero fino al fiume Cumberland e all'Ohio inferiore, nel 1778 e negli anni seguenti Daniel Boone, dopo aver fondato Boonesborough nel Kentucky, penetrò fino al Missouri. Più estese esplorazioni avevano compiuto intanto nel bacino del Mississippi i Francesi, che vi erano penetrati da nord, cioè dal Canada. Nel 1673 il commerciante di pelli Joliet e il gesuita Marquette raggiunsero dal lago Michigan il Mississippi e lo navigarono fin verso il 33° lat.; nel 1680 Hennepin pubblicava la prima descrizione del gran fiume, denominato fiume di Colbert, la cui pertinenza al bacino del Golfo del Messico era ormai accertata. Nel 1682 Robert Cavelier de la Salle, dopo alcune ricognizioni preliminari, poté, unitamente all'italiano Enrico Tonti, discendere il fiume fino alla foce, e meditò di assicurare il possesso della regione, da lui detta Luisiana, mediante una serie di forti; ucciso nel 1687 dagl'Indiani Natchez, trovò parecchi continuatori, soprattutto Lemoine de Bienneville, il fondatore di New Orleans (1718). L'interno era percorso da arditi commercianti (coureurs de bois) e da missionarî: così il gesuita Charlevoix si spinse dal Mississippi superiore verso ovest (1720-47), senza ancora raggiungere le grandi catene occidentali, delle quali una vaga notizia era stata tuttavia già recata da Lahontan (1688-89). Al piede delle Montagne Rocciose giunsero in realtà solo il Niverville nel 1751 sul Saskatchewan superiore e i La Verendrye nel 1755 ai Monti Bighorn.
L'attività dei Francesi cessa naturalmente con la perdita del loro dominio coloniale nel 1763.
La conoscenza delle regioni volte al Pacifico fece notevoli progressi soprattutto per opera di missionarî gesuiti, irradianti dalla California verso l'interno. Tra essi ha posto d'onore il padre Eusebio Chini, trentino, esploratore della regione fra il Colorado e le Montagne Rocciose (1698-1701); con lui si ricordano Salvatierra, Sedelmayer, che riconobbe buon tratto del Colorado (1744), Escalante, che raggiunse il Gran Lago Salato (1776), e il francescano Junípero Serra. Ma tutte queste ricognizioni non costituivano in realtà che una serie di itinerarî isolati. Allorché, alla fine del sec. XVIII, ebbe vita il nuovo organismo indipendente degli Stati Uniti, enormi spazî a ovest degli Appalachiani erano ancora presso che interamente sconosciuti.
Il sec. XIX apre pertanto anche negli Stati Uniti l'epoca dell'esplorazione scientifica. Al primo periodo di questa appartengono i viaggi degli ufficiali Lewis e Clarke attraverso le Montagne Rocciose, dal bacino del Missouri a quello del Colorado e all'Oceano Pacifico (1803-05), quelli di Zebulon M. Pike nella regione delle praterie e nelle cordigliere del Colorado e del Nuovo Messico (1805-07), la grande spedizione scientifico-militare condotta da Stefano W. Long nella regione del Lago Superiore e nell'alto bacino del Mississippi (1819-23), le esplorazioni di B.-L. Bonneville nei deserti e nelle montagne dell'Utah e del Nevada (1832-36). Le sorgenti del Mississippi furono scoperte nel 1821 dall'italiano Giacomo Costantino Beltrami e quasi nello stesso tempo riconosciute anche dallo Schoolcraft, e nel 1843 si ebbe, per opera dell'astronomo francese Nicollet, la prima carta del bacino superiore del gran fiume, dove poco dopo I. D. Whitney compì importanti ricerche soprattutto di carattere geologico (1847-50). Prevalentemente geologiche furono anche le ricognizioni di Featherstonhaugh nell'alto Missouri e nei monti Ozark (1832-35), e quelle di D. Owen nell'Indiana (1837-47), mentre di carattere più strettamente esplorativo furono i tre grandi viaggi di I. Ch. Fremont attraverso le Cordigliere settentrionali, nell'Oregon e nella California superiore, quelli di H. Stansbury nel bacino del Gran Lago Salato (1849-50), quelli di Yves e Newberry nel bacino del Colorado (1857-59), ecc.
Anche le spedizioni militari contro il Messico valsero a precisare la conoscenza di regioni prima assai vagamente note, specialmente i territorî semidesertici del sud e le aree montuose del sud-ovest. La scoperta dei giacimenti auriferi della California e più tardi i lavori preparatorî per la prima grande ferrovia transcontinentale apportarono nuova messe di conoscenze e di dati.
Per il rilievo delle coste era stato creato sin dal 1807 il Coast Survey, che tuttavia iniziò la sua attività solo nel 1816 e dapprima assai lentamente; nel 1871 gli fu aggregato il Geodetic Survey, che come primo grande lavoro eseguì la triangolazione lungo il 39° parallelo dall'Atlantico al Pacifico; nel 1878 fu definitivamente organizzato il servizio denominato Coast and Geodetic Survey. Frattanto venivano compiute opere geologiche di grande portata, come il rilievo dei territorî lungo il 49° parallelo sotto la direzione di Clarence King (1867-69), quello topografico-geologico del 100° meridiano diretto da G. M. Wheeler (1870-78), e finalmente il grande rilevamento geologico-geografico delle Montagne Rocciose per opera di J. W. Powell. Questi grandi lavori diedero l'impulso alla formazione dell'U. S. Geological Survey (1879), che dal 1882 eseguisce contemporaneamente i rilievi e le carte topografiche e geologiche dell'Unione ed ha ormai al suo attivo un'opera ininterrotta di oltre mezzo secolo; ad esso hanno dato il contributo del loro lavoro scienziati eminenti, come G. K. Gilbert, J. C. Russel, Cl. Dutton, W. H. Holmes, D. Whitney, ecc.
Gli Stati Uniti posseggono anche un servizio meteorologico perfettamente organizzato (Wheather Bureau), un Bureau of soils, creato nel 1901, che attende alla pubblicazione di carte pedologiche e agrologiche, e un Bureau of Ethnology sorto nel 1879 per lo studio dell'etnografia e dell'archeologia delle stirpi indiane e oggi aggregato alla celebre Smithsonian Institution. Quest'ultimo ente, fondato nel 1846, esercita una molteplice e feconda attività nel promuovere studî di ogni genere riguardanti l'Unione.
Nel campo più strettamente geografico, e in prima linea in quello della morfologia terrestre, grande influenza ha esercitato, nel secolo attuale, l'opera di W. M. Davis (v.), che è stato un vero caposcuola, ha aperto nuovi indirizzi di ricerca e si è anche largamente adoperato per la creazione di cattedre e centri di studio universitarî di geografia. Gli Stati Uniti hanno oggi una delle più celebri società geografiche del mondo; i geografi sono consociati nell'attiva Association of american geographers.
Carte. - La carta topografica ufficiale degli Stati Uniti, è, come si è detto, pubblicata a cura dell'U. S. Geological Survey e per i territorî più fittamente popolati e più importanti economicamente è alla scala di 1: 62.500, in fogli che abbracciano 15′ in lat. per 15′ in long.; per il resto del paese a 1:125.000 in fogli di 30′ per 30′; la scala del 250.000 (in fogli di un grado per lato) originariamente adottata, è stata abbandonata. L'intera opera dovrebbe essere terminata nel 1941, ma è ancora assai lontana dal compimento; inoltre molti dei fogli pubblicati sono basati su rilevamenti assai sommarî; solo una metà del territorio ha oggi carte rispondenti alle attuali esigenze, la seala di 1: 62.500 è applicata a una vasta area del NE. e isolatamente ad altre zone, di solito circostanti a grandi centri. Da alcuni anni sono largamente impiegati i procedimenti fototopografici dall'aereo. Lo stesso ufficio pubblica la carta internazionale del mondo al milionesimo per la parte riguardante gli Stati Uniti (197 fogli) e l'Atlante geologico degli Stati Uniti in fascicoli in-folio (circa 300 usciti sul totale di 3000 circa), che contengono, oltre la carta topografica e la geologica, una carta tettonica, una carta idrologica e un testo illustrativo.
Numerosi sono gli Atlanti speciali, tra i quali l'Atlas of american Agriculture, lo Statistical Atlas of the U. S. A. e l'Historical Atlas of the U. S. A.
Al rilievo delle coste e dei mari attende, come già si è detto, l'U.S.A. Geodetic and Coast Survey, che effettua anche le operazioni geodetiche fondamentali.
Struttura e caratteristiche morfologiche. - Notissima è la caratteristica fondamentale della struttura morfologica degli Stati Uniti, cioè il succedersi da E. a O., tra l'Atlantico e il Pacifico, di tre grandi zone longitudinali, estese attraverso tutto il paese, in modo da conferirgli una grandiosa uniformità di lineamenti. Esse sono: il sistema appalachiano, con gli altipiani e le pianure che gli si affiancano; l'estesissima regione dei piani centrali, e la zona delle alteterre occidentali con poderose catene di montagne racchiudenti vasti altipiani e bacini alluvionali intermontani (v. america, II, la carta a p. 847). Di queste tre zone, la prima è pressoché esclusiva degli Stati Uniti, la seconda si ritrova anche nel Canada, ma con caratteri notevolmente diversi in relazione soprattutto a fatti d'ordine climatico; la terza si estende su tutta la sezione occidentale dell'America Settentrionale.
1. Il sistema appalachiano si estende per circa 2200 km. dall'estuario del San Lorenzo all'Alabama, su una larghezza media di 200-300 km. Il profondo solco trasversale segnato dai fiumi Hudson e Mohawk lo divide in due sezioni: quella settentrionale, della quale l'estremo gruppo (M. Notre Dame, 1130 m.) rientra nei confini del Canada, mentre appartengono agli Stati Uniti per intero i monti della Nuova Inghilterra (M. Washington, 1914 m.) e il gruppo isolato degli Adirondacks; quella meridionale, più estesa e più elevata, cui spetta più propriamente il nome di M. Allegani (M. Mitchell nelle Black Mountains, 2044 m., Clingman's Dome nelle Smoky Mountains, 2030 m.). Gli Allegani sono serie regolari di catene parallele e con cime che i processi di demolizione hanno reso dolci e arrotondate, separate da valli longitudinali (notevole per la sua estensione soprattutto la Great Valley a occidente), dalle quali i fiumi sfuggono aprendosi verso E. la via all'Atlantico attraverso anguste gole (water gaps). Esse agevolarono l'accesso dei coloni europei, dalla regione marittima, attraverso la catena più orientale (Blue Ridge), compatta come una sorta di bastionata, verso i territorî interni. Anche la Great Valley servì come ottima arteria di penetrazione.
La regolarità del rilievo è assai minore a N., dove l'orogenesi è stata più complessa e la struttura generale della montagna è anche complicata da intrusioni di rocce ignee: l'alternanza di rocce più o meno resistenti ai processi di demolizione e di spianamento ha determinato forme caratteristiche come quelle designate col nome di monadnocks (alture solitarie o allineate in serie, che hanno resistito alla demolizione perché costituite da rocce più dure; il nome deriva da quello di un monte a NO. di Boston). Inoltre la glaciazione quaternaria ha in questa sezione settentrionale impresso le sue tracce, che mancano negli Allegani veri e proprî (per altre notizie, anche sulla genesi e la morfologia, v. appalachiani, monti).
La Blue Ridge precipita di solito assai ripidamente verso una piatta e ondulata zona pedemontana (Piedmont) e larga fino a 150 km. a S., più ristretta man mano che si procede verso N., fino a scomparire tra Delaware e Hudson; essa è un regolare piano, inclinato da 700 a 200 m., interrotto da qualche dorso roccioso, incavato dalle valli dei fiumi affluenti all'Atlantico. Il Piedmont declina a sua volta verso la pianura costiera (coastal plain) con uno zoccolo o gradino che i fiumi saltano formando cascate o cateratte; l'allineamento di questi salti, dall'Alabama al Delaware (fall line), è segnato da grandiosi impianti che sfruttano l'energia dei fiumi. Questi, scesi nella pianura costiera, diventano navigabili; parecchi si allargano presto in estuarî risaliti dall'onda di marea. La pianura costiera, costituita da depositi terziarî e quaternarî, rappresenta un antico piano sollevato, inciso da valli che talora si continuano nella piattaforma continentale subacquea. Larga fino a 300 km. in corrispondenza alla sezione meridionale degli Appalachiani, la pianura si restringe al pari del Piedmont, man mano che si procede verso N., e oltre il Hudson si riduce a una sottile cimosa accompagnata da isole. Un bradisismo positivo, in massima parte postglaciale, ha sommerso i margini orientali della pianura e ha determinato le attuali forme costiere; a queste hanno conferito poi speciali caratteri i processi di erosione e di accumulo marino che si continuano sotto i nostri occhi. Alla suaccennata sommersione si deve ad es. la Cape Cod Bay e la forma della penisola a falce che termina al Cape Cod, come pure la separazione delle isole Nantucket, Martha's Vineyard e minori e soprattutto della Long Island. Per l'invasione delle foci fluviali sono state create sia l'insenatura alla foce del Hudson, sia la Delaware Bay, la più grande e frastagliata Chesapeake Bay, l'Albemarle Sound, il Pamlico Sound, il Charlotte Harbor e la Tampa Bay nella Florida, ecc. Lunghi cordoni litoranei sabbiosi, originatisi per accumulazione marina, in relazione al gioco delle correnti, hanno poi sbarrato quelle insenature nelle quali non sboccavano grandi fiumi. Questo processo di sbarramento, cui segue naturalmente il graduale colmamento degli specchi d'acqua rimasti isolati alle spalle dei cordoni, ci presenta diverse fasi in esempî grandiosi nell'Albemarle e nel Pamlico Sound; assai spesso sono stati artificialmente mantenuti, attraverso i lidi, degli sbocchi (inlet) per l'ingresso dell'onda di marea, che esercita una funzione di dragaggio naturale. Insenature più piccole, e di varie forme, sempre connesse con processi di sommersione, s'incontrano a S. del Capo Fear; mentre la piatta costa della Florida mostra, specie a E., di nuovo lunghissimi cordoni litoranei, raramente interrotti, dietro i quali si hanno lagune bassissime o, spesso, piuttosto paludi, invase da ricca vegetazione arborea, talora vere e proprie foreste allagate (swamps). Per il rilievo della Florida vedi questa voce.
Ai caratteri di una costa siffatta si deve la frequenza di ripari e di porti capaci e sicuri e perciò il vivace sviluppo della vita marittima e il sorgere dei grandi emporî commerciali.
A O., oltre la Great Valley, il sistema appalachiano si rileva con un orlo a ripide scarpate (Allegheny Front), che a sua volta declina verso una serie di pianori a topografia assai tormentata, incisi dall'Ohio e dai suoi affluenti.
2. La regione delle pianure centrali si stende dagli ora menzionati pianori fino al piede delle Montagne Rocciose, dai grandi laghi al Golfo del Messico, ma non ha ovunque i medesimi caratteri e aspetti. Anzitutto l'altitudine varia entro limiti molto notevoli, come è dimostrato dalla carta fisica in america: II, dopo la p. 844; il percorso dell'isoipsa di 200 m. mostra come la vasta porzione periferica meridionale, che può designarsi come bassopiano, si saldi largamente a E. con la pianura costiera atlantica, e s'ingolfi molto profondamente nell'interno specie lungo il Mississippi e l'Ohio: S. Paolo sul primo di questi due fiumi, a 1800 km. dalla foce, è appena a 214 m. s. m. e Pittsburgh, presso a poco alla stessa distanza dal mare, è a 212. Sull'Arkansas la quota dei 200 m. si raggiunge presso Tulsa, e sul Missouri poco a valle di Kansas. Ma a N. e soprattutto a O. la pianura si eleva ad altezze molto notevoli, pur conservando il suo carattere di orizzontalità: questo infatti si riscontra, verso il piede delle Montagne Rocciose, ancora a 1000-1400 m. s. m. La pianura è costituita nella sua parte maggiore da materiali deposti in fondo al gran mare cretacico e sollevati senza molti disturbi; sopra di essi sono coltri di varî orizzonti del Terziario, terreni di accumulazione eolica e, nella parte settentrionale, materiali di origine glaciale. Solo la fascia meridionale più bassa e le sue ramificazioni interne, lungo i maggiori fiumi, sono costituite da alluvioni recenti.
Si possono essenzialmente distinguere, in questa estesissima regione delle pianure centrali, quattro zone assai differenti: a) la zona settentrionale - praterie dell'alto Mississippi e dell'alto Ohio - che si eleva lentamente verso i Grandi Laghi, intorno ai quali è una soglia, alta 250-400 m., costituita dalle morene, ormai in gran parte smantellate, che chiudevano a S. i laghi stessi. Questa zona ritrae la sua fisionomia principalmente appunto dalle tracce della glaciazione quaternaria: lembi morenici, drumlins, e cavità sbarrate da questi depositi, scavate o plasmate dai ghiacciai, oggi in massima parte occupate da laghetti, dei quali si contano migliaia e migliaia specialmente nell'alto bacino del Mississippi; b) la zona occidentale, che insensibilmente sale verso le Montagne Rocciose, presenta sconfinate distese di pianure monotone e livellate (Great Plains), interrotte solo qua e là da costoni, gradini, basse groppe, come il cosiddetto Coteau des Prairies fra l'alto Mississippi e il Missouri, come i monti Ozark, Boston e Ouachita, che con altezze modeste e sommità spianate, ma con fianchi talora assai ripidi, continuano gli Appalachi, come il gradino col quale a S. si sale verso il Llano estacado, sterminato uniforme piano, posto già in gran parte a un'altezza superiore ai mille metri. L'aridità del clima conferisce a tutte queste pianure dell'O. aspetti di desolazione: in molte parti si ha a che fare con steppe o addirittura con distese desertiche; c) a oriente del Mississippi fa riscontro morfologicamente a quella ultimamente descritta, la zona che sale verso gli altipiani degli Appalachi, ma essa è molto più ristretta, di gran lunga meno arida e più accidentata a causa dei numerosi corsi d'acqua che la incidono ed esercitano un considerevole lavorio di erosione; d) quarta zona è la pianura costiera (coastal plain) meridionale, che, larga in media 300 km, ha caratteri non molto dissimili da quella che si stende lungo l'Atlantico: formata da detriti alluvionali, percorsa da una fitta rete di corsi d'acqua, presenta una cimosa costiera bassissima, acquitrinosa, e una fascia interna un po' più alta, separata dalla precedente per un lieve gradino dovuto alla presenza di uno strato di rocce più resistenti del Terziario antico. La pianura costiera raggiunge la sua massima larghezza al centro, in corrispondenza alla valle del Mississippi; si restringe soprattutto a O., verso le falde della Sierra Madre orientale; ma al confine col Messico, sul Rio Grande del Norte, è larga ancora oltre 120 km. La costa è anche qui orlata da lunghe lagune, separate dal mare per mezzo di sottili cordoni litoranei; molto regolari soprattutto quelle a O., come la Malagorda Bay e la Laguna Madre; tipici estuarî di fiumi affogati, per l'invasione marina, sono anche qui ad es. la baia di Mobile, il Sabine Lake alla foce del Sabine, la baia di Galveston, ecc.; una sezione costiera a fisionomia più complessa corrisponde al delta del Mississippi (v.). Per quanto i su mentovati estuarî offrano spesso buoni porti, tuttavia la costa del Golfo del Messico è molto meno favorevole alla vita marinara della costa atlantica.
3. La zona delle alteterre occidentali, che si designa talora nel suo insieme come zona delle Cordigliere, e raggiunge negli Stati Uniti una larghezza, nel senso dei paralleli, di quasi 1700 km., è essenzialmente costituita, come le Ande, da una successione di altipiani fiancheggiati sia a E. sia a O. da catene montuose; ma quest'architettura, semplice nelle sue linee generali, non esclude una grandissima varietà di tipi e di aspetti morfologici, anche in relazione con le vicende geologiche, oltremodo complesse, e con le condizioni di clima profondamente diverse nelle varie parti. Il fascio delle catene orientali prende, come nel Canada, il nome di Montagne Rocciose, ma presenta in genere forme meno aspre, e per la scarsezza di nevi e di ghiacci, per la minor diffusione di tracce glaciali (circhi con laghi, ecc.), assai meno alpestri che nel Canada; maggiore è peraltro il frazionamento delle masse montuose, per la presenza di numerosi ampî bacini intermontani.
Le catene sorgono in genere ripide e precipiti sui piani centrali, tranne a NE. dove si avanza verso il Missouri l'avamposto dei Monti Neri (Black Hills, 2176 m.), a N. e a E. dei quali sono i famosi Bad Lands, potenti zolle argillose erose e scavate da miriadi di vallecole nude, ventagliformi, alquanto analoghe ai nostri calanchi. Un'ampia breccia, per la quale alcuni affluenti del Missouri (North Platte, ecc.) si insinuano fin negli altipiani interni (solcati dal Green River), divide le Rocciose degli Stati Uniti in due sezioni: quella settentrionale, caratterizzata da penepiani sollevati e poi nuovamente incisi, intaccata perciò da valli profonde, interrotta da bacini lacustri, chiusi fra potenti masse eruttive; la seconda, nella quale le creste si sviluppano con maggiore continuità e compattezza, con più netto parallelismo. Nell'una e nell'altra le catene parallele sono spesso connesse da sbarre trasversali, onde nel complesso restano bene individuati bacini intermontani noti col nome di Parchi, come il famoso Parco Nazionale di Yellowstone (v. parchi nazionali). Nella sezione settentrionale le massime altezze si raggiungono nei Bighorn Mounts (Cloud Peak, 4013 m.), blocco di graniti e gneiss avanzato verso la pianura, nel Teton (Grand Teton, 4190 m.), e nella Wind River Range (Fremont Peak, 4202 m.; Gannet, 4185 m.) che chiudono a S. il Parco di Yellowstone; nella sezione meridionale culminano la Colorado Front Range con una quarantina di vette sopra i 4000 m. emergenti a cupola su un'alta superficie di spianamento (M. Evans, 4346 m.; Long Peak, 4345 m., ecc.), la Park Range (M. Lincoln, 4385 m.), la catena detta Sangre de Cristo (Blanca Peak, 4386 m.), la Sawatch Range, che contiene le vette più alte di tutte le Rocciose (M. Massive, 4396 m.), i S. Juan Mts. (M. Wilson, 4344 m.). Meno elevate sono le appendici meridionali (Sierra Blanca, ecc.) tra il Rio Grande del Norte e il Rio Pecos. Tra le catene più occidentali, che s'iniziano già nel Canada con i Selkirk, e continuano con i Bitter Root Mts., hanno un posto a sé i Wasatch, lungo e aspro baluardo che chiude a E. il Gran Bacino (Lone Peak, 3505 m.), al quale si affianca a E. il gruppo degli Uinta con l'Emmons Peak (4093 metri) adergentesi su una tipica superficie di spianamento. (Per una più ampia descrizione v. rocciose, montagne).
Gli altipiani intermontani che succedono a O. alle Rocciose formano tre unità ben distinte. A N. è l'altipiano della Columbia (circa 510.000 kmq.), attraversato da questo fiume e dal suo affluente Snake River; enorme e uniforme espansione di materiali lavici, sovrapposti in colate successive (dal Miocene al Quaternario) per uno spessore di oltre 100 m., incisa in profondissimi canyons dai due corsi d'acqua su ricordati, si presenta come una distesa di roccia solo parzialmente degradata in superficie, nel complesso molto arida e perciò ricoperta di steppe. Al centro è il Gran Bacino, non meno ampio, ma in realtà costituito da una serie di bacini chiusi, ad altezze fra 1200 e 1500 m. circa, separati da brevi tronchi di catene, oggi in gran parte sepolte da coltri di detriti alluvionali, che gli agenti atmosferici hanno strappato alle aree più elevate e nude di vegetazione. Le zone più depresse formano conche, talora asciutte, nelle quali si perdono fra ghiaie e sabbie i corsi d'acqua, talvolta sono invece occupate da laghi in via di prosciugamento: il maggiore, il Gran Lago Salato è il modesto residuo di un bacino esteso forse 10 o 12 volte di più (v. gran lago salato).
A S., o meglio a SE. del Gran Bacino, diviso da questo per la muraglia dei Wasatch, è l'altipiano del Colorado, ampio circa 600.000 kmq., alto in media 2000 m.; tavolato uniforme, rimasto allo scoperto dall'Eocene in poi, ma sollevato in blocco di circa 1000 m. in talune parti, senza che ne risultasse perturbata l'orizzontalità degli strati arenacei, incisi ora dai fiumi in platee (mesas), separate da canyons. Il più famoso tra essi è il Gran Canyon del Colorado, lungo circa 250 km., profondo fino a 1800 m. che mette a nudo tutta la serie degli strati fino all'Archeozoico, variamente resistenti e perciò con pareti ripide intercalate da terrazzi e modellate bizzarramente in torrioni, pinnacoli, ecc., dei più diversi colori (v. anche cañón). L'altipiano è chiuso a S. dai monti di S. Francisco (Thomas Peak, 3504 m.), attraverso i quali il Colorado sfugge per avviarsi, attraverso una regione desertica, al G. di California. Questa regione desertica (Deserto del Colorado, di Gila, di Sonora), vasta circa 100.000 kmq., può considerarsi come l'appendice meridionale dei bacini intermontani; abbracciata talora complessivamente col nome di Gran Deserto Americano, costituisce in realtà la più vasta area desertica del Nordamerica con poche oasi, e zone depresse sotto il livello marino (Death Valley o Valle della Morte, −84 m.; lago Salton, −75 m.).
La zona degli altipiani interni è a sua volta fiancheggiata, verso O., da una duplice serie di catene, tra le quali si interpongono dei lunghi solchi longitudinali. Esse presentano di solito il versante occidentale, volto al Pacifico e battuto da venti umidi, rivestito di foreste e più in alto ammantato da nevi, e il versante orientale, rivolto agli altipiani, più arido e nudo. La Catena Costiera del Canada è continuata dalla cosiddetta Catena delle Cascate, non più costiera, ma distante dal mare 150-200 km. lunga un migliaio di chilometri e divisa in due sezioni dal fiume Columbia. Con un paesaggio di tipo schiettamente alpestre, ha cime imponenti, di solito vulcani spenti in epoca recente, come il Baker (3277 m.), il Rainier (4391 m.), lo Shasta (4374 m.) e il Lassen Peak (3188 m.), ancora attivo, anzi unico vulcano attivo, a quanto sembra, degli Stati Uniti. Il più breve tronco a S. della valle del Pitt River (Sacramento) si chiama Sierra Nevada: non molto elevata a N., cresce di altezza verso S., dove per circa 300 km. si presenta come una catena asserragliata, con forme alpine, picchi adergentisi oltre i 4000 m., fianchi precipiti, evidenti tracce glaciali e numerosi laghi. Massima elevazione il M. Whitney (4418 m.), che, superando di qualche decina di metri le più alte vette delle Rocciose, è la cima più elevata degli Stati Uniti. La catena alberga zone celebri per il carattere pittoresco: tra esse la valle dello Yosemite, decantata anche per la sua superba vegetazione.
Più vicina alla costa corre un'altra catena, continuazione di quella che nel Canada è spezzata nelle numerose isole litoranee, mentre qui fiancheggia la costa e merita perciò veramente il nome di Catena Costiera. Si inizia a N. con l'isolato, nevoso e impervio Olympus (2478 m.), continua poi a 30-40 km. dal mare, spezzata in molti tronchi dai tributarî del Pacifico, le cui foci sono talora affogate (Porta d'Oro), presentando solo a S. tratti elevatì oltre 3000 m. (Sierra de San Gabriel, alle spalle di Los Angeles), senza ghiacciai a causa della latitudine meridionale e del clima secco. Ancor più nudo e arido è l'aspetto delle sierre, che in continuazione della Catena Costiera percorrono la penisola della California, più vicine al Pacifico nel N. (Pico Santa Catalina, 3390 m.), scendenti ripide sul Golfo di California a S. (v. anche california).
Tra la Catena Costiera e i fasci della Catena delle Cascate e della Sierra Nevada s'interpone un solco longitudinale che si può considerare come la continuazione di quello che, sommerso nel Canada, separa dal continente la serie degli arcipelaghi costieri. Negli Stati Uniti esso si inizia col Pouget Sound, una complessa e ramificata valle fluviale affogata per ingressione del mare, continua verso S. segnato da un breve affluente di destra del Columbia, poi dal Willamette. Alle sorgenti di questo una soglia rilevata lo interrompe; ma in California esso riappare, nettamente indicato dalla valle del Sacramento e del S. Joaquin, formanti nell'insieme un corridoio vallivo lungo non meno di 600 km., antico golfo marino, colmato da detriti e alluvioni fluviali, oggi in gran parte ben coltivato, nonostante la scarsezza delle piogge, mercé la larga utilizzazione di falde acquee profonde.
La costa occidentale degli Stati Uniti è molto meno favorita dell'orientale, soprattutto perché le montagne a ridosso determinano difficoltà di accesso all'interno. D'altro lato manca il frastaglio che caratterizza le coste canadesi ed è quivi in relazione con la glaciazione quaternaria; per lunghi tratti il litorale è unito, piatto, importuoso. Le più notevoli insenature sono valli o sistemi di valli sommerse nelle parti più basse; tali il Pouget Sound, il Grays Harbour, l'estuario del Columbia, la magnifica "Porta d'Oro" che ha fatto la fortuna di S. Francisco, la San Diego Bay e altre minori. Come si vedrà in seguito, lo sviluppo dei porti maggiori è del tutto recente ed è collegato con la costruzione di vie rapide di comunicazione da oceano a oceano.
Clima. - Il clima degli Stati Uniti è influenzato dalla situazione geografica, dall'estensione in latitudine, dalla disposizione e dall'alternanza delle alte terre e delle pianure. Quanto alla latitudine, siamo già fuori dei climi tropicali, che pertanto mancano o si annunziano appena all'estremo S. La disposizione delle Cordigliere parallela alla costa pacifica, fa sì che gl'influssi oceanici da occidente non penetrano nell'interno, dove predominano perciò climi continentali; d'altro lato gli Appalachiani non sono abbastanza elevati per costituire una linea divisoria climatica, e pertanto non fanno da schermo ai paesi costieri contro le fredde influenze dell'interno; del resto essi corrono all'incirca paralleli alla direzione dei venti dominanti. Sulle Cordigliere occidentali il contrasto tra il lato pacifico umido e quello interno secco è notevolissimo; sugli Appalachiani è assai meno accentuato. L'influenza della Baia di Hudson, mare interno freddissimo, che penetra fino a 51° lat. N., si avverte ancora negli Stati Uniti centrosettentrionali, come nell'estremo lembo NE. del paese si avverte quella della fredda corrente del Labrador, le cui ramificazioni si spingono fino al Capo Hatteras. Per contro le coste atlantiche meridionali risentono alquanto l'influsso della Corrente del Golfo e anche i paesi che si affacciano al Golfo del Messico sono influenzati dalla massa di acque calde di questo mare interno, dove si determinano poi anche scambî di correnti aeree, a tipo monsonico, tra il continente e il mare. La costa sul Pacifico ha un tipico clima oceanico, con escursioni termiche stagionali relativamente leggiere; le benefiche influenze del Kuro shio non arrivano sulle coste degli Stati Uniti; anzi su quelle della California si manifesta, al contrario, l'influenza di acque fredde salienti dal profondo. Nell'interno degli Stati Uniti le escursioni termiche sono rilevanti, perché attraverso le vaste aree pianeggianti lo scambio di masse di aria calda e fredda non incontra ostacoli: da ciò anche le violenti e irregolari oscillazioni di temperatura, onde i valori medî che si dànno di solito per le varie stazioni hanno scarso significato. Nell'inverno, allorché si formano aree cicloniche al confine tra gli Stati Uniti e il Canada, con tendenza a spostarsi verso E., alle loro spalle si determinano ondate di freddo (cold waves) che penetrano verso S. fino al Golfo del Messico (northens nel Texas) segnalate da venti gelidi, che spesso arrecano gravi danni alle coltivazioni subtropicali. Nelle pianure settentrionali tali ondate sono spesso accompagnatc da forti nevicate (blizzards). Nell'estate sono frequenti invece, specie nei ripiani del S. e sulle coste atlantiche, le ondate di caldo, con venti di S. e SO., caldi e umidi, onde il rapido innalzarsi della temperatura e lo sgradito effetto dell'aria pregna di vapore, che non si attenua neppure di notte, perché l'abbondante umidità ostacola l'irradiazione. Sulle pianure che si affiancano alle Cordigliere e anche in California si avvertono invece spesso venti caldi, ma secchi, del tipo föhn, noti col nome di chinook.
Se si eccettui la sottile striscia lungo il Pacifico, ben innaffiata dalle piogge portate dai venti di O., per tutto il restante del paese i serbatoi di acqua sono il Golfo del Messico e l'Atlantico: perciò la quantità di pioggia normalmente decresce dal Golfo verso N. e dall'Atlantico verso O. Sulla costa del Pacifico le piogge prevalgono d'inverno; a E. delle Montagne Rocciose prevalgono invece nella stagione calda (primavera e prima estate). Più a E., verso l'Atlantico, si hanno piogge assai uniformemente distribuite tutto l'anno: nell'Atlantico meridionale e nella Florida si manifesta tuttavia un massimo nella tarda estate. Soltanto gli altipiani e i bacini intermontani delle alte terre occidentali hanno piogge insufficienti: quest'area a clima arido si affaccia poi fino sul mare nella parte settentrionale del Golfo di California, dove anzi si ha un tipico clima desertico. Il bassopiano costiero del Golfo del Messico e quello lungo l'Atlantico meridionale sono visitati da uragani, frequenti soprattutto in autunno, ma essi non penetrano molto nell'interno. Quivi, nelle vaste regioni pianeggianti, giungono invece, terribili per i disastri che arrecano, i tornados, caratteristici per la brevissima durata e la violenza inaudita: il tornado del 27 maggio 1896 a St Louis recò danni calcolati a 10 milioni di dollari e causò la perdita di oltre 300 vite umane. Nell'Illinois si sono verificati, tra il 1881 e il 1896, 79 tornados, cioè in media sei per anno.
In base alle caratteristiche ora esposte, si possono individuare almeno otto diverse regioni climatiche:
1. La regione nordappalachiana, che comprende la parte a N. della vallata del Hudson e a cavallo degli Appalachi, i quali non costituiscono una linea divisoria climatica; nella montagna si avverte tuttavia naturalmente l'influenza dell'altezza. Gl'inverni sono rigidi (con medie di gennaio da −1° a −4°), le estati calde (luglio 20°-23°), ma soprattutto caratteristica è d'inverno l'instabilità del tempo, a causa del brusco alternarsi di correnti aeree, onde i violenti salti giornalieri del termometro (fino a 20°-25°) e l'irrompere di ondate fredde anche in estate, assai dannose alle colture. La piovosità è ovunque abbondante (950-1200 mm.) e uniformemente distribuita in ogni stagione: nella prima estate si hanno spesso acquazzoni copiosi, mentre nell'autunno, che è in genere più secco, si hanno non di rado periodi di giornate chiare senza pioggia, designati col nome di "estate degl'Indiani". Negli stati della Nuova Inghilterra, dove tale fenomeno si manifesta più tipicamente, la credenza popolare ammette che ogni anno, in ottobre, si verifichi un simile periodo per un numero più o meno lungo di giorni.
2. La regione sudappalachiana, a S. del Hudson, che si distingue per le temperature invernali più alte (i°-10° in gennaio sulla costa) per quanto anche qui le ondate di freddo, con forti nevicate, non siano rare neppure in basso. In montagna il clima è più rigoroso: rapidi e violenti abbassamenti di temperatura, frequenti anche qui, provocano la formazione di gelate e brinate (silverthaw; mushfrost). La piovosità cresce, procedendo dalla costa verso le prime catene appalachiane, al cui piede orientale la quantità (fino a 2 m.) è maggiore che nell'interno stesso della montagna, dove non si arriva a m. 1,5. La distribuzione stagionale è anche qui assai uniforme, ma vi è la tendenza a un massimo estivo.
3. La regione dei tavolati orientali, con la parte meridionale del distretto dei Grandi Laghi e l'alto bacino del Mississippi. Qui il clima è fortemente continentale, con escursioni di 25°-33° ed estremi compresi fra +42° e −40°. Nell'inverno, a giorni con temperature primaverili succedono spesso bruscamente periodi con neve e freddo intenso. L'estate è, a prescindere da acquazzoni sovente ripetuti, piuttosto secca, anzi non di rado si verificano siccità assai dannose; frequente è il fenomeno dell'"estate degli Indiani". La piovosità diminuisce rapidamente da O. a E., cadendo da 1100 mm. a 600; i massimi si hanno nella tarda primavera e al principio dell'estate, condizione in complesso favorevole dal punto di vista agricolo. Sulle rive dei laghi, dove le grandi masse d'acqua mitigano gli estremi termici, si hanno condizioni particolarmente felici: le sponde meridionali formano oasi climatiche di tipo mediterraneo con ricca vegetazione meridionale (vigne, frutteti); nella penisola tra i laghi Michigan e Huron le temperature invernali sono perfino più alte che sull'Atlantico a pari latitudine.
4. La regione del Golfo, che abbraccia la fascia atlantica meridionale, la Florida e i bassopiani circostanti al Golfo del Messico. Le temperature sono qui già subtropicali, con inverni miti, talora interrotti da periodi freddi portati dai venti nordici (northerns). Solo a Key West il termometro non scende sotto zero. La piovosità, elevata sulla costa (1200-1700 mm.), diminuisce rapidamente verso l'interno ed è diversamente distribuita: gli stati atlantici del S. hanno il massimo nel colmo dell'estate, senza un periodo secco ben caratterizzato, mentre nella Florida l'inverno è asciutto e negli stati del Golfo il periodo meno piovoso è l'inizio della primavera. Gli uragani, provenienti dalle Antille, non sono rari.
5. La regione delle Praterie (all'incirca a O. del 95° meridiano), che ha clima assai uniforme, con estati molto calde, inverni rigorosi (escursioni fino a 35°), pur rilevandosi nettamente l'influenza della latitudine sulle temperature invernali, che rapidamente si elevano procedendo verso S. Le ondate di freddo sono terribili d'inverno, specie nel Dakota e in altri stati del N., che ne sono come il centro d'origine; esse sono accompagnate da blizzards. Le regioni basse, dove l'aria invernale stagna, sono in condizioni peggiori che quelle più elevate, verso il piede delle Montagne Rocciose. Durante l'estate, in genere calda, sono frequenti i venti bruciati di O. La piovosità è distribuita assai disformemente: tre quarti o quattro quinti della pioggia cadono tra aprile e settembre, condizione assai favorevole all'agricoltura e specie alla coltivazione dei cereali; ma tale condizione è attenuata dalle grandi oscillazioni da un anno all'altro e anche dal carattere violento delle piogge che cadono spesso sotto forma di acquazzoni copiosissimi; del resto la quantità diminuisce rapidamente verso O., di modo che nelle Praterie occidentali periodi di siccità della durata di più mesi non sono rari.
6. La regione delle Cordigliere, con gli altipiani e i bacini intermontani, fino alla cresta della Catena delle Cascate e della Sierra Nevada. È una regione a clima eccessivo, con fortissimi contrasti stagionali, specie nell'interno degli altipiani, mentre a grandi altezze l'andamento termico è più uniforme. Varia è la piovosità, sia per quantità, sia per distribuzione, con grandi oscillazioni da un anno all'altro.
Il versante orientale e le parti interne delle Montagne Rocciose hanno ancora piogge prevalenti in primavera e nella prima estate (con massimi in maggio e in giugno), mentre nei bacini e negli altipiani intermontani del N. prevalgono piogge invernali, con un massimo secondario in maggio e siccità estiva. Verso S. peraltro le piogge nella regione interna si rarefanno, acquistando il carattere di saltuarî violenti acquazzoni prevalentemente invernali.
7. La regione del Colorado, con i bacini interni dell'Arizona e della California meridionale, presenta, con un clima sempre caratterizzato da estati caldissime e inverni rigorosi, piovosità così scarsa e irregolarmente distribuita (in acquazzoni eccezionali), da assumere carattere desertico, come è attestato anche dalla povertà della vegetazione e dall'estrema penuria delle zone coltivate.
8. La regione del Pacifico, tra le creste della Catena delle Cascate e della Sierra Nevada e il mare. Per quanto essa si estenda notevolmente in latitudine, questo fattore ha importanza secondaria rispetto alla distanza dal mare e all'altitudine. A pari latitudine, gl'inverni sono molto più miti e le estati molto più fresche che sulla costa atlantica: il mese più caldo è l'agosto (talora perfino il settembre, come a S. Francisco), il più freddo è il febbraio: la nebbia è frequente sulla costa, anche d'estate. I contrasti termici stagionali si accentuano rapidamente procedendo verso l'interno. Le piogge cadono prevalentemente d'inverno (70-80% fra novembre e marzo); procedendo verso S., la quantità diminuisce in genere e si allunga il periodo della siccità estiva; ma alcune valli longitudinali dell'interno hanno pure scarsezza di piogge, cosicché la vegetazione assume carattere steppico. Si può distinguere una sottoregione di NO., con clima prettamente marittimo a estati fresche, e una sottoregione californiana con clima di tipo mediterraneo, piogge piuttosto scarse, nettamente concentrate d'inverno, lunga siccità estiva.
Caratteristiche idrografiche. - Se si prescinde dai tributarî del Lago Winnipeg - come il Red River, confine fra gli stati del Dakota Settentrionale e del Minnesota, il Souris River, che serpeggia nel Dakota Settentrionale, e altri minori - e ancora da piccoli tratti di alcuni corsi d'acqua che confluiscono nell'Oldham (South Saskatschewan), gli Stati Uniti non partecipano al bacino del Mare Artico e sue dipendenze; le loro acque vanno all'Atlantico e al Golfo del Messico da un lato, al Pacifico dall'altro, e lo spartiacque principale (main divide line) è costituito dalle Cordigliere. Queste si allontanano dal Pacifico molto più che nel Canada, consentendo così la formazione di notevoli bacini fluviali, come quelli del Columbia e del Colorado, che raccolgono parte delle acque dagli altipiani interni e dalle conche intermontane. Non bisogna tuttavia dimenticare che in questa regione occidentale vaste aree sono prive di scolo (circa 600.000 kmq. nel complesso), e che non mancano neppure regioni areiche (v. america, II, p. 851). Al bacino del San Lorenzo vanno solo le acque dello stato del Michigan e di alcuni lembi degli altri stati che si affacciano ai Grandi Laghi; cosicché in sostanza si hanno tre reti idrografiche principali: quella del Pacifico, quella che confluisce nel Mississippi e quella dei fiumi appalachiani.
Il regime dei tributarî del Pacifico è caratterizzato da grandi oscillazioni stagionali e da fortissime magre estive. Queste sono attenuate solo nella parte centrale delle Montagne Rocciose e nella Sierra Nevada, per effetto della fusione delle nevi e dei ghiacci; ma ciò nondimeno il Columbia ha variazioni medie di livello non inferiori a 18 m. a Dalles, a 11 a Portland, e il Colorado ha carattere del tutto torrentizio. I fiumi del Nuovo Messico e del Texas - compresi il corso superiore del Rio Grande e il Pecos suo affluente - sono tipici corsi d'acqua steppici con piene violente di brevissima durata, quasi privi d'acqua nella lunga stagione secca. L'irregolarità del regime e le amplissime oscillazioni stagionali caratterizzano anche i fiumi che formano il bacino del Mississippi, se si eccettuino i minori affluenti di sinistra della sezione inferiore provenienti dagli Appalachiani. L'Ohio normalmente ha acque alte in aprile, acque basse nel tardo autunno, talora anche nella tarda estate; l'amplitudine a Cincinnati raggiunge i 16 m.; terribili piene si verificano quando a piogge di violenza e durata eccezionali si associa la fusione delle nevi. Analogo carattere hanno gli affluenti provenienti dagli Appalachiani, la cui irregolarità si è piuttosto accentuata in seguito agli estesi diboscamenti. Il Mississippi superiore presenta oscillazioni meno rilevanti (acque alte in giugno; basse in dicembre); ma per contro sono estremamente irregolari quanto a regime tutti i tributarî provenienti dalle Praterie, a causa della distribuzione delle piogge a tipo continentale. Ciò vale soprattutto per il Missouri, l'Arkansas e il Red River, che hanno piene violente alla fine della primavera o all'inizio dell'estate e poi rapidamente calano fino a ridursi nella tarda estate a magri fili d'acqua. Nel Red River le piene sono rese particolarmente violente per i fenomeni d'intasatura prodotti dalle masse di legname galleggiante (rafts). Nel basso Mississippi la composizione dei varî regimi ha per risultato una condizione di relativo conguaglio, con acque alte in maggio-giugno, basse in ottobre-novembre; l'amplitudine media a New Orleans è di 5 m. circa. Ma talora la contemporaneità delle piene dell'Ohio e del Missouri, oppure l'occlusione degli affluenti di destra determinata dalla corrente principale già in stato di piena, determinano catastrofiche inondazioni in tutta la bassa pianura, nonostante le numerose e complesse opere di arginatura; ciò avvenne, ad es., nel 1897, nel 1912 e nel 1927 (v., per maggiori notizie, mississippi). Soltanto i fiumi appalachiani hanno un regime più regolare e una più definita successione dei periodi di piena e di magra; come conseguenza della più regolare distribuzione delle precipitazioni; la fusione delle nevi non ha invece influenza. Normalmente si hanno acque alte in primavera o all'inizio della estate, acque basse in autunno. Le oscillazioni stagionali tendono a crescere verso S., e si accentua anche la rapidità con la quale le piene conseguono ai periodi di più intensa piovosità, come avviene, a es., nella Florida, dove i fiumi sono in piena già nella tarda estate. Le inondazioni disastrose non sono rare, anche in conseguenza di sbarramenti determinati dal legname fluitato.
I fiumi appalachiani furono anche i primi a essere utilizzati sia per irrigazione, sia come vie navigabili. Poi si aggiunse l'utilizzazione della forza motrice sviluppata dai salti del Piedmont. Ma sotto tutti questi riguardi i fiumi del bacino del Mississippi hanno un'importanza di gran lunga superiore: eccellenti arterie navigabili facili ad allacciarsi fra loro attraverso le basse soglie displuviali; generosi alimentatori di derivazioni irrigatorie; ricche riserve di energia idraulica, anche se non dovunque finora sfruttate per l'ineguale sviluppo industriale delle regioni comprese nel bacino. Meno si prestano alla navigazione i tributarî del Pacifico, i quali invece, anche per condizioni morfologiche, presentano grandi possibilità per la creazione di bacini a scopo industriale e irrigatorio. Si veda, del resto, quanto su questi argomenti è detto più avanti.
Trasformazione del paesaggio naturale. - I primi coloni che si stabilirono tanto sulla costa atlantica quanto su quella pacifica degli Stati Uniti e i primi viaggiatori che si avventurarono a percorrere le regioni interne trovarono un aspetto del paesaggio profondamente diverso dall'attuale, soprattutto per quanto riguarda la fisionomia della vegetazione. È difficile ricostruire nei suoi particolari tale fisionomia; ma un'idea delle gigantesche trasformazioni intervenute in quattro secoli si potrà avere quando si dica che al principio del sec. XVI il bosco, nei suoi differenti tipi, copriva certamente più della metà del territorio degli attuali Stati Uniti. Esso era nettamente distinto in due aree: quella orientale, distesa come zona continua sulle coste atlantiche e del Golfo, dai confini col Canada al Mississippi, su tutta la regione appalachiana, l'intero versante sinistro del bacino del gran fiume e, a S., anche su buona parte del tronco inferiore dell'Arkansas e del Red River; quella occidentale, che ammantava tutte le catene, sia delle Rocciose, sia della serie più vicina al Pacifico. Tra le due aree, la zona interposta delle Praterie, poverissima di alberi per le già notate condizioni di clima. Oggi il bosco è scomparso per tre quarti. L'area orientale ha subito i più gravi danni, per essere stata oggetto di spietate distruzioni durate due secoli e mezzo e imposte dalla necessità di procurarsi materiale da costruzione e legna da ardere, e di conquistare spazî alle colture; ciò che rimane rappresenta assai meno di un decimo della superficie originaria, nonostante i tentativi di rimboschimento degli ultimi decennî. Nell'area occidentale il bosco è stato intaccato dall'uomo assai più tardi, e, per quanto in talune zone abbia subito danni assai gravi, tuttavia rimane ancora intatto a coprire le pendici più elevate di tutte le maggiori catene: oltre la metà è certamente conservata e oggi tutelata in larga misura per l'istituzione dei parchi nazionali.
Ma non bisogna dimenticare che non meno profonda trasformazione ha subito la regione centrale delle Praterie, occupata, prima dell'avvento degli Europei, quasi esclusivamente da vegetazione spontanea e ora ridotta a coltura. Anche qui l'aspetto originario della steppa si conserva solo nei Great Plains, semiaridi, ai piedi delle Montagne Rocciose, e nelle regioni desertiche di SO. Immutati, salvo nelle brevi aree acquisite all'agricoltura col sussidio dell'irrigazione, sono rimasti anche i bacini intermontani, soprattutto dove il terreno è costituito dalle dure corazze laviche ovvero è impregnato di sale.
Ma nel complesso gli Stati Uniti rappresentano certamente la più vasta superficie della terra nella quale l'uomo ha, nel solo corso dell'epoca moderna, operato le maggiori trasformazioni del paesaggio naturale.
Le regioni naturali. - In base alle caratteristiche morfologiche e climatiche che abbiamo descritte, si possono distinguere negli Stati Uniti alcune grandi regioni naturali, ciascuna delle quali, avendo un'estensione di solito notevolmente maggiore delle regioni che comunemente si distinguono nell'Europa occidentale, si può a sua volta suddividere in parecchie sottoregioni.
I. La regione appalachiana in senso largo comprende: a) la Nuova Inghilterra; b) i Monti Appalachiani veri e proprî; c) la Great Valley alla quale si può riconnettere a N. il solco Hudson-Champlain; d) il Piedmont; e) gli altipiani occidentali (Appalachian Plateaus); f) i Monti Adirondack.
II. La regione delle pianure costiere, che dalla Nuova Inghilterra si estende lungo l'Atlantico e il Golfo del Messico fino al Rio Grande del Norte, comprende: a) l'"Antico Sud"; b) la Florida; c) le pianure orientali del Golfo; d) la bassa valle del Mississippi; e) le pianure occidentali del Golfo.
III. La regione delle pianure centrali, dette comunemente Middle West, abbraccia: a) le Praterie vere e proprie; b) i rialti collinosi che si affacciano verso i Grandi Laghi; c) la regione dei monti Ouachita e Ozark; d) gli altipiani del Kentucky e del Tennessee.
IV. Sul meridiano di 95° e 100° O. corre all'incirca il limite morfologico tra la regione dei bassipiani e quella degli altipiani erbosi di O., e tale limite ha, come si è già veduto, anche un significato climatico. A O. di questo limite rimane la regione dei grandi piani (Great Plains) che si eleva verso le Montagne Rocciose.
V. La regione delle Montagne Rocciose comprende: a) una sezione settentrionale; b) una sezione meridionale, separate dalla larga breccia indicata dalle valli del North Platte e del Green River.
VI. La regione dei grandi bacini intermontani comprende: a) l'altipiano del Columbia; b) il Gran Bacino vero e proprio; c) gli altipiani del Colorado; d) gli altipiani desertici dell'Arizona e della Sonora con le bassure aride che si affacciano al Golfo di California.
VII. La regione del Pacifico comprende infine: a) la fascia di nord-ovest (a N. del Capo Mendocino); b) la California.
Lo schema di suddivisione qui esposto è reso evidente dalla cartina inserita sopra. Una divisione più sommaria, ma molto in uso anche nelle statistiche ufficiali, nella quale s'inquadrano a gruppi gli stati, distingue: a) la Nuova Inghilterra; b) il Medio Atlantico; c) il Sud Atlantico; d) il Centro NE.; e) il Centro NO.; f) il Centro SE.; .) il Centro SO.; h) la Montagna; i) il Pacifico. Per l'area di queste suddivisioni v. la tabella a p. 535.
Flora e vegetazione. - Il vastissimo territorio comprende due grandi categorie di formazioni: la regione del Nord, che comprende i dominî del Pacifico e del Canada presso la Baia di Hudson, e l'America media, che include il dominio californiano che va dalla Virginia alla Florida e due dominî interni a carattere xerofitico; di essi il più ricco è quello del Sud che comprende il Messico settentrionale e il Texas, mentre quello del Nord comprende le steppe del Missouri e delle Montagne Rocciose spingendosi fino al Canada.
La regione del Nord appartiene quasi totalmente al Canada: qui vi sono le formazioni artiche delle tundre che scendono fino ai fiordi del Labrador; qui abbondano le foreste che si spingono fino ai Grandi Laghi.
Nella vegetazione legnosa degli Stati Uniti vi sono 40 specie di querce; la Castanopsis chrysophylla è caratteristica dell'America occidentale e si spinge fino in California, la Castanea vesca invece dalle montagne della Carolina del Sud giunge fino all'Ohio, al Maine e al Michigan; nella Florida, nel Texas e in Pennsylvania cresce la C. pumila. Nelle foreste della zona settentrionale crescono: Fatsia horrida, le stesse specie (4) di Ericacee Vacciniee dell'Europa centrale e talune caratteristiche americane come: Andromeda polifolia, Lyonia calyculata, Cassiope, e altre forme arbustive. Nelle torbiere dei boschi e delle alte montagne si trovano Betula nana, Linnaea ed Empetrum. Le Montagne Rocciose forniscono gran numero di specie alpine, mescolate con piante artiche: associazioni simili s'osservano nei White Mountains nel New Hampshire presso l'Atlantico. Qui le formazioni glaciali appaiono a 1200 m. e si spingono fino alle sommità: Picea alba e Abies balsamea segnano i limiti degli alberi, le latifoglie arrivano fino a 600 m. Invece nei Monti Allegani i boschi giungono fino sulle cime.
La metà meridionale del dominio dell'America media è caratterizzata da foreste di Conifere e di latifoglie. Le Lauracee sono rappresentate da specie caducifoglie come il sassafras e il Feverbush; la Persea carolinensis a foglie persistenti si spinge fino alle paludi del Delaware.
Le specie di Gymnocladus, Gleditschia, Pavia, Liriodendron si avvicinano a forme delle contrade subtropicali più calde e si mostrano insieme con le Magnoliacee a foglie persistenti nelle zone più meridionali della regione di cui trattiamo. Grandi Ericacee (Andromeda, Leucothoë, Oxydendron arboreum) presentano tutti i passaggi dalle piante a foglie persistenti a quelle a foglie caduche.
La Quercus virens che ricorda la Q. sessiliflora dell'Europa meridionale è con l'Osmanthus americana la specie che si spinge più lontano: seguono il Pinus australis, alcune Magnolia e Gordonia e il Sabal palmetto che è il rappresentante più settentrionale della famiglia delle Palme.
La zona costiera del Pacifico è più povera e non possiede questi gruppi di piante d'origine arctoterziaria che si trovano tanto nell'Asia orientale quanto sulle coste atlantiche dell'America Settentrionale. Sono caratteristiche la Castanopsis chrysophylla e la Quercus chrysolepis: le palme flabelliformi Pritchardia (Washingtonia) sostituiscono il Sabal in questa zona pacifica. Le Conifere nella regione oregono-californiana sono rappresentate da Pseudotsuga Douglasii, dalle due Sequoia di cui la S. gigantea occupa un'area limitatissima, da Chamaecyparis nutkaënsis, Ch. Lawsoniana, Thuja gigantea, Libocedrus decurrens: vi sono anche talune specie endemiche di Abies, Tsuga, Pinus, Picea oltre ai Larix occidentalis e Lyallii, molto vicini alle specie congeneri del Nord. Attraverso vaste praterie si giunge a quella regione che va dall'est della Virginia alla Florida dove crescono: Taxodium distichum (che si trova fossile in certe località nel Terziario d'Europa), Chamaecyparis thyioides. Thuja occidentalis, Juni perus virginiana e parecchi pini.
Le foreste sono interrotte da vastissime steppe, deserti e pianure rivestite da Graminacee che stanno fra le Montagne Rocciose a ovest e il Missouri ad est spingendosi fino al Canada.
Al disotto del 35° e 37° lat. N. si vedono comparire nuove forme caratteristiche: Cereus giganteus dell'Arizona, Larrea mexicana che secerne una resina dalla quale emana un acuto odore di creosoto, tanto che la pianta si chiama "albero del creosoto", Prosopis, ecc. Le steppe desertiche delle Montagne Rocciose sono rivestite d'erbe vivaci grigiastre: Artemisia tridentata, Eurotia lanata, Sarcobatus vermiculatus, Atriplex, Suaeda. Si è preteso che le praterie del NE. siano dovute all'azione migratoria dei bisonti e agl'incendî annualmente appiccati dagl'Indiani: H. Mayr e O. Drude credono che gl'incendî abbiano contribuito a estenderle verso l'est.
Le piante coltivate dell'America Settentrionale provengono quasi tutte dall'antico continente: poche sono d'origine locale e talune, come la Zizania aquatica, certi Pinus per i semi e alcune querce per le ghiande vengono utilizzate nell'alimentazione degl'indigeni. Forse anche alcune specie di Phaseolus e il topinambour (Helianthus tuberosus) sono originarî di questa regione. La coltura dei cereali si spinge nel Canada a nord fino verso il circolo polare.
Le regioni di vegetazione del territorio nordamericano sono dodici, secondo O. Drude, e così distinte:
1. Regione dei Laghi - Rappresenta più della metà della regione forestale dell'America Settentrionale; qui vi sono Tsuga canadensis, Ulmus americana, Pinus strobus, Juglans nigra (questa è molto più abbondante nelle foreste del Mississippi), inoltre due specie di Fraxinus e Tilia americana. Nelle foreste di questi territorî crescono 14 conifere, 8 Quercus (alba, macrocarpa, bicolor, rubra, ecc.), 6 Betula, 1 Castanea, 2 Alnus, Fagus ferruginea, 2 Corylus, Ostrya virginica, Carpinus caroliniana, 14 Salix, 5 Populus, 2 Juglans, 4 Carya e Platanus occidentalis.
2. Regione costiera delle foreste della Columbia. - Sono caratteristiche Castanopsis chrysophylla e Pseudotsuga Douglasii; in questa regione crescono le gigantesche Araliacee note sotto il nome di "canne del diavolo" (Devil's walking stick), le Thuja excelsa e gigantea e la Picea sitchensis. La Ps. Douglasii comprende due forme distinte per la diversa resistenza al freddo. Nella Catena delle Cascate oltre la Pseudotsuga vi sono sulle cime e sul versante orientale: Picea sitchensis, Tsuga Mertensiana e Pattoniana, abeti argentei (Abies amabilis, grandis, nobilis); Pinus ponderosa, Lambertiana, monticola, contorta, albicaulis, Juniperus occidentalis caratterizzano le foreste montuose della regione seguente.
3. Regione forestale e della parte settentrionale delle Montagne Rocciose. - Gli alberi principali sono gli stessi della costa settentrionale del Pacifico, ma questo fatto non si può spiegare con uno scambio di piante fra i due territorî. Solo a est della Catena delle Cascate cominciano a predominare le specie delle Montagne Rocciose: tiene il primo posto il Pinus ponderosa; vi è anche la Rosacea Cercocarpus ledifolius, il cui legno prende il nome d'acajou di montagna.
Inoltre crescono nelle Montagne Rocciose: Juniperus virginiana e occidentalis, Abies concolor e subalpina, Pseudotsuga Douglasii, Picea Engelmanni e pungens; Pinus Balfouriana, contorta, edulis, flexilis, ponderosa mentre mancano completamente i generi Tsuga e Larix. Fra le Cupulifere: Betula occidentalis, Alnus incana, Quercus macrocarpa e undulata; Populus angulata, angustifolia, balsamifera, tremuloides; inoltre molti Salix, Acer granulidentatum e negundo, Ulmus americana, Celtis occidentalis, Fraxinus pubescens e viridis. Le foreste dei dintorni di Helena, nello stato di Montana, constano principalmente di pioppi e di salici: lungo i corsi d'acqua abbonda l'Eleagnacea Shepherdia argentea (buffaloberry), nelle parti basse delle montagne cresce Pinus ponderosa, mentre sui fianchi di esse si trovano Picea, abeti e Populus tremuloides e le sommità sono occupate da Pinus contorta e flexilis. Nel Colorado il limite altitudinale degli alberi sorpassa i 4000 m. s. m. e a quest'altezza si trova una zona d'alberi nani rappresentata dalle stesse specie di Conifere che a livelli inferiori sono grandi alberi. Secondo A. Gray e R. Hook le specie alpine di questa zona sono 184, delle quali 86 endemiehe, fra cui è caratteristico il genere Eriogonum.
4. Regione settentrionale delle praterie e foreste. - Occupa l'angolo settentrionale delle grandi steppe a Graminacee che s'estendono fra la regione dei Laghi e le Montagne Rocciose. Vi è una notevole mescolanza di elementi delle diverse flore, ma mancano completamente le specie del Pacifico. Gli alberi non sono molto numerosi specialmente sui fiumi Assiniboine e Saskatchewan: querce e frassini sono riuniti a gruppi; pioppi, olmi e salici sono più abbondanti, mentre la Betula papyracea e il Pinus Murrayana forniscono il legname da costruzione. La Rosa blanda e il Viburnum lentago formano macchie impenetrabili, ove il luppolo, l'Ampelopsis quinquefolia e la Vitis riparia sono le liane.
5. Regione delle praterie del Missouri.- È un vastissimo territorio steppico a Graminacee soggetto a un clima eccessivo con grandi freddi invernali (fino a −40°): le piogge, per quanto non abbondanti, permettono la coltura dei cereali su grandi estensioni. All'ovest delle Montagne Rocciose il clima è più secco e nella steppa le Graminacee sono sostituite da Artemisie e Salsolacee. A E. i boschi aumentano di estensione e di numero e dalle praterie gradualmente si passa alle foreste del Mississippi e a quelle del sud della regione dei Laghi. Sui fianchi delle montagne pini nani, alberi, arbusti alpestri e piante vivaci ricordano la flora e la vegetazione della terza regione.
Le Graminacee più frequenti delle praterie sono: Bouteloua oligostachya e Buchloë dactyloides che formano dal 70% al 90% della prateria: la prima si estende dagli stati di Montana e di Dakota al Texas ed è l'erba dei bufali, la Buchloë è più piccola ed è più diffusa. Fra le altre Graminacee si possono ricordare: Agropyrum glaucum, Andropogon virginicus e macrurus, Oryzopsis hymenoides, Stipa viridula e setigera, ecc. In primavera e in estate la prateria è sempre fiorita: prima i fiori d'Amorpha canescens, Bartsia, Castilleja, Pentstemon, Cypripedium candidum, poi quelli delle grandi erbe vivaci: Petalostemon, Baptisia, Phlox aristata, Asclepias tuberosa, Lilium canadense, Melanthium virginicum; alla fine dell'estate dominano le Composte dai grandi Helianthus all'umile Aster sericeus.
6. Regione delle steppe e dei deserti salati delle Montagne Rocciose. - Fra queste e la Catena delle Cascate e la Sierra Nevada negli stati di Montana, Wyoming, Colorado, Washington, Oregon e in California si stende una regione desertica di cui il Gran Lago Salato costituisce all'incirca il centro. Tale territorio si è voluto riunire all'Arizona col nome di deserto dell'America Settentrionale", ma non è esclusivamente desertico e vi è notevole differenza fra la zona settentrionale e quella meridionale nei riguardi della vegetazione. Abbondano piante xerofile o alofile di apetto colonnare, sole o in gruppi: all'infuori dei terreni salati, che sono piuttosto limitati, la vegetazione non manca completamente. Nei terreni salati vi sono Sarcobatus a piccoli gruppi; man mano che il suolo migliora si trovano: Suaeda, Salicornia herbacea, Kochia prostrata, Eurotia lanata, Graya polygaloides, Schoberia occidentalis, Atriplex e parecchie Salsolacee. Fra le Graminacee si ricordano: Distichlis maritima, Spartina gracilis, Sporobolus asperifolius; fra gli alberi salici e pioppi (Populus monilifera e trichocarpa); fra i cespugli Artemisia tridentata il cui sviluppo va da 30 a 360 cm. d'altezza; a queste si aggiungono altre Artemisia più umili, poi Bigelowia graveolens e Tetradymia canescens. La flora desertica comprende più di 300 specie, delle quali un terzo sono endemiche.
7. Depressione californiana e regione delle montagne boscose e alte catene della California. - Comprende il versante pacifico della Catena delle Cascate e la Sierra Nevada; ha una flora ricca di molti generi e specie endemiche. A sud del 40° lat. N. le foreste della costa del Pacifico cambiano aspetto e specie meridionali sostituiscono la Picea sitchensis, Tsuga Mertensiana, Thuja gigantea: appare il Pinus Lambertiana e la Lauracea Umbellularia californica riveste le vallate dei fiumi.
Il limite delle due regioni è segnato da Chamaecyparis Lawsonians. Fra la Sierra Nevada e il Coast Range vi sono steppe cespugliate, praterie a Graminacee assai fertili di carattere subtropicale e qua e là vi è il Cypressus macrocarpa che manca nella California settentrionale. Qui crescono le due Sequoia (S. gigantea o albero del Mammut e S. sempervirens o Redwood); nella regione delle alte montagne vivono numerose forme alpine endemiche e specie artiche come Saxifraga nivalis, caespitosa, oppositifolia. Le specie endemiche appartengono ai generi Cymopterus, Eriogonum e Ivesia.
8. Regione delle foreste a fogliazione estiva del bacino del Missouri. - È intermedia fra le foreste del dominio atlantico dei Laghi e le foreste e cespugli a foglie. persistenti degli stati del Sud presso l'Atlantico. Sono numerose le Conifere, ma abbondano le Dicotiledoni latifoglie con i generi Juglans (nigra e cinerea), Carya (con 7 specie, di cui le più importanti sono: alba, amara, glabra e tomentosa), Quercus (con 18 specie: alba, macrocarpa, nigra, palustris, prinus, rubra, ecc.); le querce a foglie persistenti (cinerea e virens) arrivano nella zona meridionale della regione sotto forma d'arbusti nani. In questi territorî è originaria la Maclura aurantiaca e crescono alcune Magnolie e il Liriodendron tulipifera.
9. Regione del Sud presso l'Atlantico con piante legnose a foglie persistenti. - Comprende tutto il sud-est degli Stati Uniti ad eccezione della parte più meridionale nella quale crescono piante delle Antille, che conferiscono alla vegetazione della Florida un certo carattere tropicale. Vi sono piante a foglie persistenti come: Quercus virens, Sabal palmetto, Pinus australis; le Magnoliacee sono rappresentate da 7 Magnolia, Illicium, Liriodendron; le Anonacee dal genere Asimina e al N. della Florida da Clethra; le Ericacee da alcune Andromeda, Rhododendron maximum, 4 Gaylussacia, Vaccinium arboreum che è un albero alto fino a 5 m., Leucothoë, Oxydendron arboreum. Le Stiracacee ricordano quelle dell'Africa orientale; nella Florida crescono Canella flava, Simaruba glauca, Bursera gummifera, ecc., che sono specie delle Antille.
10. Regione delle steppe e deserti dell'Arizona.
11. Regione dei Chaparals del Texas e del Messico settentrionale: queste regioni hanno tratti comuni; piante delle steppe subtropicali (Agave, Dasylirion, Yucca, Prosopis juliflora, ecc.) crescono nei due territorî. Ma il Texas è coperto da praterie e da quegli arbusti spinosi detti Chaparals, mentre l'Arizona e il Messico settentrionale hanno aspetto steppico che raggiunge il massimo nelle zone desertiche di Mohawe e di Gila a SE. della California. La pianta più caratteristica di questa regione è la Zigofillacea Larrea mexicana; poi vi sono: Cereus giganteus alto da 6 a 15 m., Fouguiera, Agave Palmeri e Parryi, la Rosacea Canatia, Leguminose dei generi Acacia, Mimosa, Astragalus, Composte frutescenti (Baccharis, Pluchea borealis), Yucca brevifolia con individui alti 5-10 m. Nel Texas invece i cespugli sono più varî e meno spinosi: Juglans nana, Morus parvifolia, Aesculus discolor, Prunus rivularis, Cercis occidentalis: le Cactacee sono rappresentate da cespugli di Opuntia, da Echinocactus e Mamillaria. Nel Texas orientale si osservano nelle praterie alberi della zona atlantica: è molto sviluppata la Yucca canaliculata.
12. Regione delle foreste montane del Messico settentrionale. - Tale regione viene ricordata per il necessario collegamento della vegetazione degli Stati Uniti con quella del Messico, perché è nettamente messicana: sui pendii delle montagne crescono querce, nelle vallate cipressi e, ad altezze superiori ai 1800 m., pini. La Quercus Emoryi si estende dal Nord del Messico fino alle provincie messicane del centro.
Fauna. - È molto interessante e appartiene per la maggior parte della sua estensione alla regione sonorana. Tra i Mammiferi, il bisonte è una delle forme più caratteristiche della regione: abitava un tempo le grandi praterie dell'interno degli Stati Uniti, si diffuse poi sia verso il delta del Mississippi a sud sia verso nord. L'attiva caccia mossa al bisonte americano ha sempre più ridotto il numero di questi grossi mammiferi che ora sono protetti da speciali leggi di caccia. Interessanti sono il cervo della Virginia e il cervo dalle lunghe orecchie delle Montagne Rocciose. Citeremo inoltre l'antilope americana, lo scoiattolo della Carolina, la marmotta a ventre flavo, lo spermofilo lineato, il cane delle praterie delle aride contrade delle Montagne Rocciose, il castoro rosso della Sierra. Varî hamster e neosomi oltre ai geomidi o topi dalle borse sono variamente diffusi nella regione. Fra i Carnivori citeremo il puma, varie linci, il lupo urlante, la volpe della Virginia, l'orso americano, varî procioni, il tasso americano, varie martore. Tra gl'Insettivori noteremo varî toporagni, la talpa americana. Infine i Chirotteri sono rappresentati da varie forme tra le quali l'orecchione americano e il pipistrello della California. Notevole è la presenza dell'opossum, l'unico Marsupiale che attualmente viva nella regione dell'Artogea.
Riccamente rappresentata è l'avifauna, con forme comuni generalmente sia alla regione occidentale Olartica sia alla Neogea. Citeremo il succiacapre della Virginia, qualche Trochilus, qualche pappagallo (Conurus), l'averla americana, il gufo della Virginia, il falco americano e infine il condor della California.
Fra i Rettili citeremo la testuggine americana comune nei fiumi del Texas, la testuggine cornuta, notevole la presenza del caimano, un alligatore frequente nei fiumi del sud degli Stati Uniti. Noteremo inoltre varie specie di agame, dall'aspetto tozzo e dalla pelle irta di punte, numerosi Ofidî dei generi Crotalus, Trigonocephalus, ecc. Interessanti le forme di Anfibî delle quall'citeremo: il Siredon lacertina della Carolina, l'Amblystoma, l'Amphiuma della Florida, oltre a varî Anuri, soprattutto rane. Tra i Pesci d'acqua dolce è interessante la presenza di un ganoide: l'Amia calva dei fiumi della Carolina. Ricchissima è la fauna degl'Invertebrati specialmente dei Molluschi terrestri e degl'Insetti.
Condizioni demografiche. - Nel campo demografico gli Stati Uniti presentano grande interesse per la varietà e la vastità dei fenomeni. I contrasti tra i singoli gruppi di stati sono profondi: così, nei riguardi della superficie territoriale, si va dalle cifre più basse proprie della Nuova Inghilterra (28.666 kmq.), attraverso i valori intermedî del Medio Atlantico, del Sud Atlantico e del Centro NE. e SE. (tutti fra 85 e 130.000 kmq.), alle alte cifre degli stati sulla sponda destra del Mississippi, della Montagna e del Pacifico (da 192.000 a 283.500 kmq.). La relazione inversa fra antichità di colonizzazione ed estensione territoriale degli stati non potrebbe essere più significativa: fenomeno che s'incontra anche in tutte le confederazioni sudamericane. Sono gli stati di più antica valorizzazione politica ed economica quelli che presentano le minori superficie.
Uguale contrasto, ma inverso, si nota nei riguardi del numero degli abitanti: su un totale di 122,8 milioni (1930; 128,4 milioni nel 1936), oltre il 60% vive negli stati atlantici e della zona dei Grandi Laghi (Centro NE.), che come superficie rappresentano appena il 23% del totale; spopolata si presenta la Montagna e in genere tutta la zona di recente colonizzazione. Come valore assoluto stanno alla testa gli stati del Medio Atlantico (8,7 milioni di ab. per stato), seguiti da quelli del Centro NE. (5 milioni): i valori minimi sono offerti da quelli intensamente agricoli del Sud Atlantico (1,7); del Centro NO. (1,9), ma soprattutto dalla Montagna, con un valore assoluto che non giunge ancora oggi al mezzo milione (462.000).
Ma è soprattutto la densità di popolazione che mette meglio in evidenza, con gli enormi squilibrî delle cifre, le profonde differenze che passano tra parte e parte. Accanto al valore medio di 15,7 ab. per kmq., stanno gli stati della Nuova Inghilterra e del Medio Atlantico, con i valori più alti (47,4; 98,9), seguiti a breve distanza da quelli dei Grandi Laghi e del bacino dell'Ohio (39,3). È la zona tipicamente industriale, la meglio fornita di mezzi di comunicazione, dove fervono le industrie minerarie (carbone e petrolio), dell'altoforno, le meccaniche, tessili, chimiche, dove maggiore si presenta l'addensamento umano in grossi agglomerati urbani. Le zone intensamente agricole del NO., del Sud, dell'Atlantico Meridionale hanno valori modesti, ma anche a tale riguardo si nota il progressivo diminuire della densitâ a mano a mano che si procede verso il Far West, il lontano occidente dei primi colonizzatori: stati dell'Atlantico Meridionale, 21,6 ab. per kmq.; stati del Centro SE., 21; del Centro SO., 10,7; del Centro NO., 9,8. La Montagna ha nel complesso 1,7 ab. per kmq.: le condizioni morfologiche e climatiche in gran parte negative si riflettono molto bene nell'addensamento umano, con i valori bassissimi, i più modesti di tutta l'Unione, dello Wyoming (0,9), e del Nevada (0,3). La zona costiera del Pacifico si mantiene ancor oggi poco popolata: (9,7 ab. per kmq.): eccelle la California (13,8), che vede moltiplicarsi la sua popolazione non soltanto per le ottime condizioni dell'agricoltura (clima mediterraneo), ma anche e soprattutto per lo sfruttamento minerario.
Nel complesso adunque l'Unione, nonostante i suoi 122 milioni di abitanti, cifra che la pone al 4° posto tra i grandi paesi della Terra, dopo la Cina (456 milioni), l'India (353), l'U. R. S. S. (166), è un paese ancora oggi poco popolato, anche se il formidabile flusso immigratorio ha recato di conseguenza un aumento straordinario della popolazione.
La densità demografica negli Stati Uniti è soprattutto in diretta dipendenza di cause di ordine economico. All'industria e al conseguente fenomeno dell'urbanesimo si devono le alte cifre di densità delle contee degli stati del Massachusetts, del Rhode Island, del Connecticut, degli stati del Medio Atlantico e di molti fra quelli che si affacciano al mediterraneo lacustre: quivi veramente le zone fittamente popolate (con più di 100 ab. per kmq.) presentano una soluzione di continuità, interessando le contee marittime, ove sono sorte le metropoli di Boston, New York, Filadelfia (e alcune di queste presentano densità di migliaia di abitanti, come quelle di New York, ove si estende il Borough di Manhattan con ben 36.000 ab. per kmq. nel 1930), i bacini fluviali del Hudson, del Delaware, del Susquehanna, dell'alto Ohio, dove le condizioni morfologiche avverse sono state vinte dalla presenza di grandi arterie naturali, di giacimenti carboniferi e petroliferi e dove di conseguenza si è potuta sviluppare una formidabile industria, sopra tutto siderurgica e meccanica, che ha in Pittsburgh il suo centro di fama mondiale; e tale zona di alta densità si continua anche negli stati del Centro NE., soprattutto là dove fortunate condizioni ambientali ed economiche hanno fatto sorgere e sviluppare poderosi agglomerati urbani, da Buffalo a Milwaukee. Procedendo verso ovest, le densità superiori ai 100 ab. rispecchiano zone limitate, vere e proprie oasi, dove sono sorte grandi città: questo è il caso delle aree fittamente popolate del bacino del Mississippi e dei suoi affluenti di destra, delle Montagne Rocciose e della zona del Pacifico, limitate alle contee dei grandi centri interni di Minneapolis, San Paolo, Omaha, Saint Louis, Dallas, New Orleans, Denver, Città del Lago Salato e delle metropoli del Pacifico, per citare soltanto gli esempî più significativi. Densità sempre minori si riscontrano in tutte le zone intensamente agricole, a mano a mano che si procede verso ovest, entrando nel bacino del Mississippi, risalendo i fianchi orientali delle Rocciose: esiste al riguardo una coincidenza quasi perfetta tra addensamento umano e condizioni climatiche, poiché a ovest del 97° meridiano, entrando nella regione arida dell'Unione, la densità si porta a meno di 10 ab. per kmq., riducendosi a meno di 1 nelle regioni più ingrate delle Rocciose e degli altipiani interposti, dove soltanto l'irrigazione a oasi e le risorse minerarie riescono a costellare l'immensa plaga semispopolata con piccole zone di più alta densità.
Popolata con correnti immigratorie, che per grandiosità e importanza non trovano riscontro altrove nella storia dell'umanità, l'Unione si presenta ancora oggi come un gigantesco crogiuolo, dove vengono a contatto, variamente fondendosi e metamorfizzandosi, le stirpi, si può dire, di tutta la Terra. Uno sguardo sintetico alle condizioni etniche attuali ci fa comprendere l'entità del fenomeno. Secondo il censimento del 1930, su un totale di circa 123 milioni d'individui, quasi 109 risultavano Bianchi (88,7%); 11,9 Negri (9,7°6) e 2 erano costituiti da elementi di altre razze quali Indiani, Cinesi, Giapponesi, Messicani (1,6%).
L'elemento bianco è adunque il predominante, ma si notano nella sua distribuzione differenze profonde tra parte e parte dell'Unione: costituisce la quasi totalità della popolazione negli stati della Nuova Inghilterra (98,8%) col massimo del New Hampshire (99,8%), del Medio Atlantico (95,9%; massimo di New York con 96,5%), in tutto il bacino settentrionale del Mississippi (Centro NE. con il 96%; Centro NO. con 96,8%; massimo dello Iowa con 99,1%), nelle Rocciose e negli stati del Pacifico (89,2% e 91,5% rispettivamente; il valore massimo è offerto dall'Idaho con 98,3%). Valori molto bassi sono offerti dagli stati meridionali dell'Unione (Sud Atlantico 71,9%; Centro SE. 73,1%; Centro SO. 74,7%; valore massimo della Virginia Occidentale con 93,3%; minimo del Mississippi con 49,6%). Quivi, accanto all'elemento bianco, vive, frutto di particolari esigenze storiche e soprattutto climatiche ed economiche, quello negro (per il quale v. sotto). A questo si deve aggiungere per il 1930 l'elemento messicano, che è diffuso maggiormente nel Texas, nell'Arizona e in California, negli stati, quindi, confinanti con il Messico.
Questa formidabile massa di Bianchi si è venuta stanziando nell'Unione a partire dal sec. XVI, scrivendo una delle pagine più interessanti della storia dell'umanità. È naturale quindi e molto opportuna la ripartizione, fatta dai censimenti, dei Bianchi in nati da genitori indigeni, da genitori parzialmente e totalmente stranieri, e in nati all'estero: il prevalere nei singoli stati e nelle divisioni geografiche dell'una o dell'altra categoria ci mostra chiaramente l'intensità del fenomeno immigratorio e l'antichità del fenomeno stesso.
Nel 1930, su di un totale di circa 109 milioni di Bianchi, oltre 70 milioni (64,4%) risultavano nati da genitori indigeni; 25,4 milioni (23,3%) da genitori parzialmente e totalmente stranieri; 13,4 milioni (12,3%) nati all'estero. Sono proprio gli stati nord-orientali, teatro di un'importante innovazione, quelli che presentano le cifre più basse di veri Americani: Nuova Inghilterra 39,3%; Medio Atlantico 45,5%; gli stati tipicamente industriali accusano meno di un terzo di popolazione nata sul suolo patrio, come, ad es., lo stato di New York con 36,8% e quello di Rhode Island con 31,2%, la cifra percentuale più bassa di tutta l'Unione. Naturalmente la proporzione va aumentando a mano a mano che si procede verso sud o verso occidente, entrando negli stati tipicamente agricoli, di più antica penetrazione, o dove il fenomeno immigratorio esterno è stato meno intenso. Gli alti valori tornano a diminuire, procedendo verso gli stati delle Rocciose e del Pacifico, dove il fenomeno immigratorio dall'Europa e dall'Asia è stato una delle cause prime del loro popolamento e del magnifico sviluppo. Distribuzione inversa presentano invece le cifre relative ai nati da genitori parzialmente e totalmente stranieri e ai nati all'estero, nel senso che sono proprio gli stati del NE. quelli che accusano le più alte cifre proporzionali (lo stato di New York ancora nel 1930 presentava oltre ¼ dell'intera popolazione nata all'estero), come quelli che son stati teatro di una fortissima corrente immigratoria dall'Europa, mentre quelli del sud avvertono un nucleo di elementi nati all'estero molto esiguo, che per molti si riduce a meno dell'1%. Gli stati della Montagna e soprattutto quelli del Pacifico avvertono, invece, cospicui nuclei di elementi immigrati (16,1%, negli stati di Washington e di California) senza per altro uguagliare le altissime cifre della Nuova Inghilterra e del Medio Atlantico.
Si vengono così a delineare a grandi tratti le zone di maggiore influsso immigratorio. Già osservando i dati della tabella, relativi ai censimenti 1900 e 1930, si avverte per tutte le divisioni geografiche un aumento della popolazione indigena a scapito di quella immigrata, ad eccezione della Nuova Inghilterra e del Medio Atlantico, che nel trentennio considerato vedono invece aumentare la compagine dell'elemento straniero, frutto di quelle correnti immigratorie dall'Europa, che raggiunsero le proporzioni più grandiose nel decennio 1900-1910.
Immigrazione. - Il fenomeno immigratorio occupa quindi un posto di primissimo ordine tra le cause del popolamento dell'Unione. Esso ha assunto nel vario volgere dei secoli aspetti e intensità molteplici. Quanto cammino dall'epoca delle prime colonizzazioni bianche, punti sperduti nell'immensità della terra vergine, ché ben sparuti e dispersi erano i nuclei degli aborigeni, che dovevano fatalmerite essere sommersi dalla marcia inesorabile degli invasori! Il primo stanziamento stabile da parte dei Bianchi rimonta al 1607, quando 107 Inglesi piantavano sulle rive del James nella Baia di Chesapeake il primo germe della futura grandezza; nel corso dei secoli XVII-XVIII il richiamo di elementi anglosassoni si fa sempre più intenso, dalle coste della Nuova Inghilterra a quelle della Georgia; si fondano le prime città, che dovranno divenire le metropoli della futura Unione, si fondano e si delimitano le prime colonie: alla fine del sec. XVII nell'immensa fascia guardata a E. dall'Atlantico e a O. dai selvosi Appalachiani, vivevano in nuclei, ben lontani ancora dal presentare una qualche continuità, già 225.000 individui. E nel corso dei successivi decennî la marea umana inizia la marcia verso occidente, valica l'ostacolo delle catene, si affaccia nel bacino del Mississippi, dando luogo a una stabile colonizzazione. Il primo censimento dell'Unione (1790), dopo la vittoriosa conquista dell'indipendenza, dà già un totale di 3.929.214 ab. Ma nel corso del sec. XIX e nei primi decennî del XX, ampliati enormemente i confini politici sino a raggiungere a sud il Golfo del Messico e a occidente il Pacifico, la corrente immigratoria assume proporzioni gigantesche, accompagnandosi di pari passo con il progredire della colonizzazione e lo sviluppo industriale. Le statistiche al riguardo parlano un linguaggio veramente significativo: dal 1821 al 1930 sono ben 38 milioni di individui, che da ogni parte del mondo sbarcano sul suolo americano.
Dai 143.439 immigrati nel decennio 1821-30 si balza nel periodo 1851-60 a 2.598.214, a 5.246.613 negli anni 1881-90 e si tocca il massimo, non più raggiunto, di 8.795.386 nel 1901-10. Nel decennio successivo si scende a 5.735.811; nel periodo 1921-1930 a 4.107.209. Su tanta massa l'Europa ha il prevalere assoluto, poiché l'85% degl'immigrati su suolo americano nel periodo 1841-1930 proviene dagli stati europei; soltanto negli ultimi decennî di questo periodo la partecipazione dell'Europa scende al disotto di tale cifra (60% nel decennio 1921-31).
Emergono alcuni stati per la cospicua massa di emigrati sul suolo americano: su di un totale europeo di 31.674.150 individui, partiti per il nuovo mondo nel periodo 1841-1930, Regno Unito, Germania, Russia, Polonia, Austria-Ungheria prebellica (e gli stati successori della monarchia), Italia, concorrono con una massa di quasi 27 milioni (84%). Il fenomeno è assai vario per intensità e durata. Occupa il primo posto il Regno Unito con 8.439.645 individui emigrati: l'emigrazione inglese tocca i suoi più alti valori nel corso del sec. XIX, dal 1841 al 1890, con quasi 5,9 milioni di partiti. Nel sec. XX la partecipazione del Regno Unito si fa molto meno sensibile. Ma non è la Gran Bretagna quella che offre il maggior contingente, bensì la piccola e molto meno popolata Irlanda, che vede il suo strato demografico rarefarsi, dimezzarsi per le tristissime condizioni economiche della patria, vessata dalla prepotenza inglese: nel periodo 1841-1930 abbandonano l'isola madre circa 4,3 milioni d'Irlandesi, pari al 50% del totale inglese emigrato. Accanto all'emigrazione del Regno Unito sta quella della Germania con un complesso di 5.747.710 individui: come per la precedente, così anche per quella tedesca si avverte il netto prevalere del sec. XIX, con i valori massimi nel trentennio 1860-90. Alla fine del secolo XIX e all'aprirsi del XX si viene operando una profonda trasformazione: l'emigrazione degli stati anglosassoni viene soverchiata di gran lunga da quella degli stati slavi e neolatini. L'Europa orientale danubio-carpatica e mediterranea rovescia sul suolo americano un'ingentissima massa di lavoratori: nel solo decennio 1901-1910, oltre 2 milioni d'individui pervengono dalla monarchia austro-ungarica, 2 milioni dall'Italia (in nettissima prevalenza dalle provincie meridionali e insulari), 1.600.000 dalla Russia, ivi compresa anche la Polonia. E tale vastissimo movimento continua ancora nel periodo 1911-1915. In questi ultimi decennî si affaccia anche il resto dell'America come continente di larga emigrazione verso gli Stati Uniti. L'ubicazione degli elementi immigrati è nel complesso semplice e ubbidisce a ferree leggi geografiche ed economiche. Nel 1930 l'elemento inglese e irlandese nato all'estero risultava per il 75% concentrato negli stati della Nuova Inghilterra, Medio Atlantico e Centro NE.; circa il 70% dei Tedeschi nati in patria è localizzato nel Centro NE. e nel Medio Atlantico; uguale distribuzione presentano Polacchi e Russi, mentre gl'Italiani per circa il 60% vivono concentrati negli stati del Medio Atlantico, soprattutto nello stato di New York; i Canadesi, invece, per oltre il 60% sono negli stati della Nuova Inghilterra e del Centro NE., a contatto quindi con la patria d'origine.
Il secondo elemento etnico fondamentale della compagine demografica dell'Unione sono i Negri. Importati come schiavi sin dal sec. XVII per lavorare nelle piantagioni delle colonie meridionali, per ovvie ragioni di clima e di carattere demografico (scarsità della mano d'opera bianca; la poca o nulla adattabilità degl'indigeni ai lavori agricoli), essi vanno aumentando di numero, tanto che nella seconda metà del sec. XVIII assommano già a 300.000; e nuovo e più potente richiamo di mano d'opera negra scaturisce dal rapido propagarsi della coltura del cotone alla fine del sec. XVIII con l'invenzione della macchina sgranatrice. Soltanto nel 1865 la schiavitù viene abolita in tutto il territorio degli Stati Uniti: ma pochi sono i Negri che abbandonano la loro patria bene o male acquisita; i più rimangono come liberi lavoratori sul suolo americano. Il loro numero si è fatto cospicuo. Il censimento del 1870 dà 5.410.000 Negri (12,7% di tutta la popolazione dell'Unione), che salgono a 8.834.000 nel 1900 (11,6%), a 10.463.131 nel 1920 (9,9%), a 11.891.143 nel 1930 (9,7%). La loro distribuzione è quanto mai interessante: sono gli stati del Sud quelli che comprendono la maggior quantità di Negri, con i valori massimi (1930) del Sud Atlantico (28%; Carolina del Sud 45,6%), del Centro SE. (26,9%; Mississippi col massimo nazionale del 50,2%), del Centro SO. (18,7%; Luisiana 36,9%). Ma col volgere degli anni assistiamo a un fenomeno molto interessante. Mentre negli stati del Sud la compagine negra cede di fronte all'aumento della popolazione bianca, nel Nord si avverte un continuo aumento dell'elemento di colore.
Attualmente, secondo le ricerche degli antropologi, la maggioranza dell'elemento negro è costituita da sanguemisti e la proporzione di sangue bianco tende ad aumentare sensibilmente di generazione in generazione.
Gli altri elementi etnici hanno scarso valore numerico: in tutto, l'1,6% dell'intera popolazione nel 1930, incluso anche l'elemento messicano.
Rappresentata sul suolo americano è anche la razza gialla con i Cinesi e i Giapponesi, immigrati a più riprese dalle sponde opposte del Pacifico. Richiamati dalla scoperta dell'oro californiano, vennero numerosi i Cinesi, che piantarono la loro dimora soprattutto in California; colpiti da numerose leggi restrittive, essi sono andati diminuendo di numero, dal massimo di 107.488, quanti ne contò il censimento del 1890, a 74.954 nel 1930.
Molto meglio organizzata è stata l'immigrazione dei Giapponesi: 148 nel 1880, 24.328 nel 1900, 111.010 nel 1920, 138.834 nel 1930. Lavoratori e commercianti abilissimi, essi rappresentarono subito un serio pericolo di concorrenza per gli elementi bianchi degli stati del Pacifico, dove presero stabile dimora (97.456 nella California, 17.837 nello stato di Washington). Le leggi del 1924, emanate dal governo federale, hanno proibito interamente l'immigrazione gialla sul suolo americano.
Col 1930 si è aggiunto anche tra gli elementi di colore quello messicano, forte di 1.422.533 individui, sparsi soprattutto negli stati confinanti con la confederazione del Messico, con i valori più alti del Colorado, Nuovo Messico, Arizona, California e Texas.
Sparuta, al confronto, la sopravvivenza delle stirpi precolombiane: il censimento del 1930 dava presenti nell'Unione 332.397 Indiani, sparsi in tutti gli stati della confederazionc, ma con netta prevalenza del Centro NO., del Centro SO., della Montagna e del Pacifico: il valore massimo è tenuto dallo stato di Oklahoma con 92.725 Indiani.
Di fronte a una simile corrente immigratoria, è naturale che nell'Unione la percentuale dei nati all'estero (tanto bianchi, quanto di colore) si presenti sempre molto cospicua. Era del 9,7% secondo il censimento del 1850, sale al 14,7% nel 1890 e 1910, per ridursi progressivamente al 13,2% nel 1920, all'11,6% nel 1930. Le singole divisioni geografiche si comportano in maniera notevolmente differente: le regioni intensamente agricole del bacino del Mississippi, del Basso Atlantico, la Montagna e in parte anche la costa pacifica avvertono le maggiori percentuali dei nati all'estero nel sec. XIX, soprattutto nel quarantennio 1860-1900, epoca in cui la marcia della colonizzazione scrisse le sue pagine più eroiche, richiamando per ragioni tanto agricole quanto e soprattutto minerarie (Montagna e Pacifico) un'ingente massa di lavoratori. Con il sec. XX tale percentuale diminuisce notevolmente. Di fronte a questi stati stanno quelli del Medio Atlantico, della Nuova Inghilterra. Non soltanto queste divisioni geografiche presentano i maggiori valori percentuali di elemento straniero, segno quindi di una continua immigrazione dall'estero, ma sono quelle che avvertono nei primi decennî del sec. XX un aumento dei nati all'estero, fatto questo che coincide con il maggior flusso immigratorio dall'Europa mediterranea, danubio-carpatica e orientale.
Effetto di una così grande massa immigrante è l'aumento straordinario della popolazione degli Stati Uniti, quale risulta dalle cifre dei censimenti decennali, a partire dal 1790, aumento che per grandiosità non ha riscontro sulla superficie della Terra. Erano 3,93 milioni di abitanti nel 1790; si sale a 5,3 nel 1800: in cinquant'anni quasi si quintuplicano, salendo a 23,2 nel 1850; si toccano i 50 milioni nel 1880; quasi i 76 nel 1900; i 105,7 nel 1920 per raggiungere la forte cifra di 122,77 nel 1930. Gli aumenti percentuali si presentano fortissimi, di gran lunga superiori a quelli dovuti alla semplice eccedenza dei nati sui morti: oscillano fra il 30-35% nel periodo 1790-1860, poi si avverte una progressiva diminuzione, scendendo a 25,5% nel decennio 1880-90, a 20,7% nel successivo; si sale a 21% nel 1900-1910; si tocca il livello minimo nel periodo 1910-1920 a causa della guerra mondiale, col 14,8%, per risalire a 16,1% nel periodo 1921-30. Naturalmente i singoli stati e le divisioni geografiche si comportano in maniera profondamente diversa fra di loro: entrano in campo ragioni di ordine storico ed economico per spiegare tali profondi, significativi contrasti (vedi tabella).
L'urbanesimo; le grandi città. - Un fattore fondamentale della vita americana è costituito dall'urbanesimo, dal moltiplicarsi cioè e dallo sviluppo incessante dei centri grandi e piccoli, a scapito della popolazione essenzialmente rurale. Siamo di fronte a un fenomeno grandioso, che trova riscontro solo nelle zone intensamente industriali della vecchia Europa o in quelle di recente colonizzazione dell'America Meridionale e dell'Australia. Nel complesso la popolazione urbana degli Stati Uniti, secondo il censimento del 1930, è pari a 69 milioni d'individui, cioè al 56,2% del totale. Tale valore percentuale è largamente superato dalla Nuova Inghilterra (77,3%), dal Medio Atlantico (77,7%), dal Centro NE. (66,4%) e dal Pacifico (67,5%), mentre tutte le altre divisioni restano molto al di sotto. L'interdipendenza tra condizioni economiche e urbane non potrebbe essere più significativa. Quello che maggiormente colpisce, analizzando le cifre della popolazione urbana, è il progressivo aumento di questa rispetto a quella rurale non soltanto negli stati decisamente industriali ma anche in quelli a base essenzialmente agricolo-pastorale-forestale. Nel 1890 la percentuale della popolazione urbana negli Stati Uniti era del 36,1% (22,7 milioni di individui). In quarant'anni si hanno per le divisioni geografiche le seguenti variazioni: Nuova Inghilterra 75,8% e 77,3%; Medio Atlantico 57,7 e 77,7%; Centro NE. 37,8 e 66,4%; Sud Atlantico 19,5 e 36,1%; Centro NO. 25,8 e 41,8%; Centro SE. 12,7 e 28,1%; Centro SO. 15,1 e 36,4%; Montagna 29,3 e 39,4%; Pacifico 42,5 e 67,5%.
Nel 1930 i 69 milioni d'individui costituenti la popolazione urbana vivevano in 3165 centri di cui 1332 sotto i 5000 ab. (3,8% della popolazione complessiva), 851 tra i 5000 e i 10.000 ab. (4,8%), 791 tra i 10.000 e i 50.000 ab. (12,6%), 98 con 50.000-100.000 ab. (5,3%) e finalmente 93 centri con più di 100.000 ab. rappresentanti da soli il 30% della popolazione totale. Naturalmente tra censimento e censimento si nota un progressivo aumento percentuale per i grandi centri a scapito di quelli di minore entità.
Il grande centro occupa quindi un ruolo di prim'ordine nella compagine demografica nordamericana. Giova qui notare come i varî censimenti diano la popolazione del centro, inteso non in senso geografico ma amministrativo. Questa premessa ha grande valore perché, come quasi sempre accade, specialmente in una regione giovanissima come quella americana, la città intesa in senso geografico è sempre più vasta di quella amministrativa. Ciò vale soprattutto per le metropoli che hanno visto sorgere nelle loro immediate vicinanze un gran numero di centri, separati dal punto di vista amministrativo, ma pienamente attratti nell'orbita loro demografica ed economica.
Gli esempi sono veramente significativi: non soltanto la città intesa in senso geografico comprende i centri vicini, sorti alla sua periferia, nella stessa contea e nello stesso stato, ma molto spesso accade che l'area metropolitana del centro si estenda su due stati contigui, come nel caso di New York, Kansas City, ecc. Sorge così il concetto dell'area geografica della città in contrapposizione a quella, sempre inferiore, della città amministrativa. Per varie ragioni è peraltro giocoforza attenerci alla città amministrativa per poter rendere omogenei e paragonabili i confronti tra i varî censimenti. Le città con popolazione superiore ai 100.000 ab. sommavano nel 1930 a 93, con una popolazione pari al 30% della popolazione totale dell'Unione. Anche in questo caso gli stati nordorientali tengono il primato: Nuova Inghilterra 13 (30%), Medio Atlantico 18 (48%), Centro NE. 19 (36% della popolazione complessiva della divisione geografica). Seguono il Centro NO. con 9 grandi città (20%) e il Pacifico pure con 9 (40%). È notevole constatare l'importanza dell'urbanesimo degli stati costieri occidentali, in relazione con la recente, intensa corrente immigratoria. La Montagna è la zona meno ricca di grandi città in dipendenza delle speciali condizioni demografiche ed economiche di molti stati. È da notare poi come nelle regioni intensamente agricole del bacino del Mississippi e negli stati atlantici meridionali le grandi città rappresentino una scarsa percentuale rispetto alla popolazione totale, col minimo del Centro SE., col 12%. Anche in questo caso adunque vi è netta relazione tra urbanesimo e condizioni economiche. Per le grandi città, v. alle voci rispettive; qui giova sintetizzare a grandi linee le caratteristiche salienti di questi nuclei urbani disseminati su di uno sterminato territorio.
In una regione giovanissima dal punto di vista storico, sociale ed economico quale sono gli Stati Uniti, il fattore "acqua" assume un'importanza straordinaria nella storia della genesi e dello sviluppo degli agglomerati urbani, sia come mare aperto, sia come baia, o estuario o fiume o lago, o canale navigabile. Dei 93 centri presi in esame, 51 sorgono su arterie fluviali più o meno adatte alla navigazione e su canali artificiali; 12 su estuari di fiumi, tutti adatti alla navigazione, a contatto con il mare e di solito beneficati dalla marea; 8 sui laghi, 14 su baie, a contatto con il mare aperto: miglior rispondenza tra fattore fisico e accentramento umano non potrebbe adunque sussistere. Colpisce a prima vista il fatto che quasi nessun grande centro sia sorto direttamente sul mare, ma o nell'interno di baie ben riparate (Seattle, Tacoma, San Francisco, Oakland, ecc.), oppure sugli estuarî dei fiumi, che al vantaggio di una maggiore sicurezza militare accoppiano quello della vicinanza dell'Oceano e della via d'acqua interna offerta dal fiume: gli esempî più significativi sono a tale riguardo offerti da New York e dai suoi satelliti, da Filadelfia e da Baltimora sulle coste dell'Oceano Atlantico e da Portland su quelle del Pacifico. Grande importanza hanno pure i Grandi Laghi, mediterraneo di acqua dolce, tra i più frequentati e più attivi per il commercio e mezzi di comunicazione: otto sono le grandi città sorte sulle loro rive, da Buffalo, la città dell'industria molitoria, a Duluth, sul Lago Superiore, la città tipica per le esportazioni dei minerali di ferro, attraverso metropoli della più grande importanza per l'economia dell'Unione.
Poche sono adunque le città nordamericane che non usufruiscono di vie d'acqua navigabili: al loro sorgere hanno potentemente contribuito altre cause di ordine storico ed economico, come è il caso di San Antonio, nel Texas, città di frontiera; di Birmingham (Alabama, che da semplice villaggio nel 1880 è divenuta una grande città, in seguito alla scoperta di giacimenti di carbone e di ferro, che hanno fatto del centro un rivale di Pittsburgh e delle metropoli rivierasche dei Grandi Laghi); di Fort Worth e Dallas, entrambe nel Texas, di Tulsa nell'Oklahoma, che devono alla scoperta e allo sfruttamento d'importanti depositi petroliferi il perché del loro recente vertiginoso sviluppo, ecc. Caratteristica comune di tutte queste grandi città della Unione, quando non intervengano particolari condizioni topografiche, è la loro struttura a reticolato, con strade cioè ampie e rettilinee tagliantisi ad angolo retto: esempi tipici New York e Chicago. Esigenze di traffico, maggior disponibilità di spazio, maggiore aerazione sono tutti coefficienti positivi, che hanno molto influito sull'uso di questo particolare tipo di pianta urbana. Altra caratteristica saliente è offerta dall'abbondanza delle aree coperte da giardini e da parchi: a tale riguardo il primato è tenuto da Los Angeles. Fa contrasto a tanta dovizia di spazio l'area congestionata di molte altre città, tra cui New York, ove nella zona della City sono stati costruiti i famosi grattacieli (skyscrapers), l'indice più significativo della giovane civiltà meccanica americana.
Cresciute a dismisura in grazia dell'immigrazione, queste grandi città ripetono in maniera saliente le caratteristiche etniche degli stati in cui sorsero. E anche in questo caso si notano differenze sensibilissime fra le città del NE. e del Pacifico da una parte e le rimanenti dall'altra. Nelle prime l'elemento puramente indigeno è molto scarso in confronto di quello straniero o nato da genitori totalmente e parzialmente stranieri.
Altra caratteristica saliente di questi agglomerati urbani è di essere sorti in epoca molto recente: soltanto negli stati derivati dalle excolonie inglesi si rimonta al sec. XVI: in tutto il Far West la data di nascita dei grandi centri è da collocarsi nel sec. XIX e in molti casi nella seconda metà: ne deriva subito una differenza peculiare, messa bene in evidenza dalle cifre dei varî censimenti (v. tabella a p. 541), tra le città atlantiche e dei Grandi Laghi da una parte e le rimanenti dall'altra: le prime presentano un aumento demografico molto più regolare delle seconde.
Il progredire del numero delle grandi città è rapidissimo: 28 erano in tutta l'Unione nel 1890; salgono a 50 nel 1910, a 93 nel 1930. Il grande influsso immigratorio che toccò il diapason più alto nel periodo 1900-1914, trova il suo immediato riscontro anche nel moltiplicarsi delle grandi città. Tutte le divisioni geografiche concorrono a tale aumento cospicuo, ma anche in questi casi si nota il prevalere delle terre di recente valorizzazione economica: mentre il Medio Atlantico sale da 9 a 18, il Centro NE. da 6 a 19, nel Centro SO. si balza da 1 a 8 e sul Pacifico da 1 a 9: il rapporto proporzionale è a tutto vantaggio degli stati occidentali, il che conferma quanto detto precedentemente.
La struttura economica delle grandi città si presenta multiforme: sono le città atlantiche del Centro e del Nord quelle che hanno strutture maggiormente complesse, come quelle che accanto a una vita marittima intensissima presentano molte altre attività, dalla siderurgia all'industria meccanica, dall'industria tessile e dell'abbigliamento all'editoria. Caratteristiche particolari (industrie tessili e meccaniche, minuterie metalliche) offrono gran parte delle grandi città della Nuova Inghilterra, mentre quelle dei Grandi Laghi e della zona appalachiana, favorite da ottime vie d'acqua, dalla presenza del carbone in sito e rifornite di minerali di ferro provenienti soprattutto dal porto di Duluth-Superior all'estremità occidentale del Lago Superiore, sono sopra tutto le città dell'alto forno, dell'acciaio, delle industrie meccaniche specializzate. I grandi centri delle regioni interne invece si presentano intimamente legati alle attività economiche del loro retroterra.
Altre caratteristiche notevoli di gran parte di queste città è di essere nodi fondamentali stradali e ferroviarî, o capilinee delle grandi arterie transcontinentali quali Boston, New York, Filadelfia da un lato e Seattle, San Francisco, Los Angeles dall'altro, oppure nodi interni del più alto interesse nella storia economica della nazione nordamericana. Eccellono sopra tutte Chicago, il più grande nodo ferroviario dell'Unione, e più a sud St Louis, sorte come sono nella zona di passaggio obbligato dall'oriente all'occidente e dalle regioni dei Grandi Laghi al Golfo del Messico.
Agricoltura. - Per quanto colossali siano le risorse minerarie e gigantesco lo sviluppo delle industrie e sebbene la popolazione rurale, che nel 1900 comprendeva ancora il 60% del totale, sia scesa nel 1930 al 43,8%, tuttavia la vita economica nazionale poggia ancora largamente sull'agricoltura e gli Stati Uniti tengono il primato quantitativo della produzione agricola fra tutti i paesi del mondo.
A partire dalle prime colture, introdotte nella Virginia dai coloni inglesi, il progresso fu continuo e formidabile, specialmente da quando i coloni cominciarono a dissodare e a mettere a coltura le ricchissime terre dell'Ohio e del Mississippi. La fertilità del vergine suolo, conquistato sulla foresta e sulla prateria, l'enorme estensione dei terreni coltivabili, le condizioni del rilievo e del clima, il largo impiego di macchine agricole, insieme con la mano d'opera fornita dall'immigrazione, hanno portato gli Stati Uniti al primo posto nella coltivazione dei cereali (frumento e mais) e delle piante industriali (tabacco e cotone). La richiesta di prodotti agricoli da parte dell'Europa, divenuta spasmodica durante gli anni della guerra mondiale, ha dato un impulso veramente eccezionale all'agricoltura, che si è estesa ad aree sempre più vaste non solo nella sezione a E. del Mississippi, ma nella zona delle praterie e da ultimo nella regione del Pacifico.
Le differenze climatiche e la varietà del rilievo e della natura dei terreni hanno determinato lo sfruttamento agricolo delle diverse parti del territorio. Anzitutto ricordiamo la fondamentale divisione in una sezione orientale e una occidentale, il cui limite può considerarsi segnato dal 100° meridiano. Ad O. la scarsezza delle precipitazioni e l'altitudine ostacolano l'agricoltura limitandola ad aree ristrette, dove sia possibile l'irrigazione. È questa la regione riservata alla pastorizia con oasi modeste di colture irrigue o aride (region of grazing, dry-farming and irrigation), nella quale anzi gli altipiani del Colorado e dell'Arizona sono per buona parte desertici: soltanto la Grande Vallata lungo il Pacifico ha suolo fertile e, nella parte S., clima di tipo mediterraneo che permette coltivazioni multiple specialmente di alberi fruttiferi, di viti e di agrumi.
Nella sezione E. le colture agricole che variano da N. a S. dànno un particolare carattere alle singole regioni. A settentrione, tra la costa atlantica della Nuova Inghilterra e dello stato di New York e i Grandi Laghi canadesi, anche dove nei primi tempi della colonizzazione europea erano state introdotte le colture dei cereali, prevalgono ora i pascoli naturali e i prati artificiali che consentono l'allevamento degli animali, specialmente da latte, con il conseguente sviluppo dell'industria casearia (Hay and Pasture Region).
A O. del Lago Superiore, negli stati di Minnesota, Dakota Sett. e Mer. prevale la coltura del frumento primaverile che è diffusa anche al di là del confine canadese (Spring Wheat Belt). Più a S., tra gli Appalachiani e il 100° meridiano, cioè nella parte E. del Nebraska e nello Iowa, Illinois, Indiana, Ohio e in parte del Kansas e del Missouri, abbiamo il Corn Belt, la zona agricola più importante della pianura centrale, dove la coltura del mais è preponderante e quasi esclusiva. Segue a mezzodì il Corn and Winter Wheat Belt, la regione dove prevalgono le colture del mais e del frumento invernengo, che abbraccia il Kansas, parte dell'Oklahoma, il Missouri, il Kentucky, parte del Tennessee e la zona costiera dell'Atlantico tra la Carolina del Nord e il Maryland. Ancora più a S., dal Texas orientale alle due Caroline, si allunga il Cotton Belt, in cui predomina in maniera assoluta la coltivazione del cotone, ma dove sono state introdotte molte altre colture di forte rendimento. Infine, l'orlo marittimo lungo il Golfo del Messico e la Florida formano il Sub-Tropical Coast Belt, con le colture tropicali del riso e della canna da zucchero e la produzione di frutta e di ortaggi primaticci.
Nei riguardi dell'avvaloramento agricolo si calcola che, di tutto l'immenso territorio, soltanto un terzo si possa considerare in ottime condizioni di coltivabilità, un terzo in condizioni discrete, mentre un terzo sarebbe sterile. Ma nonostante i suoi grandissimi progressi, l'agricoltura è ancora lungi dall'avere conquistato i terreni coltivabili e nel 1930 la superficie complessiva delle terre appartenenti a fattorie agricole, per quanto più che triplicate in confronto del 1850, superava di poco la metà del territorio nazionale (ettari 399.346.160 pari al 51,8%), e di questa metà, solo il 41,8% era di terre effettivamente coltivate, mentre il resto era occupato da pascoli, boschi, ecc. Cosicché si può dire che appena il 21,7% del territorio totale è effettivamente coltivato.
La percentuale delle terre appartenenti a fattorie varia moltissimo da regione a regione ed è massima nel centro NO. (81,2%) e minima nella zona montuosa occidentale (28,6%). Se si considerano poi tali valori per i singoli stati, si attraversa tutta una gamma, dal 5,9% del Nevada al 95,6% dello Iowa.
Le coltivazioni sono assai limitate nella sezione O. per causa dell'altitudine e dell'aridità del clima: per combattere quest'ultima si è provveduto alla costruzione di laghi serbatoi, canali irrigatori, derivazioni, ecc., sia ad opera del governo federale e dei governi degli stati sia ad opera di privati e di società. Il lavoro è già così progredito che beneficiano dell'irrigazione, su un'area irrigabile di ha. 12.383.605, circa 8 milioni di ettari e il 90% dei prodotti agricoli della zona occidentale è ottenuto sui terreni irrigati. In alcune aree meglio dotate è stata introdotto il dry farming, cioè la coltivazione dei cereali e dei foraggi col massimo sfruttamento della breve e scarsa stagione piovosa; ma questo procedimento, che aveva avuto largo sviluppo alcuni anni addietro, è ora in decadenza.
L'enorme superficie agricola di ha. 399.346.000 è divisa in un grandissimo numero di piccole proprietà, la cui estensione media nel 1930 era di ha. 63,5. Si può dire che in complesso l'area delle singole farms va crescendo man mano che si procede verso O., ma prevale dappertutto la media grandezza, cosicché su 6.288.648 fattorie solo 159.700 (2,5%) misurano da 200 a 399 ha. e appena 80.620 (1,3%) superano i 400 ha, mentre 4.158.380, cioè il 66,1%, hanno una superficie variante da 8 a 70 ha.
La maggior parte delle fattorie è condotta direttamente dai proprietarî, cui si aggiunge un piccolo numero di fattori: l'affitto e la mezzadria sono diffusi quasi esclusivamente negli stati del Cotton Belt, specie tra la popolazione negra. I metodi di sfruttamento sono ben differenti da quelli dei vecchi paesi agricoli. In moltissime zone predomina la monocoltura: in pochissime si è sviluppato l'uso dei concimi chimici, limitandosi in genere i conduttori a usare il letame disponibile e lasciando ogni tanto riposare il terreno, per lavorare nella fattoria altro terreno non ancora sfruttato. Alla scarsezza della mano d'opera, allontanata dai campi dagli alti salarî industriali, si sopperisce col larghissimo impiego delle macchine agricole, di cui gli Americani hanno inventato tutti i tipi più utili.
Con questi sistemi e grazie alla grande disponibilità di terre fertili, l'agricoltura progredì rapidamente e conobbe, durante gli anni della guerra mondiale, un periodo di enorme ricchezza. Inebriati dal successo e allettati dalla facilità con cui ottenevano crediti dalle banche, gli agricoltori americani provvidero in quegli anni a migliorare i loro impianti, ad acquistare macchine agricole e mezzi meccanici di trasporto, a fornirsi di tutte le comodità della vita moderna, ma la crisi successiva e la paurosa caduta dei prezzi delle derrate tolsero loro la possibilità di far fronte agl'impegni cosicché la proprietà agraria fu gravata da un cumulo di debiti, causa principalissima questa del profondo disagio della classe agricola.
Terreni agrarî. - Lo studio dei terreni agrarî, cioè della costituzione chimica e litologica dello strato superficiale, è assai progredito in America e il Soils Office ha pubblicato un ottimo atlante.
Nella regione di NE. e nella zona dei Grandi Laghi, dove si estendeva la foresta Laurenziana, prevalgono terreni misti di transizione e accanto ai terreni proprî delle zone forestali delle alte latitudini, i cosiddetti podzool, in cui l'humus superficiale, biancastro e pulverulento, spoglio di particelle argillose, è certamente tra i più poveri dell'America Settentrionale, si trovano zone con terreni grigio bruni, assai fertili, proprî della foresta appalachiana.
Nella zona della foresta appalachiana, che si estende da NE. a SO. tra gli Appalachiani, l'Ohio e il Mississippi, nonostante l'estrema diversità delle rocce costitutive - calcari, marne, arenarie, rocce cristalline, morene e löss - i terreni presentano caratteri piuttosto uniformi. Gli alberi a larghe foglie decidue forniscono abbondanti materie organiche, e intense sono le trasformazioni chimiche grazie alla temperatura mite e alle forti precipitazioni; l'humus profondamente lavorato s'incorpora con lo strato superficiale del terreno e gli dà una tinta grigio-bruna. Questi terreni si sono mostrati assai adatti all'agricoltura, e notevolmente fertili, nonché resistenti allo sfruttamento agricolo.
Nella zona di SE., che corrisponde alla foresta sudatlantica, le piogge abbondanti, la temperatura elevata e la clemenza dell'inverno determinano un intenso lavaggio che porta via tutti gli elementi solubili e le particelle argillose: ne risulia un terreno magro a tinta pallida e poco consistente, mentre il sottosuolo, ricco di argilla e di ossidi di ferro, è compatto e colorato in giallo e in rosso. Nella Georgia e nella Florida il fenomeno si accentua e l'accumularsi del ferro nel sottosuolo sembra denunziare l'inizio del processo lateritico proprio dei paesi tropicali.
Nella regione centrale delle praterie e delle steppe i terreni variano a seconda del clima e della piovosità: nella parte est, più piovosa, il sottosuolo costantemente umido è ricco di materie organiche provenienti dalle radici profonde delle graminacee, ma verso ovest, dove le piogge sono assai scarse, il sottosuolo rimane costantemente secco e, al disotto del sottile strato vegetale della superficie, si trova una crosta di carbonati talora assai spessa detta caliche. Varia anche la costituzione chimica, ma se la piovosità è sufficiente, il valore agricolo è buono; infatti la prateria è diventata la regione cerealicola più importante degli Stati Uniti.
Nella regione occupata dalla foresta umida del Pacifico, grazie al clima umido e dolce, si trovano dei terreni grigio-bruni simili a quelli della foresta appalachiana e ugualmente adatti all'agricoltura. I terreni delle steppe occidentali assomigliano a quelli delle praterie per la ricchezza di elementi solubili e per la presenza di uno strato più o meno profondo di carbonati. Nella regione più meridionale, sugli altipiani chiusi dell'interno, come nel Gran Bacino, e in tutte le zone a scarsissima piovosità, i terreni sono fortemente mineralizzati e contengono, a piccola profondità, degli alcali per cui la vegetazione è ridotta alle macchie rade di artemisie o è addirittura mancante nei terreni più bassi, argilloso-salini.
Prodotti agricoli principali. - Cereali. - Nel 1932 le terre arabili misuravano 143 milioni di ettari e di questi il 63,3%, cioè ha. 90.793.000, erano adibiti alla coltura cerealicola che pur essendo diffusa in tutto il paese, è concentrata nella grande pianura centrale, fra la valle dell'Ohio, i Grandi Laghi e il Mississippi, estendendosi poi verso ovest nei due Dakota, nel Nebraska e nel Kansas. Fra i cereali tiene il primo posto il mais cui furono riservati nel 1932 ha. 43.976.000, cioè il 46,9% della superficie cerealicola, e la cui coltivazione, diffusa in tutto il territorio orientale, è particolarmente intensa nel Corn Belt. Il prodotto complessivo, nel quinquennio 1925-29, raggiunse la media di q.li 678.478.000, pari al 59,2% della produzione mondiale; il raccolto medio per ha. si aggira sui 15-16 quintali, di poco inferiore al reddito medio italiano.
Anche la produzione dei formaggi è andata aumentando ed è concentrata particolarmente nel Wisconsin, nel Michigan e, in minore misura, nella California e nell'Oregon. Però il burro e il formaggio prodotti nel territorio non sono sufficienti ai bisogni e si provvede con l'importazione dai paesi d'Europa (Italia e Svizzera), dall'Argentina e dal Canada.
La seconda regione di allevamento abbraccia le pianure coltivate del centro N., dove gli animali sono mantenuti e ingrassati con i prodotti agricoli e specialmente con il mais, e le praterie occidentali, dove invece si pratica ancora l'allevamento estensivo d'immensi branchi erranti sotto la guardia dei famosi cowboys. Anche qui la razza primitiva fu migliorata per ottenere tipi più ricchi di carne e che siano pronti per la macellazione tra i due e i tre anni di età. Ultimamente anzi s'introdussero i baby-beefs, cioè animali da macellare a 18 mesi circa, con i quali si possono avere carni tenere e un rapido realizzo di capitale. Gli stati più ricchi di animali sono: l'Illinois, il Minnesota, il Dakota Merid., il Missouri, e in particolare il Wisconsin, lo Iowa, il Nebraska e il Kansas, che coi loro 14 milioni di capi posseggono da soli più di un quinto del numero totale dei bovini.
Un altro stato molto ricco è il Texas, dove nel 1930 vivevano sei milioni di bovini; ma in esso prevale ancora l'allevamento estensivo.
Oltre a provvedere direttamente al consumo degli abitanti delle campagne e dei centri minori, questa regione fornisce la materia prima alle grandi industrie delle carni che, grazie all'impiego di vagoni refrigeranti e dei metodi più perfezionati di conservazione, ha potuto essere concentrata in alcuni distretti specializzati. Il primo di questi fortunati centri fu Cincinnati, ma questo cedette il primato a Chicago che lo tiene tuttora, per quanto altri grandi centri si siano sviluppati più a occidente e più a sud, cioè St Louis, Omaha e Kansas City, a cui seguono per importanza St Paul, Sioux-City, St Joseph, Fort Wort nel Texas, e Denver nel Colorado.
Localizzato nel Corn Belt e compartecipe dell'industria delle carni conservate è l'allevamento dei suini di cui gli Stati Uniti posseggono circa un quarto del patrimonio mondiale. Gli stati più ricchi di suini sono quelli del Centro Nord, che nel 1930 possedevano 40,6 milioni di capi sul totale di 56,2 milioni. Il primo posto spetta allo Iowa (Pìgstate) con 10 milioni; seguono l'Illinois e il Nebraska con 4,6 milioni ciascuno, l'Indiana, il Minnesota e il Missouri con più di 3 milioni di capi.
Imponente è il numero degli ovini, che nell'E. sono allevati specialmente per la macellazione, e nell'ovest per la lana. Nel 1930 gli stati occidentali possedevano 29,5 milioni di pecore sul totale di 56,9 milioni; ma il primo posto spettava al Texas con 7,6 milioni: seguivano Montana, California, Idaho, Wyoming e Oregon con cifre varianti da 4 a 3 milioni ciascuno.
Importanza minore hanno gli equini che si trovano in maggiore quantità nelle regioni più intensamente coltivate, dove sono usati come animali da lavoro. I muli, 5,3 milioni nel 1930, sono concentrati negli stati meridionali; i cavalli invece, che accusano un costante declino, dovuto al crescente impiego dei motori per azionare le macchine agricole, e sono passati da 20,9 milioni del 1913 a 13,6 milioni nel 1930, sono più numerosi negli stati del Centro Nord (7,8 milioni di capi).
L'allevamento dei polli (378,8 milioni di capi nel 1930) e la produzìone delle uova (32.276 milioni nel 1930) spetta in prevalenza agli stati agricoli del Centro Nord che posseggono più della metà dei primi e forniscono la metà dei secondi.
La caccia, che fu per tanto tempo una risorsa, non solo per gl'indigeni, che vivevano esclusivamente di carne di bisonte, ma anche per i coloni europei, ha perduto ogni importanza in seguito alla distruzione quasi totale della selvaggina.
La pesca è ancora largamente praticata, sia nei fiumi e nei laghi, sia lungo le coste marittime. È particolarmente attiva nei mari costieri della Nuova Inghilterra, dove i porti pescherecci principali sono Boston, Glocester e Portland (Maine): merluzzi, aringhe, sgombri e passere di mare, sono le prede più importanti che, per i porti ricordati, nel 1930 rappresentarono un valore di 12,7 milioni di dollari. Sulla costa del Pacifico la pesca principale è quella delle sardine nella California e quella del salmone nel Washington e nell'Oregon, e si concentra ad Astoria e a Portland e nei porti del Pouget Sund. Massima importanza ha la pesca del salmone che è anche largamente importato dall'Alaska.
Nel 1930 il valore complessivo della pesca di mare, di fiume, e di lago, fu di 95 milioni di dollari: vi erano impegnati 76.663 battelli pescherecci e 122.775 pescatori. Famose per l'allevamento delle ostriche le rive della Baia di Chesapeake, mentre le spugne si pescano nel Canale della Florida.
Foreste e industria forestale. - Originariamente le foreste dell'America Settentrionale avevano un'estensione enorme, ma coprivano due sezioni separate e distinte: la prima occupava quasi per intero la parte orientale, tra la costa Atlantica e il corso del Mississippi, spingendosi anzi al di là del fiume con larghe fasce risalenti l'Arkansas e il Red River, mentre, a occidente dei Grandi Laghi, la foresta arrivava a congiungersi con la grande foresta canadese. La seconda sezione comprendeva la zona costiera del Pacifico a settentrione dell'arida California e vasti spazî delle Montagne Rocciose.
Naturalmente la foresta variava nella sua composizione da N. a S.: nella Nuova Inghilterra e nella fascia attorniante i Grandi Laghi prevalevano le piante aghifoglie, abeti e larici; seguivano i boschi di latifoglie, querce, faggi, tigli, e quindi, dalla Carolina alla Luisiana, la foresta dei piani costieri, di piante sempreverdi, trapassanti alla flora tropicale, della fascia lungo il Golfo del Messico. Nella sezione occidentale le foreste costiere, grazie alle ricche precipitazioni, erano anche più fitte e vi crescevano le enormi sequoia, che innalzano anche attualmente fino a cento metri le loro gigantesche colonne; ma più rado e meno uniforme era il manto boschivo delle Rocciose.
La colonizzazione, partendo dalla riva atlantica, si dovette aprire la strada in questa verde distesa di alberi e l'assalto alla foresta fu intenso e senza tregua, sia perché il terreno per le coltivazioni si doveva ottenere a spesa del bosco, sia perché l'abbattimento delle foreste assicurava il dominio degli uomini bianchi di fronte agli indigeni, che in quelle trovavano la migliore difesa.
Attualmente il territorio forestale, comprese le zone rimboscate e quelle di foresta secondaria, misura nella zona orientale hq. 147,8 milioni, pari al 54% della foresta originaria; assai minore è stata la distruzione nella zona occidentale dove i 52,4 milioni di ettari di boschi rappresentano circa il 91% del territorio primitivo. Ma queste cifre non dànno il quadro reale, poiché, se circa un quarto del territorio è considerato forestale, meno di un terzo di quest'area è occupato dalle foreste primitive, circa la metà è di foreste e boschi cresciuti irregolarmente dopo le prime devastazioni e gl'incendî, e un sesto è formato da terreno incolto, quasi privo di alberi. In conseguenza la foresta non è sufficiente al bisogno, anzi si calcola che il legname abbattuto annualmente e quello distrutto dagl'incendî rappresenti una quantità quattro volte maggiore dell'accrescimento normale.
Ne deriva l'urgenza del problema forestale, cui lo stato ha cercato di porre rimedio costituendo un demanio forestale di terre permanentemente boschive e di aree da rimboscare e regolando con leggi restrittive l'eccessivo sfruttamento.
L'approvvigionamento di legname si è spostato nel tempo da E. a O. Ancora nel 1850 la Nuova Inghilterra e lo stato di New York venivano al primo posto per il taglio e la lavorazione del legname, ma già dieci anni dopo il primato era passato alla Pennsylvania. Quindi lo sfruttamento si estese nella regione dei Laghi, ma la distruzione vi fu così intensa che attualmente nel Michigan e nel Wisconsin le foreste di pini sono ridotte ad appena il tre per cento dell'area originaria. Verso la fine del secolo XIX e nei primi anni del XX, la maggior quantità di legname la diedero le foreste del Sud, che però forniscono ora soltanto il 20% del fabbisogno, mentre il 61% del legname da segheria proviene dalle foreste delle Montagne Rocciose e dalla costa del Pacifico e specialmente dallo stato di Washington.
La produzione del legname viene oggi valutata in circa 57 milioni di mc.: di essi il 72% spetta agli stati del Pacifico e del Sud. I mercati più importanti sono: Milwaukee, Chicago, Detroit e New York a settentrione; St Louis e Memphis sul Mississippi; Seattle e Tacoma sul Pacifico, e Pensacola sul Golfo del Messico. Le qualità più pregiate sono l'abete douglas delle regioni occidentali e il pitch pine del sud. Fra le industrie relative viene prima la segheria, che nel 1927 contava 20.000 stabilimenti, alcuni dei quali molto modesti, sparsi in tutte le zone forestali: di essi 800, situati negli stati del Pacifico e in quelli del Golfo, lavoravano più della metà del prodotto complessivo. I centri principali del mobilificio sono: New York, Grand Rapids nel Michigan, Jamestown nel Dakota Settentrionale, Evansville nell'Indiana e Chicago e Rockford nell'Illinois.
Un posto a parte occupa la fabbricazione della pasta di legno, materia prima per le cartiere, che viene preparata soprattutto negli stati settentrionali e più particolarmente nella Nuova Inghilterra, nello stato di New York e nel Michigan. Molta parte della materia prima è importata dal Canada.
Miniere. - Gli Stati Uniti possiedono enormi giacimenti di ogni sorta di minerali metallici e non metallici e di combustibili fossili.
Lo sfruttamento di queste ricchezze, insignificante nel secolo XVIII e appena avviato nella prima metà del sec. XIX, dopo il 1860 crebbe così rapido che alla fine del secolo gli Stati Uniti erano già alla testa fra tutti i paesi minerarî del mondo. Il valore della produzione mineraria era, nel 1900, di circa 900 milioni di dollari, di circa 2 miliardi nel 1910, toccava il massimo di 6.981 milioni nel 1920 e si manteneva superiore ai 5 miliardi in tutto il decennio 1920-30.
La distribuzione dei giacimenti minerarî è assai varia, ma nel complesso si distinguono tre regioni principali: la zona delle Alte terre occidentali, dove prevalgono minerali metallici di valore, oro, argento, rame, piombo, zinco, e si trovano in minor quantità ferro, carbone e petrolio (California e Wyoming); la zona degli Allegani, ricchissima di ferro, di carbone e di petrolio, e non sprovvista di altri minerali utili; la pianura centrale che possiede grandi depositi di ferro attorno al Lago Superiore, giacimenti di carbone nella valle del Mississippi e ricchi campi petroliferi lungo il piede orientale delle Rocciose, dal Kansas al Texas. Nelle migliori condizioni di sfruttamento è la zona degli Appalachiani, la quale, oltre all'abbondanza di minerali metallici e di carbone, possiede un'estesa rete di comunicazioni economiche per far giungere i minerali nelle località industriali e per avviare i prodotti ai mercati di consumo e ai centri di esportazione.
Gli Stati Uniti forniscono circa il 50% della produzione mondiale del rame.
Esso esiste allo stato metallico quasi puro nella penisola di Keweenaw del Lago Superiore, dove viene estratto con scavi profondi e costosi; ma la maggior parte del rame è ora prodotta nell'Ovest, specie nell'Arizona che fornisce due quinti del totale, mentre il Michigan non arriva a un quinto; seguono il Montana, l'Utah, il Nevada e il Nuovo Messico. Il rame del Lago Superiore è quasi utilizzabile nelle condizioni in cui viene estratto, ma la maggior parte del minerale rimanente, che ha una percentuale metallica assai bassa (1,6), viene trattato negli alti forni nelle immediate vicinanze delle miniere. Il prodotto così ottenuto (copper matte) viene raffinato, mediante l'elettrolisi, in grandi impianti sorti sulla costa atlantica, fra Baltimora e New York, e in quelli costruiti nel Montana e sul Pouget Sound. Di piombo e di zinco gli Stati Uniti forniscono circa un terzo del prodotto mondiale: i giacimenti di galena dell'Illinois sono esauriti e ora la produzione principale spetta al Missouri (Ozark per il piombo e Joplin per lo zinco) e quindi al Montana, Idaho, Colorado, e Utah. Leadville nel Colorado è il centro principale per il piombo.
L'alluminio è estratto dalla bauxite di cui gli Stati Uniti posseggono vasti depositi nell'Arkansas e altri minori nella Georgia e nell'Alabama. Il trattamento della bauxite è fatto con l'energia elettrica, specie a Niagara Falls e a Maryville nel Tennessee.
Anche per l'oro e l'argento, gli Stati Uniti hanno un posto notevolissimo. Computando anche la produzione dell'Alasca, nel 1930 gli Stati Uniti diedero 64.800 kg. d'oro e nel 1933 kg. 71.653, pari a un decimo della produzione mondiale, venendo al terzo posto dopo l'Unione Sudafricana e il Canada. E di argento essi produssero tonn. 1575 nel 1930 e tonn. 719 nel 1933. Gli stati fornitori sono, principalmente, la California, il Dakota Meridionale, il Colorado e l'Utah per l'oro, e questi stessi più l'Idaho, l'Arizona, il Montana e il Nevada per l'argento.
Passando ai minerali di ferro, ricordiamo che gli Stati Uniti forniscono circa due quinti del minerale utilizzato nel mondo. I giacimenti più vasti, e praticamente inesauribili, sono quelli del Minnesota e del Wisconsin, attorno al Lago Superiore, donde il minerale viene spedito per via acquea alle regioni industriali dell'est, specialmente agli alti forni dell'Ohio e della Pennsylvania. Un'altra zona ricca di minerali di ferro è l'Alabama, dove il centro siderurgico di Birmingham sfrutta i depositi dell'estremità meridionale degli Appalachiani. Queste due zone forniscono quasi il 95% della produzione totale del ferro dell'America; scarsa importanza hanno tutti gli altri depositi, compresi quelli dell'Ovest.
Fra i minerali non metallici ricordiamo: lo zolfo, ricavato nel Texas e nella Luisiana in quantità così ingenti che gli Stati Uniti dànno circa l'80% della produzione mondiale; il sale, che si trova nei laghi degli altipiani (Gran Lago Salato) e in depositi enormi di salgemma puro nel Michigan, nell'Ohio, sulla costa della Luisiana, e in una larga fascia dal Kansas al Nuovo Messico; i fosfati, che esistono nel Colorado e nell'Idaho, nella Florida e nel Tennessee, e che forniscono circa i due quinti della produzione mondiale.
Importanza di gran lunga maggiore hanno i combustibili fossili. I giacimenti di carbone degli Stati Uniti sono valutati a 2000 miliardi di tonnellate, e sono in maggioranza, specie i grandi depositi degli Appalachiani, di facile sfruttamento: le profonde incisioni vallive che hanno messo allo scoperto le testate degli strati rimasti orizzontali, permettono di scavare il carbone con le macchine e di caricarlo direttamente, alla bocca della cava, sui carri ferroviarî.
I maggiori giacimenti carboniferi sono disposti in grandi fasce meridiane, di cui principale è la fascia che si estende dalla Pennsylvania all'Alabama sui due fianchi della catena appalachiana passando per il Maryland e le due Virginie, da un lato, per l'Ohio, il Kentucky e il Tennessee dall'altro.
Questa grande fascia, insieme con i giacimenti, molto meno estesi, di antracite della Pennsylvania, misura in complesso 183 mila chilometri quadrati e da essa si estraggono i due terzi del carbone americano: in particolare la sezione settentrionale produce il carbone da coke.
La seconda sezione dei bacini interni comprende: a) i giacimenti del Michigan (28 mila kmq.) poco sfruttati; b) i giacimenti del bacino interno est (150 mila kmq.) dell'Indiana, dell'Illinois e della parte orientale del Kentucky, che costituiscono la seconda regione carbonifera dell'Unione e forniscono i migliori carboni di questa sezione; c) i bacini del centro ovest e sud (24 mila kmq.) distesi in una fascia continua fino al Texas, produttori di combustibile per le ferrovie e per i bisogni locali.
Infine i bacini delle Montagne Rocciose e della costa pacifica (115 mila kmq.) comprendono piccoli giacimenti sparsi, con produzione complessiva debole, ma di notevole importanza locale. Degno di ricordo, poi, è il bacino di antracite della valle del Susquehanna, nella Pennsylvania orientale, il cui prodotto è usato largamente per il riscaldamento domestico.
Anche più grande è la ricchezza dei petrolî di cui nel 1930 gli Stati Uniti fornivano il 63% della produzione mondiale. I principali distretti sono: a) Appalachiano (Pennsylvania) dove si aprirono i primi pozzi verso il 1860 e che conserva ancora la produzione del petrolio più leggiero e più pregiato; b) Lima-Indiana di NE. e Michigan; c) Illinois-Indiana di SO.; d) del Medio Continente dal Kansas al Texas Settentrionale che è attualmente il più forte produttore; e) del Golfo, cioè della Luisiana e del Texas meridionale; f) delle Montagne Rocciose, particolarmente dello Wyoming; g) della California, che tiene il secondo posto tra i distretti americani.
Il petrolio greggio viene portato alle raffinerie e quindi ai centri di consumo e di esportazione per mezzo di una grandiosa rete di oleodotti (pipelines), che nel 1930 misuravano 149.782 chilometri di lunghezza. L'immensa produzione è nella maggior parte consumata nel paese; l'industria della raffineria è così sviluppata che vengono lavorati anche i petrolî greggi importati dal Messico e dall'America Centrale e Meridionale.
Industrie. - Anche dopo la conquista dell'indipendenza, l'attività dei Nordamericani continuò a rivolgersi all'allevamento del bestiame e all'agricoltura; soltanto dopo la metà del sec. XIX cominciò in tutta la regione orientale lo sfruttamento delle miniere, cui seguì il sorgere delle industrie metallurgiche e manifatturiere che, favorite dalla politica doganale, dalla lontananza dei centri produttori europei e dall'ampliamento gigantesco del mercato interno, riuscirono rapidamente ad affermarsi.
L'industria americana, non legata a tradizioni e a interessi già consolidati, spinta da quello spirito pratico che è proprio del carattere americano, poté proseguire, con un'energia inusitata nel Vecchio Mondo, l'attuazione di tutti i miglioramenti tecnici suggeriti dall'esperienza europea e dai risultati dei laboratorî di ricerca scientifica, da essa promossi su larghissima scala: il progresso fu così rapido che essa arrivò non soltanto a soddisfare i bisogni interni, ma anche a esportare in tutto il mondo la sua produzione.
Lo sviluppo principale si ebbe dapprima nell'estrazione del carbone e nella produzione della ghisa che, da circa 800 mila tonn. nel 1870, passò a 14 milioni di tonnellate nel 1900, fornendo il 35% della produzione mondiale; seguirono poi le varie manifatture, la produzione di macchine di ogni genere, e la fabbricazione di articoli varî, mirante soprattutto a soddisfare il mercato interno, il quale, per effetto dell'aumento della popolazione e della colonizzazione delle regioni occidentali, riusciva ad assorbire la produzione industriale nonostante l'enorme sviluppo degl'impianti.
La ricchezza di materie prime, lo sviluppo delle vie di comunicazione, la mancanza nell'immenso territorio di barriere artificiali spiegano il vertiginoso progresso: dal 1879 al 1929 il numero degli operai è quadruplicato e il valore della produzione è diventato 13 volte maggiore.
La mancanza di tradizione e di categorie specializzate di operai e di produttori, l'inventiva spinta al massimo grado, la necessità di risparmiare la mano d'opera, che a causa degli alti salarî grava sul costo della produzione industriale, ha spinto gli Americani a sostituire al lavoro dell'uomo quello delle macchine e a introdurre nell'industria i metodi del taylorismo, che permettono di eliminare o quasi la mano d'opera specializzata.
In conseguenza, si precisarono le caratteristiche dell'industria americana, che consistono nella produzione in serie (standard) di un piccolo numero di tipi e nella concentrazione in grandiosi stabilimenti, tutti similmente razionalizzati, dipendenti da un numero più o meno ristretto di grosse società o di aziende consorziate (trust), disponenti di capitali enormi. Infatti, se i piccoli stabilimenti con meno di 50 operai costituivano nel 1931 ancora l'85% del totale, essi occupavano meno di un quinto della popolazione operaia; invece quelli con più di 500 lavoratori formavano, è vero, appena l'1,4% del numero totale, ma impiegavano il 38% degli operai. E i grandi impianti, con una produzione annua di oltre un milione di dollari, occupavano il 58% della mano d'opera fornendo il 69,2% della produzione complessiva.
La distribuzione geografica delle industrie americane è strettamente collegata con la distribuzione delle materie prime e con la rete delle comunicazioni.
La regione del NE., fra gli Appalachiani e il mare, ricca di carbone, di ferro e di petrolio, è la zona industriale più attiva e comprende: la sezione della Nuova Inghilterra, dove prevalgono le manifatture di cotone e di lana, il calzaturificio, la gioielleria e l'industria casearia; la sezione degli stati di New York e di New Jersey, con industrie svariatissime che rispondono alle richieste di quel grande centro della vita economica; la sezione della Pennsylvania, specializzata nella produzione dell'acciaio e delle macchine.
Nella regione orientale interna, che si estende tra gli Appalachiani, la valle dell'Ohio e i Grandi Laghi, e nella quale si trovano i grandi centri industriali di Buffalo, Detroit, Cleveland e Chicago, prevalgono le industrie metallurgiche e automobilistiche, le fabbriche di macchine agricole, di conserve alimentari, ecc. La regione del centro, da Chicago al Kansas, possiede le maggiori industrie agricolo-alimentari, specialmente quelle molitorie e delle carni conservate e insieme industrie metallurgiche, fabbriche di mobili, ecc.
Una minore regione metallurgica si trova sul versante interno meridionale degli Appalachiani, nell'Alabama e infine nella fascia montuosa occidentale e all'estremo O., nella California, nel Washington e nell'Oregon, si sono sviluppate recentemente industrie varie specialmente forestali e di conserve alimentari.
Caratteristica di quasi tutte le industrie americane è la grande concentrazione d'imprese similari in pochi centri: a Detroit e a Cleveland la fabbricazione delle automobili, a Cincinnati e a Chicago la preparazione delle carni in conserva, a Pittsburg la fabbricazione dell'acciaio; le industrie cinematografiche a Hollywood, le macchine da cucire a Elisabethville nel New Jersey, le macchine agricole ancora a Chicago, le locomotive ferroviarie a Filadelfia, ecc.
L'importanza raggiunta dalle industrie nella vita degli Stati Uniti è chiaramente dimostrata dal fatto che nel 1930 ben 984.000 operai erano impiegati nelle miniere e 14.110.000 nelle industrie; cioè in complesso il 30,9% di tutti i lavoratori dell'Unione. Grandissimo è il numero delle industrie americane, ma accenniamo soltanto a quelle che vengono al primo posto per il valore della produzione e per il numero degli operai.
Le industrie metallurgiche, per l'abbondanza delle materie prime, ferro e carbone, hanno avuto uno sviluppo gigantesco favorito anche dalla concentrazione nel trust dell'acciaio e dalla diffusione delle macchine in tutte le attività umane. Il distretto più importante è quello di Pittsburg nella Pennsylvania, esteso anche nell'Ohio e nello stato di New York e ivi localizzato per la presenza del miglior carbone da coke. Il distretto di Pittsburg lavora il minerale di ferro proveniente dal Lago Superiore, che gli arriva per via acquea attraverso i Grandi Laghi e i canali. Il secondo centro si estende intorno a Chicago, dove possono convenire facilmente i carboni dell'Illinois e dell'Ohio e il minerale di ferro del Lago Superiore. L'industria siderurgica si va affermando però anche a Duluth, il grande porto del minerale di ferro, che si può agevolmente rifornire del carbone appalachiano per mezzo dei battelli che vanno colà a caricare il minerale di ferro. Il terzo centro si è sviluppato nell'Alabama attorno a Birmingham. L'industria dell'acciaio però è quasi tutta nella Pennsylvania, cui seguono l'Ohio e l'Illinois.
L'industria meccanica è tipica, sia per il metodo delle fabbricazioni in serie, che permette la costruzione più economica e consente le facili riparazioni con la sostituzione dei pezzi deteriorati, sia per la costruzione di macchine che trovano largo impiego nell'agricoltura e in tutte le attività industriali. Automobili, locomotive, macchine agricole, macchine da cucire, biciclette, macchine industriali, sono fabbricate in grandissimo numero dagli Stati del NE. e del Centro settentrionale.
Le industrie chimiche, raggruppate intorno ai giacimenti di carbone, forniscono tutti i preparati più necessarî al consumo diretto e alle industrie, dall'acido solforico ai concimi chimici, dai profumi ai colori e vernici, dai saponi agli olî e grassi industriali e vegetali. Raffinerie di petrolio sono sorte a Pittsburg e sulle rive del Lago Erie, nel Centro SO. e in California e producono benzina, petrolio da ardere, olî minerali, paraffina e asfalti.
Delle industrie alimentari, oltre alla molitoria e a quella della macellazione e della preparazione e conservazione delle carni, già ricordate, sono fiorenti le industrie delle conserve di frutta e di legumi esercitate a Baltimora, nel Sud e nella California, e la produzione di burro e formaggio, già concentrata nella regione del NE. e attorno ai grandi Laghi e ora diffusa anche nell'O.
Le industrie tessili hanno raggiunto un grado assai elevato grazie all'abbondanza di materie prime (cotone e lana), di carbone e di energia idroelettrica. Il distretto più antico è quello del NE., che fino al 1920 tenne il primo posto, concentrando la grandissima maggioranza dei fusi e dei telai nel Massachusetts, Rhode Island, New Hampshire, Maine e Connecticut; ma è sorpassato attualmente dagli stati sudatlantici delle due Caroline, della Georgia e dell'Alabama. Per i prodotti cotonieri, gli Stati Uniti vengono al secondo posto dopo l'Inghilterra, ma non producono i generi più fini e sono superati per questo riguardo dalle vecchie industrie europee. Meno importanti, ma assai floride, la filatura e tessitura della lana (Filadelfia, Lawrence e Providence) e della seta (Paterson), che consumano materie prime in buona parte importate, e quelle del rayon che tengono il primato mondiale.
Anche negli altri campi industriali gli Stati Uniti detengono una posizione invidiabile: nel calzaturificio e nell'industria del cuoio vengono al primo posto e provvedono a una notevole esportazione; l'industria del vestiario è bene sviluppata in tutte le grandi città dell Est; quella del legname ha i suoi centri maggiori nello stato di Washington e quella della pasta di legno e della carta nella regione dei Laghi, mentre la lavorazione del caucciù è localizzata ad Akron, nell'Ohio. Ricordiamo da ultimo le industrie cinematografiche, quelle elettriche e quelle radiofoniche, nelle quali gli Stati Uniti hanno un'incontestabile supremazia.
Comunicazioni. - Alla grande compattezza del territorio e alla mancanza d'insenature profonde e di mari interni sopperisce in parte la vasta rete di vie acquee interne formata dai Grandi Laghi, dal Mississippi e dai suoi affluenti e dai fiumi che sfociano nell'Atlantico e completata dai canali artificiali. Meno fortunata è la sezione occidentale, dove la navigabilità dei fiumi del versante pacifico è limitata a brevi tratti. Tuttavia, anche la larga fascia di alte terre non costituisce una barriera continua e non oppone ostacoli insormontabili all'apertura di strade artificiali, poiché gli affluenti del Missouri e del Mississippi a E., e quelli del Columbia e del Colorado a O., segnano con le loro valli numerose vie naturali, separate da passi non eccessivamente alti o difficili.
Nei primi tempi della colonizzazione, le vie rotabili ebbero scarsissima estensione e le comunicazioni con l'interno avvenivano soltanto attraverso sentieri percorsi a piedi o a cavallo: però dai centri coloniali della costa orientale alcune strade s'inoltravano fino ai piedi dei rilievi orientali. Soltanto dal principio del secolo XIX si cominciò a provvedere all'apertura a pubbliche spese di strade di penetrazione verso le pianure centrali, come quella iniziata nel 1806 da Cumberland, nel Maryland, all'Illinois, e quella da Filadelfia a Pittsburg; ma la spesa dei trasporti su strada dalla Pennsylvania a Filadelfia, su una distanza di trenta miglia, superava il nolo marittimo dall'Inghilterra a Filadelfia. In conseguenza cominciò presto lo sfruttamento delle vie navigabili interne, specialmente nella zona atlantica, dove gli estuarî e i fiumi consentivano di attraversare la pianura marittima fino alla linea delle cascate. Ad O. degli Allegani, grande importanza ebbe l'Ohio che divenne la strada di penetrazione verso l'Occidente, attraverso la quale i pionieri ricevevano dai centri orientali gli strumenti di lavoro e spedivano i loro prodotti a Pittsburg, Cincinnati, Louisville. L'introduzione dei piroscafi, il primo dei quali percorse l'Ohio nel 1811, permise di collegare per via fluviale Pittsburg con New Orleans, mentre la costruzione dell'Erie-Canal, collegando la valle del Hudson ai Grandi Laghi, agevolava le comunicazioni verso l'alto Mississippi e determinava le condizioni di sviluppo di New York.
Più tardi la costruzione delle strade ferrate doveva dare alla penetrazione verso l'interno uno slancio veramente colossale. Nel 1840 il numero delle ferrovie aperte al traffico era già notevole, ma si trattava di brevi linee che partivano dai porti della costa atlantica e non erano collegate fra loro. A partire dal 1850 però le costruzioni ferroviarie si svilupparono con ritmo crescente, tanto che verso il 1870 esse avevano già soppiantato in gran parte le comunicazioni per via acquea, e la rete ferroviaria nel 1860, coi suoi 49.000 km., superava l'intera rete europea. Trascurata del tutto, invece, fu la costruzione di strade ordinarie, che soltanto nel sec. XX veniva imposta dal sorgere dell'automobilismo.
Vie navigabili interne. - La rete dei canali e dei fiumi navigabili misura oltre 40.000 km. Le vie acquee, grazie alle condizioni straordinariamente favorevoli dei fiumi e alla facilità di collegare le varie valli con canali, precedettero nel tempo le strade ordinarie; ma la loro importanza è andata diminuendo col progredire delle comunicazioni ferroviarie, tanto che dei 7200 km. di canali costruiti per allacciare i fiumi navigabili e per mettere in comunicazione la costa atlantica con i Grandi Laghi e con la valle dell'Ohio, oltre un terzo è rimasto inutilizzato: soltanto i canali del NE. sono ancora in piena efficienza. Tra i fiumi che scendono dagli Allegani all'Atlantico è primo il Hudson che, grazie alla marea, può essere risalito fino ad Albany da navi di mille tonnellate: il Hudson è unito al S. Lorenzo dal canale che attraversa il Lago Champlain, e al Lago Erie e all'Ontario con i canali del Mohawak e dell'Erie. Quest'ultimo parte dal Buffalo, sul Lago Erie, e, con un percorso di 584 km., raggiunge il Hudson a Waterford, superando un dislivello di 174 m. Costruito nel 1825, fu ripetutamente allargato e fu raddoppiato con lo State Barge Canal, che supera il dislivello con 35 conche. Il Lago Erie poi è congiunto con il Huron dal canale di Detroit, e con il Lago Superiore dai due canali (Canadese e Americano) di Santa Maria. Queste opere, insieme con il grande canale canadese scavato per girare l'ostacolo della cascata del Niagara, collegano i Grandi Laghi con l'Atlantico, tanto attraverso il S. Lorenzo come attraverso il Hudson.
L'intenso traffico di questi canali interlacuali ha sempre un enorme volume e attraverso a essi i prodotti della zona interna, come il frumento dell'alto Mississippi, il ferro e il rame del Lago Superiore, il carbone della Pennsylvania, le derrate agricole e le macchine di Duluth, di Chicago, di Detroit e di Buffalo, hanno libero passaggio verso l'Atlantico.
Il Mississippi, che è navigabile a partire da S. Paolo ed è accessibile ai grossi piroscafi a valle di Saint Louis, è collegato ai Grandi Laghi per mezzo del canale d'Illinois, e l'Ohio, con i canali che lo uniscono ai Grandi Laghi e a Filadelfia, ha sempre un traffico imponente. Nel 1930 i canali dello stato di New York ebbero un movimento di merci di 3.270.000 tonn., e di esse 2.761.000 tonn. passarono per le linee acquee della Erie-Division; il St Marys Falls Canal nello stesso anno portò 66.118.000 tonn. di merci.
I porti dei Grandi Laghi complessivamente raggiunsero un traffico di 106 milioni di tonnellate in arrivo e di 110 milioni in partenza: Buffalo ricevette 11 milioni e ne spedì 2,3 milioni; Chicago, rispettivamente, 10,2 e 1,4 milioni; Duluth 10,2 e 31,2 milioni; Cleveland 8,7 e 1,9 milioni; Milwaukee 5,5 e 1,7 milioni di tonnellate di merci.
Questi sistemi di vie navigabili sono però minorati dalle siccità estive e dai congelamenti invernali: il Hudson stesso è sbarrato dai ghiacci per tre mesi all'anno. E poiché il Mississippi scende al Golfo del Messico, mentre gli emporî commerciali si trovano sulla riva dell'Atlantico, moltissime merci, specie quelle di valore, sono avviate ai porti e mercati orientali per mezzo delle ferrovie.
Ferrovie. - Le linee ferroviarie principali sono le transcontinentali che dalla costa dell'Atlantico portano alla costa del Pacifico. La prima di queste linee fu compiuta nel 1869 ed è la Central Pacific, che collega New York con Chicago, passa quindi per Omaha, supera il baluardo delle Rocciose al Passo Evans, attraversa il Grande Bacino e per il Donner Pass raggiunge S. Francisco. La sua costruzione fu difficile e assai contrastata, ma già pochi anni dopo si dovette procedere alla costruzione di altre linee similari. Attualmente le principali linee transcontinentali da N. a S. sono: a) la Great Northern Pacific, da Duluth sul Lago Superiore a Seattle e Olympia sul Pacifico; b) la Northern Pacific, da New York ad Astoria per S. Paolo, Seattle e Portland; c) la Central Pacific già ricordata; d) la Santa Fe-Pacific, da New York a Saint Louis, Kansas City, Santa Fe e S. Francisco; e) la Southern Pacific, da New Orleans a S. Francisco per El Paso e Los Angeles.
Le intersecano numerose linee con andamento meridiano come: 1. la linea costiera dell'Atlantico, che dal confine della Nuova Brunswick per New York, Richmond e Atlanta raggiunge New Orleans, con diramazione per Charleston e la Florida; 2. la Pan American Railway, che da Winnipeg nel Canada, per S. Paolo e Chicago scende a Saint Louis e finisce a Laredo sul confine del Messico; 3. la linea costiera del Pacifico che da Vancouver e Seattle, passando per Portland, S. Francisco e Los Angeles, si congiunge alla ferrovia occidentale del Messico.
Imponente è il numero delle linee di raccordo e di quelle che s'irradiano dai centri maggiori. La rete ferroviaria è naturalmente molto più fitta nelle zone industriali e di alta produttività del Medio Atlantico e della pianura settentrionale, e va alleggerendosi e diradandosi mano mano si procede verso O., specialmente nelle Montagne Rocciose. In generale si deve ricordare che le ferrovie furono linee di penetrazione e che a partire dal 1850 la colonizzazione dei territorî è stata preceduta dalle ferrovie o è progredita di pari passo con esse. I maggiori centri ferroviarî, oltre ai grandi porti orientali, sono: Chicago, Saint Louis, Memphis nella pianura centrale, Città del Lago Salato sugli altipiani; Seattle, S. Francisco e Los Angeles sul Pacifico. La rete ferroviaria degli Stati Uniti, con i suoi 400 mila km., supera quella europea e forma circa un terzo della rete mondiale. Circolavano su di essa nel 1930 60.189 locomotive, 53.584 carrozze passeggeri con 1063 milioni di viaggiatori e 2.322.267 carri merci che trasportarono 1816 milioni di tonnellate. Le linee elettriche misuravano, nel 1927, km. 65.500, di cui oltre 16 mila km. appartenenti agli stati del NE. e a quelli del Centro N.
Il traffico ferroviario di passeggeri e di merci è enorme e incomparabilmente superiore a quello di qualunque altro paese del mondo.
Le linee ferroviarie sono state costruite e sono gestite da compagnie private, quali la New York Central Railway (18.380 km.), la Pennsylvania R. (17.530 km.), la Southern Pacific (14.700 chilometri), ecc.
Strade ordinarie. - Le strade ordinarie furono per lungo tempo limitate alle immediate vicinanze dei centri maggiori, perché le ferrovie provvedevano ai bisogni dei traffici e della circolazione. Ma il recente grandioso sviluppo dell'automobilismo ha imposto la costruzione di grandi strade a fondo artificiale adatte al nuovo traffico. Il problema venne affrontato con larghissimi mezzi e i varî stati spesero oltre un miliardo e mezzo di dollari per la costruzione di nuove strade macadamizzate e per la trasformazione delle vecchie. Tuttavia si è ancora lontani dalla meta e nel 1930 su quasi 5 milioni di km. di strade ordinarie, più di tre e mezzo erano inadatte al traffico automobilistico. Le strade macadamizzate, più numerose nella zona occidentale, collegano i grandi centri industriali e commerciali dell'Atlantico con quelli delle pianure centrali: 21 milioni di vetture automobili, 95.900 autobus, 3 milioni e mezzo di autocarri, sono le cifre, relative al 1930, che denunciano l'importanza del moderno veicolo. Le linee automobilistiche in servizio pubblico sono assai numerose e la loro rete supera lo sviluppo delle ferrovie.
Aviazione civile, posta, telegrafi e telefoni. - L'aviazione commerciale americana dipende dal "ramo aereo" del Dipartimento del commercio. Il ramo aereo è ripartito in due divisioni: di navigazione aerea e di regolamentazione aerea. La prima comprende tre servizî: il servizio manutenzione rotte aeree, il servizio ricognizione aerea e il servizio sviluppo aereo; dal primo dipende la sezione consultazione aeroporti, dall'ultimo dipendono: la sezione ispezione tecnica e costruzioni, quella delle comunicazioni, quella cartografica, quella equipaggiamento radio, e quella studî e ricerche. La divisione regolamentazione aerea comprende tre servizî: quello di ispezione aviolinee, quello d'ispezione generale e quello d'ispezione alle costruzioni: a questi tre servizî fanno capo quattro sezioni: la sezione registrazione, la sezione incidenti di volo, la sezione medica e la sezione disciplina. L'ufficio del capo del ramo aereo ha una sezione amministrativa e una informazioni.
Gli Stati Uniti contano (1936) circa 14.800 piloti civili, brevettati, in attività di volo; hanno inoltre più di 2350 aeroporti, di cui circa 700 illuminati e attrezzati per voli notturni. Le linee aeree interne coprono, su 23 rotte, circa km. 45.500; quelle di comunicazione con l'estero circa 52.000 km.
Lo stato illumina 30.000 chilometri di tali rotte aeree, tiene in funzione 94 stazioni di radiofari, 70 stazioni radiofoniche, 80 stazioni radiogoniometriche, 200 stazioni meteorologiche con telescriventi (la cui rete è estesa a 19.000 chilometri di percorso), oltre 320 stazioni telescriventi, 1500 fari rotanti, 290 fari a lampo.
L'aviazione postale dipende dal secondo vicedirettore del dipartimento delle poste ed è esercitata da compagnie private sovvenzionate. Mentre in principio alcune compagnie impiegavano per il trasporto della posta solo velivoli speciali con unico pilota a bordo, recentemente si è manifestata la tendenza di adibire al servizio postale anche i velivoli da trasporto di passeggeri e merci.
Negli Stati Uniti esistono circa 9072 velivoli civili, e 435 alianti. Le società di navigazione aerea sono 23.
Il servizio postale del 1932 era disimpegnato da 48.159 uffici che annualmente spediscono più decine di miliardi di plichi; nello stesso anno la posta ebbe un introito di 588 milioni di dollari. Il servizio telegrafico è esercitato da compagnie private di cui le più importanti sono la Western Union Telegraph Co. e la Mackay Co.: 3 milioni e mezzo di chilometri di filo e 229 milioni di telegrammi spediti sono i dati relativi al 1930. Il servizio telefonico è pure esercitato da compagnie private e il telefono è così diffuso che nel 1930 si contavano 20.201.000 apparecchi, cioè 165 telefoni per ogni mille abitanti: si può dire che non vi sia famiglia senza telefono.
Il servizio di radiotelegrafia e radiotelefonia a sua volta ha raggiunto proporzioni enormi con centinaia di stazioni trasmittenti e milioni di apparecchi riceventi.
Marina mercantile e porti. - La marina mercantile che per lungo tempo ebbe una modesta importanza di fronte alla marina della Gran Bretagna, durante la guerra mondiale ha segnato un progresso formidabile, e ha raggiunto ora il secondo posto nel mondo, comprendendo circa un quarto del tonnellaggio mondiale.
La marina mercantile, nonché le costruzioni navali, furono negli Stati Uniti, fino dalle origini, protette e assistite con ogni mezzo, e conobbero periodi di grande rigoglio specialmente dopo la rivoluzione, quando la flotta da traffico ascendeva gradualmente dalle 123.893 tonn. del 1789, che trasportavano il 23,6% del traffico estero, alle 981.019 tonnellate del 1810, che ne trasportavano un'altissima quota: il 91,5%. Si ha poi un periodo di regresso imputabile a cause varie, fra cui, preminente, il fatto che l'industria armatoriale non è più preponderante fra le altre americane, mentre gli Stati Uniti avevano iniziato quella spinta verso Ovest che aprì alla vita un immenso retroterra. D'altra parte il sistema protettivo mostrava le prime fenditure; la marina sino al 1830 decadde (tonn. 537.563), ma riprese poi gradualmente, aiutata dal basso prezzo delle costruzioni e dal basso costo di esercizio.
La flotta da traffico americana aveva comunque raggiunto l'apice nel 1860: 2.496.000 tonn.; da quell'anno ha inizio la decadenza. La guerra di Secessione decurtò il materiale a 1.387.756 tonn. nel 1866 e assorbì ogni altra energia; nel 1845 avevano avuto inizio le sovvenzioni postali a linee di piroscafi ("Ocean Steamship" per un servizio New York-Le Havre-Brema; poi, nel 1847, altra sovvenzione alla "Collins Line" per un servizio quindicinale su Liverpool); ma una legge del 1858 ridusse molto l'assistenza erariale; i cantieri americani, la cui prosperità si era basata sull'abbondanza di legname, non riuscirono più a reagire contro quelli inglesi che avevano adottato risolutamente il ferro. Si aggiunga che dopo la guerra di Secessione l'attenzione del pubblico, nello stupendo rigoglio delle industrie di terraferma artificialmente protette, fu sempre più stornata dal mare; il naviglio di concorrenza si ridusse a cifre minime, mentre quello addetto al traffico riservato alla bandiera (cabotaggio e Grandi Laghi) raggiunse nel 1913 quasi sette milioni di tonnellate. Il senso marinaro però non fu spento del tutto; esso riprese forza a grado a grado insieme con la rinascita della marina da guerra, che era pure scesa a basso livello dopo il 1866, ma che poté ridare prove di sé nella guerra cubana del 1898. Questo conflitto dimostrò che la marina da traffico nazionale non era riuscita a fornire all'armata il naviglio ausiliario occorrente, sia pure per una guerra breve con una potenza non di primo ordine; tale disagio fu meglio valutato durante la guerra boera, quando circa 250 navi britanniche che assicuravano i trasporti degli Stati Uniti vennero ritirate arrecando gravissimi danni al commercio americano. Lo scoppio della guerra mondiale accelerò i tempi, dato che i caricatori e importatori degli Stati Uniti sentirono subito di non potere più contare sulle bandiere inglese e tedesca. Il 18 agosto 1914 lo Ship Register Act abrogò completamente il divieto di nazionalizzazione del naviglio acquistato all'estero; in conseguenza, al 30 giugno 1915, già 523 mila tonn. lorde erano venute ad aumentare la marina americana. Gli avvenimenti maturarono sino al 1916, quando lo Shipping Act del 7 settembre creò un organismo statale autonomo, lo United States Shipping Board, che ha avuto importanza enorme nella formazione della nuova marina mercantile americana. A questo furono affidati i seguenti compiti: 1. ordinare, di preferenza a cantieri americani, acquistare o noleggiare navi adatte a servire da ausiliarie all'armata, da trasporti militari o per altri scopi bellici, marittimi e terrestri, in misura tale da rispondere ai bisogni del traffico nazionale e assumerne la gestione; 2. controllare l'armamento privato allo scopo di evitare discriminazioni o metodi sleali contro i caricatori americani.
Poiché il naviglio mercantile disponibile diventò tutto indispensabile alla prosecuzione del conflitto, fu creata, in base a una legge del 1916, una flotta di stato, acquistata e gestita per il tramite di una Emergency Fleet Corporation, costituita nell'aprile 1917 con 50 milioni di dollari di capitale, tutto sottoscritto, praticamente, dallo Shipping Board per conto dell'erario.
L'entrata in guerra degli Stati Uniti accelerò il ritmo di aumento del naviglio; nuovi stanziamenti vennero approvati dal Congresso, che, fra il 15 giugno 1917 e il 1° luglio 1918, autorizzò la spesa, per costruzioni navali, di 2.884.000 dollari; per secondare lo sforzo, cento nuovi cantieri furono aggiunti, nel 1917, ai trenta prebellici; alla data dell'armistizio essi erano diventati 223 con 1099 scali, il 40% dei quali adatti a costruzioni metalliche; la produzione, limitata nel 1914 a 143 mila tonn. lorde, salì, nel 1919, a quattro milioni di tonnellate; quattro navi al giorno furono consegnate in quell'anno allo Shipping Board. Al 30 giugno 1919 la consistenza della marina mercantile americana ascendeva già a tonn. 6.665.000 in confronto a 1.006.000 della stessa data del 1914 essa, al 30 giugno 1921, passò a tonn. 11.081.000, di cui 7.993.000 - quasi tutte navi da carico - di proprietà dello Shipping Board; la quota della bandiera nazionale nel traffico marittimo degli Stati Uniti salì da 9,7% nel 1914 a 71,9% nel 1919; a 42,7% nel 1920. Dopo l'armistizio si arrestarono le ordinazioni statali; da 3.579.826 tonn. varate nel 1919 si scese a 1.004.093 nel 1921, a 100 mila tonn. in media negli anni successivi. Nasce allora il problema dell'impiego redditizio di questa emergency fleet, costruita con tanta fretta, composta quindi in gran parte di unità di scarso rendimento e pagata a caro prezzo. Il Board tentò, nei primi del 1920, d'iniziare la vendita delle navi, ma con insuccesso, dato l'alto prezzo richiesto; ne affidò l'esercizio a gestori, rimunerati con una quota del nolo lordo restando tutte le spese a carico dell'erario. Intervenne frattanto il collasso del mercato mondiale dei noli; il commercio americano chiese l'urgente liquidazione della flotta di stato e il ritorno alla gestione privata assistita dall'erario; venne all'uopo emanato il Jones Act del 5 giugno 1920, che riorganizzava e consolidava lo Shipping Board, dandogli, nello stesso tempo, le direttive per l'urgente liquidazione del naviglio e organizzando un sistema di assistenza erariale della marina nazionale, destinata a passare in possesso e in gestione di privati. Il sistema assistenziale fu poi completato e perfezionato dal Jones White Act del 22 maggio 1928.
Per questo, lo Shipping Board fu incaricato di stabilire il numero e le caratteristiche delle linee di navigazione più adatte a favorire l'espansione dei traffici nazionali; di vendere (o noleggiare, qualora il prezzo non fosse soddisfacente) le proprie navi agli armatori che si obbligassero a istituire e mantenere tali linee per un determinato periodo. Non trovando acquirenti e noleggiatori, il Board le avrebbe direttamente gestite, in attesa sempre della vendita eventuale; gli era però fatto divieto, quanto ai servizî in concorrenza con linee americane, di quotare noli inferiori al costo di esercizio, compreso un ragionevole ammortamento e interesse sul capitale.
Il sistema protettivo si basò: 1. sulla costituzione di un fondo assicurazioni; 2. su quella di un fondo mutui, a tasso non elevato, agli armatori che intendessero ordinare nuove navi o rimodernare o modificare quelle esistenti; 3. su riduzioni d'imposte sui sopraprofitti di guerra per un decennio; 4. sulla riserva dei trasporti postali alla bandiera.
Il Board aumentò i tentativi di liberarsi dalla flotta di stato. Dal 1921 al 1928 riuscì a vendere un complesso di 5½ milioni di tonn. d. w.; ma al 30 giugno di quell'anno la flotta di stato era ancora costituita da 6 milioni circa di tonn. d. w., di cui 3.875.000 assolutamente inefficienti, in disarmo. Una parte del naviglio continuò a essere gestita dalla Merchant Fleet Corporation, che persisteva nella concorrenza all'armamento libero americano; una parte passò in gestione a privati, che il Board, a datare dal 1927, compensò con un sistema più efficace del precedente, e cioè con una commissione in misura inversamente proporzionale alle perdite di esercizio. E naturalmente, data anche la riduzione della flotta statale, diminuirono le perdite di esercizio, che si aggiravano su 190 mlioni di dollari dal 1922 al 1928, e che passarono, da 41 milioni di dollari nell'esercizio 1923-24, a 16,3 in quello 1927-28. Nel 1928 furono ritenuti necessarî altri provvedimenti per rafforzare la situazione americana sul mare, rinnovando anche il materiale antiquato; si arrivò così al già citato Jones White Act che oltre a rafforzare, come si è visto, l'assistenza erariale, portò un'innovazione importante: le sovvenzioni postali o Ocean Mail contracts. Al 30 giugno 1933, già 45 convenzioni erano state stipulate per l'esercizio di 57 linee, con una spesa annuale di 20 milioni di dollari; ma l'elemento caratteristico di tali convenzioni è costituito dall'enorme sproporzione fra gli esborsi dell'erario e la spesa effettiva del servizio reso. Negli esercizî finanziarî 1929-33 lo stato erogò 89½ milioni di dollari mentre, sulla base del peso, la spesa trasporto degli effetti postali sarebbe dovuta rimanere inferiore a 13 milioni. Altissimo è dunque il margine di protezione insito nelle sovvenzioni americane, le quali sono, più che altro, intese come un premio per conseguire lo sviluppo qualitativo e quantitativo del naviglio nazionale. Comunque è da notare che i due acts nominati sono andati raggiungendo gli scopi prefissi; la flotta statale è ormai quasi completamente smobilitata, gli armatori liberi hanno usufruito del fondo mutui (e infatti i prestiti che nel 1928 ascendevano a meno di 15½ milioni sono passati nel 1933 a 147½); il programma di naviglio sovvenzionato previsto (69 nuove costruzioni e 57 navi rimodernate) è stato in gran parte ultimato.
L'autonomia dello Shipping Board cessò il 10 giugno 1933, essendo l'ente passato al Ministero del commercio; molte critiche gli furono mosse; occorre però riconoscere che, nei 17 anni della sua esistenza, sono stati formati gli equipaggi, sono stati addestrati gli armatori; la marina a propulsione meccanica è passata da 1.971.903 tonnellate lorde del 1914 a 10.088.438 tonn. del 1934. Dell'enorme flotta statale da esso costituita e gestita nel dopoguerra - 2356 navi di ogni tipo, 14.706.217 tonn. d. w. - più non gli rimanevano, al 30 giugno 1933, che 2.598.261 tonn., di cui soltanto 49.896 (tutte da carico) in armamento; il resto, a prescindere dalla parte andata in demolizione, è adesso posseduto dall'armamento privato. Tali risultati sono stati raggiunti, è vero, con enorme spesa, ma oggi esiste una marina americana che è, per la quantità, la seconda del mondo; circa settecento navi per quasi 4 milioni di tonnellate lorde sono addette al movimento internazionale, il traffico degli Stati Uniti con l'Europa è aumentato del 50%; con l'America Meridionale del 200%; con l'Africa del 325%; con l'Asia del 380%.
Al 30 giugno 1935 la marina americana dedita a navigazione marittima costituisce, secondo il Lloyd's Register (1935-36), un blocco di 10.190.091 tonn. lorde, fra cui: 2205 piroscafi per tonn. 8.956.834; 348 motonavi per tonn. 707.831 (sotto questo riguardo gli Stati Uniti sono al 3° posto nel mondo); 663 velieri per tonn. 226.864 (alla navigazione lacuale sono dedite 570 navi per tonn. 2.583.280). Prevalgono in questa massa i piroscafi a combustibile liquido: 1545 per tonn. lorde 7.919.355; le cisterne di stazza unitaria superiore a 1000 tonn. sono 388 per tonn. lorde 2.491.368, dando, sotto questo riguardo, alla marina americana il primo posto nel mondo. La flotta è, però, invecchiata; lo dimostra il fatto che soltanto 922.991 tonn. sono di età inferiore a 10 anni; il blocco più notevole è costituito da 1333 navi per tonn. 5.872.300, che hanno età fra 15 e 20 anni.
La marina americana, che aspira a trasportare la quasi totalità delle importazioni ed esportazioni nazionali, ha un vasto campo di azione sia nel cabotaggio, che si estende all'Atlantico e al Pacifico, sia in servizio dei trasporti di materie prime prodotte in patria: cotone, caucciù, petrolî, granaglie, frutta, ecc. L'esercizio è peraltro ostacolato dall'alto costo: il prezzo di costruzione, troppo elevato, si ripercuote sulle assicurazioni e sugli ammortamenti. Ciò è principalmente attribuito alle alte paghe delle maestranze: fenomeno normale, del resto, che s'inquadra nella politica degli alti salarî adottata negli Stati Uniti. Marina, dunque, ad alto costo di esercizio; alla quale sarà sempre necessaria l'assistenza erariale per darle modo di competere con le altre bandiere a basso costo. Le forme protettive fin qui escogitate non hanno dato risultati corrispondenti all'immenso sforzo finanziario; già dal 1934, il presidente Roosevelt decise che l'aiuto erariale si dovesse impostare su nuovi sistemi, particolarmente su aiuti diretti (straight subsidies).
Una frazione notevolissima dell'ingente traffico dei porti americani spetta a navi straniere fra le quali primeggia la bandiera inglese, seguita a distanza da quelle francese, italiana, tedesca, olandese, ecc. Il traffico si concentra nei grandi porti della costa atlantica e principalmente a New York, in cui passarono nel 1930 il 38% delle merci sbarcate e il 19% delle merci spedite oltre oceano. New York è di gran lunga il primo porto commerciale e il porto d'ingresso dei viaggiatori, poiché a esso fanno capo tutte le linee rapide dell'Atlantico.
Seguono per importanza Boston, Filadelfia, Baltimora, Newport, e anche in essi le importazioni prevalgono sulle esportazioni: la maggiore distanza di questi porti dall'Europa di NE. e il fatto di trovarsi più internati nel continente, ostacolano il loro sviluppo tanto più che essi non hanno facilità d'accesso all'interno. Nel Golfo del Messico New Orleans, sul delta del Mississippi, riceve un gran numero di prodotti dell'America Centrale e delle Antille, ma è specialmente lo sbocco del cotone e degli altri prodotti della zona meridionale: sebbene lontano dall'Oceano aperto, occupa il secondo posto tra i porti dell'Unione e il suo traffico è andato crescendo dopo l'apertura del canale di Panamá. Galveston, porto del Texas e del Nuovo Messico, esporta petrolio, cotone e grande quantità di prodotti. I porti commerciali del Pacifico sono: Los Angeles, S. Francisco, Seattle e Portland, ottimi e bene attrezzati: essi sono stazioni terminali delle grandi ferrovie transcontinentali e punto di partenza dei regolari servizî transpacifici. Ma la loro importanza complessiva è ancora modesta in confronto di quella dei porti dell'Atlantico, perché il loro retroterra è ristretto dalla zona di alte terre che li serra da vicino e le industrie vi sono ancora in una fase iniziale.
Commercio interno. - La grande estensione in latitudine e le conseguenti diversità climatiche, insieme con le differenze dovute alla morfologia e alla natura dei terreni e alla irregolare distribuzione delle ricchezze minerarie, dànno luogo a un'enorme varietà di prodotti agricoli e industriali: ne deriva una grande intensità di traffici e di scambî da stato a stato, specialmente tra le regioni centrali, grandi produttrici di generi alimentari e di materie prime come il cotone, con le regioni prevalentemente industriali del N. e del NE. Amplissima è poi la diffusione degli articoli, manifatturati nei distretti industriali del N. e del NE., in tutti i paesi dell'Unione. La grande rete ferroviaria e la ricca rete di vie acquee interne, insieme con la navigazione di cabotaggio, offrono a questi scambî comodità eccezionali, almeno nella metà orientale del territorio e permettono quell'intenso movimento di merci che è denunciato dalle statistiche e che supera notevolmente il movimento del commercio estero.
Commercio estero. - Nel 1929 il commercio estero ha raggiunto nel complesso il valore di 10 miliardi di dollari superando di circa un miliardo il commercio della Gran Bretagna. La bilancia commerciale si mantiene attiva con notevole eccedenza delle esportazioni sulle importazioni. Questa condizione di privilegio degli Stati Uniti è stata anche rafforzata per effetto della guerra mondiale, giacché gli Stati Uniti hanno accumulato nelle loro riserve gran parte dell'oro del mondo e sono diventati creditori di tutti i paesi d'Europa.
La composizione del commercio è mutata nel tempo; già esportatori di materie prime, cioè di prodotti greggi o semilavorati (cotone, petrolio, rame, grano, carne), di cui il territorio è così generosamente provvisto e importatori di prodotti manifatturati, gli Stati Uniti ormai comperano largamente materie prime e vendono prodotti lavorati dalle loro industrie. Tra le importazioni figurano, infatti, al primo posto la seta e il caucciù e i prodotti agricoli tropicali, come il cacao, il caffè, il tè e lo zucchero. Vengono in secondo luogo le lane, le frutta tropicali (banane) e lo stagno, il solo metallo che gli Stati Uniti non posseggono. E s'importano anche notevoli quantità di minerali di rame e di altri metalli, che l'industria americana lavora unitamente ai prodotti delle sue miniere, e così vengono raffinati i petrolî greggi del Messico e dell'America Centrale. Nelle esportazioni il primo posto spetta al cotone e al petrolio e suoi prodotti, cui seguono i filati e i tessuti, le carni e le conserve di carne, i grassi animali, il grano e la farina, il tabacco, il legname e la pasta di legno, varî minerali non metallici, il carbone, il ferro, l'acciaio e il rame, nonché macchine industriali e agricole e automobili.
Il commercio estero si svolge con tutti i paesi del mondo. Una rapida rassegna del movimento ci mostra l'imponenza complessiva del traffico e le caratteristiche delle singole correnti.
Il commercio con il Messico e gli altri paesi dell'America Centrale e delle Antille superò nel 1929 il valore di 900 milioni di dollari; le importazioni superarono le esportazioni, giacché gli Stati Uniti assorbirono in quell'anno, come in tutto il decennio 1921-1930, il 60% delle merci vendute dal Messico e dai paesi dell'America Centrale. Le importazioni comprendevano lo zucchero, le banane, il tabacco, la fibra sisal, il petrolio e i minerali di ferro. Le esportazioni di legname, cereali, carni, tessuti, articoli metallurgici e macchine raggiunsero i 430 milioni di dollari e perciò il Messico con l'America Centrale, come acquirenti di prodotti nordamericani, venivano al 3° posto dopo il Canada e l'Europa di NO.
Gli scambî con l'America Meridionale rappresentano un valore complessivo di poco maggiore. Nel quinquennio 1926-30 si raggiunse quasi il miliardo di dollari, e le importazioni superarono di circa 100 milioni le esportazioni. Gli Stati Uniti vendono a tutti i paesi dell'America Meridionale articoli di ferro e di acciaio, petrolio e suoi prodotti, molte merci manifatturate, carbone e legname. Le importazioni invece differiscono da regione a regione: dai paesi della costa atlantica vengono inviati cereali, caffè, lana, gomma e carni, mentre dalla costa occidentale vengono prodotti minerali e cioè, nitrati, petrolio, minerali di rame, di ferro di stagno.
Il maggior valore complessivo spetta al commercio con l'Europa. Da gran tempo le esportazioni americane in Europa superano di molto le importazioni; già prima del 1900 l'Europa comprava merci per un valore doppio di quello che non vendesse e dal 1900 la produzione andò sempre aumentando, raggiungendo il massimo durante gli anni della guerra mondiale, quando le importazioni dagli Stati Uniti sorpassarono i 4 miliardi di dollari in confronto dei 680 milioni esportati dall'Europa in America. Nel quinquennio 1926-30 si ristabilirono le proporzioni dell'anteguerra e gli Stati Uniti vendettero all'Europa per oltre due miliardi e un quarto di media annua, mentre comprarono per un miliardo e 200 milioni di dollari. Anche così ridotto, il posto dell'Europa nel commercio estero degli Stati Uniti è preponderante e, nel quinquennio ora ricordato, l'Europa assorbì poco meno della metà delle esportazioni americane e fornì poco meno di un terzo delle importazioni. Le esportazioni comprendono generi alimentari, combustibili liquidi, materie prime di origine animale, vegetale e minerale, e in minore quantità articoli manifatturati: tuttavia in alcune categorie, come, p. es., automobili, macchine da scrivere e macchine da cucire, la concorrenza americana si fece sentire notevolmente su tutti i mercati europei. Gli Stati Uniti comperano, invece, articoli manifatturati di qualità superiore, prodotti non lavorati o semilavorati, e prodotti agricoli e animali tipici di alcuni paesi europei, come olio d'oliva, frutta e limoni dalla Spagna e dall'Italia, vino dalla Francia, dall'Italia e dalla Spagna, formaggi dalla Svizzera e dall'Italia, ecc.
Il commercio con l'Asia si può suddividere in due campi: quello con l'Asia orientale e quello con l'Asia meridionale. Il primo è notevolmente inferiore al commercio transatlantico, perché, da un lato la concorrenza giapponese e dall'altro la scarsa capacità di acquisto delle popolazioni orientali, impediscono a questo commercio di raggiungere l'ampiezza che sarebbe lecito attendersi in base all'estensione territoriale e alla densità di popolazione dell'Estremo Oriente. Nel quinquennio 1926-30 le esportazioni americane non raggiunsero i 400 milioni e le importazioni superarono di poco i 500 milioni di dollari. Nell'Asia meridionale poi, la maggior parte dei territorî è formata di possedimenti coloniali europei e le merci delle potenze dominanti sono per varie ragioni preferite: spesso anzi forti barriere doganali ostacolano l'introduzione di prodotti americani. In conseguenza le compere degli Stati Uniti prevalgono sulle vendite: così nel quinquennio ricordato essi vendettero ai paesi dell'Asia meridionale merci per un valore complessivo di 180 milioni di dollari, mentre ne comperarono per 625 milioni.
L'America compera dall'Asia orientale seta, tè, canfora e altri prodotti animali e vegetali e manufatti artistici di grande valore, mentre vende prodotti di petrolio, legname, cotone greggio e macchinarî, nonché tabacco: in complesso il tonnellaggio delle esportazioni è doppio di quello delle importazioni. Anche nell'Asia Meridionale, l'America invia prodotti di petrolio e articoli di ferro e di acciaio, e ivi acquista fibre vegetali, gomma, pelli, tè, spezie, olî vegetali e alcuni minerali metallici, specialmente stagno.
Relativamente scarsi sono gli scambî con l'Africa e con l'Australia per le stesse ragioni cui abbiamo accennato parlando dell'Asia meridionale. Nel quinquennio considerato, gli Stati Uniti vendettero all'Africa e all'Oceania, rispettivamente, merci per 109 e 177 milioni all'anno e ne comperarono per 91 e per 53 milioni.
Il commercio col Canada occupa il secondo posto nel commercio esterno degli Stati Uniti e nel quinquennio 1925-30 raggiunse il valore medio annuo di 1290 milioni di dollari, di cui 829 milioni spettano alle esportazioni e 470 milioni alle importazioni. Gli Stati Uniti forniscono oltre il 65% delle importazioni canadesi e assorbono circa due quinti delle esportazioni dal Canada, il che dimostra l'importanza delle relazioni tra i due paesi, strettamente congiunti per contiguità territoriale e i cui prodotti sono complementari.
Commercio italo-americano. - Il commercio con l'Italia, che nel 1913 era di 791 milioni di lire oro, raggiungeva il punto più alto nel 1925 quando gli scambî italiani rappresentavano un valore di 8063 milioni di lire carta (1660 milioni di lire oro), di cui 6175 spettavano alle importazioni in Italia e 1888 alle esportazioni italiane negli Stati Uniti. Negli anni successivi il commercio diminuì e segnò un grave sbalzo sia nelle importazioni italiane, sia nelle esportazioni. Nel 1933 il valore degli acquisti dagli Stati Uniti fu di 1113 milioni di lire, mentre l'Italia vendette soltanto per 517 milioni. L'Italia importa cotone (629 milioni), frumento (95,5), rame e sue leghe (39,4), legname, olî minerali lubrificanti e paraffine, pelli preparate, rottami di ferro e benzina. Le merci italiane vendute sono: formaggi (87 milioni di lire), conserva di pomodoro (62), seta tratta (68), cappelli di feltro, tessuti e manufatti di rayon, olio d'oliva, tessuti di cotone e di lana, vini e vermouth, agrumi, ecc.
Gran parte di questi prodotti sono diretti ai numerosi Italiani (3.700.000) che vivono negli Stati Uniti e che continuano a consumare prodotti della madre patria. Le alte barriere doganali dell'America Settentrionale impediscono che le nostre esportazioni siano più vaste e quali potrebbero essere, tenuto conto del grande numero di italiani che vivono in quel paese.
Suddivisione politico-amministrativa.
Come è stato già accennato, gli Stati Uniti sono una confederazione di 48 stati (repubbliche), un distretto federale (che comprende la capitale della confederazione, Washington) e due territorî esterni (l'Alasca e le Hawaii; v. sotto queste voci).
Nella tabella che segue sono riuniti i dati di superficie e di popolazione dei singoli stati e del distretto federale.
Dipendenze coloniali.
L'Alasca (1.518.714 kmq., 59.278 ab. nel 1930), acquistata dalla Russia nel 1867, e le isole Hawaii (16.593 kmq., 384.439 ab. nel 1935), annesse nel 1898, sono territorî dell'Unione, dipendenti dal ministero dell'interno. Sono possedimenti esterni: Portorico (Puerto Rico: 8896 kmq., 1.543.913 ab. nel 1930), ceduta dalla Spagna nel 1898; alcune delle Isole Vergini (344 kmq., 22.012 ab. nel 1935), acquistate dalla Danimarca nel 1916; la Zona del Canale di Panamá (1422 kmq., 41.102 ab. nel 1935), acquistata dal Panamá nel 1903; l'isola di Guam la principale delle Marianne (534 kmq., 20.899 ab. nel 1935), ceduta dalla Spagna nel 1894, e alcune delle Samoa (197 kmq., 10.561 ab. nel 1933). Le isole Filippine (296.285 kmq., 13.055.220 ab. nel 1934), cedute dalla Spagna nel 1899, sono state elevate a dominion nel 1934 e diverranno pienamente indipendenti al più tardi nel 1944. Per maggiori ragguagli, vedi le singole voci.
Bibl.: Pubblicazioni ufficiali. - Cartografia. - a) Abbondantissima è la produzione ufficiale e scientifica dei singoli Departments. Interessano particolarmente la geografia le seguenti pubblicazioni, edite quasi interamente dal Government Printing Office di Washington: U. S. Department of the Interior, U. S. Geological Survey: Annual Reports, Professional Papers, Bullettins, Water Supply Papers; a questi si devono aggiungere gli studî e le ricerche dei Geological Surveys dei singoli stati dell'Unione e delle varie università. Interessano ancora la geografia fisica degli Stati Uniti, le pubblicaz. generali e speciali dell'U. S. Department of Commerce, U. S. Coast and Geodetic Survey. Intensa è la produzione dell'U. S. Department of Commerce, Bureau of the Census: Census of the United States, rilevamento statistico effettuato ogni 10 anni, a partire dal 1790. Il censimento riguarda, si può dire, tutti gli aspetti demografici ed economici dell'Unione, comprendendo le seguenti branche (1930): Population; Unemployment; Agriculture; Horticulture; Irrigation; Drainage; Manufactures; Mines and quarries; Distribution Reports; Construction Industry; Miscellaneous. Dello stesso Bureau of the Census è il rilevamento biennale delle industrie, per categorie, stati e città: Census of Manufactures. Ingente è la produzione dell'U. S. Department of Agriculture, mediante i Department Bulletins e i Technical Bullettins, cui si devono aggiungere le opere delle Experiment Stations of Agriculture delle varie università, collegi e stati. Da ricordare, inoltre, i Soil Survey Reports del Bureau of Chemistry and Soils dello stesso Department; ottimo è poi lo Yearbook of Agriculture, che annualmente fornisce copiosi dati sulla produzione agricola degli Stati Uniti, preceduti da un'ampia trattazione. Interessanti le pubblicazioni del Bureau of Fisheries dell'U. S. Department of Commerce, il cui Bureau of foreign and domestic commerce pubblica un ingente materiale statistico. Da ricordare soprattutto il Commerce yearbook (vol. I: United States; vol. II: Foreign Countries); lo Statistical Abstract of the United States; le Domestic Commerce Series; il Foreign Commerce and navigation of the United States; il Monthly summary of foreign commerce of the United States; i Commerce Reports (settimanali), ecc. Riguardo il traffico mercantile dell'Unione, le pubblicazioin dell'U. S. Shippings Board Bureau of Research: Report on volume of water born foreign commerce of the United Statse by ports of origin and destination, parti 1ª e 2ª; lo United States water born intercoastal traffic by ports of origin and destination and principal commodities: il Water born passenger traffic of the United States. Lo U. S. War department in collaborazione con l'U. S. Shipping Board pubblica le Port Series, volumi riguardanti le condizioni geografiche ed economiche dei porti dell'Unione situati sull'Atlantico, sul Golfo del Messico e sul Pacifico; le Lake Series, con i dati sui centri lacustri del Mediterraneo nordamericano; le Transportations Series e cioè il Transportation on the Great Lakes e il Transportation in the Mississippi and Ohio valleys: inoltre le Miscellaneous Series.
b) Per quanto riguarda la cartografia, è da ricordare innanzi tutto il rilevamento topografico esteso a tutta l'Unione e in via di completamento, alla scala di 1 : 62.500, pubblicato dall'U. S. Department of Interior, U. S. Geological Survey. Non mancano carte topografiche a scale diverse, tra le quali sono da ricordare quelle illustranti alcune metropoli (New York 1 : 21.600; Chicago 1 : 24.000; Los Angeles 1 : 24.000; Rochester, ecc.). Delle carte d'insieme, non molto numerose, sono da ricordare: Rand Monally Company, Standard Map of United States, Chicago 1929, alla scala di 1 : 5.000.000; National Geographic Society, The United States and adjoining portions of Canada and Mexico, Washington 1933, alla scala di 1 : 5.195.520. Tra le carte geologiche sono da ricordare quelle pubblicate dall'U. S. Geological Survey: Geologic Map of the United States, Washington 1932, 4 fogli alla scala di 1 : 2.500.000; l'ottimo Geologic Atlas of the United States (U. S. Department of the Interior, U. S. Geological Suivey), in fascicoli, in corso di completamento, contenenti la parte cartografica e un'ampia trattazione. Importantissimi poi lo Statistical Atlas of the United States edito dall'U. S. Department of Commerce, Bureau of the Census, Washington 1925; l'Atlas of American Agriculture, dell'U. S. Department of Agriculture, Bureau of Agricultural Economics, serie di fascicoli illustranti le condizioni fisiche dell'Unione, con ampie tavole e trattazione. Utili anche le seguenti carte: U. S. Department of Agriculture, Bureau of Agricultural Economics: Natural land-use areas of the United States, Washington 1933, a 1 : 4.000.000; U. S. Department of the Interior, U. S. Geological Survey, Oil and Gas Fields of the United States; Washington 1932, 2 fogli a 1 : 2.500.000. Numerose sono le carte riguardanti le ferrovie e le linee aeree. Un posto a sé occupa l'opera fondamentale di Ch. O. Paullin, Atlas of the historical geography of the United States, a cura della Carnegie Institution of Washington e dell'American Geographical Society of New York, 1932 (all'ampia e documentata trattazione fanno seguito 166 carte riguardanti l'evoluzione storica dell'Unione, l'ambiente demografico sotto i suoi molteplici aspetti, lo sviluppo topografico dei principali centri, ecc.).
Opere di carattere generale. - C. D'Estournelles, Les États-Unis d'Amérique, Parigi 1917; E. Meyer, Die Vereinigten Staaten von Amerika, Francoforte sul Meno 1920; K. Hassert, Die Vereinigten Staaten von Amerika, Tubinga 1922; F. Roz, L'Amérique nouvelle, Parigi 1923; A. P. Brigham, The United States of America, Londra 1927; Ch. Cestre, Les États-Unis, Parigi 1927; O. Kende, Die Vereinigten Staaten von Amerika, Amburgo 1927; F. Roz, Les États-Unis d'Amérique, Parigi 1927; G. N. Tricoche, Trente années aux États-Unis, ivi 1927; A. Siegfried, Die Verinigten Staaten von Amerika, Lipsia 1928; F. Schönemann, Die Vereinigten Staaten von Amerika, voll. 2, Stoccarda 1930; C. Errera, Stati Uniti, in Geografia universale illustrata, VI, Torino 1934; J. Stultz, Die Vereinigten Staaten von Amerika, Friburgo 1934.
Opere sulle condizioni fisiche, climatiche, fluviali, sismiche, sulla vegetazione e sulla fauna. - a) N. M. Fennomann, Physiographic boundaries within the United States, in Annals of Assoc. of American Geographers, 1914, pp. 84-134; id., Physiogeographic divisions of the United States, ibid., 1928, pp. 261-353; H. H. Bennett, Soil erosion in the United States, in Pacific Science Association, Proceedings of the Fourth Pacific Science Congress, IV, 1929, pp. 333-353; L. A. Wolfanger, The major soil divisions of the United States: a pedologic-geographic survey, New York 1930; A. R. Hulbert, Soil: its influence on the history of the United States, New Haven 1930; W. M. Davis, Physiographic Contrasts, East and West, in Scientific Monthly, 1930, pp. 394-415, 506-519; H. H. Bennet, The problem of Soil erosion in the United States, in Annals of Assoc. of American Geographers, 1931, pp. 147-170; D. Johnson, A theory of Appalachian geomorphic evolution, in Journal of Geology, 1931, pp. 497-508; W. Strzygowski, Zur Morphologie der Rocky Mountains, in Mitteilungen der geog. Gesell. in Wien, 1933, pp. 205-223; R. S. Butler, Ore deposits of the United States in their relation to Geologic Cycle, in Economic Geology, 1933, pp. 301-328; N. H. Heck, The seismicity of the United States, in Matériaux pour l'Étude des calamités, n. 29, Ginevra 1933, pp. 3-20;
b) A. J. Henry, Climatology of the United States, Washington 1906; R. De C. Ward, Climatic subdivisions of the United States, in Bulletin of the American Geographical Society, 1913, pp. 672-680; id., Rainfall types of the United States, in Geographical Review, 1917, pp. 131-144; id., The climates of the United States, Boston 1925; U. S. Department of Agriculture, Weather Bureau, Summaries of climatological data by sections (sotto la direzione di C. F. Marvin), Washington 1926, voll. 3; P. C. Day, The daily, monthly and annual normals of precipitation in the United States, based on the 50- year period, 1878 to 1927 inclusive, in Monthly Weather Review, supplemento n. 34, 1930; E. Fitton e Ch. F. Brooks, Soil temperatures in the United States, in Monthly Weather Review, 1931, pp. 6-16; E. C. Miller, Relative frequency of centers of Cyclones and Anticyclones in the United States, ibid., 1932, pp. 6-11; H. M. Kendall, Notes on climatic boundaries in the Eastern United States, in Geographical Review, 1935, pp. 167-124;
c) H. C. Frankenfield, The floods of 1927 in the Mississippi Basin, in Monthly Weather Review, supplemento n. 29; O. Messerly, Les inondations aux États-Unis en novembre 1927, in Matériaux pour l'étude des calamités, Ginevra 1928, pp. 42-50; W. H. Haas, The Mississippi problem, in Annals of Association of American Geographres, 1929, pp. 1-7; M. Pardé, Le régime du Mississippi, in Revue de Géographie Alpine, 1930, pp. 583-693; W. H. Haas, The Mississippi River, asset or liability, in Economic Geography, 1931, pp. 252-262; Ll. Rodwell Jones, Some notes on runoff and stream regime in the United States, in Geography, 1935, pagine 247-260; O. F. Evans, Bathymetric studies of the Lake Michigan basin, in Geographical Review, 1935, pp. 667-670; G. Fawke, The evolution of the Ohio River, Indianapolis 1933;
d) J. Boxman, Forest physiography. Physiography of the United States and principles of Soils in relation to forestry, New York 1911; F. Shreve, A map of vegetation of the United States, in Geographical Review, 1917, pp. 119-1257; R. E. Livingston e F. Shreve, The distribution of vegetation in the United States as related to climatic conditions, Washington 1921; Lucie e Wendell Chapman, With wild animals in the Rockies, in The National geogr. Magazine, agosto 1935, pp. 231-249.
Opere sulle condizioni demografiche generali. - Le città. - a) L. H. Bairley, The country-life movement in the United States, New York 1911; F. J. Turner, Geographic Sectionalism in American History, in Annals of Association of American Geographers, 1926, pp. 85-93; L. E. Truesdell, Farm population of the United States, Washington 1926; C. A. Beard e M. R. Beard, The rise of American civilisation, New York 1927, voll. 2; A. Wolfe, Some population gradients in the United States, in Geographical Review, 1928, pp. 291-301; W. Grotkopp, Amerikas Schutzzollpolitik und Europa, Berlino 1929; R. Dietrich, Volkstum und Rasse in den Vereinigten Staaten von Amerika, in Mitteilungen der geograph. Gesell. in Wien, 1930, pp. 253-269; R. Heberle, Landwirtschaftliche Wanderarbeiter in den Vereinigten Staaten von Amerika, in Weltwirtschaftliches Archiv, 1930, pp. 618-640; J. W. Thompson, Population and its distribution, New York 1931; S.-M. Benoit, Histoire et méthodologie du recensement de la population aux États-Unis (1788-1930), Parigi 1931; P. R. Vance, Human geography of the South, Chapel Hill 1932; Grant Madison, The conquest of a continent, or the expansion of races in America, New York 1833; E. B. Greene e V. D. Harrington, American population before the Federal census of 1790, Oxford 1932; W. S. Thompson e P. K. Whelpton, Population trends in the United States, New York e Londra 1933; P. Landini, Alcuni aspetti demografici ed economici degli Stati Uniti, in III Annuario del R. Istituto Tecnico Commerciale Duca degli Abruzzi in Roma, 1935; J. G. Lipman, Social and economic factors in land-use planning in the Northeastern States, in Economic Geography, 1935, pp. 217-226; T. J. Woofter, Races and ethnic groups in American life, New York 1933-34;
b) W. Gley, Die Grossstädte Nordamerikas und die Ursachen ihrer Entwicklung, Francoforte sul Meno 1927; P. Rossnagel, Die Stadtbevölkerung der Vereinigten Staaten von Amerika, Stoccarda 1930; W. T. Chambers, Geographic area of Cities, in Economic Geography, 1931, pp. 177-188; W. Winid, The distribution of urban settlements of over 10.000 inhabitants in the United States in 1930, in Scottish Geograph. Magazin, 1932, pp. 197-210; M. Jefferson, Great Cities of 1930 in the United States with a comparison of New York and London, in Geographical Review, 1933, pp. 90-100; R. E. Dickinson, The metropolitan regions of the United States, ibid., 1934, pp. 278-291.
Opere sull'immigrazione. - E. Abbott, Historical aspects of the immigration problem. Select documents, Chicago 1926; G. M. Stephenson, A history of American immigration, 1820-1924, Boston 1926; H. H. Mc Karty, Industrial migration in the United States, 1914-1927, Jowa City 1930; O. E. Baker, Rural-urban migration and the national welfare, in Annals of Association of American Geographers, 1933, pp. 59-126.
Opere sugli elementi di colore (esclusi i Negri, per i quali v. p. 613). - M. Gauris, Mexican Immigration to the United States, Chicago 1930; J. Fred Riphy, La inmigración mexicana en los Estados Unidos, in Universitad de México 1930-31, pp. 161-165; Chinese and Japanese in America, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, 1909; Yamato Ichibashi, Japanese in the United States, Londra 1932; E. K. Strong, The second generation Japanese Problem, Stanford, Londra 1934; F. Seymour, The Indians to day, Chicago 1926; W. Hulbert, Indian Americans, New York 1932; G. Foreman, Advancing the Frontier 1830-1860 (The civilisation of the American Indian), Norman 1933.
Opere sulle condizioni economiche in generale. - Agricoltura in generale. - Prodotti agricoli. - Foreste. - Allevamento e Pesca. - a) Ch. R. Van Hise, The conservation of natural resources in the United States, New York 1912; O. E. Baker, The increasing importance of the physical conditions in determining the utilisation of land for agricultural and forest production in the United States, in Annals of the Association of American Geographers, 1921, pp. 17-46; id., Land utilisation in the United States, in Geographical Review, 1923, pp. 1-26; R. G. Tugwell, Th. Munro, R. E. Stryker, American economic life and the means of its improvement, New York 1925; W. W. Jennings, A history of economic progress in the United States, ivi 1926; H. U. Faulkner, Economic history of the United States, ivi 1928; Fr. C. Mills, Economic tendencies in the United States; aspects of pre-war and post-war changes, ivi 1932; Fred A. Shannon, Economic history of the people of the United States, New York e Londra 1934; Edwin G. Nourse, America's capacity to produce, Washington 1934; Brookes Emerny, The strategy of raw materials; a study of America in peace and war, New York 1934; Culture in the South, Chapel Hill 1934;
b) A. H. Sanford, The story of agriculture in the United States, Boston 1916; E. L. Bogart, Economic history of american agriculture, New York 1923; E. Gr. Nourse, American agriculture and the European market, ivi 1924; L. B. Schmidt e E. D. Ross, Readings in the economic history of american agriculture, ivi 1925; A. Ch. True, A history of agricultural extension work in the United States, 1785-1923, Washington 1928; D. Black, Agricultural reform in the United States, New York 1929; O. E. Baker, Changes in production and consumption of our farm products and the trend in population: do we need more farm land?, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, marzo 1929, pp. 97-146; Farm Relief, ibid., marzo 1929; O. E. Baker, A graphic summary of american agriculture based largely on the Census, Washington 1931; L. C. Gray, History of agriculture in the Southern United States to 1860, ivi 1933, voll. 2; O. E. Baker, Agricultural regions of North America, in Economic Geography, 1926, pp. 459-493; 1927, pp. 50-86; 309-339; 447-465; 1928, pp. 44-73; 399-433; 1929, pp. 36-69; 1930, pp. 166-190; 278-308; 1931, pp. 109-153; 325-364; 1932, pp. 325-377; 1933, pp. 167-197.
c) C. Ponsot, Les vignes americaines, Parigi 1890; L. Bailey, Cyclopedia of American horticulture, New York 1909-1912, voll. 4; H. Rutherfurd, The practical flower garden, New York 1911; G. F. Mitchell, The cultivation and manufacture of tea in the United States, U. S. Dep. of Agric., Bull. n. 234, 1912; Th. F. Hunt, The cereals in America, New York 1915; P. H. Rolfs, Subtropical vegetable-gardening, ivi 1916; F. S. Harris, The sugar-beet in America, ivi 1919; J. O. Morgan, Field crops for the cotton belt, ivi 1920; H. B. Brown, Cotton: history, species, varietes, ecc., ivi 1927; A. G. Peterson, Peanuts: Prices, production, ecc., in Economic Geography, 1931, pp. 59-68; W. G. Reed, Competing Cottons and United States production, ibid., 1932, pp. 282-298; E. A. Taylor, Corn and hag surplus of the corn belt, Stanford University, 1932; G. E. Harding, Distribution of the mexican bean beetle, in Economic Geography, 1933, pp. 273-278;
d) J. Ise, The United States Forest Policy, New Haven 1920; H. M. Spink, The geographical distribution of commercial timber in the Pacific States of North America and its significance to the lumber industry, in Scottish geograph. Magazine, 1921, pp. 257-266; A. N. Pack, Our vanishing forest, New York 1923; U. S. Department of Agriculture, Forest Service, Statistical american forests and forests products, Washington 1927; E. J. Hanzlik, Trees and forests of Western United States, Portland 1928; B. J. Rohan, Our forests: a national problem, Appleton 1929; American Tree Association, Forestry Almanac, 1929, Washington 1929; A. M. Gobbi Belcredi, I paralleli nazionali degli Stati Uniti, in Le Vie d'Italia e del Mondo, 1934, pp. 1367-1404;
e) F. A. Davidson, Relation of taurine cattle to climate, in Economic Geography, 1927, pp. 466-485; E. S. Osgood, The day of the cattleman, Minneapolis 1929; E. E. Dale, The range cattle industry, Norman 1930; W. McL. Raine e W. C. Barnes, Cattle, New York 1930; E. W. Gilbert, Animal life and the exploration of Western America, in Scottish geograph. Magazine, 1931, pp. 19-28; E. Hartshoreal, A new map of the dairy areas of the United States, in Economic Geography, 1935, pp. 347-355; R. H. Feidler, Fishery industries of the United States, 1932, U. S. Department of Commerce, Bureau of Fisheries, Washington 1933, pp. 149-449; J. H. Mattews, Fisheries of the South Atlantic and Gulf States, in Economic Geography, 1928, pp. 323-348; Otis W. Freeman, Salmon industry of the Pacific Coast, ibid., 1935, pp. 109-129.
Opere sulle risorse minerarie. - Condizioni industriali in generale. - Industrie particolari (alimentari, chimiche, minerarie e meccaniche, tessili, varie). - a) J. Ise, The United States oil policy, New Haven, 1926; A. J. Bellanger, La production du cuivre aux États-Unis, ecc., in Annales des Mines, 1928, pp. 245-292; C. Keyes, America's great potash reserves, in Pan American Geology, 1928, pp. 39-56; A. Ralph e W. J. Kemnitzer, Petroleum in the United States and its possessions, New York 1931; R. Hartshorne, Coal and iron mining districts of the United States and Western Europe, in Journal of Geography, 1935, pp. 1-11; A. Locke, P. Billingley, H. Schmitt, Occurence of ore in the Western United States, in Economic Geology, 1934, pp. 560-576; G. H. Primmer, Future of lake Superior iron ore supply, in Economic Geography, 1934, pp. 395-401; Willis H. Miller, Pacific coast oil and natural gas, ibid., 1936, pp. 86-90;
b) National Industrial Conference Board, A graphic analysis of the Census of Manufactures of the United States, 1849 to 1919, New York 1924; V. S. Clark, History of manufactures in the United States, I (1607-1860), II (1860-1914), Washington 1916 e 1928; R. Hartshorne, The manufactural Geography of the Central Northwest of the United States, in Annals of Association of American Geographers, 1929, pp. 32-33; R. S. Brooks, The industrialisation of the South, Athens 1929; J. G. Glover e W. B. Cornell, The development of american industries, New York 1932; The Coming of Industry to the South, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, gennaio 1931; R. Hartshorne, A new map of the manufacturing belt of N. A., in Ec. Geography, 1936;
c) Tr. G. Palmer, Beet sugar industry of the United States, Washington 1913; Ch. B. Kuhlmann, The development of the flour-milling industry in the United States with special reference to the industry in Minneapolis, Boston e New York 1919; K. Hanfland, Die amerikanische Fleischindustrie, Lipsia 1929; U. S. Department of Agriculture, The poultry industry of the United States of America, Washington 1930; D. J. Tilgner, Die Konservenindustrie in den Vereinigten Staaten von Amerika, Brunswick 1931; H. Hale, American Chemistry, New York 1921; W. J. Showalter, The automobile industry, in National Geogr. Magazine, 1923, 2° sem., pp. 337-414; A. C. Epstein, The automobile industry, Chicago e New York 1928; R. Hartshorne, The iron and steel industry of the United States, in Journal of Geography, 1929, pp. 133-153; E. Flügge, Die automobilindustrie der Vereinigten Staaten, Jena 1931; M. Th. Copeland, The cotton manufacturing industry of the United States, Cambridge 1912; Br. Mitchell, The rise of cotton mills in the South, Baltimora 1921; A. H. Cole, The american wool manufacture, Cambridge 1926, voll. 2; H. Wilburg, Cotton manufacturing in the South, in Journal of Geography, 1927, pp. 1-11; M. R. Brown, Cotton manufacturing: North and South, in Economic Geography, 1928, pp. 74-87; A. Predöhl, Die Südwanderung der amerikanischen Baumwollindustrie, in Weltwirtschaftliches Archiv, 1929, pp. 106-159; Ben F. Lemert, The cotton textile industry of the Southern Appalachian Piedmont, Chapel Hill 1933; id., The reayon industry in the United States, in Journal of Geography, 1933, pp. 45-55; id., The Knit-goods industry in the Southern States, in Economic Geography, 1935, pp. 368-388; H. Stabler, A nation's water power, ibid., 1927, pp. 434-446; W. H. Vosknil, The economics of water power devlopment, New York e Londra, 1928; G. Belloli, La diga di Boulder sul fiume Colorado, in Le vie d'Italia e del Mondo, 1935, pp. 71-90; N. C. Brown, The american lumber industry, ecc., New York 1923; W. N. Baer, The economic development of the cigar industry in the United States, Lancaster 1933; E. M. Hoover, The location of the shoe industry in the United States, in Quarterly Journal of Economic, 1933, pp. 254-276; Ben F. Lemert, Furniture industry of the Southern Appalachian Piedmont, in Economic Geography, 1934, pp. 183-199.
Opere sul commercio e i mezzi di comunicazione. - a) E. R. Johnson e altri, History of domestic and foreign commerce of the United States, Washington 1915, voll. 2; F. Simpich, The geography of our foreign trade, in National Geogr. Magazine, 1922 (1ª ser.), pp. 89-108; A. L. Bishop, Outlines of american commerce, Boston 1924; C. Dacy, History of commerce of the United States, New York-Londra 1925; G. B. Roorbuch, The import trade of the United States, in Economic Geography, 1926, pp. 230-248; D. J. Cowden, Measures of exports of the United States, New York 1931; Ch. S. Tippets, Die Bedeutung wirtschaftlicher Autarchie fur die industrielle Struktur der Vereinigten Staaten, in Weltwirtschaflithches Archiv, 1933, pp. 146-163;
b) H. Quick, American inland waterways, New York-Londra 1909; W. L. Marvin, The american merchant marine. Its History and Romance from 1620 to 1902, New York 1910; E. R. Johnson, American railway transportation, New York-Londra 1914; C. E. Mc Gill, History of transportation in the United States before 1860, Washington 1917; G. R. Chartburn, Highways and highways transportation, New York 1923; F. A. Collins, Our harbours and inland waterways, ivi 1924; F. Ledermann, Die Eisenbahnen der Vereinigten Staaten, Norimberga 1927; F. Whitbeck, New York Barge Canal Expectations and Realisation, in Economic Geography, 1928, pp. 196-206; Great Inland Waterway Projects in the United States, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, 1928; E. S. Clowes, Shipways to the sea: our inland and coastal waterways, Baltimora 1929; Fifth and sixth national conferences on the merchant marine, Washington 1932-1933; U. S. War Department, ecc., Transportation on the Great Lakes, Washington 1930; U. S. War Department, ecc., Transportation in the Mississippi and Ohio valleys, ivi 1929; U. S. Department of Commerce, Aeronautics Branch, Descrition of airports and landing fields in the United States, ivi 1931; U. V. Wilcox, Our growing system of inland waterways, in Economic Geography, 1934, pp. 154-165; J. K. Rose, Importance of pipe-line transportation, ibid., 1932, pp. 191-204; F. Timm, Die Eisenbahnen des Westens der Vereinigten Staaten von Amerika im geographischen Bilde des Landes, Münster 1932; P. Lanino, Osservazioni e considerazioni sulle ferrovie degli Stati Uniti, supplemento al fascicolo di maggio 1931 della Rivista tecnica delle Ferrovie Italiane; P. Fortini, La marina mercantile americana, in Rivista Marittima, settembre 1934.
Ordinamento dello stato.
Costituzione. - La costituzione federale degli Stati Uniti d'America (preceduta dall'ordinamento provvisorio del primo Congresso e dagli articoli di federazione del 1777) elaborata nel 1787, approvata nel 1788, entrò in vigore il 4 marzo 1789. Da allora essa è stata ritoccata con 21 emendamenti, la maggior parte dei quali è rivolta a rendere la costituzione più democratica (elezione popolare dei senatori, suffragio femminile, ecc.), mentre l'ultimo è l'abrogazione di un precedente, e i primi dieci (del 15 dicembre 1791) si possono considerare parte integrante della costituzione stessa e formano il cosiddetto Bill of Rights. Lo spirito che la informa è quello della libertà di coscienza che, per essere effettiva, si concreta in libertà politica dell'individuo, secondo le idee del diritto naturale nate in seno alle minoranze religiose dell'epoca della Riforma, che hanno presieduto all'opera delle costituzioni degli stati, e delle loro dichiarazioni dei diritti. Lo stato attraverso la costituzione deve tutelare la libertà, la vita e la proprietà dei cittadini: il resto va affidato al libero contratto di uomini liberi. Solo il popolo è sovrano: solo esso può cambiare la costituzione, e nessun altro organo, neppure il Congresso (questo ha un diritto d'iniziativa in proposito, come i parlamenti degli stati: ma per l'entrata in vigore di un emendamento occorre, secondo l'art. 5, una procedura lenta e complicata: l'approvazione non solo delle 2 camere, ma dei parlamenti di 3/4 degli stati; cioè, oggi, di 36 stati). Garanzia fondamentale di tale libertà e sovranità popolare e elemento caratteristico della costituzione degli Stati Uniti è la nettissima separazione dei poteri, quale era stata esposta da Montesquieu nell'Esprit des lois, organizzati in tre corpi separati e indipendenti. Sotto questo punto di vista la costituzione degli Stati Uniti fu un fatto assolutamente nuovo. Codici di leggi che contenevano dichiarazioni di principî generali si erano già visti; ma un documento scritto che determinasse la natura e l'autorità di tutte le funzioni di governo, circoscrivesse la sovranità e indicasse le persone capaci di esercitare tali funzioni e ne delimitasse nettamente i poteri, non esisteva. Ma il rigore con cui quella separazione fu applicata era non solo effetto di un'eredità della rivoluzione, cioè del sospetto verso un forte potere esecutivo, bensì anche del timore di una democrazia sfrenata. Il solo elemento popolare era la Camera dei rappresentanti; la Camera alta, o Senato, fu deliberatamente sottratta al potere popolare e rappresentava non il popolo, ma gli stati; ognuno dei quali, grande o piccolo, ha due senatori. Allo stesso modo si volle che il presidente fosse eletto non dal popolo ma da un collegio elettorale intermedio e indipendente. Ancora, la costituzione non fu soltanto effetto di una reazione contro l'impulso democratico che aveva prodotto la rivoluzione, bensì uno strumento diretto a salvaguardare la proprietà, non solo dalle esazioni di un monarca assoluto (il nemico tradizionale della proprietà in Inghilterra) ma anche da una legislazione confiscatoria di un parlamento eletto dal popolo. Requisiti di censo per l'elettorato attivo esistevano nella maggior parte degli stati e il Bill dei diritti asseriva l'uguaglianza di tutti i cittadini in maniera molto meno retoricamente dogmatica che non la Dichiarazione d'indipendenza.
Il potere legislativo spetta al Senato e alla Camera dei rappresentanti (House of the Representatives), che insieme formano il Congresso, e che vengono entrambi eletti con voto popolare diretto (i senatori dopo l'emendamento XVII, del 31 maggio 1913). L'esecutivo consiste nel presidente, eletto per quattro anni da un collegio elettorale composto di rappresentanti di ogni stato, nella stessa proporzione con la quale gli stati sono rappresentati al Congresso; in caso di maggioranza insufficiente, decide la Camera dei rappresentanti (originariamente il collegio elettorale doveva decidere autonomamente del valore dei candidati rivali; ma in tutte le elezioni recenti, i risultati della lotta dei grandi partiti sono stati così chiari, che il Collegio non ha potuto che registrarli, e la Camera dei rappresentanti non è stata neppure consultata). Il potere giudiziario spetta alla Corte suprema, i cui membri sono nominati dal presidente ma sono praticamente inamovibili, e ai tribunali federali. Il Congresso non può approvare una legge che non sia controfirmata dal presidente; il presidente non ha iniziativa legislativa, ma solo il veto: e la Corte suprema può invalidare una legge ch'essa dichiari incostituzionale. In pratica, l'uso del veto presidenziale, l'uso di conferire ai senatori un veto limitato agli affari del loro stato, attenuano tale rigida separazione dei poteri.
Il presidente non è responsabile verso nessuno, e può essere deposto solo su accusa della Camera dei rappresentanti, e per deliberazione del Senato a maggioranza di due terzi. Il presidente nomina il suo gabinetto con assoluta libertà (fra uomini di fiducia del suo partito): non c'è controfirma dei ministri o segretarî di stato; egli ha diritto di veto sulle leggi votate dal Congresso, entro dieci giorni dalla votazione, e il suo veto può essere invalidato solo se la legge in questione viene di nuovo approvata a maggioranza di due terzi. Il presidente può convocare il Congresso in sessioni straordinarie, aggiornarlo o prorogarlo solo in caso di disaccordo tra le Camere; non ha diritto d'iniziativa. Egli è il comandante in capo delle forze militari, può stipulare trattati con potenze estere (soggetti però all'approvazione del Senato, con maggioranza di due terzi dei presenti; e, se legati ad operazioni finanziarie, anche della Camera dei rappresentanti); nomina e dimette i funzionarî federali, compresi quelli del servizio diplomatico e consolare. Per i funzionarî superiori, diplomatici, specialmente giudici, occorre l'approvazione del Senato. In caso di perturbamenti dell'ordine interno, il presidente esercita una dittatura limitata. I rapporti del presidente col Congresso si svolgono attraverso "messaggi" (i 2 primi presidenti, e poi Wilson parlarono direttamente), nei quali egli espone il proprio parere su leggi da proporsi ed elaborarsi su iniziativa del Congresso stesso. Il presidente è eleggibile fra i cittadini americani, tali per nascita, di 35 anni compiuti, residenti negli Stati Uniti da 14 anni almeno; dura in carica 4 anni ed è rieleggibile, ma G. Washington, rifiutando la terza rielezione, stabilì un precedente sempre rispettato; e anche i presidenti rieletti sono stati pochissimi: notevoli i casi di G. Cleveland, eletto nel 1884, sconfitto nel 1888 e rieletto nel 1892 e di Th. Roosevelt che, succeduto al Mc Kinley nel 1901 e rieletto nel 1904, si ripresentò candidato nel 1912. Se il presidente muore mentre è in carica, il vicepresidente, che viene eletto contemporaneamente, ma con elezione separata (emend. XII, 25 settembre 1804), gli succede automaticamente; egli è il presidente del senato, ma non esercita alcuna funzione politica, come neppure i membri del gabinetto, che non fanno parte del Congresso e sono semplici consiglieri del presidente e amministratori dei rispettivi dicasteri (sistema "presidenziale" di governo), cioè: segreteria di stato (esteri), del tesoro, della guerra, della giustizia (l'Attorney general, ufficio creato nel 1789, fu messo a capo del Dipartimento della giustizia nel 1870), delle poste (il ministro è il Postmaster general), della marina (1798), degl'interni (1849), dell'agricoltura (1889), del commercio (1903), del lavoro. In caso di deposizione, morte, dimissioni o incapacità del presidente e del vicepresidente, le funzioni presidenziali sono assunte dai ministri, nell'ordine qui elencato.
Il Congresso si raduna almeno una volta ogni anno a Washington. Le due camere sono indipendenti e a pari diritti; così ognuna di esse può porre il veto assoluto alle leggi votate dall'altra. Ognuna vota e discute le leggi per conto proprio; ma tutte le proposte di leggi (bills) finanziarie debbono partire dalla Camera dei rappresentanti. Solo il Congresso ha l'iniziativa legislativa. La discussione e la deliberazione avvengono piuttosto attraverso le commissioni che nelle sedute plenarie. La Camera dei rappresentanti è eletta ogni due anni sulla base degli stati, che vi sono rappresentati proporzionalmente al numero degli abitanti. I "Territorî" hanno rappresentanti che possono parlare al Congresso, ma non hanno diritto di voto. La distribuzione dei rappresentanti dovrebbe essere riveduta dopo ogni censimento; ma prevale la tendenza a procrastinare tale revisione. Entro gli stati, la distribuzione dei seggi al Congresso viene decisa dai parlamenti locali. Eleggibili sono i cittadini di venticinque anni, cittadini da sette anni, residenti nello stato che rappresentano - praticamente essi debbono risiedere di fatto nel distretto che li elegge -, onde più che rappresentanti sono delegati; la clausola della residenza è una limitazione alla libera scelta del popolo per tutti gli uomini politici all'infuori del presidente, in quanto un uomo politico non rieletto nel proprio collegio non può presentarsi in un altro, e un uomo politico avversario del partito politico dominante nel paese dov'egli risiede non ha possibilità d'arrivare al Congresso, ecc. I deputati al Congresso non possono essere funzionarî federali. La Camera dei rappresentanti elegge un presidente (speaker) che dirige la discussione, e fino al 1911 nominava tutte le commissioni.
Il Senato è composto di novantasei membri, due per ognuno dei quarantotto stati, eletti per sei anni; ma in modo che il Senato si rinnovi per ⅓ ogni due anni. Essi debbono avere per lo meno trent'anni, esser cittadini americani da nove; vengono eletti con sistemi differenti a seconda dei singoli stati. Nel Senato v'è molto maggiore libertà di discussione che nella Camera dei rappresentanti; non c'è limitazione di tempo ai discorsi, né per la durata né per l'argomento (nel 1917 fu introdotto un regolamento per il quale i due terzi del Senato possono imporre la chiusura di un discorso) il che, insieme con la necessità dei due terzi dei voti del senato per l'approvazione dei trattati, ha conferito a questo corpo una grande importanza soprattutto per la politica estera (per sfuggire a questa clausola costituzionale il presidente Th. Roosevelt concludeva "accordi"; notissima la sconfessione del presidente Wilson a proposito del trattato di Versailles e della Società delle nazioni); esso s'ingerisce anche nell'amministrazione interna con la sorveglianza sulle nomine dei funzionarî.
Uno dei primi e più importanti sviluppi del diritto costituzionale degli Stati Uniti è costituito dal potere, assuntosi dalla Corte suprema, di dichiarare incostituzionali le leggi votate dal Congresso o da ogni stato. Quest'autorità non era fondata sulla costituzione e non aveva che scarsi e non indiscussi precedenti; ma fu affermata dal giudice supremo John Marshall, conservatore (federalista) nella storica lite Madison-Marbury (1803). In una serie di processi, dal 1893 in poi, i casi di annullamento furono moltiplicati dalla Corte suprema, divenuta così uno dei principali organi della vita costituzionale e politica americana, custode e interprete della costituzione. Molte delle leggi annullate, in cui la Corte suprema si mostrò straordinariamente conservatrice, erano leggi sociali: il che sollevò naturalmente una vivace opposizione, non solo perché tali leggi rispondevano al sentimento popolare, ma perché la Corte suprema spesso le dichiarò contrarie al XIV emendamento, il quale vieta a uno stato di privare qualsiasi persona della vita, libertà o proprietà senza un debito procedimento legale. Ora, questo emendamento mirava soltanto a garantire i diritti dei Negri liberati dalla schiavitù; e la Corte suprema diede del concetto di proprietà un'interpretazione assai lata, includendo in esso anche il diritto di contrarre obbligazioni, anche in condizioni che le nuove leggi sociali proibivano, riconoscendo la condizione d'inferiorità d'una delle parti. Nel dichiarare contrarie alla costituzione altre leggi federali, la Corte suprema si è fondata sul principio di limitare i poteri del Congresso, ritenendo che l'enumerazione di questi poteri nella costituzione sia tassativa, e interpretando anche questi - per es. quello di regolare il commercio tra gli stati - in maniera restrittiva. Con ciò la Corte non faceva che interpretare il testo della costituzione; ma in altri casi si fondò su una norma implicita, quella che vieta ogni delega di poteri da parte del Congresso al presidente, in quanto sarebbe così violato il principio della netta separazione dei poteri, che è alla base della costituzione stessa. Questo potere della Corte suprema contiene in sé un'ampia possibilità di estendere le interpretazioni dal campo legale a quello politico e per tale via essa finisce con l'esercitare indirettamente funzioni legislative: la tutela dei diritti fondamentali del cittadino si è sviluppata in una "supremazia giudiziaria" (justicial supremacy: Bryce). La questione si è rifatta grave di recente, con l'invalidazione delle leggi di ricostruzione nazionale del presidente F. D. Roosevelt: il New Recovery Act (N. R. A.), in quanto rappresenterebbe un'ingerenza del potere federale nei singoli stati; e l'Agriculture Adjustment Act (A. A. A.), in quanto con le limitazioni alle coltivazioni, ecc., si oltrepassa la competenza del governo federale, che può al massimo porre imposte; ecc. L'opposizione a questo potere della Corte suprema rischia quindi di diventare una questione di partito e il programma dei democratici per le elezioni del 1936 contiene un accenno a un nuovo emendamento della costituzione, che potrebbe abolire del tutto questo potere, che pure è attualmente una delle caratteristiche della costituzione americana, oggetto di discussione e di studio anche in Europa.
Di competenza del Congresso sono: la difesa nazionale, la dichiarazione della guerra e la conclusione della pace, le leggi sul commercio, quelle monetarie, fiscali, doganali, l'amministrazione postale, le leggi riguardanti l'immigrazione e il conferimento della cittadinanza (uno straniero maggiorenne la puo acquistare solo dopo cinque anni di permanenza negli Stati Uniti), il diritto marittimo, il diritto fallimentare, la tutela della proprietà intellettuale, e col XVIII emendamento del 29 gennaio 1919 (abrogato dal XXI del 1933) la legge sugli alcoolici. Piuttosto che a modificare la costituzione prevale ora la tendenza a conguagliare le leggi degli stati singoli e a interpretarle unitariamente, e anche all'adozione di leggi uniformi da parte di varî stati, in modo da ovviare agl'inconvenienti dell'impossibilità costituzionale di una legislazione federale unitaria.
Regolato giuridicamente è ora in notevole parte il funzionamento dei partiti politici, che fa parte integrante del sistema politico degli Stati Uniti. Il sistema dei due partiti che si alternano al potere (e che non hanno a che fare con i partiti politici europei o inglesi) interferisce nell'amministrazione dello stato con quanto rimane ancora del sistema di sostituire i funzionarî ogni volta che un partito succede all'altro nel potere (spoils system, che dall'amministrazione di alcuni stati passò in quella federale dapprima con il presidente Jefferson, e dichiaratamente con il Jackson: v. sotto: Storia, p. 578): soppresso il quale in gran parte, sono aumentate enormemente le spese elettorali; con le elezioni (si pensi alle elezioni locali, a quelle per gli stati, a quelle per la Confederazione, alla grande quantità di cariche elettive) che hanno tanta importanza per la vita americana, e che debbono essere accuratamente organizzate, essendo distribuite territorialmente, onde il dimenticare una piccola area può avere grande importanza, con le conventions dei partiti per la scelta dei candidati alla presidenza. Così la legge è dovuta intervenire per garantire a tutti i cittadini il diritto di prender parte alle adunanze per la nomina dei candidati (primaries): tutti indistintamente alle open primaries, tutti i membri dei rispettivi partiti alle closed primaries (le leggi sono differenti da stato a stato): onde non è più possibile che pochi capi-partito (bosses) tengano in mano, attraverso la nomina dei candidati, tutta la macchina elettorale: anche i delegati per i comitati elettorali debbono essere eletti dai partiti. Questa sorta di controllo pubblico sulle principali azioni dei partiti ha tanto maggiore importanza in quanto i partiti sono legati a determinati gruppi economici.
Le costituzioni dei singoli stati sono in genere modellate su quella degli Stati Uniti. In molte sono contenute, spesso con espansioni retoriche, le stesse affermazioni di principio che si trovano nel Bill of Rights federale e nella Dichiarazione d'indipendenza, e per cui il Congresso non può stabilire una religione di stato, né restringere la libertà di religione, di parola, di stampa, di riunione, di petizione; non può restringere la libertà di porto d'armi; garantisce la libertà del cittadino contro perquisizioni e sequestri arbitrarî; si esige l'accusa di un "gran giurì" per iniziare i processi per delitti capitali o infamanti: si dànno garanzie agl'individui per la procedura penale; "i poteri che non sono delegati agli Stati Uniti dalla costituzione, né proibiti da essa agli stati, sono riservati ai diversi stati o al popolo". Le differenze tra le varie costituzioni stanno più in particolari non molto importanti, che in principî o in disposizioni di carattere fondamentale. La guerra di secessione chiuse la discussione se la sovranità degli stati singoli potesse giungere fino al punto di staccarsi dall'Unione: dopo la vittoria degli antisecessionisti, gli Stati Uniti formano un' "indistruttibile unione di stati indistruttibili" Bryce). L'opera di centralizzazione è avvenuta non tanto, come s'è visto, per via giurisdizionale, quanto per via economica e amministrativa (per es., il Federal aid System e il Federal Grant System che forniscono sussidî, anticipi, ecc. ai governi locali; il genio civile per le strade nazionali; il Federal Reserve Bank System; l'assistenza sociale, ecc.). Molte delle costituzioni statali (per es., quelle dell'Oklahoma e della California) sono assai ampie e contengono materia che non è strettamente oggetto del diritto costituzionale. Del resto, l'organizzazione degli stati è analoga a quella della federazione. Il potere esecutivo spetta al governatore, che ha di fronte al parlamento (legislature) la stessa posizione del presidente di fronte al Congresso. Il parlamento consta di due camere, elette per lo più a suffragio universale: il Nebraska ha una sola camera, nella California il Senato è eletto sulla base delle contee, rappresentate ciascuna da un solo senatore. Ma tale organizzazione non è affatto necessaria. La costituzione federale impone soltanto che gli stati siano retti a repubblica; quanto al resto, non limita affatto la loro autonomia. Le differenze principali fra le costituzioni degli stati e quella federale sono: le costituzioni degli stati hanno molti più emendamenti di quella federale; in molti stati è preveduto il referendum per il controllo popolare diretto della legislazione; e per molti alti funzionarî dello stato si ha l'elezione diretta invece della nomina governatoriale. Gli stati non possono concludere trattati o alleanze con potenze estere, non possono associarsi fra loro, in società o leghe particolari entro l'Unione. Tasse d'importazione o esportazione sono ammesse soltanto previa approvazione del Congresso. Agli stati compete la giurisdizione per il diritto civile, per il diritto commerciale e cambiario (che in parte è stato unificato), per il dititto penale e la procedura penale; le leggi riguardanti la polizia, le scuole, le istituzioni religiose competono soltanto agli stati: a questo proposito, com'è noto, vige un'assoluta separazione di Stato e Chiesa, derivata più che da un'accettazione di principio della tolleranza, dalla storia della formazione dell'Unione e dei singoli stati; essi non possono contravvenire al principio della libertà religiosa sanzionato dalla costituzione. Nell'interno degli stati, le città, ecc. hanno un certo potere regolamentare, considerato come strettamente tale; benché in talune località della Nuova Inghilterra, dove funziona ancora l'assemblea cittadina (town meeting) si sostiene da taluni che essa continui l'antica assemblea popolare germanica, con funzioni non solo amministrative ma veramente legislative. Ogni stato ha giurisdizione autonoma.
Gli "articoli federali" XIV e XV (il XIV, del 28 luglio 1868, stabilisce in prima linea: "tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti, e dello stato dove risiedono: nessuno stato potrà fare o applicare coattivamente alcuna legge che diminuisca i privilegi o immunità dei cittadini degli Stati Uniti"; il XV, del 30 marzo 1870: "Il diritto di voto che hanno i cittadini degli Stati Uniti non sarà negato né ristretto dagli Stati Uniti né da alcuno degli stati, per ragioni di razza, di colore o di precedente condizione di servitù") votati per rendere effettiva l'abolizione della schiavitù (XIII emendamento, del 18 dicembre 1865) sono in pratica frustrati in molti stati da una quantità di clausole che impediscono ai Negri (v. sotto: I Negri d'America) e agli Asiatici l'attività elettorale, pur senza introdurre, tecnicamente, le "discriminazioni" vietate. Il XVI (25 febbraio 1913) fornisce al Congresso i poteri per l'imposta sul reddito; il XVII (31 maggio 1913) regola l'elezione dei senatori; il XIX (26 agosto 1920) istituisce il suffragio femminile, il XX (6 febbraio 1933) regola l'entrata in funzione del presidente (il 20 gennaio, anziché il 4 marzo) e del Congresso.
Per l'ordinamento giudiziario v. stati uniti: Diritto (App.).
Bibl.: Dareste, Les Constitutions modernes, VI, 4ª ed., Parigi 1934, con abbondante e aggiornata bibliografia; edizioni: Constitutional Documents. The State Constitutions and the Federal Constitution and organic Laws of the Territories and other colonial Dependencies of the U. S., Indianapolis 1918; The Statute at Large of the U. S. of America, Washington, edited by authority of Congress; J. Bryce, The american Commonwealth, Londra-New York, 1ª ed. 1888, ultima 1907; trad. it. del Brunialti, Torino 1913-16; D. W. Brogan, Th American Political System, 1933; trad. delle costituzioni di alcuni stati e dei principali "articoli federali", con testo e introduzione, in F. Battaglia, Le carte dei diritti, Firenze 1934.
Forze armate. - Esercito. - Gli Stati Uniti sono una delle poche nazioni presso le quali ancora rimane in vigore il reclutamento volontario (il quale è regionale per tutte le armi e servizî dell'esercito regolare e delle forze ausiliarie) per soli cittadini americani, con obbligo di servizio da uno a tre anni, a volontà (le rafferme sono tutte triennali). Nella guardia nazionale e nelle riserve organizzate il volontariato comporta un obbligo di tre anni, rinnovabile, con l'obbligo di servire 64 e 15 giorni rispettivamente. I volontarî possono scegliere l'unità nella quale compiere il servizio; sono congedati senza ulteriori obblighi di servizio.
Le forze militari terrestri comprendono: a) l'esercito regolare b) la guardia nazionale; c) il corpo di riserva degli ufficiali (Officers' Reserve Corps); d) le riserve organizzate; e) il corpo delle riserve (Enlisted Reserve Corps).
All'esercito regolare è devoluto il compito di garantire in pace l'integrità dello stato e provvedere all'istruzione delle forze ausiliarie (guardia nazionale e riserve organizzate).
La guardia nazionale rappresenta la prima riserva dell'esercito, da mobilitarsi immediatamente in caso di emergenza. Comprende le stesse armi dell'esercito attivo, e riceve dal governo federale le uniformi, le armi e l'equipaggiamento, ma è mantenuta dai varî stati, con l'aiuto di sussidî del governo federale; può arrivare a una forza equivalente a 800 uomini per ogni senatore e ogni rappresentante nel Congresso; ma per il distretto di Columbia e i territorî di Hawaii, Portorico, Alasca e Zona del Canale di Panamá i suoi effettivi sono fissati dal presidente.
Il corpo di riserva degli ufficiali è composto di ufficiali di tutti i gradi (per lo più veterani della guerra mondiale). Possono essere richiamati, con loro consenso, per non più di 15 giorni all'anno; in caso di necessità nazionale possono in ogni momento e per qualsiasi periodo di tempo essere richiamati in servizio effettivo.
Le riserve organizzate si costituiscono solo in caso di guerra e sono in realtà la seconda riserva dell'esercito.
L'Enlisted Reserve Corps comprende uomini abili al servizio militare, iscrittisi volontariamente, richiamabili per periodi d'istruzione di 15 giorni e, col loro consenso, in caso di necessità nazionale, trasferibili in servizio attivo.
È caratteristico degli Stati Uniti il fatto che vi sia un unico organo direttivo militare, il War Department, che esercita sia le funzioni generalmente attribuite al ministero, sia quelle più proprie dello Stato maggiore. Affianca l'opera di questo organismo il Consiglio superiore di guerra, del quale fanno parte il segretario, il sottosegretario alla Guerra, il comandante in capo dell'armata, il capo di Stato maggiore.
Gli ufficiali sono reclutati dall'Accademia militare di West Point unica per tutte le armi, dai sottufficiali o dagli studenti civili. Ogni arma e ogni specialità ha la sua scuola di perfezionamento presso la quale vengono tenuti corsi anche per gli ufficiali della guardia nazionale e delle riserve organizzate. Il War College (scuola di guerra) in Washington completa l'istruzione degli ufficiali di Stato maggiore.
Il territorio dello stato è suddiviso in un distretto autonomo (Washington) e 9 regioni di corpo d'armata; e in ognuna di queste esistono i nuclei di una divisione di fanteria dell'esercito regolare, di 2 divisioni di fanteria della guardia nazionale, e di 3 divisioni della riserva organizzata.
Gli effettivi dell'esercito sono esigui e infatti al 30 giugno 1934 erano 12.278 ufficiali e 126.169 militari di truppa, ma oggi si tende a raggiungere i 15.000 ufficiali e 150.000 uomini di truppa. La guardia nazionale, che ha degli effettivi (1934) di 13.309 ufficiali e 171.482 uomini di truppa, dovrebbe raggiungere la formazione massima di 18 divisioni, con un complesso di 470.000 uomini, mentre le riserve organizzate (1934, 111.356 ufficiali e 4.646.000 uomini) dovrebbero costituire 30 divisioni.
La stessa politica degli Stati Uniti esige che la Confederazione, pur mantenendo permanentemente alle armi un esiguo esercito, abbia la possibilità di mobilitare rapidamente una notevole forza militare. Infatti pare che gli Stati Uniti possano mettere in campo complessivamente un primo esercito di almeno 5 milioni di uomini; costituito su 4 armate, 19 corpi d'armata e 54 divisioni.
Una vasta mobilitazione industriale dovrà affiancare quella militare e per questo il presidente F. D. Roosevelt ha creato una speciale commissione d'industriali e di membri del governo a cui è stato affidato il compito di redigere una specifica legislazione. La mobilitazione inoltre sarebbe permessa da vaste riserve di ufficiali allenati e dai cittadini istruiti da speciali istituzioni, che però non hanno ancora la completezza delle organizzazioni pre- e postmilitari europee.
Marina militare. - La marina militare degli Stati Uniti sorse all'epoca della guerra d'indipendenza nordamericana, e fino dall'inizio i suoi componenti diedero nella lotta contro l'Inghilterra indubbie prove di elevato spirito offensivo e di abilità marinaresca. Dopo tale periodo, e dopo l'inizio del sec. XIX, la marina fu poco curata e decadde grandemente, così che allo scoppiare della guerra di Secessione nessuno dei due belligeranti disponeva di forze navali importanti. Pertanto sul mare tale guerra non diede luogo a scontri di notevole importanza; malgrado ciò essa produsse nuove forme di costruzioni navali (Merrimac e Monitor) e di mezzi di offesa e difesa (torpedini ad asta e ancorate). I preziosi insegnamenti della guerra non furono però molto sfruttati dalla marina degli Stati Uniti, e i successi da essa riportati contro la Spagna nella guerra ispano-americana furono conseguiti soprattutto grazie al materiale più moderno e alle migliori condizioni strategiche. Come conseguenza della vittoria, conseguita sia pure con facilità, in tale guerra, e del nuovo imperialismo americano, gli Stati Uniti cominciarono a sviluppare la propria flotta, che nel 1914 era già la terza del mondo.
Sul finire della guerra mondiale e subito dopo si manifestava negli Stati Uniti una fortissima corrente in favore di una marina sempre più potente, caratterizzata dalla formula second to none, che imponeva dei programmi navali veramente enormi. Sennonché i seguaci della riduzione degli armamenti e di un'intesa con l'Inghilterra ottenevano alla conferenza di Washington (febbraio 1922) che tale corsa venisse rallentata, facendo sanzionare nel contempo dalle 5 principali potenze navali il concetto della parità anglo-americana, che rappresentava già una sensibile vittoria per gli Stati Uniti. Per effetto di tale parità venivano assegnate agli Stati Uniti: 525.000 tonn. di navi da battaglia del dislocamento unitario massimo di 35.000 tonn. e armate con calibro non superiore al 406; 135.000 tonn. di navi portaerei del dislocamento unitario di 27.000 tonn. (fatta eccezione per le due già in costruzione) con armamento non superiore al 203, mentre non venivano fissate cifre per gl'incrociatori leggieri, i cacciatorpediniere e i sommergibili.
Successivamente, però, per effetto della conferenza di Londra (febbraio 1930), il tonnellaggio della marina degli Stati Uniti veniva portato a 1.123.600 tonn., divise come segue: navi da battaglia tonn. 462.400, con le limitazioni unitarie già convenute; portaerei tonn. 135.000; 18 incrociatori da 10.000 tonn. per 180.000 tonn., incrociatori minori di 10.000 tonn., 143.500 tonn.; capiflottiglia e cacciatorpediniere tonn. 140.000; sommergibili tonn. 52.700. Si stabiliva anche che: 1. se gli Stati Uniti volevano, potevano costruire solo 150.000 tonn. d'incrociatori da 10.000 e dedicare 45.500 tonn. di tale quota ad incrociatori minori, mentre se volevano impiegare tutto il tonnellaggio per incrociatori da 10.000, avrebbero potuto costruire gli ultimi due solo dopo il 1936; 2. era ammesso un passaggio di tonnellaggio tra le categorie cacciatorpediniere e piccoli incrociatori fino al limite del 10% del tonnellaggio previsto; 3. era permesso dotare il 25% degl'incrociatori di ponti di volo senza considerarli portaerei; 4. il 16% del tonnellaggio dei cacciatorpediniere poteva essere costituito da capiflottiglia compresi tra le 1500 e le 1850 tonn. Queste cifre sarebbero diventate impegnative in seguito all'accordo franco-italiano.
Nel 1936 gli Stati Uniti aderivano al progetto di convenzione studiato nella conferenza navale di Londra, sulle basi seguenti:
1. Nei primi quattro mesi di ogni anno solare tutte le potenze contraenti debbono inviare a tutte le altre potenze contraenti una notificazione relativa al programma di costruzioni navali che esse intendono sviluppare nei 12 mesi successivi alla notifica. In questo primo documento debbono essere indicati, per ogni categoria di unità, soltanto il numero delle navi di cui si prevede la costruzione e il calibro massimo dei cannoni di cui saranno armate.
2. Nessuna unità può essere impostata prima che siano trascorsi quattro mesi dalla data della comunicazione del programma annuale.
3. Se, prima che la chiglia dell'unità sia impostata, vengono decise importanti modificazioni nelle caratteristiche comunicate come detto sopra, l'impostazione dell'unità non dovrà farsi prima di quattro mesi dalla data in cui vengono annunciate le modifiche stesse.
4. Tutte le informazioni suddette debbono essere date non solo per le unità costruite per conto di potenze contraenti, ma anche per quelle che possono essere costruite, nella giurisdizione di potenze contraenti, per conto di potenze non contraenti.
Poiché tale progetto non influisce sulla composizione delle flotte, la marina degli Stati Uniti non ha dovuto procedere per ora ad alcuna radiazione. Essa risulta attualmente costituita come segue:
Navi da battaglia: Una in progetto da tonn. 35.000. Tre (Maryland, West Virginia, Colorado) varate nel 1920-21, da 34.000 tonn. e 21 nodi, armate con 8/406, 12/127, 8/127 a.-a., 2 tubi di lancio subacquei da 533. La prima e la seconda hanno propulsione turbo-elettrica. Queste navi, tra le più moderne del mondo, sono state costruite in gran parte sfruttando gl'insegnamenti della guerra. Sono dotate di 2 catapulte e 3 aerei. Sette (California, Tennessee, New Mexico, Mississippi, Idaho, Arizona, Pennsylvania) varate negli anni 1915-19, da 33.000 tonn. e 21 nodi, armate con 12/356 in 4 torri trinate, 12/127, 8/127 a.-a. e 2 tubi di lancio. L'Arizona e il Pennsylvania sono state rimodernate nel 1929; New Mexico, Idaho, Mississippi nel 1933. La New Mexico ha motrici turbo-elettriche. Sono dotate di 2 catapulte e 3 aerei. Due (Nevada, Oklahoma) varate nel 1914, da 29.800 tonn. e 20 nodi, armate con 10/356 in 4 torri, 12/127, 8/127 a.-a., 2 tubi di lancio, rimodernate nel 1928-29 (compresa anche la sostituzione dei caratteristici alberi a traliccio con quelli a tripode). Sono dotate di 2 catapulte e 3 aerei. Due (Texas, New York) varate nel 1912, da 29.500 tonn. e 21 nodi, armate con 10/356 in 5 torri binate, 16/127, 8/76 a.-a., rimodernate come le precedenti nel 1925-27. Una (Arkansas) varata nel 1911, da 27.000 tonn. e 20-22 nodi, armata con 12/305, 16/127, 8/76 a.-a., rimodernata nel 1927. La Wyoming dello stesso tipo, disarmata in seguito al trattato di Londra, serve da nave scuola allievi. L'Utah, leggermente minore, è stata trasformata in nave bersaglio radiocomandata.
Incrociatori tipo A (da 10.000 tonn., armati con 203): 16 varati tra il 1929 e il 1935 tipo Augusta (6), Portland (2), Astoria (5), Quincy (3), con velocità di 33-32 nodi, armati con 9/203 e 4/127 (i tipi Augusta hanno anche 2 tubi di lancio tripli da 533 che dovrebbero essere soppressi; i tipi Augusta e Portland hanno 2 catapulte e 4 aerei, mentre i tipi Astoria hanno 2 catapulte e 8 aerei, di cui 4 smontati; per i tipi Quincy questa parte dell'armamento non è stata ancora definita); 2 tipo Pensacola, varati nel 1929, armati con 10/203, 4/127 a.-a., 2 tubi di lancio tripli da 533 che pare saranno soppressi, 2 catapulte e 4 aerei.
Incrociatori tipo B (leggieri, armati con calibro inferiore al 203): 2 tipo St Louis, in progetto, da 8550 tonn.; 7 Savannah, in costruzione, da 10.000 tonn. e 32,5 nodi, armati con 15/152 e 8/127 a.-a.; 10 Omaha, varati tra il 1920 e il 24, da 7000-8000 tonn. e 33-34 nodi, armati con 10, 11 o 12/152, 4/76 a.-a., 2 tubi di lancio tripli da 533
Portaerai: Essex, sullo scalo, da 14.soo tonn.; 2 tipo Yorktown, in costruzione, da 20.000 tonn. e 34 nodi, armati con 127 a.-a., capaci di portare 150 apparecchi terrestri; 1 Ranger, ultimata nel 1933, da 13.700 tonn. e 30 nodi, armata con 8/127 a.-a. e 50 mitragliere a.-a., capace di 72 apparecchi terrestri; 2 Lexington e Saratoga (ex-incrociatori da battaglia trasformati), varate nel 1925, da 35.000 tonn. e 34 nodi, armate con 8/203, 12/127 a.-a., 4 tubi di lancio subacquei da 533, capaci di portare 90 apparecchi montati e 45 smontati; 1 Langley (piroscafo trasformato nel 1921), da 11.500 tonn. e 15 nodi, armata con 4/127 e capace di 34 apparecchi. In più il trasporto idrovolanti Wright, varato nel 1920, da 9553 tonn. e 15 nodi, armato con 2/127 e 2/76 a.-a., capace di portare 12 idrovolanti.
Conduttori di flottiglia e cacciatorpediniere: 13 varati nel 1935 o in costruzione, da 1850 tonn. e 37 nodi, armati con 5/127 a.-a., 4 mitragliere e 2 tubi di lancio quadrupli da 533; 53 varati nel 1935 o in costruzione, da 1500-2300 tonn. e 36,5 nodi, armati come i precedenti (hanno una autonomia di 6000 miglia); 8 varati nel 1934-35, da 1360 tonn. e 36,5 nodi, armati come i precedenti; 92 varati tra il 1919 e il 1921, da 1190-1300 tonn. e 32-35 nodi, armati (salvo 5 armati con 4/127) con 4/102, 1/76 a.-a., e 4 tubi di lancio tripli da 533 (hanno un'autonomia di 5000 miglia a 14 nodi); 11 varati tra il 1915 e il 1919, da 920-1060 tonn. e 30-35 nodi, armati come i precedenti. Alcuni di questi sono a disposizione del Ministero delle finanze per la sorveglianza costiera.
Sommergibili: a) di squadra: 12 tra in costruzione e in progetto, tipo Sturgeon, da 1400 tonn.; 6 in costruzione tipo Perch da 1300 tonn.; 4 varati nel 1935, tipo Shark e Pike, da 1290 tonn., armati con 6 tubi di lancio da 533 e un 76; 2 tipo Chacalot, varati nel 1933, da 1110-1650 tonn. e 17/8 nodi, armati come i precedenti; 1 (Dolphin) varato nel 1932, da 1540-2215 tonn. e 17/8 nodi, armato con 6 tubi di lancio da 533 e 1 cannone da 102; 2 tipo N (Narwhal, Nautilus), varati nel 1927-29, da 2700-3965 tonn. e 17/8 nodi, armati con 6 tubi da 533 e due cannoni da 152; 1 (Argonaut), varato nel 1927, da 2700-41oo tonn. e 14,6/8 nodi, armato con 4 tubi da 533 e 2/152, capace di portare 1 aereo e 60 mine, con autonomia di 10.000 miglia; 3 tipo B (Barracuda, Bass, Bonita), varati nel 1924, da 2200-2500 tonn. e 21/10 nodi, armati con 6 tubi di lancio da 533 (4 prodieri) e 1/127; 3 tipo T, varati nel 1918-19, da 1120-1500 tonn. e 20/11 nodi, armati con 4 tubi binati da 533 e 1/102.
b) di 1ª classe: 45 tipo S, varati tra il 1919 e il '24, di cui i primi 40 da 870-1100 tonn. e 14/10 nodi, e gli ultimi 10 da 900-1140-1000-1250 tonn., tutti armati con 4 tubi da 533. L'autonomia di tutti questi battelli è in media di 5000 miglia a 11 nodi.
c) di 2ª classe: 29 tipo O-R, varati tra il 1918 e il '19, da 360-440- 580-690 tonn. e 12-10-15-11 nodi, armati con 4 tubi di lancio da 450 e 1/76 a.-a., con autonomia dalle 2800 alle 5000 miglia.
La marina degli Stati Uniti ha inoltre un certo numero (14) di posamine veloci (ex-cacciatorpediniere), di dragamine (43), di cannoniere (43) per servizio in Cina e in colonia, di unità di sorveglianza (3), di cacciasommergibili (27) e di navi speciali (navi scuola, navi appoggio CC. TT., navi appoggiosommergibili, navi officina, navi per trasporto nafta, viveri, carbone, munizioni, navi idrografiche e yachts, nonché, nella ex-corazzata Utah e nei caccia Boggs e Lamoerton delle navi bersaglio radiocomandate).
Le forze navali degli Stati Uniti sono raggruppate nella flotta metropolitana che comprende: la squadra da battaglia, la squadra di esplorazione, la divisione navi portaerei, la squadra sommergibili, la divisione navi ausiliarie; nella squadra asiatica e nella divisione speciale. La flotta metropolitana staziona alternativamente sulle coste dei due oceani.
Le basi navali principali sono, in America, Boston, New York, Filadelfia, Hampton Roads, Charleston, Key West, New Orleans, San Diego, San Francisco, Seattle, Guantanamo, Culebra, Balboa; in Asia Pearl Harbour, Apra, Pago Pago. Un'importante riserva è costituita dalle navi armate, della U. S. Coast Guard, che in pace è amministrata dal Dipartimento del tesoro, in guerra è destinata ad operare con la marina militare. La preparazione degli ufficiali è fatta nell'Accademia navale di Annapolis (Maryland).
La forza della marina degli Stati Uniti è di 10.155 ufficiali e di 102.500 sottufficiali e comuni, tutti volontarî; in tale forza sono compresi anche la fanteria di marina (1020 ufficiali, 155 ufficiali del corpo, 18.500 sottufficiali e comuni) e l'aviazione (967 ufficiali, 10.950 sottufficiali e comuni), che ne formano parte integrante. Dati i vasti mezzi a disposizione e le egregie qualità del popolo americano, tale personale è ottimamente organizzato e viene sempre perfettamente allenato con concetti e mezzi moderni.
Aviazione militare. - Il corpo aeronautico dell'esercito (aviazione terrestre) dipende per il personale dal Dipartimento della guerra, per il materiale da quello del lavoro. Le forze aeree dell'esercito sono costituite da un comando generale d'aviazione, da un reggimento da caccia, da uno da bombardamento, da uno di attacco e da due reggimenti dislocati fuori del territorio (uno alle Hawaii e l'altro a Panamá); in complesso comprende 15 gruppi, cioè 66 squadriglie, con un totale di 1097 velivoli bellici. Gli effettivi sono costituiti da 1300 ufficiali, 268 cadetti di volo (allievi ufficiali di complemento) e 13.600 uomini tra sottufficiali e truppa, dei quali 2700 specializzati.
L'aviazione della marina dipende dal Bureau of Aeronautics del Dipartimento della marina, è retta da un capo e da un sotto capo e ripartita in sei divisioni principali a loro volta divise in sezioni e sottosezioni. La forza aerea della marina dispone di 920 velivoli, dei quali 360 da ricognizione, 200 da caccia, 75 da bombardamento o siluramento, 150 grossi idrovolanti da sorveglianza costiera (ricognizione a grande raggio), 95 da scuola e addestramento, 40 da trasporto; ha 1350 piloti e 13.000 uomini. I suoi velivoli sono imbarcati su navi da battaglia, su incrociatori da 10.000 e 7500 tonnellate e sulle navi portaerei (v. sopra).
I grossi idrovolanti sono invece assegnati in parte ad alcune basi come quella di Coco Solo (Panamá) e di Pearl Harbour (Hawaii), e in parte alla flotta, appoggiati dalla nave ausiliaria Wright e da alcuni dragamine da 840 tonnellate, appositamente attrezzati. L'aviazione per la fanteria di marina è invece costituita da una squadriglia da caccia, quattro squadriglie da ricognizione, una da bombardamento e due da addestramento e trasporto.
Culti. - Il principio dell'assoluta libertà religiosa, sulla base della rigida e totale separazione delle chiese dallo stato non è sempre prevalso negli Stati Uniti; anzi, in origine, le stesse colonie fondate dai dissidenti non conobbero neppure la tolleranza. E dei "padri pellegrini" emigrati nel Massachusetts si poté dire, paradossalmente ma non del tutto a torto, che essi andarono in America per godere la facoltà di adorare Dio secondo i dettami della loro coscienza nonché l'altra facoltà di costringere tutti gli altri ad adorarlo nello stesso modo. Queste concezioni appaiono del resto in dichiarazioni del governatore J. Winthrop il Vecchio, del Massachusetts, il quale appunto le applicò nel caso di R. Williams, che nel 1636 fondò, in nome della libertà religiosa più piena, lo stabilimento di Providence, nel Rhode Island. Qui, nonostante il dissenso e la fiera polemica tra lo stesso Williams e G. Fox, vennero accolti i quaccheri, perseguitati nelle altre colonie e con particolare accanimento nel Massachusetts; e così anche gli Ebrei. Altri stati nei quali - essendo stati fondati allo scopo di offrire un asilo ai dissidenti - prevalsero la tolleranza o la libertà religiosa furono la Pennsylvania, la Georgia, e il Maryland fino al 1691. Invece le vecchie colonie della Baia di Massachusetts, la Virginia, il New Haven accordavano pieni diritti civili e politici soltanto ai membri di una delle chiese riconosciute.
La costituzione federale garantisce invece questa libertà religiosa, in una forma che si richiama a precedenti inglesi e che, implicitamente, afferma il disinteresse dello stato verso le forme del culto. L'art. 6 dice infatti che "nessun esame religioso (religious test) sarà mai richiesto come condizione di ammissibilità (qualification) a qualsiasi ufficio o incarico (trust) pubblico dipendente dalla Confederazione". Ma più tardi si vide che con tale misura si tutelavano bensì i diritti dei singoli cittadini, ma non quelli delle comunità religiose; e così il principio della separazione trovò espressione concreta nel 1° emendamento della costituzione, per il quale: "Il congresso non farà alcuna legge concernente uno stabilimento religioso o che proibisca il libero esercizio di una religione".
In base a questo principio, e in conseguenza anche della tendenza alla scissione, che sembra essere una caratteristica delle confessioni generate, direttamente o indirettamente, dalla Riforma, gli Stati Uniti sono con tutta probabilità il paese nel quale vive il maggior numero di confessioni o "denominazioni" cristiane. Nel 1926 si contavano non meno di 212 organizzazioni religiose con 232.154 istituti e 54.576.346 membri. Questa cifra, come le altre indicate nella tabella qui appresso, riguarda esclusivamente i "membri" delle diverse chiese: cioè, sia i partecipanti alla comunione, sia coloro che sono in qualche modo regolarmente iscritti a una delle organizzazioni, che sono computate in maniera molto diversa. Ciò spiega come i cattolici, pur essendo ancora minoranza, costituiscano però il gruppo più forte. Naturalmente ci limitiamo a indicare le denominazioni fondamentali, trascurando le suddivisioni minori (per es., le cosiddette chiese "di colore" tra i Negri).
La chiesa cattolica ha ormai un'organizzazione complessa, con 15 provincie ecclesiastiche, cioè: Baltimora (1789; metropolitana dal 1808), con suffraganei Charleston (1820), Raleigh (1924), Richmond (1820), Austin (1870), Savannah (1850), Wheeling (1850), Wilmington (1868); Boston (1808; metropolitana dal 1875) con suffraganei Burlington (1853), Fall River (1904), Hartford (1843), Manchester (1884), Portland, Maine (1853), Providence (1872), Springfield, Mass. (1870); Chicago (1843; metropolitana dal 1880), con suffraganei Belleville (1887), Peoria (1875), Rockford (1908), Springfield (già Alton, 1857; mutato il nome nel 1923); Cincinnati (1821, metropolitana dal 1850), con suffraganei Cleveland (1847), Columbus (1868), Covington (1853), Detroit (1833), Fort Wayne (1857), Grand Rapids (1882), Indianopolis (già Vincennes, 1834; mutato il nome nel 1898), Louisville (già Bardstown, 1808; mutato il nome nel 1841), Nashville (1837), Toledo (1910); Dubuque (1837; metropolitana dal 1893), con suffraganei Cheyenne (1887), Davenport (1881), Des Moines (1911), Grand Island (già Kearney, 1917, mutato il nome nel 1917), Lincoln (1887), Omaha (1885), Sioux City (1902); Filadelfia (1808; metropolitana dal 1875) con suffraganei Altoona (1901), Erie (1853), Harrisburg (1868), Pittsburg (1843), Scranton (1868); Milwaukee (1843; metropolitana dal 1875), con suffraganei La Crosse (1868), Green Bay (1868), Sault Ste Marie e Marquette (1857), Superior (1995); New Orleans (1793; metropolitana dal 1850) con suffraganei Alexandria, Louisiana (già Natchez, 1853; mutato il nome nel 1910), Lafayette (1918), Little Rock (1843), Mobile (1829), Natchez (1837); New York (1808; metropolitana dal 1850) con suffraganei Albany (1847), Brooklyn (1853), Buffalo (1847), Newark (1853), Ogdensburg (1872), Rochester (1868), Syracuse (1886), Trenton (1881), Portland, Oregon (già Oregon City, 1846; metropolitana dal 1850; mutato il nome nel 1928) con suffraganei Baker City (1903), Boise City (1893), Great Falls (1904), Helena (1884), Seattle (già Nesqualles, 1907; mutato il nome nel 1907); Spokane (1913); San Francisco (1853), con suffraganei Los Angeles-San Diego (1922), Monterey-Fresno (1922), già Monterey-Los Angeles (1850), Reno (1931), Sacramento (1886), Salt Lake (1891); St Louis (1826, metropolitana dal 1847) con suffraganei Concordia (1887), Kansas City (1880), Leavenworth (1877), St Joseph (1868), Wichita (1887); St Paul, Minnesota (1850; metropolitana dal 1888) con suffraganei Bismarck (1909), Crookston (1909), Duluth (1889), Fargo (già Janestown, 1809; mutato il nome nel 1907), Rapid City (già Lead, 1902; mutato il nome nel 1930), Saint Cloud (1889), Sioux Falls (1889), Winona (1889); Santa Fe (1850; metropolitana dal 1875), con suffraganei Denver (1887), El Paso (1914), Tucson (1897); San Antonio (1874; metropolitana dal 1926), con suffraganei Amarillo (1926), Corpus Christi (1912), Dallas (1890), Galveston (1847), Oklahoma e Tulsa (1905 e 1930). Inoltre, due ordinarî per i cattolici ruteni, e il vicariato apostolico dell'Alasca.
Benché non esistano relazioni diplomatiche tra la S. Sede e il governo degli Stati Uniti, fino dal 1893 vi è un delegato apostolico con sede in Washington. Grande è poi lo sviluppo della religione cattolica negli Stati Uniti dalla fine dell'Ottocento ad oggi. Vi si noverano 109 vescovi, 31.108 sacerdoti (dei quali 21.378 appartengono al clero secolare, 9730 al regolare), 12.720 parrocchie, 5667 stazioni di missione e 197 seminarî, nei quali si educano 22.629 seminaristi. Le scuole parrocchiali sono 7490 con 2.212.260 alunni; le scuole secondarie, o medie, 1151, con 195.821 alunni; le accademie (licei) per le ragazze 658; vi sono infine 196 scuole superiori e università con molte decine di migliaia di studenti.
Finanze. - Storia della politica finanziaria. - La guerra mondiale ha enormemente accelerato lo sviluppo economico e sopra tutto industriale degli Stati Uniti e ne ha radicalmente capovolto la posizione finanziaria di fronte all'Europa.
Debitori dell'estero nel 1914, alla fine del 1919 gli Stati Uniti avevano infatti superato i 17 miliardi di credito (tenendo conto, oltre che dei crediti accordati ai paesi alleati, dei valori e delle divise estere acquistate dal governo americano, della stima dei crediti non documentati, degl'investimenti all'estero preesistenti e del riassorbimento dei valori americani precedentemente esportati). Né l'enorme richiesta europea, che aveva moltiplicato durante la guerra l'esportazione americana, poteva certo arrestarsi con la cessazione delle ostilità. Troppi ostacoli economici e politici impedivano il rapido ritorno a una normale attività produttiva, e, d'altra parte, l'esigenza crescente di un maggior consumo si aggiungeva alle improrogabili necessità di ricostruzione. Mentre però, durante il conflitto, gli alleati avevano per la maggior parte acquistato a credito, esaurito nei primi mesi dopo l'armistizio - in prestiti anche ad ex-nemici - il residuo dei 10 miliardi che il potere esecutivo era stato autorizzato ad accreditare, l'oro cominciò ad affluire sempre più dal vecchio continente, tanto più che per l'abbandono del gold standard nel resto del mondo, solo negli Stati Uniti poteva ancora trovare impiego in usi monetarî.
Afflusso aureo che ben presto doveva necessariamente cominciare a destare preoccupazioni, dato che, pur avendo il dollaro conservato intatto il suo valore, si era già verificato un notevole processo inflazionistico. Inflazione, in parte aurea, per effetto della massa oro di circa 1 miliardo di dollari entrata nelle casse delle banche americane tra il '14 e il '18, ma soprattutto creditizia. Dei 18 miliardi e mezzo sottoscritti ai quattro prestiti di guerra si calcola che 6 almeno fossero stati forniti dalle banche sotto forma di credito ai sottoscrittori. S'imponeva quindi di contrarre il credito e dare incremento al risparmio per giungere a una riduzione della circolazione e dei prezzi. Fu tuttavia solo dopo il lanciamento di un ultimo prestito (Victory loan del maggio 1919) e la conseguente ondata di speculazione che il Federal Reserve System fu libero di manovrare lo sconto senza più freni da parte del Tesoro. A più riprese, durante il 1920 e il 1921, crebbero i saggi ufficiali (da meno del 4% al 7%), arrestando in parte l'espansione e traducendosi infine in una contrazione effettiva del numero dei biglietti delle banche federali in circolazione (da 3,3 miliardi alla fine del 1920 a 2,2 nell'estate del 1922). L'oro che affluiva dall'estero in grande quantità, a partire dal 1920, agendo come compensatore, finì però ben presto per annullare le restrizioni creditizie in questo modo tentate e gli stessi tassi ufficiali dovettero adattarsi alle discesa dei tassi privati di sconto. La riduzione della circolazione e l'aumento delle riserve davano, d'altra parte, la sensazione che il pericolo dell'inflazione fosse scongiurato e la vita economica americana riprese a svolgersi con sicurezza e senza freni di sorta.
Data la particolare organizzazione del sistema bancario americano (v. appresso) era però naturale che l'afflusso aureo si traducesse in una enorme espansione del credito, nonostante che le banche federali ne trattenessero una gran parte nelle loro casse, e che permettesse inoltre alle member banks di sfuggire sempre più al controllo del F. R. S. L'incremento dei depositi dava loro modo infatti di ridurre le operazioni di risconto presso le banche federali. È vero che queste ultime cercarono d'influire sul mercato con forti vendite di titoli governativi, ma anche questo intervento non fu che un palliativo e, dopo una leggiera contrazione intorno alla metà del 1923, i depositi, sia passivi sia a riserva, e i prestiti delle banche ripresero la loro ascesa.
Veniva intanto maturandosi un nuovo indirizzo nella politica delle banche federali in connessione con la necessità di aiutare l'Europa a uscire dal marasma monetario. Sia per conservare uno sbocco alla produzione in continuo sviluppo e per trovare un impiego all'esuberante risparmio, sia per il fatto degli enormi crediti concessi durante la guerra, sia ancora per arrestare gli arrivi d'oro (si può calcolare che dal 1925 l'America possieda circa la metà dell'oro monetato mondiale), gli Stati Uniti erano infatti grandemente interessati alla restaurazione della solvibilità e della stabilità monetaria dei loro debitori. Nuovi prestiti, così detti di stabilizzazione, e larghe aperture di crediti furono concessi alle nazioni europee e si cercò ancora di favorire il collocamento di prestiti esteri sul mercato americano e di tener basso all'interno il costo del denaro in modo da permettere all'oro di uscire. Tutto ciò condusse naturalmente a una politica di facilità monetaria crescente (i tassi ufficiali di sconto oscillarono nel 1925 tra il 3% e il 3½ %), che, insieme con l'accresciuto volume del risparmio e al continuo ammortamento del debito pubblico, impedi all'attività creditizia di risentire dell'inversione effettivamente verificatasi, nel 1925, nella direzione del flusso dell'oro (le importazioni d'oro tendevano però già nel 1926 a superare le esportazioni, e tranne alcuni periodi del 1927, 1928 e 1931 rimasero in eccesso fino al 1932).
Si aggiunga a ciò che le member banks erano venute sempre più modificando la proporzione tra investimenti a breve e a lungo termine a vantaggio di questi ultimi, per cui la percentuale richiesta a riserva è minore (da meno di ⅓ dei demand deposits alla fine del 1919, i time deposits erano già a ⅔ alla fine del 1927 e ancor più crebbero in seguito); il che aveva loro permesso sia di diminuire i depositi infruttiferi presso le banche federali, sia di allargare ancor più la possibilità di prestiti e investimenti. Il credito concesso dalle member banks ai loro clienti era complessivamente cresciuto da 25,6 miliardi al 30 giugno 1920 a 35,7 alla fine del 1928 e analogo andamento aveva avuto quello delle banche non affiliate al F. R. S. (da 16,4 a 22,6). Quest'enorme massa di fondi, solo in parte assorbita dall'aumento dell'attività commerciale e industriale (tanto più che lo sviluppo della produzione aveva condotto a un ribasso dei prezzi di circa il 25%) e tornata quindi in gran parte in deposito alle banche stesse, aveva trovato infatti impiego soprattutto in prestiti contro titoli. Già verso il 1925 la diminuita importanza relativa dei prestiti commerciali e il corrispettivo aumento degl'investimenti a lunga scadenza cominciarono a essere considerati come un fattore di debolezza potenziale della situazione creditizia, in quanto diminuivano la liquidità dell'attivo delle banche, e, in caso di urgente bisogno di realizzo, si sarebbero tradotti in un forte ribasso dei titoli e quindi in gravi perdite. Ma le cose non migliorarono e dopo il 1926 si sviluppò la tendenza delle società a finanziarsi a breve scadenza, non più ricorrendo al credito delle banche, bensì emettendo titoli, il che contribuì a variare ancor più la proporzione tra investimenti bancarî a breve e a lungo termine.
Bisogna tener presente inoltre la particolare posizione che ha la borsa nell'economia nordamericana. A differenza di quel che accade in Europa, la borsa di New York - che in realtà costituisce il mercato monetario dell'intera repubblica - non si limita infatti a fare da intermediaria tra il risparmio esistente e il mondo degli affari, ma essa stessa impegna il risparmio futuro che si ritiene sarà disposto a finanziare le imprese, senza creare le condizioni per una sua sicura formazione. Un altro elemento caratteristico della situazione è costituito dai cosiddetti prestiti delle banche ai brokers o agenti di borsa (che dal 1925 al 1928 sono aumentati di circa l'80%), che, se da una parte facilitarono il collocamento dei titoli sul mercato, permettendone un assorbimento graduale, dall'altra alimentarono la speculazione. E che la misura sana fosse ormai superata lo dimostra la media giornaliera delle transazioni in borsa, salita da 1 ½-2 milioni di titoli a 4 milioni dalla fine del 1927 a quella del 1928, e l'alto saggio del call money che superava a volte anche il 10% (cifre che la crisi dell'ottobre 1929 troverà poi ancora raddoppiate). Le banche, esigendo maggiori garanzie, cercarono a un certo punto di frenare questo sviluppo esagerato (per quanto non con la dovuta energia, dato il grande utile che ricavavano dai prestiti borsistici), ma il F. R. S. ormai non era più in grado di esercitare un controllo effettivo sul credito, poiché al difuori del sistema bancario si erano venuti sempre più sviluppando i prestiti concessi direttamente ai brokers da individui e società, americani ed esteri; prestiti che, per essere assolutamente sprovvisti di riserve e per essere manovrati senza un controllo unitario, costituivano un grave pericolo per la stabilità del mercato. Le banche stesse, d'altra parte, contribuivano a rafforzare la speculazione con la creazione di tutte quelle società d'investimento e istituzioni finanziarie (investment trusts) che, sorte originariamente allo scopo di raccogliere i fondi dei piccoli risparmiatori e investirli globalmente in titoli sicuri e ben ripartiti per qualità e quantità, in modo da equilibrare i rischi, erano venute poi degenerando e minavano il mercato al pari dei singoli speculatori con in più la minaccia di far ricadere le loro perdite sulla gran massa del pubblico americano.
Come dirigenti delle holding companies e degli investment trusts, i banchieri avevano inoltre acquistato la possibilità d'influire sulla direzione delle industrie concentrate nelle loro mani, e tra banche finanziatrici e imprese si erano venuti allacciando legami sempre più stretti, con la conseguenza di creare una confusione di funzioni e una degenerazione di fini che non potevano non portare effetti deleterî. Né mancarono d'interferire nel mondo degli affari le preoccupazioni dei capi dei grandi partiti politici desiderosi di mostrare alle masse degli elettori la possibilità di un sempre maggior benessere materiale. Tutto ciò contribuì a creare l'ondata crescente di febbrile attività che caratterizza gli anni della cosiddetta prosperità americana e che doveva sboccare nel collasso di Wall Street dell'ottobre-novembre 1929. Nel corso di due settimane la speculazione borsistica che negli ultimi nove mesi aveva spinto il corso dei titoli dell'80% più in alto che alla fine del 1928, allora di colpo si afflosciò; il panico fu spaventoso, il valore nominale delle azioni che più si erano accresciute subì decurtazioni enormi (fino al 65%), gran parte dei capitali impegnati nella speculazione si ridussero a zero.
Numerose furono certo le cause occasionali e concomitanti che originarono e accentuarono l'eccezionale movimento di ribasso, ma assurdo sarebbe farne risalire l'effettiva responsabilità a fattori estranei alla patologica situazione del mercato di New York. Falso sarebbe però anche ritenere che la crisi del 1929 sia stata puramente borsistica, per quanto l'elemento speculativo vi abbia avuto un'enorme influenza. Essa aveva profonde radici nella situazione economica che si era a mano a mano venuta maturando sia nel campo dell'agricoltura sia in quello dell'industria. La produzione industriale americana, come si è già detto, aveva tratto grande impulso dalla richiesta europea durante gli anni della guerra e del dopoguerra. La razionalizzazione del lavoro con la conseguente diminuzione dei costi, non accompagnata da una correlativa diminuzione dei prezzi, aveva contribuito inoltre alla realizzazione di sempre maggiori profitti che erano stati in gran parte destinati all'allargamento degl'impianti, quando non erano andati ad alimentare direttamente o indirettamente il mercato di Wall Street. A questa espansione dell'efficienza produttiva, oltre il limite dell'incremento naturale del consumo, contribuì anche grandemente l'uso sempre più diffuso degli acquisti a credito, elemento estremamente pericoloso in caso di riduzione del potere di acquisto della massa consumatrice. La minaccia di un rallentamento del consumo incombeva quindi sull'economia americana; eppure le industrie favorite dal basso costo del denaro continuavano ad accrescere la loro potenzialità e gli uomini di affari compromettevano la loro solvibilità con un crescente sforzo di espansione. Dato poi che la produzione era già superiore alle possibilità di assorbimento del mercato interno, sempre più si cercò anche di collocare all'estero le eccedenze di prodotti, accordando nuovi prestiti ai paesi europei. Ma i prestiti si risolsero in buona parte in manipolazioni creditizie, a causa del protezionismo dell'Europa che ostacolava l'afflusso di merci. L'agricoltura d'altra parte, che prima e durante la guerra aveva visto aumentare i prezzi delle sue derrate e il valore dei terreni, era stata danneggiata dalla diminuzione dell'importazione europea (a causa della ripresa delle coltivazioni in Europa, oltre che degli alti prezzi americani) e aveva anche risentito della tendenza alla sovraproduzione e dei metodi irrazionali di sfruttamento. Accanto alla crescente prosperità dell'industria l'agricoltura vedeva quindi progressivamente ridursi la sua partecipazione al reddito nazionale (da 15% nel 1920 a 9% nel 1928), ed era sempre meno in grado di fronteggiare le imposte e le altre spese fisse (specie interessi e ammortamenti di debiti contratti negli anni floridi).
Quando così il forte ribasso dei prezzi delle derrate agrarie verificatosi sul mercato mondiale nell'estate 1929 (per effetto dell'aumento della produzione europea e delle grandi rimanenze del raccolto precedente) si aggiunse al cattivo raccolto americano dello stesso anno, incidendo fortemente sul potere di compera della classe agricola, la situazione si aggravò rapidamente. E questo proprio in coincidenza con l'inizio della parabola discendente dell'industria, che nella prima parte dell'anno aveva raggiunto il culmine dello sviluppo, sostenuta anche dal fatto che il 1928 era stato un'annata particolarmente favorevole per gli agricoltori. Tre delle maggiori industrie, l'automobilistica, l'edilizia e la tessile erano già entrate infatti in una fase di regresso; i prezzi all'ingrosso avevano iniziato una lenta ma sicura discesa, i profitti netti complessivi di 638 società industriali, pur essendo sempre fortissimi, cominciavano a declinare e la disoccupazione da mesi aumentava. La febbre speculativa impediva però di cogliere e di valutare questi molti sintomi di rallentamento e si apriva così un baratro sempre più profondo tra la realtà economica dei fatti e la loro sempre più florida apparenza. Perciò, allorché sopravvenne il collasso, non solo si verificò un inevitabile movimento di redistribuzione della ricchezza entro il suddetto margine speculativo, ma parte della ricchezza prodotta negli anni prosperi divenne di colpo sterile perché investita in impianti non necessarî. Le banche inquiete si affrettarono ad esigere rimborsi, il credito si contrasse paralizzando l'industria, il commercio declinò, e la disoccupazione si accrebbe ancor più.
Diamo ora una breve scorsa alla situazione delle finanze federali. Rapidamente contratto negli esercizî 1919-20, 1920-21 e 1921-22, il volume delle spese - che aveva assunto un enorme sviluppo (vedi tabella appresso) durante il periodo di guerra e l'immediato dopoguerra - era rimasto poi quasi stazionario a un livello sempre di molto superiore a quello prebellico (140% nel 1928 in confronto col 1913), pur tenendo conto dell'aumento della popolazione e dei prezzi. Era di molto cresciuto infatti il carico degl'interessi del debito pubblico e del fondo ammortamento e si erano aggiunte nuove spese per pensioni e compensi ai reduci. Le entrate, che durante gli anni di maggiori spese erano state naturalmente a esse inferiori, erano poi riuscite a superarle fino dal 1919-20 e il progressivo aumento del reddito nazionale durante il periodo della prosperità aveva permesso anche di ridurre più volte le imposte (complessivamente di 1,6 miliardi). Il debito pubblico, nel 1919 di 26,6 miliardi, per successivi rimborsi al 30 giugno 1929 si era ridotto a 16,6 miliardi. I debiti bellici erano stati in grandissima parte sistemati e l'importo totale dei crediti esteri degli Stati Uniti superava i 15 miliardi di dollari.
La situazione era quindi buona, né poteva risentire immediatamente dell'inizio della crisi economica. Un incosciente ottimismo tornò d'altra parte ben presto a dominare nel mondo degli affari; spiegazioni e false speranze furono date e rapidamente si diffuse la sensazione che la prosperità effettiva dell'America, liberata dalla sovrastruttura creata dalla speculazione, potesse a lungo durare. Nessun provvedimento radicale fu adottato e il male si aggravò. Ai primi di maggio del 1930 una nuova improvvisa ondata di vendite in borsa fece riperdere ai titoli a reddito variabile tutto il terreno che avevano lentamente riguadagnato dal novembre e si ripercosse in una maggiore contrazione del commercio interno e quindi della possibilità di lavoro.
A paralizzare poi il commercio con l'estero sopravvenne la nuova tariffa Grundy, votata dopo lunga lotta nel giugno dello stesso 1930, che circondò il mercato americano di alte barriere doganali proprio quando la struttura economica del mondo vacillava e sempre più difficile diveniva il problema di come le altre nazioni avrebbero potuto pagare ì loro debiti verso gli Stati Uriiti. I pagamenti dei paesi debitori come pure i loro acquisti di merci americane erano stati infatti fino al 1929 facilitati dai crediti più o meno improvvidamente accordati dallo stesso creditore e perfino le riparazioni tedesche può dirsi siano state finanziate dall'America. Cessati definitivamente i prestiti americani nel 1929, l'Europa non aveva più che una via per pagare i suoi debiti, specie quelli politici: esportare merci; e chiusa anche questa dagli alti dazî, dovette di necessità ricorrere ad esportare oro. Il prosciugamento delle sue riserve doveva però a sua volta ripercuotersi sulla situazione monetaria; il valore del dollaro di fronte alle altre monete crebbe, e i cambî, insieme alle rappresaglie doganali europee e al diffondersi della crisi, sbarrarono gran parte degli sbocchi all'esportazione americana. Né la moratoria Hoover del giugno 1931 poteva ormai gran che influire sulla situazione. Nel 1932 le esportazioni e importazioni americane raggiunsero appena rispettivamente 1,6 e 1,3 miliardi di dollari, mentre nel 1930 erano state di 3,8 e 3,0 miliardi.
Sia per la caduta dei prezzi delle sue derrate invendibili, sia per l'aumento dei prodotti industriali protetti, la capacità di acquisto dell'agricoltura americana si contrasse sempre più fino alla metà circa di quella prebellica. Una volta sospeso il commercio con l'estero anche l'industria doveva però maggiormente risentire delle diminuite possibilità del mercato interno: la disoccupazione, completa e parziale, cominciò ad assumere aspetti impressionanti, tanto più che molte industrie esportatrici finirono per emigrare, specie nel Canada (258 fabbriche in 2 anni).
La contrazione del commercio estero e la depressione economica non tardarono a ripercuotersi poi anche sulle entrate del governo federale: il gettito dei dazî e quello dell'income tax ne risultarono diminuiti, mentre la moratoria Hoover arrestava l'afflusso in conto crediti esteri. La necessità di venire in soccorso all'agricoltura e d'intensificare le costruzioni governative per riassorbire parte dei disoccupati (che, da 5-7 milioni ai primi del 1931 salirono, a seconda delle valutazioni, fino a 13-17 milioni nel marzo 1933) accrebbe d'altra parte le spese e il bilancio divenne deficitario nonostante gl'inasprimenti fiscali e le economie adottate. Fu istituita frattanto la Reconstruction Finance corporation (gennaio 1932) per sovvenire le banche minori e altri enti finanziarî, rendendo liquide le loro attività. La modificazione del Federal Reserve Act del 27 febbraio 1932 estese poi alle banche minori la facoltà di attingere mutui presso le banche del F. R. S. e stabilì che i titoli governativi potessero contemporaneamente valere come garanzia della circolazione, liberando così parecchio oro. Ma tutto ciò non era sufficiente a risanare la vita economica.
Due problemi erano soprattutto gravissimi e permettevano di guardare alla radice del male: 1. la sperequazione tra il potere d'acquisto dell'agricoltura e quello dell'industria e in genere tra risparmio e consumo; 2. le grandi possibilità di speculazione offerte sia dalla struttura del sistema creditizio americano sia dalla concentrazione delle sue industrie in un limitato numero di consorzî (circa 600 che controllano ⅔ dell'industria - mentre 10 milioni di piccoli industriali si spartiscono il resto - e che hanno assorbito con i loro titoli più di metà dei risparmî del paese).
Due problemi che F. D. Roosevelt veniva da mesi additando all'attenzione pubblica e che furono da lui risolutamente affrontati non appena (4 marzo 1933) cominciò ad esercitare effettivamente il suo ufficio. Troppo lungo sarebbe esaminare anche brevemente tutti i provvedimenti adottati dal nuovo presidente. Limitiamoci perciò a riassumere gli elementi fondamentali del programma legislativo, conosciuto sotto il nome di New Deal, con cui cercò di arrestare la depressione e insieme di gettare le basi di un nuovo ordine economico tale da permettere una più equa distribuzione della ricchezza e una maggiore stabilità.
Primo in ordine d'importanza è il National Industrial Recomry Act (N. I. R. A.) inteso ad aumentare la capacità di acquisto delle masse operaie, mediante diminuzione delle ore di lavoro ed elevazione dei saggi dei salarî, e a ridurre e controllare la concorrenza divenuta ormai, per l'assenza d'ogni freno, causa d'instabilità economica. Sospese le leggi Sherman e Clayton contro i trusts, il N. I. R. A. impose perciò agl'industriali di stipulare codes of fair competition nel campo di ogni industria, patti cioè reciprocamente impegnativi contenenti disposizioni sulle condizioni di lavoro e insieme norme di sana attività relativamente ai prezzi, alla produzione, ai metodi di vendita, ai sistemi di contabilità, ecc. (durante la lenta preparazione dei codici stessi quasi tutti i datori di lavoro firmarono poi il cosiddetto "Codice del presidente", che servì come contratto temporaneo generale). Per attenuare intanto il disagio e stimolare il meccanismo economico istituì la Public Work Administration (cui fu poi affiancata per qualche mese la Civil Work Adm.) destinata ad attuare un vasto programma di lavori pubblici (3 miliardi di dollari).
Ad alleviare le difficoltà dell'agricoltura si provvide invece mediante l'Agricoltural Adjustement Act (A. A. A.) - che cercò di rialzare i prezzi delle derrate inducendo gli agricoltori a ridurre le superficie coltivate e compensandoli per questo col provento di speciali processing taxes sulla trasformazione dei prodotti agrarî - e mediante leggi successive che ridussero l'onere degli antichi debiti e permisero di contrarne nuovi a buon mercato, evitando le vendite forzate. Analoghe misure furono anche prese per proteggere la piccola proprietà urbana.
A facilitare e accelerare gli effetti di questi provvedimenti ha mirato poi soprattutto la politica monetaria e bancaria, cercando di risanare la situazione e di rialzare il livello dei prezzi, ed è da questo punto di vista che essa va particolarmente intesa. La moratoria bancaria fu il primo atto della nuova amministrazione, ché il susseguirsi di fallimenti imponeva di agire energicamente per eliminare gli organismi più fragili e ristabilire la fiducia (3000 furono gl'istituti eliminati). Dopo alcune settimane d'intensa deflazione risanatrice si profilò netta però la necessità di una nuova inflazione per far risalire i prezzi. Nel timore che un'ondata di panico o manovre speculative potessero intaccare la riserva aurea, fu frattanto sospesa sia l'esportazione d'oro sia la sua messa a riserva per conto dell'estero e si provvide contemporaneamente ad accentrare presso gli organi del F. R. S. tutte le disponibilità auree del paese. Per mesi la svalutazione del dollaro fu quindi favorita dal governo con progressivi rialzi del saggio d'acquisto dell'oro da parte della tesoreria e con una politica di circolazione manovrata, fino a che il dollaro non fu fissato a 59,06 cents del suo antico valore aureo. Con lo stesso Gold Reserve Act 30 gennaio 1934, che autorizzò questa svalutazione ufficiale, furono anche sospese la convertibilità e circolazione effettiva dell'oro (la clausola oro dei contratti era stata già abrogata il 5 giugno 1933 e tale abrogazione fu, dopo lunga lotta, convalidata dalla Corte suprema il 18 febbraio 1935) e furono affidati al governo la custodia e il controllo dell'oro sia come riserva sia come mezzo di regolamento dei pagamenti internazionali. Fu anche seguita una politica di rivalutazione dell'argento e mediante larghi acquisti di questo metallo fu, pure per questa via, allargata la circolazione (il Silver Purchase Act 19 giugno 1934 ha fissato a ¼ il rapporto dell'argento all'oro quale normale costitutivo della riserva metallica).
La legislazione bancaria seguita all'Emergency Banking Act 9 marzo 1933 (nell'agosto tutte le banche sane avevano ripreso a funzionare normalmente e solo il 5% dei depositi era ancora congelato) mirò d'altra parte a correggere alcuni dei fondamentali difetti del sistema, mentre le leggi sulle borse e sui titoli si proponevano di ridurre le possibilità di speculazione e di permettere agl'investitori di informarsi più sicuramente.
La politica di bilancio è stata naturalmente connessa a questo vasto programma governativo e, rinunziato al pareggio, si è limitata a cercare di assicurare mediante nuove imposizioni ed economie il soddisfacimento dei bisogni permanenti con le entrate tradizionali, ricorrendo al credito per l'esplicazione del piano di restaurazione economica e per la lotta contro la disoccupazione (una parte delle spese di emergenza è però costituita da investimenti che più o meno presto potranno forse recuperarsi).
Questi i lineamenti fondamentali del New Deal, che tante discussioni ha suscitate e che si ritiene sia costato finora più di 12 miliardi di dollari. Assai complessa e difficile si presenta però la valutazione dei suoi risultati. Che gli Stati Uniti, come del resto le altre nazioni del mondo, abbiano fatto nel 1933 e '34 qualche passo avanti nel superare la depressione, è chiaramente provato dall'aumento della produzione e dei prezzi all'ingrosso. Non è detto però che questo miglioramento sia interamente dovuto alla politica del governo o non sia almeno in parte l'effetto di concomitanti forze spontanee di ripresa. Per quel che riguarda in particolare la National Recovery Administration (N. R. A.) è indubbio che, inducendo i datori di lavoro a fare insieme quello che essi temevano di fare isolatamente, essa ha efficacemente contribuito alla diminuzione della disoccupazione e al rialzo dei salarî. Non ha invece avuto eguale successo nei suoi compiti di ricostruzione, nel riequilibrare cioè il rapporto tra i costi e i prezzi delle singole industrie e tra i salari delle varie industrîe, e nel modificare le relazioni tra profitti e salarî e tra mano d'opera qualificata e non qualificata. In questo senso soprattutto si può dire che la N. R. A. non abbia soddisfatto né i datorí di lavoro, né i lavoratori, né i consumatori, il che era prevedibile, data la sua natura di compromesso tra interessi contrastanti e il suo carattere essenzialmente empirico. Viva fu soprattutto l'opposizione dei grandi industriali (specialmente dell'acciaio, del carbone, del petrolio e dell'automobile) ostili a ogni intervento dello stato, e dei lavoratori, che avevano sperato in un maggior riconoscimento delle loro richieste. Ne scaturì un violento acutizzarsi della lotta di classe, imperniata sull'interpretazione della famosa clausola 7 del N. I. R. A. relativa al contratto collettivo e alle associazioni sindacali. Molte lamentele si ebbero poi nel campo del littlemen, che accusarono i codici di favorire la formazione di monopolî e quindi l'oppressione dei piccoli commercianti e industriali da parte delle grandi aziende, e in quello dei consumatori danneggiati dall'aumento dei prezzi. Dopo lunga lotta la N. R. A., già in parte riformata alla fine del '34, fu il 27 maggio 1935 condannata dalla Corte suprema con sentenza d'incostituzionalità che segnò automaticamente la fine dei codici obbligatorî (in molte industrie essi sono stati però mantenuti in vigore volontariamente); nel settembre dello stesso anno fu votato poi il bill Wagner, che rappresenta un notevole progresso di fronte all'articolo 7, vietando ai datori di lavoro d'interferire nella sindacalizzazione degli operai e di rifiutare il contratto collettivo.
Anche nel campo dell'agricoltura le molte critiche suscitate dai nuovi provvedimenti sono sboccate in un giudizio della Corte suprema che ha invalidato il controllo diretto della produzione da parte del governo. Attraverso la legge agraria, votata nel marzo 1936 in sostituzione dell'A. A. A. 1933, il governo ha trovato però modo d'intervenire ancora largamente in aiuto degli agricoltori e di regolare la produzione senza ricorrere a nuove tasse specifiche, per non incappare in un secondo giudizio d'incostituzionalità. Né la politica monetaria e quella di bilancio sono sfuggite agli attacchi tanto dei gruppi avanzati quanto dei conservatori. Sia per l'impostazione stessa della sua politica, messasi sulla via del socialismo e dell'economia diretta senza voler compromettere i fondamenti del capitalismo, sia per le frequenti opportunistiche oscillazioni che ne hanno caratterizzato l'azione, il New Deal doveva infatti necessariamente finire per creare in ogni campo degli scontenti, nonostante l'enorme prestigio personale del suo ideatore e il quasi unanime consenso che ne aveva salutato gl'inizî.
I sintomi di ripresa, manifestatisi nel primo periodo dell'amministrazione Roosevelt e poi subito affievolitisi, sono tornati frattanto ad affiorare nel 1935; la disoccupazione permane tuttavia molto alta (nel marzo 1936, si calcola che 24 milioni di persone, compresi donne, vecchi e bambini, vivessero a carico dell'assistenza pubblica), il deficit annuale di bilancio, per quanto leggermente contratto di fronte al massimo toccato nel 1933-34, è sempre grave e il debito pubblico seguita ad aumentare, ché il largo ricorso ai prestiti interni per raggiungere l'equilibrio della tesoreria permane tra i caposaldi del piano finanziario Roosevelt.
Un elemento di temporanea stabilità e una spinta alla ripresa degli scambî internazionali si spera possano derivare dagli accordi monetarî intervenuti il 25 settembre 1936 tra le tesorerie francese, inglese e americana. Per quanto i singoli governi si siano riservata piena libertà d'azione, è da ritenere infatti che la temuta ulteriore gara svalutatoria tra il dollaro e la sterlina sia per ora arginata.
Bilanci e debito pubblico. - Le entrate del bilancio federale sono per la maggior parte costituite dalle imposte sul reddito e sui profitti, che superano la metà del gettito complessivo, e dai dazî doganali, riservati costituzionalmente al governo centrale. Le tasse sul petrolio e quelle di patente (automobili, ecc.), oltre a parte della stessa income tax, sono attribuite invece ai singoli stati, mentre le casse dei governi locali sono soprattutto alimentate dalle imposte sulla proprietà, reali e personali. Tra le spese federali sono in primo piano quelle per il servizio del debito pubblico, per la difesa nazionale e per le pensioni di guerra; gli stati sono tenuti invece a provvedere alle strade e al mantenimento dell'ordine pubblico, oltre che a sussidiare i governi locali nell'esecuzione dei compiti di educazione, benessere sociale, ecc., loro particolarmente affidati. Lo sviluppo delle spese del governo federale, dovuto alla guerra prima e poi alla necessità di fronteggiare la crisi, e contemporaneamente l'andamento delle entrate, naturalmente inferiori alle spese durante gli anni del conflitto, in avanzo dal 1919-20 al 1929-30, e poi di nuovo deficitarie in seguito alla forte incidenza della depressione sui dazî e sull'income tax, risultano dalla seguente tabella, tratta dai consuntivi del bilancio federale (in milioni di dollari):
Tale situazione si è naturalmente ripercossa anche sul debito pubblico che ha avuto enorme sviluppo durante la guerra si è notevolmente contratto nel periodo della prosperità e ha poi ripreso ad aumentare, come risulta dalla tabella in testa alla colonna seguente.
Al 15 novembre 1935 l'ammontare complessivo delle somme dovute agli Stati Uniti dai paesi debitori era di 12,3 miliardi di dollari (comprensivi di capitale e interessi scaduti), di cui solo 378 milioni relativi a debiti non consolidati.
Per quel che riguarda la situazione finanziaria degli stati e dei governi locali, si può dire che l'aumento delle spese (quasi quadruplicate dal 1913 al 1929), per quanto naturalmente connesso con le conseguenze inflazionistiche della guerra e con lo sviluppo economico e sociale del dopoguerra, sia soprattutto il risultato dell'espansione dell'attività dei governi, specie nel campo delle costruzioni di strade e di scuole. A queste maggiori spese gli stati e i governi locali fecero fronte, in parte con le maggiori entrate, derivate dal continuo incremento del reddito nazionale (solo il governo federale provvide infatti negli anni della prosperità a ridurre la tassazione in modo da trarne un gettito costante), in parte col ricorso al debito pubblico. Quando nel 1929 la situazione mutò e le entrate cominciarono a declinare, gli stati e i governi locali vennero a trovarsi in serio imbarazzo. Tanto più che il già imponente volume del debito pubblico aveva intaccato la fiducia degli investitori nella capacità dei governi stessi di provvedere al suo servizio e diminuiva quindi di molto la possibilità di ricorrervi.
Troppo lungo sarebbe dare un quadro delle finanze dei singoli stati o enti locali e difficile è anche riassumerne complessivamente la situazione, poiché le cifre pubblicate non sono tutte aggiornate alla stessa data. A titolo d'indicazione generale possiamo dire che nell'esercizio 1931-32 le entrate degli stati e degli enti locali furono rispettivamente di 2.207,9 e di 6.644,0 milioni di dollari, e le spese di 2.505,8 e di 7.056,7; e che il debito pubblico al 30 giugno 1932 aveva raggiunto rispettivamente, per gli stati e per gli enti locali, le cifre di 2.373,6 e 15.215,8 milioni di dollari.
Moneta e banche. - "Il dollaro consiste in un peso d'oro di 25,8 grani (1,6718 grammi) a 900 di fino". Così definisce l'unità monetaria nordamericana la legge del 14 marzo 1900, che chiuse il dibattito apertosi con la creazione del dollaro (1792) tra i sostenitori del bimetallismo e quelli del monometallismo aureo. La stessa legge stabilisce che tutte le specie di monete emesse o coniate dagli Stati Uniti devono essere mantenute alla pari col dollaro oro così definito.
Come già si è detto, in seguito alla crisi bancaria del marzo 1933 il gold standard fu sospeso e il 31 gennaio 1934 il contenuto aureo del dollaro è stato ridotto a 15 e 5/21 grani e il suo valore rispettivamente al 59,06% del valore iniziale. Ritirate le monete d'oro dalla circolazione, questa si compone attualmente di monete fiduciarie di vario tipo, emesse dal Tesoro (certificati aurei, dollari d'argento, certificati argentei, biglietti del tesoro del 1890, biglietti degli Stati Uniti), dalle banche federali di riserva e dalle banche nazionali, e regolate da leggi speciali, ma godenti tutte direttamente o indirettamente della garanzia del governo e aventi nella stessa misura corso legale. La convertibilità in oro di tali monete non è ancora stata ristabilita; è possibile però acquistare o vendere oro presso la tesoreria al prezzo fisso di 36 dollari per oncia.
I certificati aurei, la cui emissione in contropartita d'oro era illimitata, sono, per la nuova legislazione monetaria, in corso di ritiro. I dollari d'argento (del peso di 26,7296 grammi a 900 di fino), creati come unità monetaria insieme al dollaro oro (2 aprile 1792) e lasciati sussistere, dopo varie vicende, dalla legge del 14 marzo 1900 come moneta fiduciaria a potere liberatorio illimitato, salvo espressa stipulazione in contrario, sono invece ora in aumento.
Tra le altre forme di moneta, come risulta dalla seguente tabella, hanno soprattutto importanza i biglietti della riserva federale, la cui emissione - posta dal Federal Reserve Act del 1913 in funzione così della riserva aurea delle banche federali, come delle quantità di apprezzata carta commerciale presentate al risconto dalle banche affiliate o acquistate sul mercato delle accettazioni - è la sola in grado di adattarsi alle variazioni dell'attività economica. I biglietti sono emessi dal Federal Reserve Board a richiesta delle banche federali, le quali, per la legge del 1913 dovevano coprire la loro circolazione con una riserva aurea di almeno il 40% e con una riserva di primaria carta commerciale per il restante 60%. Il bill Glass Steagall del 27 febbraio 1932 ha autorizzato l'impiego come riserva anche di titoli governativi degli Stati Uniti togliendo così ai biglietti stessi il carattere di puro biglietto di banca per avvicinarli alla carta moneta. I biglietti della riserva federale, come pure quelli delle banche federali di riserva, godono di un privilegio di primo grado su tutti gli averi delle banche emittenti.
Il F. R. A. 1913 ha lasciato sussistere il potere d'emissione delle banche nazionali regolate dal National Bank Act del 3 febbraio 1844. L'emissione di tali biglietti, garantiti dal deposito presso il tesoro di un ammontare corrispondente di titoli di stato e di un fondo di rimborso in moneta legale pari al 5% della circolazione delle singole banche, non può superare il capitale interamente versato delle banche stesse.
Il sistema bancario prima del Federal Reserve Act 23 dicembre 1913, si componeva essenzialmente di banche nazionali regolate dalla legge federale e aventi di fatto il privilegio dell'emissione, e di banche sottomesse alla legislazione particolare degli stati. Alla complessità e alla mancanza di unità di tale sistema, pur tenendo sempre conto delle diverse situazioni del risparmio e del credito nelle varie zone del territorio americano, volle appunto porre fine la legge del 1913, destinata a coordinare la politica bancaria del paese, mediante l'istituzione di un organo centrale regolatore. Il paese fu diviso in 12 distretti (Boston, New York, Filadelfia, Cleveland, Richmond, Atlanta, Chicago, Saint Louis, Minneapolis, Kansas City, Dallas, San Francisco), dotati ciascuno di una banca federale di riserva (con capitale non inferiore a 4 milioni di dollari), e, per coordinarne con criterî di valutazione unitaria l'azione, fu creato il Federal Reserve Board, formato del segretario del Tesoro, del controllore della moneta e di 6 membri scelti dal presidente degli Stati Uniti con approvazione del Senato - e coadiuvato dal Federal Advisory Council, composto di 12 membri scelti dalle banche interessate.
Le banche nazionali e le banche di stato furono teoricamente lasciate libere di affiliarsi o no al F. R. S., ma praticamente fu esercitata un'enorme pressione sulle prime, che divennero tutte membri del sistema, mentre le seconde, timorose di non poter resistere al potere delle banche nazionali e alle regole più rigide del sistema federale, in gran parte se ne astennero. Grandi facilitazioni furono quindi adottate in loro favore nel 1917 col risultato di far aumentare il numero delle banche di stato affiliate da 250 (1917) a 1639 (1922), numero che in seguito a dimissioni, fusioni o estinzioni, si è poi progressivamente ridotto. Al 4 marzo 1936, su 15.808 banche americane, 6377 facevano parte del F. R. S. (5375 banche nazionali e 1002 banche di stato) e 9431 (quasi esclusivamente banche commerciali e banche di risparmio) ne erano fuori. Le member banks, nonostante la loro inferiorità numerica, alla stessa data detenevano tuttavia quasi i ⅔ dell'ammontare complessivo dei depositi.
A garanzia delle loro operazioni le member banks sono tenute a depositare presso la Federal Reserve Bank, da cui dipendono, una percentuale dei loro depositi passivi che da un minimo del 3% per i depositi a termine (time deposits) sale per i depositi a vista (demand deposits) ad altezze diverse a seconda della maggiore o minore prevalenza dell'elemento speculativo nella fisionomia creditizia dei varî distretti (13% per le banche dei distretti di Chicago, New York e St Louis, dette Central reserve city banks, 10% per le banche di altre 60 città importanti, Reserve city banks, e 7% per tutte le altre Country banks). Le banche federali (alla lorovolta obbligate a mantenere riserve auree pari al 40% della loro circolazione e al 35% dei loro depositi) sono poste in grado di controllare in tempi normali, mediante l'andamento dei depositi e mediante le relazioni settimanali delle member banks, lo sviluppo creditizio di tutte le banche affiliate, e, attraverso sia il risconto sia le operazioni di open market (compravendita di titoli di stato sul mercato libero), facilitano alle banche stesse il riaggiustamento di momentanei squilibrî tra depositi e prestiti.
Questa organizzazione, come si è già detto, ha permesso un'enorme espansione del credito e, come non è riuscita a frenare automaticamente l'inflazione, così ha opposto, d'altra parte, grande resistenza alla deflazione. La nuova legislazione bancaria a partire dal 1933 ha provveduto quindi: 1. a estendere il F. R. S. includendovi obbligatoriamente le banche di stato e fissando il capitale minimo delle banche, in modo da eliminare i più fragili elementi del sistema; 2. a rafforzare il potere di controllo e di direzione del F. R. Board al fine di assicurare ai depositi una contropartita sana e soprattutto di evitare che attraverso filiali a carattere di holding, le member banks si dedichino a speculazioni borsistiche; 3. a garantire i depositi bancarî, attraverso l'istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation, destinata a liquidare le banche chiusesi volontariamente o per ordine del controllore della moneta, e ad attuare un nuovo sistema di assicurazione tra tutte le banche partecipanti.
Bibl.: Oltre agli annuali Reports of the Federal Reserve Board, of the Secretary of the Treasury, of the Comptroller of the currency, ai Commerce Yearbooks e agli Statistical Yearbooks, v.: H. E. Fisk, The inter-ally debts, New York 1924; W. P. Harding, The formative period of the Federal Reserve System, Boston-New York 1925; P. M. Mazur, American prosperity, Londra 1928; The international financial position of the United States (National Industr. conference board), New York 1929; C. Diglio, Pratica e teoria nella crisi economica americana, Firenze 1932; Fr. D. Roosevelt, Looking forward, trad. it., Milano 1933; id., On our way, trad. it., Milano 1934; L. L. Lorwin, Il primo anno della N. R. A., in Nuove esperienze economiche, a cura della Scuola di scienze corporative dell'università di Pisa, Firenze 1935; J. A. Schumpeter, E. Chamberlain e altri, Il piano Roosevelt, Torino 1935; G. D. H. Cole e altri, Che cos'è il denaro?, trad. it., Firenze 1936. V. inoltre il Bollettino parlamentare, Roma 1928 e segg.; il Supplement al Bolletin quotidien de la Société d'études et d'informations économiques, Parigi 1925 segg.; i rapporti della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea e quelli della Società delle Nazioni.
Ordinamento scolastico. - L'ordinamento scolastico dipende dai singoli stati (i quali del resto non esercitano nessun monopolio o controllo specifico sulla scuola), onde si ha una grandissima varietà d'istituzioni. Però le associazioni scolastiche e l'analogia delle situazioni sociali hanno portato una certa unità nei sistemi. Dall'autorità federale dipendono soltanto: il Bureau of Education, con un commissario, istituito nel 1867, e dal 1869 posto alle dipendenze del Dipartimento degl'interni, con compiti di osservazione, statistica, informazioni e di amministrare i Land grant Colleges (v. sotto), il Federal Board for Vocational Education, creato nel 1917 e dal 1933 pure alle dipendenze del Commissioner of Education, per l'assistenza finanziaria alle scuole di carattere professionale; e lo American Council of Education, fondato nel 1918 e composto dei rappresentanti di circa 400 tra associazioni, università e uffici scolastici statali e cittadini. Dall'anno finanziario 1933-34, il governo federale ha dovuto intervenire per agevolare la costruzione di edifici, ecc.
La scuola elementare ha una forte impronta civile-patriottica (saluto alla bandiera quotidiano, ecc.); solo il 10% delle scuole elementari è privato; la media degl'iscritti nelle scuole elementari pubbliche è di venticinque milioni annui; la spesa è di più di due miliardi di dollari per anno. Al censimento del 1930 solo il 4% degli abitanti era analfabeta. Nel 1934 nelle sole scuole elementari (8 classi) e giardini d'infanzia pubblici gli alunni erano 20.729.511.
Il primo stato a fondare scuole pubbliche statali fu il Michigan (1817), ma la tendenza verso la creazione della scuola pubblica si fece sentire nel sec. XIX in tutti gli stati, benché i sostenitori della scuola pubblica dovessero sostenere una dura lotta per far prevalere il concetto che si potessero tassare i contribuenti a favore dell'istituzione e che le scuole dovessero essere poste almeno sotto la sorveglianza dello stato e che l'istruzione pubblica non si potesse lasciare prevalentemente in mano alle chiese dominanti (notevoli i contrasti tra l'educazione impartita da queste e le preoccupazioni delle sette religiose). Dalla Germania è stato ripreso l'asilo infantile.
La scuola media si è sviluppata dalla Latin grammar school dell'epoca coloniale, di tipo più umanistico e preparatoria al College, e dall'Academy (ancor oggi varie scuole medie private hanno questo nome) dell'epoca rivoluzionaria, di tipo più moderno, che era anche fine a sé stessa e alla quale si affiancò nel sec. XIX la high school pubblica: la prima fu istituita a Boston nel 1821, e nel 1860 ve n'erano non più di 100 in tutti gli Stati Uniti; ma salirono a 2526 nel 1890, 13.951 nel 1918 e 27.000, con 5.669.156 alunni (oltre 3327 private con 360.092 alunni) nel 1934. Ma col sec. XX si nota la tendenza a sostituire all'antico sistema (scuola elementare di 8 anni, e scuola media di 4) un nuovo ordinamento, che riduce la scuola elementare a 6 anni, seguita da una scuola media pure di 6, divisi per lo più in due periodi: il primo dei quali costituisce la cosiddetta iunior high school. Nella scuola media, il giovine ha generalmente una certa libertà di scelta tra alcune discipline (o gruppi), mentre altre sono obbligatorie. Così pure si tende a estendere e rafforzare l'istruzione professionale. Nello stesso tempo, si viene operando in genere un certo riavvicinamento tra la scuola media superiore e l'insegnamento superiore che si potrebbe definire di primo grado, cioè almeno i primi due anni del College (v. sotto).
L'istruzione superiore mantiene infatti più vivo il carattere di indipendenza e di autonomia dall'autorità statale che caratterizza all'origine la vita americana; le università e i Colleges più antichi degli stati orientali (per es., il famoso "terzetto": Harvard, Princeton, Yale) sono di fondazione privata. Queste università costituiscono una corporation o ente morale, amministrata da un comitato di trustees, che di solito eleggono a loro volta il presidente, al quale spetta quello che si potrebbe chiamare il potere esecutivo, e che può essere assistito da un più ristretto consiglio (fellows); oltre che, naturalmente, dai decani (deans) delle varie facoltà o scuole e dai consigli di facoltà. Anche l'ordinamento degli studî risente molto del tipo tradizionale inglese, sebbene modificato nel corso del sec. XIX dall'influenza tedesca. Innanzi tutto, è netta la distinzione tra il College, che dura generalmente 4 anni (freshman, sophomore, junior, senior), e le vere e proprie facoltà o scuole superiori (graduate schools). La maggior parte dei giovani si ferma al College. Questo, benché fondato sul modello inglese (i più antichi sono: Harvard, fondato nel 1636; William and Mary, 1693; Yale, 1701; New Jersey, poi Princeton, 1746), è ora un'istituzione tipicamente americana: vi s'impartiva un tempo una istruzione di carattere prevalentemente umanistico, modificato negli ultimi decennî per la maggiore importanza o prevalenza data agl'insegnamenti scientifici, sia per la libertà concessa ai giovani in maggiore o minor misura di scegliere tra le varie discipline. L'insegnamento ha di rado vero carattere universitario: soprattutto nei primi due anni i giovani sono per lo più ripartiti in gruppi o classi di 30-40 alunni, affidati ciascuno a un insegnante che, sotto la direzione del professore titolare, cura più da vicino la preparazione dei giovani. Gli esami sono scritti. Per l'ammissione, il College Entrance Examination Board, ha stabilito un certo grado di uniformità.
Un fenomeno caratteristico della vita universitaria americana, specie nel College, è l'importanza attribuita allo sport. Ogni giovane fisicamente sano pratica almeno una forma di attività sportiva; nella massa si scelgono i migliori per costituire le squadre di calcio e canottaggio: questi, con l'atletica leggiera, sono gli sport più praticati dagli studenti. Sia per preservare il dilettantismo assoluto, sia per impedire che lo sport riesca a detrimento dello studio (si è molto polemizzato sulla College athletics) varie università hanno imposto che alle gare - specie a quelle interuniversitarie - possano partecipare solo i giovani ritenuti, per profitto e disciplina, degni di portare i colori della propria università.
Vivissimo è infatti lo "spirito di corpo"; così come la vita in comune nei dormitorî, nei refettorî (quasi ogni giovane ha un compagno di stanza) e nel "foro" (campus) dell'università o college, insieme con la pratica sportiva, tende a sviluppare nel giovane il sentimento della lealtà e onestà e le altre qualità che lo rendono più adatto alla vita sociale. In ciò, la maggior parte degli scrittori americani e stranieri ravvisa il più reale valore educativo della vita universitaria americana. Un'altra caratteristica è costituita dalle molte possibilità offerte al giovine in disagiate condizioni economiche di guadagnarsi la vita durante il periodo degli studî: non solo mediante borse di studio, ma mediante il lavoro, sia durante le vacanze sia durante l'anno scolastico, magari nell'università stessa. Notevole è anche il grande numero dei club d'ogni genere - di semplice ritrovo o lettura, di studio, filodrammatici, politici, ecc. - e delle "società segrete" designate con lettere dell'alfabeto greco: alcune di esse sono diffuse in tutti gli Stati Uniti (nel 1930 ve n'erano 275 con più di 1 milione di affiliati complessivamente; notevole la Phi Beta Kappa, fondata a William and Mary nel 1776, estesa a Yale e Harvard nel 1780 e 1781, e oggi puramente onoraria): esservi ammesso è sempre una distinzione. Dello "spirito di corpo" su ricordato è anche prova il fatto che su ogni grande università esiste una vera e propria "letteratura", anche di romanzi; così come ognuna ha un giornale o una rivista, redatti, diffusi e amministrati da stud-nti o ex-studenti. Anche uscito dall'università il giovine non perde infatti il contatto con la sua Alma mater: sia attraverso i convegni che riuniscono abbastanza di frequente i compagni di corso, sia attraverso la rete dei club universitarî, sia attraverso i contributi finanziarî. Il carattere privato della maggior parte di questi istituti, infatti, fa sì che oltre che sul reddito dei loro patrimonî, essi debbano contare su donazioni o contributi, generalmente numerosi e cospicui. Sono questi che hanno promosso lo sviluppo grandioso di alcune università con laboratorî perfettamente attrezzati, ricche biblioteche (nel 1936: Harvard aveva 2.598.040 volumi; Yale, 2.400.000; Chicago, 1.100.000; Princeton 720.000; oltre le biblioteche speciali) e talvolta importanti musei, che hanno permesso un notevolissimo progresso delle ricerche scientifiche. Questo carattere, di istituto di ricerca, oltre che d'insegnamento, è stato assunto dalle università americane dopo la fondazione della Johns Hopkins (v.). D'altra parte, questo stato di cose dà origine a un certo grado di dipendenza delle università dai maggiori sovventori o dai fondatori - spesso sette religiose, o persone ad esse appartenenti - che non sempre è utile alla libertà degli studî e della scienza.
Anche, la grande varietà delle istituzioni universitarie fa sì che spesso il nome di college o addirittura di university spetti a scuole in realtà assai modeste, talvolta d'istruzione professionale pratica: colleges di secretarial science o di domestic science. Anche le maggiori università hanno dovuto in certa misura cedere a queste esigenze pratiche e creare scuole - però in queste sempre di carattere universitario - di commercio, di pedagogia, ecc. Numerosi gl'istituti di magistero (teachers colleges).
Col sec. XIX si è venuta manifestando la tendenza a creare università statali: arrestata da una sentenza della Corte suprema (1819), essa si affermò con la creazione dell'università del Michigan, ad Ann Arbor, nel 1841; e dalla fine del sec. XIX le università statali, specie negli stati del centro e dell'ovest, sono venute continuamente accrescendosi e migliorando. Un'altra caratteristica categoria d'istituti superiori d'istruzione è quella dei cosiddetti Land grant colleges, scuole d'agricoltura costituite in seguito al Morrill Land Act (1862) che costituiva alcune terre demaniali in dotazione perché fossero eretti tali istituti: parecchi dei quali hanno assunto grande importanza, e alcuni sono veri e proprî politecnici.
Uscito dal College con il grado di baccelliere (generalmente in "arti" o "lettere": bachelor of arts, abbreviato B. A. o A. B.; ora spesso anche in scienze: B. S.), il giovine può, come si è detto, terminare gli studî, dandosi agli affari, al giornalismo, ecc.; oppure continuarli nelle varie facoltà. Quelle di carattere professionale (legge, teologia, ecc.) dànno generalmente il grado di baccelliere; dopo il quale il giovine può conseguire il grado di "maestro" (nella facoltà delle arti questo succede immediatamente al baccellierato dei College); e in seguito, dopo studi più severi e aver dato prova di un'elevata capacità, anche quello di dottore al quale pervengono proporzionalmente assai pochi. Purtroppo la mancanza di una legislazione uniforme fa sì che in varî stati anche i gradi più alti siano talvolta concessi da istituti meno che mediocri, e per denaro.
Assai discussa è stata l'ammissione delle donne alle università: le università statali sono state coeducational fin dalla fondazione, o ben presto, già con la seconda metà del sec. XIX; altre invece le escludono ancora, ma accanto ad esse sono sorti, come filiazioni, dei colleges femminili.
Nel 1936, il Council of Education registra 928 Colleges e università, oltre a 438 junior colleges e a 262 scuole professionali. La spesa totale per l'educazione nazionale, per l'anno finanziario 1931-1932 era di $. 2.968.010.400, di cui 2.174.650.555 (73%) per le scuole elementari e medie pubbliche, 229.563.702 (8%) per le scuole private, e 543.855.466 (18%) per l'istruzione superiore e professionale.
Di fama memdiale sono la Smithsonian Institution (v. smithson, james) e la Carnegie Institution (v. carnegie, andrew) di Washington (1902), il Rockefeller Institute for Medical Research, e infine la Rockefeller Foundation (v. rockefeller, john davison).
Bibl.: C. S. Marsh (American Council of Education), American Universities and Colleges, 3ª ed., Washington 1936; G. Kartzke, Das amerikanische Schulwesen, Lipsia 1928; Minerva Jahrbuch, XXXI, 1933; W. A. Jessup, Spiritual resources of the Am. College (30th Annual Report of the Carnegie Foundation), New York 1935.
Storia.
La lotta per l'indipendenza. - La pace di Parigi del 10 febbraio 1763 aveva deciso, dopo lunga guerra, se l'America del Nord doveva essere francese o inglese. Con la cacciata dei Francesi dal Canada e dalla valle del Mississippi e dei suoi affluenti, e degli Spagnoli dalla Florida, un vastissimo campo si apriva all'azione coloniale dell'Inghilterra. Ma non passarono dodici anni ed ecco fare atto di ribellione all'Inghilterra e iniziare una vita indipendente proprio quelle 13 colonie (New Hampshire, Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New York, New Jersey, Pennsylvania, Maryland, Virginia, Delaware, le due Caroline, Georgia) che per la loro origine e la loro composizione etnica, per i loro legami spirituali e materiali con la madrepatria, per le lotte comuni sostenute proprio nell'ultima guerra contro i Francesi, sembravano dover essere il nucleo più vitale ed espansivo dell'azione coloniale inglese. Ma lo spirito, appunto, e i modi secondo i quali si conduceva la madrepatria nei rispetti di queste colonie si rivelarono, in questo dodicennio, inconciliabili con lo spirito e i modi, a cui le colonie volevano uniformare la loro vita (per la fase anteriore alla guerra d'indipendenza, v. america: Storia dell'America anglosassone, II, p. 934 segg.). Degno di nota è che, in tale svolgimento, rivoluzionaria si trova ad essere piuttosto l'azione della madrepatria che non quella delle colonie. Queste vogliono semplicemente tener fermo a quelle libertà, diritti e privilegi, che avevano presieduto alla fondazione di molte di esse e che ora, per un malinteso senso di ugualitarismo e centralismo, voluto dal parlamento e soprattutto dalla corona, conforme ai sistemi cui s'ispirava il colonialismo del tempo, erano ogni giorno più travolti in un indistinto assoggettamento ai criterî e agl'interessi di Londra. Il principio al quale i coloni si richiamavano - nessuna misura, specialmente d'ordine fiscale potersi adottare che non sia stata approvata dai rappresentanti di coloro che sono chiamati a osservarla - non poteva certamente dirsi, per Inglesi, un principio rivoluzionario; ché altrimenti essi avrebbero rinnegato la loro stessa storia. Opponendosi alla politica coloniale della madrepatria questi coloni erano piuttosto ispirati da principî conservatori; la rivoluzione cominciò allorché, messi nella necessità di scegliere fra il lealismo verso la madrepatria e la difesa, anche a mano armata, dei loro diritti, finirono per abbracciare quest'ultimo partito con quella risolutezza e quasi ostinazione che era nel loro carattere di pionieri, di perseguitati religiosi, di fanatici. Ma sulle prime non fu così. Quando, su proposta dell'assemblea della Virginia, si riunì a Filadelfia, il 5 settembre 1774, il primo congresso dei rappresentanti delle allora 12 colonie (la Georgia aderì in seguito), i propositi furono tutt'altro che incendiarî. Per sua confessione, il Congresso voleva semplicemente "deliberare sullo stato presente delle colonie, prendere quelle sagge misure proprie all'integrità dei loro diritti e libertà e al ristabilimento dell'armonia fra la Gran Bretagna e le colonie, desiderio ardente di tutti gli uomini onesti". Lo stato d'animo era diverso assai da colonia a colonia; più esaltato nel Massachusetts e nella Virginia. Ivi, Samuele Adams, notevole scrittore politico, e Patrick Henry, oratore efficace, avevano grande influenza sul sentimento pubblico. Nel Massachusetts già non si riluttava al pensiero di una lotta con le armi: si organizzavano truppe, si allestivano depositi militari. Appunto mentre un buon nerbo di truppe inglesi si avviava a sequestrare uno di questi depositi, scoppiò a Lexington il primo conflitto (19 aprile 1775). Volontarî accorsero dalle colonie vicine; il governatore inglese fu stretto in Boston, mentre altri volontarî s'impadronivano dei forti disseminati lungo la valle del Hudson e verso il lago Champlain, sulla via del Canada.
Così, un movimento spontaneo forzava la mano agl'indugi del Congresso; il quale, tornato a riunirsi nel maggio a Filadelfia, come previsto fino dall'anno prima, non esitò, ora, a prendere la direzione delle truppe assedianti Boston e ad affidare il comando dell'"armata continentale" a Giorgio Washington, della Virginia. Il gesto del Congresso era grave di responsabilità; ma in seno ad esso non ancora prevaleva, assolutamente, l'idea di rimettere la decisione alle armi né erano spenti i sentimenti di leale soggezione alla corona. Mentre provvedeva alle armi, il Congresso inviava al re una petizione esponente i diritti delle colonie. Maggior comprensione e flessibilità da parte inglese avrebbe ancora potuto evitare il peggio; al contrario, specie per volontà di re Giorgio III, si rispose inviando a Boston rinforzi di truppe. I membri del Congresso, offesi nel sentimento dei loro diritti conculcati e presi oramai in responsabilità che l'Inghilterra voleva considerare reati di alto tradimento, erano necessariamente spinti a risoluzioni estreme. Nel gennaio 1776 un famoso libello di Thomas Paine, Common sense, di cui si vendettero, fra i due milioni e mezzo di abitanti delle colonie, oltre centomila copie, dava espressione al sentimento pubblico proponendo l'indipendenza dalla corona inglese. Pochi mesi dopo, il Congresso approvava la Dichiarazione d'indipendenza, redatta da Thomas Jefferson (4 luglio 1776). Stava ora alle armi di dare corpo a questa affermazione di principio.
Considerato al lume di criterî unicamente militari, l'esito della lotta doveva apparire non dubbio: troppa era la superiorità degl'Inglesi, che disponevano, sotto il comando di sir William Howe, di truppe bene addestrate e armate, non meno e spesso più numerose della alquanto caotica milizia volontaria degl'insorti; di una flotta potente, pronta a bloccare le coste americane e ad isolarle dal mondo. Infatti, dall'agosto al dicembre 1776 fu una serie d'insuccessi per le armi degl'insorti. Innegabile l'abilità di Washington nel manovrare attorno a New York per conservare la linea del Hudson, importantissima al fine di mantenere la congiunzione fra le colonie della Nuova Inghilterra (New Hampshire, Massachusetts, Connecticut, Rhode Island) e le colonie meridionali. Ma alla fine di agosto, Howe poté occupare New York, con gran sollievo di quella popolazione, lealista in maggioranza, e ostile alle novità rivoluzionarie che guastavano i suoi commerci. Gl'Inglesi, lasciando il vanto di qualche successo parziale, di secondaria importanza, all'americano Benedict Arnold, verso il lago Champlain, concentrarono le loro operazioni sul basso Hudson. Nel novembre-dicembre 1776 Washington, scosso anche per il tradimento del commilitone Charles Lee, era costretto a sgombrare il New Jersey e a riparare in Pennsylvania. Il generale Howe, carattere conciliativo, whig in politica, ben deciso a non gravare troppo la mano contro i ribelli e fiducioso di ricomporre la quiete più con l'ostentazione della sua patente superiorità che con l'uso di essa, credette giunto il momento di sospendere la campagna e di provvedere ai quartieri d'inverno. Ne approfittò Washington per riprendere l'offensiva e conseguire qualche successo contro reparti di Howe (a Trenton il 26 dicembre, a Princeton il 3 gennaio 1777), per risollevare l'animo tentennante dei coloni del New Jersey. Svernò sulle colline di Morristown.
Tuttavia non c'era da illudersi: la situazione era molto critica per gli insorti. Già la loro armata aveva qualche cosa di fantomatico: disciplina scarsissima, contingenti oscillanti da 15 a 10 a 6 mila uomini e anche meno, perché, a seconda delle necessità delle stagioni, molti dei volontarî si arbitravano di fare una scappata alla fattoria a dare un'occhiata e una mano agli affari; d'estate gli studenti di Harvard venivano a fare alle fucilate e poi d'autunno tornavano ai loro corsi. Washington paragonava il suo esercito alla Provvidenza, i cui disegni rimangono imperscrutabili; e confessava di avere "troppo pochi uomini per combattere, troppi per eclissarsi". Ma al fuoco, ottimi combattenti, benché a corto di armi, di munizioni, di artiglieria, dei servizî più essenziali. Se questa armata si teneva, bene o male, insieme, era per virtù di Washington; il quale non fu un genio militare, ma un eroe della perseveranza e della pazienza. Con queste sue doti vinse gl'Inglesi: nessuna sconfitta lo scoraggiava, nessun parziale successo lo imbaldanziva oltre la misura; battuto si ritirava, ma si riprendeva e gl'Inglesi se lo ritrovavano di fronte, tenace, circospetto, prudente, pronto a sottrarsi a una stretta pericolosa, ma sempre anche deciso a non allentarla, ad aspettare con pazienza la sua ora. Né il Congresso lo sosteneva come avrebbe dovuto, perché sospettava in tutto quanto era militare uno strumento di tirannide. Appena tollerava Washington; gli lesinava i mezzi, che, del resto, era assai arduo raccogliere, perché i ribelli, quasi tagliati dal mondo, non godevano credito, e le singole colonie si consideravano stati sovrani né consentivano al Congresso la facoltà di levare imposte per la causa comune. E poi gli animi erano ben lungi dall'essere ugualmente riscaldati per la causa dell'indipendenza. Anche la rivoluzione americana fu l'opera di una minoranza risoluta. Un buon terzo della popolazione restò estraneo al movimento; un altro terzo, di tories, di lealisti, non celò le sue antipatie verso i ribelli e, specialmente nel sud, anche prese le armi a fianco degl'Inglesi. Quella minoranza risoluta, composta di armatori e commercianti della Nuova Inghilterra, di aristocratici agrarî della Virginia (Washington era un d'essi), tutti imbevuti d'idee filosofiche, umanitarie, massoniche, liberali, di uomini del comitato di Filadelfia, che teneva in pugno la città sede del Congresso, poté imporre la sua volontà. Si entrò nell'idea d'interessare alla sorte delle colonie ribelli gli stati europei; e però, nel dicembre 1776, Beniamino Franklin, l'uomo più in vista nel giornalismo americano, fu inviato in missione diplomatica e di propaganda in Francia, dove si sapeva esser vive le simpatie per la causa americana sia in odio all'Inghilterra sia per l'entusiasmo che vi suscitavano le idee e le azioni di questi "uomini liberi". Attraverso le relazioni massoniche, egli seppe compiere un lavoro sottile, tenace, penetrante, per cui guadagnò alla causa americana il mondo intellettuale francese e, in particolare, il conte di Vergennes, ministro degli Esteri di Luigi XVI. Il mito della rivoluzione virtuosa, della rivoluzione contro la tirannide come un sacro dovere, nasce e si diffonde in Francia sotto l'influenza della rivoluzione americana e dell'azione finissima di B. Franklin, il quale prospetta la lotta americana come la causa dell'umanità. Già la gioventù più impetuosa e ambiziosa rompe gl'indugi e segue il giovane marchese di Lafayette che, a sue spese, arma una nave e accorre in America in difesa dei ribelli.
Per la primavera del 1777 era stato da Londra combinato un piano per cui, mentre sir W. Howe avrebbe risalito la valle del Hudson, un altro esercito inglese, al comando di J. Burgoyne, cui dovevano unirsi i lealisti tories del nord e ausiliarî Indiani, sarebbe disceso dal Canada per unirsi con Howe ad Albany. La manovra, troppo elaborata, non riuscì, perché non ci fu intesa fra i due generali; mentre Burgoyne scendeva dal nord, Howe moveva a sud ed entrava in Filadelfia (26 settembre 1777), donde il Congresso, al colmo del disordine, riparava prima a Lancaster, poi a York. Ma in tal modo Burgoyne restava isolato e contro i suoi ingombranti alleati Indiani finivano col rivoltarsi anche quei coloni che non erano affatto teneri per i ribelli. Accerchiato sulle colline di Saratoga dalle truppe americane del generale H. Gates, Burgoyne doveva arrendersi (17 ottobre 1777). Era un notevole successo certamente, ma non tale che da esso potesse derivare un capovolgimento della situazione. Il grosso delle truppe americane era tenuto in scacco in Pennsylvania dal generale Howe e solo alla prudenza e alla tenacia di Washington si doveva se l'esercito non si era sbandato del tutto. L'aver saputo mantenere, durante tutto un duro inverno (1777-78), il suo minuscolo esercito di 6-7000 uomini sfiduciati nelle posizioni di Valley Forge, di contro agli accampamenti di Howe, costituisce la più bella pagina della carriera militare di Washington. Per virtù sua, del resto, le qualità di questo nerbo d'uomini erano migliorate: maggiore stile soldatesco, un discreto corpo di Stato maggiore attorno a lui, un primo ordinamento dei servizî, artiglieria, intendenza, anche mercé l'esperienza di stranieri entusiasti o avventurieri, che si erano dati convegno nelle file di Washington: i tedeschi F. W. von Steuben e J. Kalb, i polacchi T. Kościuszko e K. Pułaski, ecc. La capitolazione di Saratoga fu interpretata in Europa, e specialmente in Francia, come un grande successo militare, e nelle abili mani del Franklin fu un ottimo mezzo per vincere le esitazioni della corte di Versailles. Il 6 febbraio 1778 fu stretta alleanza militare fra la Francia e la Confederazione dei nuovi stati americani e nell'aprile successivo una forte flotta francese, con un'armata da sbarco, salpava per i lidi d'America. I ribelli non erano più soli: la loro causa inserita in un nuovo atto del secolare duello franco-inglese, poteva avere qualche speranza di riuscita. In quasi due anni di guerra l'Inghilterra non aveva saputo né domare i ribelli né giungere con essi a un'onorevole composizione, come invano aveva suggerito lord Chatham (William Pitt il Vecchio) che proprio in questi giorni moriva. Tardi giungeva il richiamo del generale Howe e la sua sostituzione con Sir H. Clinton.
L'alleanza significava, da parte francese, il formale riconoscimento dei nuovi stati americani. Ma chiara non era la natura di questo nuovo aggregato politico. Stato federale o confederazione di 13 stati sovrani? Sovrani si sentivano i singoli stati e uniti solo per l'obiettivo dell'indipendenza; con le riserve derivanti da questo sentimento, erano delegati e agivano al Congresso i rappresentanti dei singoli stati; e per stati, non per numero dei delegati, si votava al Congresso. Né il Congresso aveva veri e proprî organi esecutivi; ché tali non erano le molte commissioni per la guerra, ecc. Invero, fin dall'estate 1776, dopo la dichiarazione d'indipendenza, era stato proposto un progetto per determinare meglio la natura della collaborazione fra gli stati; la parola confederazione aveva fatto capolino. Ma distolto da altre cure più urgenti, il Congresso lasciò cadere il progetto; e solo lo ripigliò dopo Saratoga. La ripresa delle operazioni militari nella primavera successiva non trovava la discussione ancora conclusa.
L'intervento francese fece rifiorire le speranze americane, e diede qualche maggiore preoccupazione agl'Inglesi che, sgombrata Filadelfia (giugno 1778), si concentrarono a New York e sulla linea del Hudson. Ma gli scontri di Monmouth e di Newport furono per gli Americani degl'insuccessi. E tuttavia i ribelli non cedevano; anzi, la loro causa veniva guadagnando maggiori simpatie negli stessi ambienti che in un primo tempo si erano mantenuti estranei alla lotta. Gli è che l'atteggiamento degli Inglesi sembrava fatto apposta per disanimare i proprî partigiani: incertezza a Londra, incertezza in America, nessun programma che potesse radunare attorno alla bandiera inglese almeno i ben disposti e i lealisti. Si tentò nel sud, con la speranza di staccarlo materialmente e spiritualmente dalle colonie settentrionali; alla fine del 1778 gl'Inglesi ricuperarono la Georgia e buona parte della Carolina del Sud; ma furono poco abili e a volte brutali con la popolazione e si crearono nemici fra gli stessi lealisti. La lotta assunse un'asprezza inusitata fino a questo punto; nel maggio seguente (1779) la flotta inglese bombarda e quasi distrugge Norfolk e Portsmouth nella Virginia; marinai americani si dànno alla guerra di corsa, catturano, incendiano, colano a picco vascelli inglesi fino nei porti d'Inghilterra. La situazione si aggrava per l'intervento della Spagna (aprile 1779), legata alla Francia dal patto di famiglia e desiderosa di rimontare verso nord dal basso Mississippi; per l'atteggiamento dell'Olanda e, in genere, degli stati neutrali del nord, ostili all'Inghilterra, la quale abusa del diritto o piuttosto arbitrio di visita alle navi neutrali; per il divampare di focolai di lotta in tutto l'immenso territorio del nord-ovest, fra i Monti Appalachiani, i Grandi Laghi e il Mississippi. Per una legge votata dal parlamento inglese nel 1774 (il Quebec Act) tutta questa regione doveva essere preclusa all'opera colonizzatrice delle 13 colonie ed essere compresa nella provincia canadese di Quebec. Questa la legge; ma diverso lo stato di fatto. Ben prima dell'inizio della lotta aperta fra le colonie e la madrepatria, era avvenuto che, specie dalle colonie del centro e del sud, uomini risoluti e avventurosi si spingessero, in onta alla legge, oltre i monti e si stanziassero, cacciatori, agricoltori, commercianti nelle terre vietate, nel Kentucky, nel Tennessee, nell'Illinois, pronti a difendere contro tutti, contro Inglesi e contro Indiani il loro possesso. Questi fuori legge abbracciarono con entusiasmo la causa degl'insorti e si batterono con strenuo valore. Nel corso di due campagne, nel 1778-79, questi coloni delle praterie, guidati da George Rogers Clark, originario della Virginia, ebbero ragione degl'Indiani aizzati e armati contro di loro dagli Anglo-Canadesi e riuscirono a vincere e a fare prigioniero a Vincennes il comandante inglese gen. Henry Hamilton. L'estendersi della rivoluzione alle vaste regioni del nord e dell'ovest pose i 13 stati di fronte a una grave questione, che poteva divenire fonte di profondi dissidî. Era evidente, infatti, che ciò si risolveva in un ingrandimento degli stati che già poggiavano le loro frontiere occidentali agli Appalachiani: New York, Pennsylvania, Virginia, le Caroline, Georgia. Ma da ogni possibilità di estendersi verso occidente erano esclusi, per la loro stessa postura, gli stati minori rinserrati lungo l'Atlantico. Onde il timore, in questi ultimi, di rimanere, in un futuro nesso confederale, soverchiati dagli stati maggiori. Soprattutto il Maryland, preoccupato anche della difesa della sua cattolicità, insistette affinché ogni eventuale futura estensione del territorio confederale non desse luogo a un ingrandimento negli stati contermini, bensì costituisse un territorio in comune di tutta la Confederazione. Il Maryland fece dell'accoglimento di questa soluzione una clausola sine qua non per approvare il progetto di confederazione che, dal-novembre 1777, si era ricominciato a discutere. Finalmente, con l'approvazione anche dei delegati del Maryland, la costituzione federale fu varata. L'atteggiamento dei piccoli stati in questa circostanza, il sentimento particolaristico di tutti erano sintomo fedele dei sentimenti e delle esigenze del momento piuttosto che programma di vita in comune per il futuro. Tant'è vero che non vi era previsto nemmeno un vero e proprio organo esecutivo; e le funzioni attribuite al Congresso si riferivano quasi soltanto alle necessità contingenti della guerra. E anche in questo campo, con mille riserve che salvassero i diritti degli stati; solo agli stati competeva di deliberare in materia d'imposte e tasse; il Congresso poteva soltanto indicare il fabbisogno per le spese; pensassero poi gli stati a trovare i mezzi. Durante tutta la guerra, il tesoriere della Confederazione, l'abilissimo Robert Morris, dovette fare prodigi per salvare situazioni, in certi momenti, disperate. La preponderanza militare inglese è evidente. Nell'ottobre 1779 i Franco-Americani subiscono uno scacco davanti a Savannah, nel maggio successivo Charleston cade in mano degl'Inglesi, nell'agosto Gates, il vincitore di Saratoga, è battuto a Camden (Carolina del Sud); nel settembre il generale Benedict Arnold passa proditoriamente agli Inglesi. Solo verso la fine del 1780 la fortuna sembra volgere più benigna per gli Americani; mentre l'esercito del nord, comandato da Washington, riesce a mantenere le posizioni non gravemente leso da alcuni moti rivoltosi, quello del sud, benché assai più caotico, condotto ora da Nathanial Greene, ottiene qualche brillante successo: il 7 ottobre 1780 infligge una sensibile sconfitta agli Inglesi a King's Mountain; il 17 gennaio 1781 ai Cowpens (Carolina del Sud); il 15 marzo, dopo sapientissime mosse attraverso una regione coperta di boscaglie, rigata di fiumi e paludi, ottiene un mezzo successo a Guilford, sanguinosissimo. Dopo di che l'inglese Ch. Cornwallis si ritirò nella Virginia. Nel nord, Washington, rifornito di mezzi pecuniarî in grazia d'un prestito francese, ottenuto anche un buon nerbo di truppe francesi, e, dopo tanto insistere, anche l'aiuto di una flotta francese, si preparava, a metà giugno 1781, a giocare una grossa carta contro Clinton, a New York. Poi, fosse questo uno stratagemma per attrarre in New York il grosso degl'Inglesi e indebolire Cornwallis, o ritenesse l'attacco troppo arrischiato, piegò improvvisamente a sud, nella Virginia dove Cornwallis con 7000 uomini si era rinchiuso a Yorktown. La città fu bloccata dalla parte di terra da 7000 Americani e da 9000 Francesi sotto il Lafayette e J.-B.-D. Rochambeau; dalla parte di mare dalla flotta francese dell'ammiraglio F.-J.-P. de Grasse. Dopo valorosa difesa e un disperato tentativo di sortita, gl'Inglesi dovettero arrendersi (19 ottobre 1781). La sconfitta era sensibile, ma non sarebbe stata certo tale da piegare la resistenza inglese. Tutto sommato, tenendo New York e la Georgia, minacciando Filadelfia, disponendo ancora di 40 mila e più uomini sul suolo americano, dominando i mari, l'Inghilterra poteva, a ragione, considerarsi ancora militarmente superiore. Ma questa superiorità virtuale non aveva effetto finché anche gli insorti non si fossero piegati a riconoscerla. Dopo Yorktown la loro volontà di resistenza era anche più indomita; se in sei anni, per essi più di mezze sconfitte che di successi, non si erano piegati, era pensabile di trovarli più arrendevoli dopo quest'autentico e clamoroso successo? Così la resa di Yorktown, non decisiva in sé, divenne il fatto decisivo della guerra d'indipendenza.
Il governo inglese, vagliato il pro e il contro, considerata la guerra americana nel più ampio quadro della situazione militare inglese di fronte alla coalizione di Francia, Spagna, Olanda, preoccupato per la torbida situazione irlandese, cominciò a fare luogo al pensiero di rinunziare alla sovranità sulle 13 colonie. L'opinione pubblica, specie quella whig, era già da un pezzo convinta dell'inutilità di spargere nuovo sangue. L'onore inglese, del resto, era salvo proprio nel punto più sensibile, sul mare. La tenace difesa di Gibilterra, la vittoria dell'ammiraglio G. B. Rodney sul francese de Grasse presso la Guadalupa (12 aprile 1782) ben compensavano la perdita di Minorca. Nel febbraio e nel marzo 1782 furono presentate ai Comuni mozioni per la pace; il 20 marzo, lord F. North cedeva il potere a un gabinetto whig. Quasi per un tacito accordo l'attività bellica ristagnò dopo Yorktown; gl'Inglesi sgombrarono Charleston e si tennero inoperosi a New York. La parola era ai diplomatici (John Adams, Beniamino Franklin, John Jay per l'America) che tentavano a Parigi i primi approcci per la pace. Il 30 novembre 1782 erano segnati i preliminari; il 3 settembre 1783 la pace definitiva. Gli Stati Uniti ottenevano il riconoscimento della loro piena indipendenza e la sovranità su un territorio che si estendeva dall'Atlantico al Mississippi e dal 31° parallelo (quanto rimaneva a sud era spagnolo) fino al corso del Saint Croix e lungo una linea non ben definita a mezzogiorno dei Grandi Laghi.
Federalismo e antifederalismo (1783-1815). - Raggiunta l'indipendenza, si trattava ora di vivere e durare con le forze proprie. Nel campo internazionale, il peso della nuova confederazione repubblicana era minimo o, per lo meno, non ancora collaudato in una azione autonoma. Un conflitto fra alcuni stati europei aveva contribuito ad affermarne l'indipendenza; un'altra combinazione, in cui si fosse trovata avviluppata, avrebbe potuto risommergerla nel nulla. Aveva i pregi e gl'istinti vitali delle creazioni nuove, ma ne correva anche i pericoli. Già nel febbraio-marzo 1783 il novello stato solo per il senno e l'equilibrio e la dirittura di Washington scampò all'imminente pericolo di una dittatura militare, che gli ufficiali malcontenti contro le lentezze del Congresso a riconoscere i loro diritti e il mantenimento delle promesse fatte, venivano preparando. La costituzione confederale si dimostrava di giorno in giorno vieppiù inadeguata. Venuta meno, con la pace, la necessità urgente di prendere provvedimenti a nome di tutti gli stati confederati, attenuato lo zelo dei membri del Congresso, gli "Stati Uniti" risultavano uniti solo di nome. Non c'era un governo centrale; ogni stato provvedeva da sé alle faccende proprie. Per questa via si arrivava non solo alla dissoluzione effettiva della confederazione, ma inevitabilmente, alla guerra degli stati contro gli stati. Le tendenze all'unità, che pur esistevano sorrette da motivi spirituali e materiali, avrebbero saputo prevalere sulle tendenze separatiste? C'erano pur questioni che dovevano interessare collettivamente tutti gli stati: l'esecuzione del trattato di pace con l'Inghilterra e, in genere, i rapporti con l'estero; il debito di guerra; l'espansione in occidente; la politica doganale. Vigeva ancora, formalmente, il trattato con la Francia del 1778, l'unico che gli Stati Uniti abbiano mai ratificato nella loro storia; ché già operava quel sentimento, che è poi rimasto sempre presente ed efficace negli Stati Uniti: il sentimento di sospetto e di sfiducia verso la politica degli stati europei, giudicata dissennata e improntata a inimicizie secolari non meritevoli, secondo il giudizio degli Americani, di pesare anche sui destini dell'America. Comunque, il fatto era che gli Stati Uniti, nonostante la pace, vivevano sotto il peso di una sorda ostilita inglese; la corte di San Giacomo non nascondeva il suo malumore verso gli Americani; si asteneva dal nominare un proprio ministro a Filadelfia; sceglieva i consoli proprio fra i tories e gli ex-lealisti americani; non ritirava, conforme al trattato, le truppe inglesi dai posti di frontiera a sud dei Grandi Laghi; anzi, sottomano, aizzava gl'Indiani contro gli Americani e li riforniva di armi; favoriva movimenti sediziosi negli stessi Stati Uniti (così nel Vermont, che fu placato solo riconoscendogli il carattere di stato distinto - il 14° stato - nel 1791). Non che gli Americani non prestassero agl'Inglesi qualche fondato motivo di risentimento; p. es., gli stati violarono allegramente gli obblighi del trattato di pace relativi al riconoscimento dei crediti di cittadini inglesi e agl'indennizzi dovuti ai lealisti espatriati nel Canada e nella Nuova Scozia (circa 80 mila). Anche la Spagna, ex-alleata, non nascondeva ora le sue mire: puntando su New Orleans e risalendo a nord, cercava di attrarre sotto il proprio protettorato gl'Indiani e i coloni delle vaste plaghe a oriente del basso Mississippi, sulle quali gli Stati Uniti avevano titoli di sovranità solo nominale. Ora, come la via del commercio delle pellicce verso i Grandi Laghi, così quest'altra era una zona particolarmente importante per gli Stati Uniti. Non solo i coloni vi erano già numerosi (oltre centomila nel Kentucky e nel Tennessee); non solo alcuni stati avevano compensato gli ex-combattenti con titoli sulle nuove terre; non solo, a piccoli gruppi o singolarmente, vi erano venuti a fare una vita di pericoli, a piantare rozze case di legno, strani tipi di solitarî, di pionieri (i cosiddetti backwoodsmen); ma tutta una rete di rapporti e d'interessi si era venuta tessendo sì da richiamare su queste regioni l'attenzione dei 13 stati atlantici. Così, ad esempio, la via fluviale dell'Ohio e del Mississippi era per essi di primaria importanza: vi penetravano i manufatti dal nord e scendevano a New Orleans, donde i mercanti tornavano a Baltimora o a Filadelfia con i prodotti del sud, tabacco, riso, indaco, legname, ecc. Ma in questo campo, l'azione in comune dei 13 stati non poteva essere molto efficace, appunto perché scarsa era la loro coesione. Secondo l'opinione di un autorevole contemporaneo, James Madison, che poi fu presidente degli Stati Uniti, la confederazione "non era di fatto null'altro se non un trattato di amicizia, commercio e alleanza fra stati indipendenti e sovrani". I pericoli della crisi economica e sociale, accentuatasi nel 1786, convinsero della necessità di ricorrere a rimedî quei ceti dirigenti dei varî stati che più erano interessati a conservare i benefici dell'indipendenza. Erano nel nord armatori, commercianti, piccoli industriali; nel sud, latifondisti piantatori (planters): gli uni e gli altri, ma specialmente i primi, detentori della massima parte dei titoli di stato emessi durante la guerra e però interessati a impedire un collasso della confederazione che avrebbe significato la loro rovina; gli uni e gli altri premuti da presso dai piccoli agricoltori (farmers), indebitatissimi verso i ceti capitalistici e, in questi anni di crisi economica, di ribasso disastroso dei prezzi dei prodotti agricoli, d'inflazione monetaria, inclini a movimenti radicali. Così nelle Caroline, peggio ancora nel Rhode Island. Nel Massachusetts si arrivò addirittura a rivolte armate e cruente dei rurali, soffocate solo per intervento di milizie assoldate a loro spese dai ceti mercantili delle città. Si toccò con mano che la costituzione vigente era inefficace. Washington, e in genere gli elementi aristocratico-conservatori, se ne preoccuparono; qualche isolato, più pessimista, giunse fino a consigliare un'instaurazione monarchica col principe Enrico di Prussia. In genere, tutti coloro che più avevano dato di sé nella lotta per l'indipendenza, vedevano la necessità di un'azione energica per salvare l'opera che era costata tanto sangue. Sotto l'ispirazione di questi ceti e di queste tendenze, il Congresso, il 21 febbraio 1787, invitò i singoli stati a mandare dei delegati "per rendere adeguati alle esigenze del governo e alla preservazione dell'unione" gli articoli della costituzione. L'assemblea (Federal Convention) si riunì a Filadelfia il 14 maggio di quell'anno: sinedrio di quanto possedeva di meglio l'America per esperienza e intelletto. Ma i piccoli farmers vi avevano un solo rappresentante su 55 delegati. Le animate discussioni si polarizzarono attorno a due diversi progetti di costituzione, che erano poi il riflesso - come già nella questione dell'espansione a occidente - delle divergenti tendenze e contrastanti preoccupazioni dei grandi stati e dei piccoli stati. Il Virginia Plan (la Virginia era lo stato più popoloso degli Stati Uniti) prevedeva un governo nazionale (esecutivo) e un parlamento nazionale diviso in due rami, i cui membri fossero eletti in numero proporzionale alla popolazione degli stati; il New Jersey Plan, se ammetteva un esecutivo nazionale, propugnava un solo corpo legislativo nel quale ogni stato avesse un ugual numero di rappresentanti. Si venne a un compromesso, in tempo relativamentre breve (il 17 settembre 1787 la nuova costituzione federale era già firmata): istituito un governo nazionale (federale) di cui soprattutto si era sentita la mancanza; introdotto il sistema bicamerale; ma nell'un ramo, il Senato, con rappresentanza degli stati con ugual numero di seggi per ogni stato, nell'altro, la House of Representatives, con numero proporzionale alla popolazione dei singoli stati (calcolata sulla base della Federal Ratio, cioè i liberi più 3/5 degli schiavi). Così nacque questa singolare costituzione americana, tanto vitale e così concresciuta con la realtà stessa della vita americana che - con pochi emendamenti, una ventina, e per una buona metà nei primissimi anni - ha potuto accompagnare gli Stati Uniti dall'Atlantico al Pacifico, dai Grandi Laghi al Golfo del Messico, dai 13 stati ai 48 quanti sono ora, superare una gravissima crisi, sostenere gli Stati Uniti nella marcia ascendente verso la potenza mondiale, adattarsi a un incremento demografico, a un afflusso migratorio, a uno sviluppo economico che non conoscono uguali. Si era stabilito che la nuova costituzione dovesse entrare in vigore quando fosse stata approvata dalle assemblee popolari di almeno 9 stati. Fu prima la Pennsylvania, il 18 dicembre 1787; nel giugno seguente, con la ratifica della Virginia, si era già a dieci stati; mancavano ancora New York, Carolina del Nord e Rhode Island, il quale si accodò ultimo agli altri, sotto la minaccia di essere altrimenti escluso dal commercio federale, solo alla fine del 1790. Ma anche altrove, nel Massachusetts e nella Virginia specialmente, era stata una dura lotta. Il paese fu inondato di scritti e libelli pro e contro la costituzione. Erano favorevoli - e si dissero federalisti - i ceti commerciali delle città marittime, gran parte del clero, gli ex-combattenti, soprattutto ufficiali, della guerra d'indipendenza; erano contrarî coloro che si erano fatta una gloriola locale negli stati come governatori, ecc., gli speculatori inflazionisti, gl'indebitati verso i ceti mercantili, gl'ideologi democratici che avrebbero voluto accolta nella costituzione una dichiarazione dei diritti dei cittadini. Ma non era un'opposizione omogenea e soccombette. Sul nome proposto per la presidenza dell'Unione non si accese aspra lotta: Giorgio Washington, l'eletto per il primo quadriennio (1789-1793) era già in una sfera superiore ai partiti. Fu insediato il 4 marzo (data che poi, rimase per l'insediamento dei presidenti) a New York, capitale federale provvisoria, passata poi, per un decennio (1790-1800) a Filadelfia, in attesa che fosse abitabile la nuova capitale che si veniva costruendo sul Potomac e che fu Washington. I poteri che la costituzione dava e dà al presidente erano e sono grandissimi; non a torto il presidente degli Stati Uniti è stato detto un monarca repubblicano e un premier monarchico riuniti nella stessa persona. Infatti egli non risponde dei suoi atti che verso il popolo che l'ha nominato; condivide certi poteri col Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti) e specialmente col Senato, in fatto di nomine delle più alte autorità federali e di ratifica dei trattati. Ma in realtà i tre organi sono ciascuno indipendente e sovrano nella sua sfera; né il Congresso può con un voto di sfiducia provocare le dimissioni del presidente, né il presidente sciogliere il Congresso, bensì solo sospenderne le deliberazioni col diritto di veto. Crisi di gabinetto sono escluse, perché il presidente non ha un gabinetto nel senso dei governi parlamentari europei; egli ha dei collaboratori per il disbrigo degli affari federali più importanti (i capi dei dipartimenti) che non sono né possono essere dei parlamentari, e che rispondono solo al presidente. Fra i collaboratori di Washington le due figure più eminenti, fra le più eminenti della storia americana, furono Thomas Jefferson, capo del Dipartimento di stato (cioè degli affari esteri) e Alexander Hamilton, preposto al Tesoro. Personalità contrastanti per indole, mentalità, ideali politici, furono tuttavia, insieme, collaboratori di Washington per buoni quattr'anni; e quando in questo periodo si manifestò e poi si accentuò il dissidio fra loro, ciò non ebbe nessuna caratteristica di rivalità personale; perché essi, entrambi nature di capi, si trovarono per forza di cose a essere gli esponenti e i corifei di due opposte tendenze della vita politica americana rispondenti a mentalità e a interessi che non essi avevano contribuito a creare, ma a cui essi diedero consapevolezza di forze politiche e organizzazione e tattica di partiti: il partito federalista (hamiltoniano) e il partito repubblicano (jeffersoniano). Hamilton aveva un accentuato temperamento realistico e un autentico talento amministrativo; il risanamento finanziario dell'Unione fu tutto merito suo. Il rafforzamento del legame federale fu il suo pensiero dominante; perciò si appoggiò ai ceti capitalistici della Nuova Inghilterra, a favore dei quali, principalmente, fu introdotta una prima tariffa doganale protettiva; perciò istituì la prima banca federale; perciò promosse il commercio, l'industria, la marina mercantile. Preoccupato soprattutto di preservare il suo paese dall'anarchia, voleva concentrare il potere. Mai avendo posto il piede in Europa, si era costruito di fantasia un'Europa di stampo inglese sulla quale avrebbe voluto modellare l'America. In Jefferson, al contrario, temperamento versatile, che si occupò di architettura, di linguistica, di meccanica, di teologia, ecc., prevalevano i motivi ideali su quelli pratici; onde la taccia che Hamilton gli rivolse di abbandonarsi a sentimentalismi. Per Jefferson, che conosceva l'Europa, l'America doveva battere altre vie: non gareggiare con essa nei commerci e nelle manifatture, ma perseverare in una calma e frugale vita, basata essenzialmente sull'agricoltura. Solo l'agricoltura, egli pensava, poteva essere il sostrato di una comunità veramente democratica; al contrario, i commerci e le industrie con i rapidi guadagni, sarebbero stati causa di stridenti disparità sociali e di rivalità intestine ed esterne. Per Jefferson la libertà dell'individuo era il postulato supremo; onde i sospetti e le dichiarate ostilità contro ogni tentato rafforzamento del potere federale; la vigilante difesa dei diritti degli stati; l'animosità contro l'Inghilterra, di sgradevole memoria per le sue tendenze sopraffattrici, e, invece, le simpatie per la rivoluzione francese. Federalismo hamiltoniano e repubblicanismo jeffersoniano, certamente, possono essere ricondotti ai motivi contrastanti di aristocrazia e democrazia, di conservatorismo e di radicalismo. Ma insieme vanno tenuti presenti i due contrastanti complessi economici di cui erano l'esponente ideale: quello commerciale-finanziario della Nuova Inghilterra (specialmente del Massachusetts) e quello agrario dei piantatori schiavisti del sud (tipica la Virginia). Via via che si avvicendano al potere o all'opposizione, i repubblicani potranno assumere il programma dei federalisti e propugnare quelli il rafforzamento del governo federale e questi i diritti degli stati; ma con questi o altri nomi, i due complessi, nord e sud, capitalismo e agricoltura, rimangono antagonisti fino al 1865 e oltre.
La rivoluzione francese, opponendo in guerra la Francia all'Inghilterra e alla Spagna, tutt'e tre provvedute di colonie nell'America, venne anche ad approfondire il solco tra federalisti e repubblicani. I primi auspicarono il trionfo dell'autorità contro la rivoluzione; i secondi simpatizzarono per i Francesi, dichiarando che il trionfo della monarchia in Europa sarebbe stato anche la fine dell'indipendenza degli Stati Uniti. E a vicenda si accusarono di voler violare la costituzione a profitto dell'una o dell'altra parte, Washington, allora al principio del suo secondo quadriennio presidenziale (1793-1797), proclamò la neutralità. Ma era fatale che i belligeranti creassero imbarazzi ai loro simpatizzanti Americani: gl'Inglesi catturando navi neutrali e perciò anche americane, quando trasportavano prodotti coloniali francesi; i Francesi infuriando nello stesso modo contro il naviglio che commerciava con gl'Inglesi. Per di più, gl'Inglesi, per premere sugli Americani, di nuovo ricorrevano alla pericolosa arma degl'Indiani o avevano mano in qualche torbido interno americano (così nella Whisky Rebellion nella Pennsylvania, nel 1794), né si decidevano a cedere quei posti di frontiera nel nord-ovest che pur avrebbero dovuto cedere fino dal 1783. Il governo federale sempre più inclinava verso i federalisti ed era disposto a dare ascolto ai lagni dei ceti mercantili danneggiatissimi per la politica inglese. Il federalista John Jay inviato a Londra negoziò un trattato (il trattato che porta il suo nome, del 19 novembre 1794) che fu una sconfitta diplomatica degli Stati Uniti; perché, avendo già precedentemente gl'Inglesi rinunziato a catturare le navi americane, l'ipotetico guadagno americano fu quello di ottenere i posti di frontiera che già erano loro concessi dal trattato di Parigi del 1783. Il fatto era che solo con una guerra si sarebbe potuto strappare di più; ma l'inabile negoziatore aveva fatto capire troppo presto che gli Stati Uniti non volevano immischiarsi nelle faccende europee. Altri più assillanti problemi richiedevano urgente soluzione: quello dell'espansione in occidente, innanzi tutto. L'insediamento dei coloni aveva preso tale estensione che già nel 1792 un nuovo stato, il Kentucky, era stato aggiunto all'Unione. Ma occorreva regolare per l'avvenire questo grandioso movimento. Vi provvide il Public Land Act del 1796. Già esisteva una varia legislazione degli stati, la quale tuttavia, come quella della Virginia, veniva a favorire lo sparpagliamento caotico dei coloni con tutte le sgradevoli conseguenze che ne derivavano. La legge del 1796 volle invece promuovere il susseguirsi regolare e contiguo delle terre messe a coltura, sulla base della township di 6 miglia quadrate, divisa in sezioni o in blocchi di sezioni che un ufficio federale vendeva all'asta a un prezzo mite, tale da impedire la speculazione e con facilitazioni triennali di pagamento e dopo essersi accertato che erano estinti i diritti di proprietà o uso delle tribù indiane. Il sistema, applicato prima al Territorio del Nord-ovest, poi (1798) a quello del Mississippi, diede, nell'insieme, ottima prova. Certamente il "territorio" viveva per un certo periodo di tempo sotto la tutela federale e non era rappresentato al Congresso. Ma quando aveva raggiunto i requisiti dovuti (almeno 60 mila abitanti, una costituzione, un organo legislativo, ecc.) il territorio poteva essere ammesso fra gli stati. Lo stato dell'Ohio fu il primo ad essere accolto con tale sistema (1802); e con questo medesimo sistema furono accolti successivamente nell'Unione tutti gli altri stati tranne il Texas e la California.
Non è da credere, tuttavia, che il Public Land Act abbia fissato l'unico tipo della colonizzazione americana successiva. Come prima del 1796, così dopo, furono sempre numerosi i fuori legge, gli irregolari, gli avventurosi solitarî che si spinsero avanti, ardite pattuglie di punta, sempre più a occidente, violando impunemente tutte le leggi federali, vivendo una vita di guerra quotidiana con le tribù indiane. Fu in questa lotta spicciola e diuturna che la non numerosa popolazione dei Pellirosse andò quasi sterminata.
Può sembrare strano; ma non la vitale questione dell'espansione in occidente, che pur è stata il massimo titolo di nobiltà della nazione americana nel sec. XIX, fu la piattaforma della lotta per la presidenza nel 1796, bensì il trattato di Jay. Fra gli Americani dei vecchi stati non pochi consideravano l'espansione in occidente come una piaga sociale, al più ritenendola uno sfogatoio per gli elementi meno desiderabili. Contro il trattato i repubblicani lanciavano i loro strali. Washington non si era voluto presentare per la terza volta e il suo esempio divenne norma sempre osservata in seguito. Prevalsero, tuttavia, ancora i federalisti per pochi voti; e fu presidente John Adams (1797-1801). La lotta era stata e continuò tenace, pro e contro la neutralità, pro e contro la Francia. La quale era, adesso, dopo la pace di Basilea, assai più pericolosa; né i federalisti avevano tutti i torti quando denunziavano i vasti piani che gli emissarî franeesi andavano tramando nel Canada inglese e nella Florida e Luisiana spagnole e che, se riusciti, avrebbero stretti gli Stati Uniti da tutte le parti. Anche la guerra di corsa dei Francesi, fin nelle acque americane, passava i limiti del tollerabile. Nel corso del 1797 i contatti avuti da una missione americana a Parigi gettarono luce non bella sulla slealtà e corruttibilità negli ambienti del Direttorio francese; di quest'affare della X. Y. Z. Negotiation i federalisti si fecero un'arma contro i repubblicani; e promovendo la costruzione di una flotta, spingevano dritto dritto alla guerra. Hamilton e i suoi amici già pensavano a un'alleanza con l'Inghilterra non solo contro la Francia ma anche contro la Spagna, d'intesa su questo punto col patriota sudamericano F. de Miranda. Ma quando questo piano sembrava sul punto di trionfare, il presidente Adams, a insaputa dell'ala hamiltoniana del suo partito, pose il veto ai preparativi di guerra (18 marzo 1799). Si preferì ottenere per negoziati dalla Francia la cessazione della guerra di corsa contro le navi americane e gl'indennizzi per quelle catturate. Un trattato fu anche sottoscritto a Mortefontaine, il 30 settembre 1800, ma il giorno seguente la Francia si faceva cedere dalla Spagna la Luisiana, rimettendo piede in questa terra a occidente del Mississippi donde si era dovuta allontanare nel 1763. Le preoccupazioni dei federalisti, dunque, riapparivano fondate, mentre nuovi argomenti essi traevano anche dalla situazione interna. Focolai di giacobinismo esistevano qua e là; e più ne vedevano con la loro fantasia. L'afflusso di elementi rivoluzionarî dall'Europa (Francia e Irlanda specialmente) era continuo motivo di timori per i federalisti. Nel 1798 vi erano non meno di 25 mila Francesi negli Stati Uniti; di essi molti avevano ottenuto la cittadinanza americana; un ginevrino, Albert Gallatin, era addirittura il capo della minoranza repubblicana nella Camera dei rappresentanti. Perciò col Naturalization Act e con l'Alien Act (1798) i federalisti cercarono di porre una remora alla facilità con cui si concedeva la cittadinanza americana a quegli stranieri indesiderabili, che si dicevano citizens of the World. Inoltre col Sedition Act, volendo prevenire le offese al governo federale e al Congresso, si venne in realtà a limitare la libertà di opinione dei cittadini e a imbavagliare l'opposizione. L'applicazione che poi se ne fece, ingiusta nel caso della cosiddetta Fries Rebellion (1798-1799, sommossa di povera gente contro le tasse federali), valse a schierare contro i federalisti gran parte dell'opinione pubblica, sensibilissima all'idea della libertà individuale. Le elezioni presidenziali del 1800 significarono la fine del potere federalista. Dopo lunga lotta, causata anche da un difetto del sistema elettorale, corretto poi col 12° emendamento alla costituzione, venne alla presidenza Thomas Jefferson (1801-05 e 1805-09). Con lui s'inizia un periodo di regime repubblicano di quasi un trentennio, fino al 1828. Con l'avvento di questi "giacobini" non si verificò fondato alcuno di quei timori di rivolgimenti sociali per cui trepidavano i federalisti. Anzi, Jefferson rivolse ai federalisti un invito a collaborare. "Noi siamo tutti repubblicani, noi siamo tutti federalisti", disse nel suo primo messaggio. Certo, ci furono mutamenti in posti alti e bassi che i federalisti avevano monopolizzato; certo, Jefferson disse chiaro e netto agli armatori e agl'industriali che non potevano aspettarsi favori da lui. Ma proclamò anche solennemente che il governo federale avrebbe mantenuti i suoi impegni verso i creditori; e nel fatto, questo governo (the world's best hope, come diceva Jefferson), nonostante l'idealistico disinteresse del suo capo, finì col farsi esecutore del piano hamiltoniano di sviluppo industriale capitalistico e nella ripartizione delle spese federali fu proprio il Congresso repubblicano che per primo introdusse sistemi amministrativi meno corretti (il sistema del log-rolling e del pork-barrel) intesi soltanto a impinguare i comitati elettorali.
Anche nei riguardi dell'espansione, Jefferson si discostò dalle sue premesse ideologiche. Fu lui che combinò quello che fu considerato il più grosso colpo d'affari nazionale: l'acquisto della Luisiana. Regione immensa, da cui furono ritagliati fuori, in processo di tempo, ben 13 nuovi stati dell'Unione. La cessione di essa alla Francia aveva preoccupato anche un francofilo come Jefferson; mentre faceva approcci di simpatia all'Inghilterra egli mandava James Monroe in Francia a proporre l'acquisto della regione, lasciando intendere che in caso di mancato accordo, gli Stati Uniti si sarebbero legati all'Inghilterra. Napoleone e Talleyrand, ben comprendendo che se non se ne cavava qualche cosa subito, la Luisiana sarebbe divenuta preda degl'Inglesi, aderirono alla combinazione: il 30 aprile 1803 fu segnato il trattato della cessione per 60 milioni di franchi. Eppure, a molti Americani parve allora un cattivo affare! Invero, i titoli della Francia a compiere la cessione erano discutibili per più di un aspetto. E poi i federalisti vi scorgevano una causa che avrebbe perpetuata la loro inferiorità: dalla Luisiana sarebbero sorti degli stati eminentemente agrarî e perciò in maggioranza antifederalisti. Nel 1803-1804 gli stati della Nuova Inghilterra giunsero al punto di cospirare per provocare una secessione, una Confederazione del nord, complice Aaron Burr, losco individuo salito alle più alte dignità del partito repubblicano e del governo federale e che, deluso nelle sue ambizioni, doveva poco dopo uccidere in duello Hamilton e liquidarsi politicamente, in seguito a un nuovo oscuro tentativo di staccare dall'Unione i territorî dell'ovest (1806).
Durante la seconda presidenza di Jefferson la situazione internazionale degli Stati Uniti fu messa a dura prova per la difficoltà di mantenere la neutralità nel rinnovato duello anglo-francese. La flotta militare americana era esigua; non potevano ingannare i successi avuti nel 1805 nei confronti di uno stato barbaresco, quello di Tripoli, uso a ricattare con pretese di tributi tutte le nazioni mercanteggianti nel Mediterraneo. La grossa questione era l'impressment, cioè il diritto che l'Inghilterra si arrogava di visitare le navi americane per arrestarne quei marinai che essa riteneva disertori dalla propria marina. Di qui abusi, equivoci, soprusi di ogni genere e un blocco di fatto delle coste americane. Trattative a Londra non portarono a nulla; anzi, nel giugno 1807, per una questione di tal sorta, una nave britannica prese a cannonate la Chesapeake, nave da guerra americana costringendola ad ammainare la bandiera. La nazione ebbe uno scatto di sdegno; nuovi mezzi furono messi a disposizione per l'armamento della flotta e il 22 dicembre 1807 il Congresso approvò l'Embargo Act, il quale, nel pensiero di Jefferson, avrebbe dovuto equivalere a una guerra, costringere cioè l'Inghilterra a piegarsi, escludendola dal commercio americano d'importazione e di esportazione; poiché egli riteneva che l'Inghilterra, privata dei prodotti agricoli americani, cotone specialmente, non potesse resistere. S'ingannò nel calcolo. In sostanza l'embargo fu inutile e recò più danno al commercio americano che agl'Inglesi. Gli ambienti federalisti commerciali della Nuova Inghilterra erano esasperati e minacciavano la secessione; perfino i repubblicani di New York e di altri porti dissentivano su questo punto da Jefferson e nelle elezioni presidenziali del 1808 proposero un candidato contrario all'embargo, George Clinton, contraltare al candidato ufficiale James Madison che riuscì eletto (1809-1813). Quattro giorni prima di lasciare il potere, Jefferson revocò l'embargo (1° marzo 1809). Ciò avrebbe potuto migliorare, almeno provvisoriamente, i rapporti con l'Inghilterra; ma inaspettatamente e per motivi non ancora chiariti, lo spirito di conciliazione venne a mancare da parte inglese; il ministro britannico, D. Erskine, fu richiamato da Washington. Ma, impegnata l'Inghilterra con Napoleone, gli Stati Uniti avevano, in realtà, le mani libere in America: approfittando della situazione disperata della Spagna, divisa fra due governi sedicenti spagnoli, e dell'arrendevolezza del governatore, gli Stati Uniti s'impadronirono, nel 1810, della Florida occidentale. Napoleone per stringere a sè gli Americani, fece, poco sinceramente, sperare che non avrebbe applicato alle navi americane il blocco continentale. E Madison, a compenso, l'11 febbraio 1811 proibì ogni rapporto commerciale con gl'Inglesi. Con ciò invero egli non intendeva di legarsi ai Francesi, bensì di esercitare una pressione sull'Inghilterra perché revocasse le ordinanze relative all'impressment e al commercio dei neutrali. Una certa arrendevolezza mostrò Castlereagh, quando assunse la direzione del Foreign Office; ma era troppo tardi. Prima che di questo mutato atteggiamento si avesse sentore in America, il 18 giugno 1812, il Congresso, con debole maggioranza, dichiarava la guerra alla Gran Bretagna. Questa decisione era stata determinata non solo da una rivolta della dignità nazionale ferita, ma anche, e in misura maggiore, dal bisogno di espandersi a nord-ovest verso il Canada. Non che le regioni contermini degli Stati Uniti fossero sovrapopolate; anzi, era vero il contrario. Ma questi coloni, questi pionieri preferivano di lasciare le terre appena occupate per spingersi oltre in terre nuove, come cacciatori e allevatori di bestiame. Donde guerriglie continue con le tribù indiane, strette attorno al capo Tecumseh, nobile figura che insieme col fratello fece gli estremi tentativi per salvare la sua razza dallo sterminio. Ma fu vinto il 7 novembre 1811 presso il fiume Tippecanoe, da W. H. Harrison, governatore federale del Territorio d'Indiana, parte dell'antico Territorio del Nord-ovest. Si disse che gl'Inglesi del Canada avessero favorito Tecumseh. L'accusa non sembra fondata; ma fu comunemente accettata per buona; e i coloni dell'ovest portarono nuovi argomenti al Congresso per scatenare la guerra contro l'Inghilterra. Fu l'ovest che al grido "Canada, Canada" impose i suoi egoistici interessi a tutta l'Unione, contro i federalisti anglofili e i repubblicani esitanti. Se pur nobilitata dal motivo dichiarato: "per la libertà dei mari e del commercio" non poteva essere una guerra popolare; alcuni stati addirittura la sabotarono, pretendendo di trasformarla in una guerra unicamente difensiva. Ma che, tutto sommato, la maggioranza accettava la guerra, una volta dichiarata, si vide nelle elezioni presidenziali del 1812: Madison fu rieletto (1813-17). La guerra si svolse sul mare e nella regione dei Laghi (per i particolari, v. americana, guerra, II, p. 955 seg.), attorno a Detroit e presso il Niagara. Un primo tentativo d'invadere il Canada fallì miseramente. Sul mare, la flotta americana scarsa di numero, ma forte per navi meglio armate, fu nei primi scontri vittoriosa. Ma nel 1813 la superiorità navale inglese si affermò; le coste americane furono bloccate e i pochi vascelli americani dovettero limitarsi alla guerra di corsa nei mari europei. Nello stesso anno fu più fortunata per gli Americani la guerra sul fronte dei Laghi: tanto la flottiglia del Lago Erie quanto l'esercito nella regione di Detroit riportarono notevoli successi, benché non riuscisse un movimento verso Montreal. Ma nel 1814, liquidato Napoleone in Europa, gl'Inglesi poterono avere forze disponibili per attaccare contemporaneamente dalla parte dei Laghi e di New Orleans. Le vittorie americane di Chippewa (5 luglio 1814) e quella navale di Plattsburg, sul Lago Champlain (11 settembre 1814) sul fronte nord, e quella, brillantissima, di Andrew Jackson a New Orleans sul fronte sud, erano largo compenso all'amor proprio nazionale, profondamente umiliato nel vedere la nuova capitale Washington presa, incendiata in parte e sgombrata poi dal nemico (agosto 1814). La vittoria di Jackson giungeva a guerra chiusa; negoziati erano stati intavolati fin dall'aprirsi delle ostilità. Erano divenuti più attivi negli ultimi tempi a Gand, mentre nella Nuova Inghilterra i federalisti, padroni del Massachusetts, del Rhode Island e del Connecticut, esposti ai danni di una guerra che non avevano voluto, si agitavano e minacciavano (nella convenzione di Hartford, 15 dicembre 1814) la secessione e la pace separata. La pace fu conclusa a Gand il 24 dicembre 1814, sulla base delle frontiere d'anteguerra. Altre questioni particolari (impressment, navigazione sul Mississippi, delimitazione dei confini col Canada, ecc.) furono lasciate impregiudicate per ulteriori negoziati.
La coscienza nazionale. La nazione e gli stati (1815-1840). - La guerra del 1812-14 era stata per gli Stati Uniti quasi una seconda guerra d'indipendenza, nel senso, almeno, che da allora essi apprendono a svincolarsi da legami extramericani, a vivere una vita di nazione che non subordina più la sua azione ai motivi delle grandi rivalità europee. Per un secolo, fino alla guerra mondiale, gli Stati Uniti conducono una politica autonoma, la quale, se necessariamente sente le ripercussioni della politica delle grandi potenze europee, non è tuttavia da esse ispirata nel suo vario atteggiarsi. Gli albori di questo lungo periodo e l'asserzione dogmatica di quest'autonomia politica americana sono legati al nome del presidente James Monroe, repubblicano, eletto la prima volta nel 1816 con schiacciante maggioranza; la seconda volta nel 1820, senza competitori; caso non più ripetuto. Questo fatto singolare si deve, oltre che alle solide ma non eccezionali doti del Monroe, a un sentimento spontaneo e diffuso di concordia e di ottimismo che valse alle sue due presidenze il nome di era of good feelings. L'opposizione federalista sembrò e fu gretta, non sostenuta da una corrente di ideali e di interessi di largo respiro. Innegabilmente, la guerra ultima aveva contribuito a rafforzare i sentimenti unitari; non certo nel senso che ne dovessero perciò uscire diminuiti i diritti particolari degli stati; bensì nel senso che la gelosa difesa del particolarismo non esauriva la sfera dei sentimenti e dei doveri civici; che accanto a questa (anche se non proprio sopra questa) vi era un'idealità nazionale americana che pur aveva acceso e accendeva gli animi; quasi una giusta posizione di motivi materiali e motivi ideali. E proprio in questo torno di tempo nasceva e si affermava anche una letteratura nazionale americana, con Washington Irving e J. F. Cooper; e in un'ora triste dell'ultima guerra F. S. Key traeva ispirazione per comporre l'inno nazionale Star-Spangled Banner. I federalisti si erano messi al difuori di questa corrente; rinnegando i motivi che avevano fatto la loro forza ai tempi di Hamilton, erano essi, adesso, che mettevano egoisticamente l'accento sui diritti degli stati. Questa nascente diffusa coscienza nazionale si concretava anche in un rafforzamento del governo federale. Vi contribuivano con la loro azione il Congresso e più ancora la Corte suprema; l'uno e l'altra, perché è nella natura degli istituti giuridici di agire, anche esorbitando, contro analoghi istituti concorrenti; e il Congresso e la Corte suprema erano istituti tipicamente federali. L'opera del presidente della Corte suprema (Chief Justice) John Marshall che coprì la carica, con altissima autorità, per 34 anni (1801-35) fu essenziale e lasciò un'orma indelebile nella storia costituzionale degli Stati Uniti. Con geniale empirismo egli interpretò la costituzione e risolse i casi di conflitto di poteri, ispirandosi al principio che "i mezzi impiegati per esercitare un potere conferito dalla costituzione dovevano essere adatti ai fini che venivano proposti e potevano comprendere tutte le misure per assicurare il pieno esercizio dell'autorità accordata dalla costituzione". Con questa sua formulazione quasi lapalissiana egli veniva, in realtà, a rafforzare l'unità statale rappresentata nel governo federale. E l'1ntervento equilibratore del governo federale era quanto mai necessario nei gravi problemi che costituivano il tessuto della vita americana: espansione verso occidente, comunicazioni, schiavitù, politica doganale e bancaria. Gli anni immediatamente successivi alla guerra del 1812 videro una nuova possente ondata migratoria. Per afflusso dall'Europa e più per l'incremento demografico dei nativi, la popolazione degli Stati Uniti era, nel 1820, di 10 milioni: quadruplicata in meno di un quarantennio. Nelle regioni occidentali l'insediamento era così sviluppato che già nuovi stati potevano essere accolti nel grembo dell'Unione: la Luisiana (cioè, in senso stretto, la regione sul basso Mississippi) nel 1812; l'Indiana nel 1816; lo stato di Mississippi nel 1817; l'Illinois nel 1818; l'Alabama nel 1819. Naturalmente, l'insediamento si era esteso e si estendeva di continuo assai oltre i termini di questi stati, a nord-ovest verso e lungo i laghi, a occidente a ritroso del Missouri e dell'Arkansas, e anche a sud nella penisola di Florida che, spagnola fino al 1819, divenne in quest'anno americana per un audace colpo di mano di Andrew Jackson, popolarissimo nel sud. Egli, prendendo motivo dall'insicurezza che vi regnava sotto gli Spagnoli, incapaci di impedire escursioni di tribù indiane dalla Florida nella Georgia, la occupò rapidamente di sua iniziativa con milizie volontarie raccogliticce. Un accordo con la Spagna, tutta presa in quel tempo dalla ribellione delle sue colonie americane, sanò quest'atto di rapina: 5 milioni di dollari furono il prezzo dell'accordo. L'espansione in grande stile era possibile solo se accompagnata da una rete di nuove vie di comunicazione. Vi erano le vie fluviali che acquistarono un'importanza infinitamente più grande quando, prima il Hudson (1807), poi gli altri fiumi cominciarono a essere solcati da battelli a vapore. I noli ribassarono; industria e agricoltura ne ebbero incremento. Per i bisogni dell'industria incipiente e della navigazione prendeva sviluppo lo sfruttamento dei giacimenti carboniferi degli Allegani; si progettavano nuove strade e nuovi canali. Si assisteva a una mirabile febbre di attività. La guerra del 1812, impedendo l'introduzione di prodotti industriali europei e specie inglesi, aveva dato un impulso notevole alle poche industrie americane e ne aveva create di nuove. Quasi tutte erano concentrate nella Nuova Inghilterra. Seguendo un metodo dapprima introdotto (1814) dall'industriale Francis C. Lowell di Boston, esse abbandonarono i sistemi ancora prevalenti in Europa delle piccole officine e dell'industria a domicilio e si attrezzarono in grandi opifici, già mostrando la tendenza a concentrarvi tutte le operazioni dell'industria, dalla materia greggia al prodotto finito. L'industria poi chiedeva insistentemente al governo federale di sorreggerla con dazî protettivi. La tariffa del 1812 fu elevata nel 1816 del 15-20%. Di qui clamori dei ceti agricoli e specialmente dei grandi piantatori del sud, proprietarî di schiavi, che avevano tutto l'interesse ad avere i prodotti industriali (specialmente tessuti) a buon prezzo. Ma già ora, verso il 1820, la questione più grossa era quella della schiavitù. Negli stati del nord la schiavitù, che non vi era mai stata molto in fiore, era scomparsa da sé; né l'agricoltura (di farmers) né tanto meno l'industria sentivano il bisogno della mano d'opera di colore. Diversamente nel sud: i grandi piantatori non potevano fare a meno di una mano d'opera a buon prezzo e perciò di colore; né ammettevano che il Negro sapesse lavorare se non come schiavo. La consideravano una questione vitale. D'altra parte la costituzione non dava al governo federale alcun potere di intervenire nella questione, che era lasciata alla discrezione dei singoli stati. Solo un emendamento della Costituzione avrebbe potuto abolire la schiavitù in tutti gli stati. Ma come trovare la maggioranza richiesta dei due terzi finché nel Senato stati schiavisti e antischiavisti si equilibravano? Per oltre un trentennio la lotta politica degli Stati Uniti si compendia nello sforzo tenace degli uni e degli altri per rompere a proprio vantaggio quest'equilibrio. Era, insomma, della massima importanza conoscere se i nuovi stati accolti nell'unione erano schiavisti o antischiavisti. Perciò la questione dello schiavismo è strettamente connessa con quella dell'espansione in occidente. Dopo il 1812 si seguì la pratica di far corrispondere l'entrata di uno stato schiavista a quella di uno stato antischiavista. Rappresentando il fiume Ohio per un'ordinanza del 1787, il limite fra i due tipi, l'entrata nell'unione dell'antischiavista stato di Indiana (1817) a nord dell'Ohio fu seguita da quella dello schiavista Mississippi (1818); quella dell'Illinois da quella dell'Alabama. Ma per la vasta regione a occidente del Mississippi non era stata fissata alcuna linea di demarcazione. Quale criterio si sarebbe adottato allorché un territorio schiavista avesse chiesto di entrare come stato nell'Unione? Fu il caso del territorio del Missouri, nel 1820. Dopo lungo e aspro dibattito si concluse col cosiddetto "compromesso del Missouri": il nuovo stato fu accolto, ma per contrappeso fu eretto a stato non schiavista nell'estremo nord-est il piccolo Maine, che fino allora aveva fatto parte, con una certa autonomia, del Massachusetts. Inoltre si stabilì che a occidente del Mississippi fino alle Montagne Rocciose, allora a mala pena conosciute, nella regione che si apriva all'ulteriore espansione americana, il parallelo 36° 30′ sarebbe stato ciò che era a oriente il fiume Ohio: linea divisoria fra futuri stati schiavisti e futuri stati liberi. La questione era procrastinata, non risolta; l'audace, rapida espansione ne avrebbe fra non molto imposta la soluzione. Nel 1817 già pionieri americani penetravano nel Texas spagnolo; fattorie e stazioni americane per il commercio delle pellicce si erano stabilite sulla costa del Pacifico allo sbocco del Columbia, a contatto con Russi e Inglesi, coi quali, nel 1818, si era venuti a una convenzione per la delimitazione di queste lontane regioni. L'espansione americana non si sviluppava, dunque, senza qualche contatto e attrito con potenze europee. Quando poi le popolazioni ispano-americane, e specie il Messico, si ribellarono alla madre patria, gli Stati Uniti ebbero ragioni per temere che al soccorso della Spagna, in omaggio ai principî della Santa Alleanza, altre e più pericolose nazioni europee potessero intervenire nelle faccende americane. Monroe assunse un atteggiamento energico, per parare qualunque eventualità; già nel 1822 riconosceva le nuove repubbliche sudamericane e nel celebre messaggio al Senato del 2 dicembre 1823 affermava che gli Stati Uniti, considerando le due Americhe ormai chiuse alla politica coloniale delle nazioni europee, si sarebbero opposti a qualunque tentativo europeo che avesse a interferire nel libero sviluppo degli stati indipendenti dell'America Settentrionale e Meridionale. Questa affermazione superava, in quel momento, le reali possibilità degli Stati Uniti; ma era pur significativa, come sintomo d'una nuova coscienza nazionale, e, si direbbe, d'una missione panamericana che essi si attribuivano. Il fatto è che il temuto intervento europeo non si verificò; anzi, l'anno dopo (1824) furono regolate le pendenze con la Russia circa l'estensione dell'Alasca, dominio russo.
La seconda presidenza del Monroe volgeva al termine; e prima ancora della sua uscita dal potere era finita "l'era della buona intesa". Le rivalità regionali, non bene ancora organate attorno a ideologie di partiti, davano il tema alla lotta per la presidenza. Nel 1824 tutti i quattro candidati, veri campioni regionali (favorite sons, furono detti) si proclamavano repubblicani. Dopo aspra lotta, nessuno ottenendo la maggioranza, la Camera dei rappresentanti fece la scelta: John Quincy Adams del Massachusetts. Ma spiritualmente il vero vincitore era stato Andrew Jackson del Tennessee. Nel corso del 1825-26 queste tendenze nazionali si vennero coagulando in formazioni di partito, estesi, con varia influenza e penetrazione, in tutti gli stati dell'Unione. Si chiamarono gli uni repubblicani nazionali, o senz'altro repubblicani. Erano loro corifei il presidente Adams e Henry Clay: come i federalisti hamiltoniani, volevano rafforzare i poteri del governo federale, interpretare la Costituzione in senso restrittivo dei poteri degli stati, promuovere dazî protettivi dell'industria, imporre il predominio della banca federale sulle banche degli stati, contribuire col tesoro federale ai lavori pubblici d'interesse nazionale, vie di comunicazione specialmente. Non occorre dopo di ciò avvertire che i repubblicani contavano più numerosi aderenti negli stati del nord. Gli assertori rigorosi dei diritti degli stati si chiamarono, al contrario, democratici. Potenti sopra tutto negli stati del sud, mettevano avanti uomini come Andrew Jackson, J. C. Calhoun, W. H. Crawford.
Il governo repubblicano dell'Adams andò oltre i limiti: la tariffa doganale del 1824 già aveva notevolmente inasprita quella del 1816. Quella del 1828 si meritò dagli avversarî il nome, che le è rimasto, di "tariffa delle abominazioni". I prezzi del cotone, del tabacco, del riso, cioè dei prodotti principali del sud, calavano, mentre, grazie alla tariffa, i prodotti industriali del nord, alzavano i prezzi. Il sud si vedeva rovinato; ma votò la tariffa che imponeva dazî protettivi anche su certe materie prime prodotte dagli allevatori del nord-ovest (lane, ecc.) perché sperava, in tal modo, di inimicare il nord con l'ovest e di rompere la compattezza del partito repubblicano. Il giuoco riuscì: nelle elezioni presidenziali del 1828 riuscì il candidato democratico Andrew Jackson, il quale, d'indole autoritaria, instaurò tutto un nuovo sistema di esercitare il potere presidenziale. Non si atteggiò a dittatore, ma nemmeno tenne a governare in buona armonia col Congresso. Egli si considerò mandatario del popolo e responsabile direttamente solo verso di esso e naturalmente, innanzi tutto, verso il partito che l'aveva portato al potere. Fu lui pertanto che introdusse il sistema, durato poi per oltre mezzo secolo, fino al 1882, della rotazione degli uffici pubblici, per cui il partito vincitore si credeva in diritto di sostituire con proprî uomini gli uffici coperti da seguaci del partito soccombente; e non solo in alcune altissime cariche federali le quali, anche prima d'allora, erano state soggette alle vicende dei partiti, ma spesso anche in minuti uffici, delle poste, delle dogane, ecc. Il newyorkese W. L. Marcy, che poi fu segretario di stato col Pierce, creò la parola d'ordine: "Le spoglie ai vincitori", donde anche il nome di Spoils System. Conviene aggiungere che ciò non urtava troppo la coscienza pubblica, la quale ammetteva, anche nell'amministrazione, un certo grado di partigianeria. Del resto l'esperienza aveva dimostrato che non si passavano certi limiti e che il partito al potere, comunque si chiamasse, era il miglior servitore dei superiori interessi dell'Unione federale. Ecco il caso del Jackson: egli aveva sostenuto i diritti degli stati; ma quando, fra il 1828-29, il democratico Calhoun uscì nel parlamento di Charleston (Carolina del Sud) nella famosa dichiarazione "di denunzia e protesta" con la quale non solo sosteneva l'incostituzionalità della tariffa del 1828, ma anche il diritto di uno stato, in tali casi, di appellarsi per la decisione all'arbitrato degli altri stati, il Jackson, di fronte alla pericolosità di questa teoria, non esitò a proclamare forte che l'Unione federale veniva innanzi tutto e che doveva essere salvaguardata con ogni mezzo. Lo storico dibattito che, nel 1830, ebbe luogo in proposito al Senato, provò quanto la teoria di Calhoun, nella sua enunciazione e nei suoi sviluppi, poteva essere fatale all'Unione. Contro il senatore Daniel Webster del Massachusetts, il senatore Robert Y. Hayne interpretò la dichiarazione di Charleston nel senso che uno stato, ove considerasse incostituzionale una legge federale, avrebbe potuto non solo dichiararla nulla (nullification), ma opporsi con ogni mezzo a che fosse applicata nello stato stesso. La rielezione di Jackson nel 1832, per il quadriennio 1833-37, dimostrò che questa dottrina disgregatrice non incontrava il favore della gran massa del paese. E i fatti seguirono alle premesse. Quando nel dicembre 1832 la Carolina del Sud volle tuttavia dichiarare nulla la legge federale sulle tariffe, Jackson chiamò sotto le armi 10 mila uomini per imporre la volontà dell'Unione anche con la forza. Questa volta bastò la dimostrazione della forza, e il Jackson, del resto, usò moderazione riducendo la "tariffa delle abominazioni".
Le due presidenze del Jackson o, come dissero i suoi avversarî, "il regno di Jackson", segnano, per varî aspetti, un passo importante nella storia americana. La vita economica e politica si fa più complessa. Cade in questo periodo (1833) anche il primo vagito di un movimento operaio americano, il quale tiene a Filadelfia le sue prime assise nazionali, con esposizione delle consuete rivendicazioni. Ma più importante è l'estensione del diritto di voto introdotta nelle costituzioni di quasi tutti gli stati a seguito della vittoria democratica del 1828 e applicata in stretto senso democratico anche alle elezioni amministrative e giudiziarie. L'aumento del numero degli elettori rese necessaria l'organizzazione su basi nazionali permanenti dei due maggiori partiti; onde il formarsi di una categoria di agenti elettorali di professione (boss) e la necessità di corrispondenti mezzi finanziarî per la lotta politica. Anche la pratica delle elezioni presidenziali ne uscì modificata; mentre finora i candidati alla presidenza venivano proposti da comitati più o meno ristretti, ora (a cominciare dalle elezioni del 1832) i due grandi partiti propongono il loro candidato in convenzioni nazionali nelle quali le organizzazioni di partito di ogni stato (con numero di delegati doppio di quello dei rappresentanti. dello stato al Congresso) possono far sentire la loro voce e le loro preferenze. È con ciò finito quell'alcunché di provinciale che caratterizzava la vita politica degli Stati Uniti ed è anche, in parte, spezzata l'oligarchia di quei pochi ceti che finora avevano dato i quadri politici alla nazione. Anche l'economia si veniva trasformando; le prime ferrovie (1830) portavano una rivoluzione nei mezzi di comunicazione e con la possibilità di trasporti relativamente rapidi davano nuove ali alla penetrazione nell'ovest, smentendo l'idea di coloro che asserivano essere l'espansione troppo lontana incompatibile, per le distanze, con l'Unione federale. In mezzo a tanto progresso e ottimismo qualche subitaneo arresto. Crisi di crescenza. Nel 1837 oltre 600 banche fallirono creando un movimento di panico, aggravato per il susseguirsi di due cattivi raccolti. Questo disastro finanziario si doveva in gran parte alla politica democratica jacksoniana, avversissima alla banca nazionale privilegiata ricostituita nel 1816. Il privilegio veniva a decadere nel 1832. Il Jackson pose il veto al rinnovo e fece ritirare dalla banca i depositi federali distribuendoli fra una cinquantina di banche dei varî stati le quali, in tal modo, divenivano a lor volta privilegiate. Sorrette dal governo e dall'ondata di generale ottimismo, queste e altre numerosissime banche largheggiarono eccessivamente nel credito: vennero gli anni magri e fu un disastro. Il tesoro federale ci rimise 10 milioni di dollari, somma ingente per i tempi; il partito democratico ne uscì compromesso. Nelle elezioni del 1836 a mala pena riuscì a far spuntare il proprio candidato Martin Van Buren (1837-41) contro una coalizione di democratici malcontenti del sud e di repubblicani, che ora si affannavano a loro volta a invocare i diritti degli stati contro le esorbitanze presidenziali in materia finanziaria. Il Van Buren tappò alla meglio le falle, e per convinzione e per dare una soddisfazione all'opinione pubblica separò il tesoro federale dalla sorte delle banche. Ma il partito democratico era nel ricordo degli elettori troppo legato al panico del 1837. Nelle elezioni del 1840 la coalizione anzidetta, che si diceva "whig", portò al trionfo il proprio candidato, W. H. Harrison, l'eroe di Tippecanoe.
L'espansione fino al Pacifico. Schiavismo e abolizionismo (1840-61). Gli Stati Uniti si trovavano in una situazione singolare: non avevano precisi confini né a nord (tolta la parte contermine ai grandi laghi e al San Lorenzo), né a sud, né a ovest. Veramente rispetto al Messico, ancora spagnolo nel 1819, al tempo dell'acquisto della Florida, i confini erano stati sommariamente indicati nel relativo strumento diplomatico: partendo dal Pacifico, a nord dell'Alta California, il confine doveva coincidere col 42° parallelo fino al limite orientale delle Montagne Rocciose, scendere lungo il 106° meridiano fino alle sorgenti dell'Arkansas, seguirne il corso fino al 100° meridiano per scendere col Red River e il Sabine River al Golfo del Messico. Erano compresi, pertanto, nel Messico, indipendente dal 1821, quelli che poi saranno gli stati del Texas, una parte del Colorado e del Wyoming, il Nuovo Messico, l'Utah, l'Arizona, il Nevada, la California. Ma poteva l'irresistibile marcia verso occidente arrestarsi davanti alle umbratili frontiere segnate in un fragile strumento diplomatico? Ciò era tanto meno probabile in quanto queste regioni, sotto la nominale sovranità messicana, non conoscevano ancora l'orma della colonizzazione bianca; erano di fatto, verso il 1840, terra nullius, con scarsi e raminghi abitatori. All'infuori di una: il Texas. Qui i coloni, 70 mila circa, erano per buoni 50 mila raprappresentati da Americani anglosassoni venuti di fresco d'oltre frontiera. Non era possibile che costoro, gelosi della loro individualità nazionale, protestanti delle varie confessioni, usi al governo rappresentativo, tollerassero la tutela della provincia cattolica messicana di Cohahuila. Infatti, il 2 marzo 1836, il Texas si era proclamato stato indipendente e come tale era stato riconosciuto dall'Inghilterra e dalla Francia. Ma, a guardar un po' lontano, non poteva cader dubbio che l'indipendenza rappresentava una situazione provvisoria, destinata a cedere il luogo all'annessione agli Stati Uniti. Questo era il desiderio degli abitanti e il programma dei whigs venuti al potere e del presidente John Tyler (1841-45) succeduto, per le sue funzioni di vicepresidente, a Harrison, deceduto dopo appena un mese di presidenza. Annessionisti decisi erano gli stati schiavisti e cotonieri (i due termini sono inseparabili) del sud: perché il Texas offriva nuove sterminate possibilità di colture a piantagione; perché la schiavitù vi era radicata; perché l'entrata nell'unione di un nuovo stato schiavista avrebbe rafforzato la posizione dello schiavismo, portando, dopo l'entrata dell'Arkansas schiavista (1836) e del Michigan stato libero (1837) a 14 gli stati schiavisti contro 13 liberi. Per indurre il nord a tollerare questo nuovo afflusso di schiavismo nel corpo dell'unione, gli stati cotonieri proposero un compenso: l'annessione dell'Oregon, cioè di quel territorio sotto il nominale condominio anglo-americano che si estendeva lungo il Pacifico, a nord del 42° parallelo. Non si trattava di atti di usurpazione, allegavano gli annessionisti, ma di recuperi. Il Texas non era compreso, una volta, nella Luisiana ceduta poi dalla Spagna? E nell'Oregon, la colonizzazione americana non aveva forse preceduto quella anglo-canadese? Questioni bizantine. Nel fatto, la tendenza annessionistica, insofferente di indugi e cavilli giuridici, trionfava con la vittoria dei democratici nelle elezioni presidenziali del 1844. Il 4 marzo 1845 assumeva la presidenza James Polk (1845-49); ma già quattro giorni prima il Congresso deliberava di accogliere il Texas nell'Unione. Ciò non significava, necessariamente, la guerra col Messico. Anzi il Congresso sperava di evitarla e, coerente alla sua mentalità mercantile che aveva fatto ottima prova in altre occasioni, intendeva sanare il fatto compiuto con un regolare acquisto in danaro sonante e comprendere nell'affare anche il Nuovo Messico e la California, alla quale, da un po' di tempo, gl'Inglesi sembravano dedicare un interesse particolare. Bastò questo sospetto perché negli Stati Uniti si risfoderasse, nel 1845, la dottrina di Monroe, caduta quasi in dimenticanza dal tempo di Jackson in poi. Ma la transazione commerciale non riuscì. Una delle tante rivoluzioni portò al potere, nel Messico, un governo intransigente. Sorsero contestazioni sui confini occidentali del Texas: Río Nueces, come volevano i Messicani, o Río Grande del Norte, come pretendevano gli Americani? Nel gennaio 1846 il governo di Washington spinse le proprie truppe fino al Río Grande; e il 13 maggio dichiarò la guerra, prendendo a pretesto una scaramuccia avvenuta qualche settimana prima e di cui fu attribuita la responsabilità ai Messicani. Nell'anno e mezzo che durò la guerra, gli armati dell'Unione passarono di successo in successo; anche dove furono inferiori di numero, sempre strapparono la vittoria: Monterey, Palo Alto, Buena Vista. La conclusione della guerra, più che dall'occupazione del Nuovo Messico, dell'Arizona, della California, fu segnata dalla spedizione su Vera Cruz e sulla capitale, Messico, che si arrese il 17 settembre 1847. Col trattato di Guadalupe Hidalgo, del 3 febbraio 1848, il Messico cedeva agli Stati Uniti un immenso territorio: oltre al Texas, il Nuovo Messico, l'Arizona, l'Alta California (cioè l'attuale stato di California). Durante la guerra, per diretto accordo con l'Inghilterra (15 giugno 1846), era risolta favorevolmente anche la questione dell'Oregon che veniva annesso fino al 49° parallelo, d'ora in poi confine fra gli Stati Uniti e il Canada fino a Puget Sound, donde scende al Pacifico lasciando al Canada l'isola di Vancouver. Col 1848 gli Stati Uniti raggiungono, adunque, i confini continentali che hanno tuttora. Un'aggiunta venne solo per il trattato di Gadsden (30 dicembre 1853), per cui si acquistò dal Messico una fascia di territorio (attualmente la parte meridionale dell'Arizona) importante ai fini delle comunicazioni ferroviarie fra il Texas e la California meridionale. Quest'estendersi dell'Unione dall'Atlantico al Pacifico doveva portare il governo federale a preoccuparsi delle comunicazioni fra i due oceani per la via più breve. Onde già durante la guerra col Messico gli Stati Uniti posero gli occhi sull'istmo di Panamá, sottile diaframma che, inciso da un canale, poteva assumere capitale importanza; perciò, nel 1846, conchiusero un trattato con la Colombia, che garantiva agli Americani il libero passaggio per l'istmo mentre assicurava alla Colombia la protezione americana. E allorché, due anni dopo, gl'Inglesi, dal loro possesso dell'Honduras parvero volersi estendere a spese del Nicaragua in un altro punto sensibile per le comunicazioni interoceaniche, gli Americani li convinsero a rinunziare a questi piani chiamandoli a partecipare ai diritti da essi acquisiti sull'istmo di Panamá (accordi Clayton-Bulwer, 1850).
Rispetto alla questione della schiavitù i nuovi recenti acquisti rappresentavano un'incognita; poiché era generalmente ammesso che il compromesso del Missouri poteva trovare applicazione solo nelle regioni cedute sotto il nome collettivo di Luisiana. Ma il Texas schiavista era stato ammesso; e nello stesso anno 1845 anche la Florida schiavista era assurta a grado di stato. Solo nel 1846 l'Iowa e nel 1849 il Wisconsin riportavano l'equilibrio. Vero è che, durando ancora la guerra col Messico, un membro democratico del Congresso, David Wilmot di Pennsylvania, aveva cercato di prestabilire con una legge federale la futura sorte delle nuove terre nei riguardi della schiavitù: egli aveva proposto una clausola (Wilmot Proviso, 1846) per cui nei territorî di nuovo acquisto la schiavitù doveva essere abolita. Ma il Congresso si era aggiornato prima di votare sulla clausola e le nuove terre erano entrate nell'unione vergini d'ogni ipoteca sulla questione. Anche se, nella campagna elettorale del 1848 per la presidenza, che vide la vittoria dei whigs col loro candidato Zachary Taylor (1849-50), l'eroe di Buena Vista, non fu posta in primo piano la scottante questione - fu posta e senza fortuna da un terzo partito detto del Free Soil - tuttavia essa esisteva ed esigeva, o tosto o tardi, una soluzione radicale. Ecco nel 1849 la California, datasi una costituzione "libera" (cioè vietante la schiavitù), chiedere di essere ammessa come stato, senza dover passare per l'avventiziato del territorio. Scoperti l'anno innanzi (gennaio 1848) i primi giacimenti auriferi, la popolazione era aumentata in modo impressionante (v. california). L'ordine pubblico vi lasciava molto a desiderare; anche questa ragione consigliava il pronto riconoscimento della California come stato. Ma il sud schiavista e cotoniero insorse protestando e minacciando; ché non solo vedeva turbato a favore degli stati liberi quel faticato equilibrio, ma temeva che l'ammissione della California potesse costituire un precedente per tutti i territorî e stati cui non era applicabile il compromesso del Missouri. Prevalse ancora una volta lo spirito di accomodamento, auspice il vecchio Henry Clay; l'Omnibus Bill del 1850 ammise la California, ma escluse che al resto dell'immenso territorio ceduto dal Messico, matrice di futuri stati, si potessero applicare i principî del Wilmot Proviso. Ma nemmeno era detto quali principî vi si dovessero applicare. La costituzione federale era muta in materia di schiavitù; e poiché quanto non vi era espressamente deferito ai poteri federali entrava nella competenza esclusiva degli stati, se ne era dedotto che la schiavitù cadeva in questa competenza. Ma i territori? I territorî erano costituiti e organizzati dal Congresso, erano un condominio federale. Se la schiavitù vi era ammessa, difficile sarebbe stato estirparla, una volta che il territorio fosse salito al grado di stato; ma ancora più difficile sarebbe stato introdurla in quello stato che l'avesse ignorata quand'era ancora territorio. Ora gli stati schiavisti del sud non ignoravano che, tolto il Texas, la massima parte dei nuovi acquisti - come il caso della California provava - non si prestava per la sua costituzione fisica a quelle colture che davano incremento allo schiavismo. Era perciò prevedibile che i numerosi stati che sarebbero nati dai recenti acquisti sarebbero stati "liberi" e avrebbero aggravato lo squilibrio a danno degli stati schiavisti. Poteva essere non lontano il giorno in cui gli stati liberi fossero nel Congresso in maggioranza così schiacciante da imporre, per legge federale, con un emendamento della costituzione, l'abolizione della schiavitù negli stati del sud. Per combattere a tempo questo pericolo gli schiavisti videro un rimedio nell'annessione di altre terre, predisposte per condizioni di clima e di coltura del suolo allo schiavismo e gettarono gli occhi su Cuba e sulle deboli repubbliche dell'America Centrale. Il nuovo presidente Franklin Pierce democratico (1853-57; al Taylor, morto nel luglio 1850, era succeduto il vicepresidente M. Fillmore, 1850-53) è loro favorevole. Il governo federale non reprime i troppo frequenti colpi di mano di filibustieri, che si atteggiano a tardi imitatori del Jackson: così quello su Cuba nel 1851, così quelli replicati di William Walker, avventuriero del Tennessee, sul Nicaragua e sull'Honduras fra il 1855-60. Anzi tollera che (1854), in un momento di tensione con la Spagna, uomini responsabili come i ministri degli Stati Uniti in Francia, Inghilterra e Spagna, riuniti a Ostenda, pubblichino un manifesto con minacce alla Spagna se, con le buone o con le cattive non cede Cuba.
I motivi che portavano in così aspro contrasto schiavisti e antischiavisti non erano motivi soltanto di natura economica, né soltanto di natura morale; benché si possa dire che i primi prevalessero fra gli assertori dello schiavismo, i secondi fra gli oppositori. Nell'ultimo ventennio un'ondata di umanitarismo si era diffusa fra la borghesia cittadina del nord, specie di certe confessioni religiose (metodisti, quaccheri, ecc.); ne erano sorte istituzioni caritatevoli, miglioramento nel trattamento dei debitori, nella disciplina militare, progetti di pace mondiale, idee di fratellanza universale, di libertà dei popoli (le simpatie verso gli Ungheresi e gl'Italiani erano state vive nel 1848), lotta contro l'alcolismo; e, per coerenza, liberazione degli schiavi, abolizione della schiavitù. È sempre facile essere generosi con la roba altrui; nel nord i Negri erano pochi ed erano liberi; e l'abolizione era intesa senza indennità ai proprietarî. Nel 1831 un fanatico abolizionista, W. L. Garrison, aveva cominciato a pubblicare a Boston il suo Liberator, così eccessivo che trovava chi da lui dissentiva anche nel nord. Ma gli aderenti aumentavano; alla causa abolizionista affluivano mezzi finanziarî, si aprivano collegi e scuole per i Negri, si formavano società abolizioniste (nel 1840 già esse contavano più di 150 mila membri), si costituivano fondi per far fuggire gli schiavi, si allacciavano legami con analoghe società inglesi, si vantavano simpatie straniere (Ch. Dickens, p. es.), si agitava la questione in opuscoli, giornali, romanzi (il famoso Uncle Tom's Cabin di H. Beecher Stowe è del 1852), la si prospettava come un imperativo morale; si asseriva che la nazione non poteva avanzare sulle vie del progresso civile finché un sesto della popolazione era tenuto in schiavitù, sotto il peso di un lavoro coatto che faceva una spietata concorrenza al lavoro libero dei Bianchi. Tutto questo complesso di idee e di sentimenti si rifletteva nella legislazione degli stati del nord. Mentre associazioni segrete come la U. G. (Under Ground Railroad) provvedevano a far passare clandestinamente gli schiavi fuggitivi dagli stati schiavisti al Canada, gli stati liberi mettevano mille ostacoli procedurali per rendere difficile, se non impossibile, ai proprietarî di riavere i fuggitivi scampati in stati liberi; ché lo schiavo, anche in uno stato libero, rimaneva una "cosa" che doveva essere restituita al legittimo proprietario. Altra lingua parlavano i sostenitori del mantenimento della schiavitù. Di fronte a questa crociata, condotta nel nome di alti principî ideali, non era facile per essi appigliarsi ad altri principî della stessa forza. Necessariamente, dovevano ricorrere ad argomenti di ordine pratico-politico; argomenti che facevano ricadere sugli schiavisti l'accusa di inumani ed egoisti. Bella cosa i principî, obiettavano gli schiavisti; ma, a parte la questione puramente economica della mano d'opera, bisognava venire nel sud per conoscere da vicino i Negri. Su 100 Bianchi vi erano negli stati del sud 59 Negri, nel 1850; e negli stati cotonieri, la proporzione saliva a 89 Negri contro 100 Bianchi; in qualche stato, come la Carolina del Sud la popolazione negra superava numericamente la bianca. Era facile ai nordisti parlare di abolizionismo, essi che contavano sul loro suolo appena un Negro libero di fronte a 100 Bianchi. Ma abolire la schiavitù nel sud, equiparare il Negro al Bianco nei diritti civili e politici significava sfidare la coscienza pubblica che vedeva nel Negro un essere inferiore, degno di compatimento, generalmente ben trattato anche, ma sempre inferiore; significava scatenare una lotta di razze. Accanto a questi sentimenti di repulsione istintiva profondamente radicati, l'abolizionismo avrebbe leso e distrutto interessi formidabili. Gli schiavi negri rappresentavano un capitale enorme; uno schiavo giovane, atto al lavoro, costava circa 500 dollari nel 1832, 1300 nel 1836 per salire a 1500 e oltre nei cinque lustri seguenti. Abolire la schiavitù con un tratto di penna significava rovinare gli stati del sud; e non solo pochi ricchissimi latifondisti, ma numerosissimi medî e piccoli proprietarî che possedevano qualche schiavo o poco più (nel 1850 negli stati del sud il 73% dei proprietarî possedeva non più di 9 schiavi; il 24% da 10 a 50 schiavi e solo il 3% più di 50 schiavi). Per la grande maggioranza l'abolizione significava essere ridotti al grado di quei proletari poor Whites che già erano troppo numerosi nel sud. E ciò in anni in cui il massimo prodotto del sud, il cotone, calava tremendamente di prezzo, mentre i prodotti industriali del nord salivano e nel 1850 il valore della loro esportazione superava per la prima volta quello dell'esportazione dei prodotti agricoli. Gli uomini del sud, già prevenuti contro il nord che aveva imposto a proprio profitto le tariffe doganali, lo accusavano di congiurare contro il sud per rovinarlo e non erano disposti a lasciarsi sacrificare a ubbie umanitarie senza strenua resistenza. Anche a costo di separarsi dall'Unione. Fra queste posizioni estreme di abolizionisti e di schiavisti, vi era stato posto per tendenze di compromesso, sollecite soprattutto di salvare l'Unione federale. Ma dopo il 1850 ogni transazione diventa più difficile e precaria. Da un lato gli abolizionisti intensificano la lotta, si fanno forti della loro posizione ideale che gli schiavisti non possono contestare che con ragioni di opportunità, proclamano alto che l'Unione può vivere solo a patto che sia lavata la macchia della schiavitù che la disonora in faccia al mondo; dall'altro lato gli schiavisti comprendono che, ove non corrano a pronti ripari, lo sviluppo rapido dell'Unione e il costituirsi di nuovi stati nel nord, li porrà in una situazione senza uscita. È chiaro agli uni e agli altri che l'Unione resisterà solo se sarà o tutta abolizionista o tutta, almeno in diritto, schiavista. Gli schiavisti passano all'offensiva: ciò li perderà. Come primo passo si vuole l'abrogazione del compromesso del Missouri. Nel 1853 S. A. Douglas, senatore democratico dell'Illinois (d'uno stato libero, quindi, ma tenuto, come democratico, a compiacere al sud), propone, con l'apparenza di un compromesso, che nell'istituire i due nuovi territorî del Nebraska e del Kansas, entrambi a nord della linea del compromesso del Missouri, si lasci agli abitanti il diritto di decidere se il territorio doveva essere libero o schiavista (teoria della squatters sovereignty). La proposta fu approvata dal Congresso (23 gennaio 1854). Con ciò si veniva, implicitamente, ad abolire il compromesso del Missouri e ad ammettere la schiavitù anche in regioni finora libere.
La legge scatenò un'ondata di indignazione nel nord. Gli Anti-Nebraska Men, comprendenti non tanto gli abolizionisti fanatici quanto quella larga massa che aveva sperato di salvare l'Unione e di evitare la guerra civile respingendo soluzioni radicali, si convinsero alfine che il tempo dei compromessi era passato: nel luglio 1854, essi posero le basi del nuovo partito repubblicano schiettamente abolizionista. Si contrapposero i due partiti nelle elezioni presidenziali del 1856: prevalsero ancora una volta, e fu l'ultima, i democratici col loro candidato James Buchanan (1857-61); ma fu una vittoria sudata, benché il nuovo partito repubblicano non avesse ancora perfezionata la sua organizzazione, e vittoria dovuta alla fedeltà dei democratici del nord che non erano schiavisti convinti, ma nemmeno volevano per tale questione rompere i legami e gl'interessi di partito col sud. I democratici sentirono tuttavia che alle prossime elezioni sarebbe stata, forse, la sconfitta; e però, se non riuscirono a impedire l'entrata nell'unione di due nuovi stati liberi, il Minnesota (1858) e l'Oregon (1859), si permisero di giocare d'audacia, sfidando le leggi con la tratta quasi ostentata degli schiavi; ottenendo ragione davanti alla Corte suprema in clamorosi dibattiti relativi a schiavi fuggitivi (affare Dred Scott, 1857); patrocinando, con l'illegale costituzione di Lecompton (settembre 1857), l'ammissione del Kansas come stato schiavista. Nel 1858 le elezioni senatoriali nell'Illinois assursero a importanza nazionale, perché vi si opposero il leader democratico Douglas e il repubblicano Abramo Lincoln. Lincoln soccombette per pochi voti; ma nella lunga campagna s'impose all'attenzione della nazione, costringendo, con serrata dialettica, l'avversario a smascherare i punti deboli e contraddittorî del programma democratico, il quale, mentre concedeva al territorio il diritto di istituire o di abolire la schiavitù, contestava questo stesso diritto al Congresso creatore del territorio.
La guerra di secessione (1861-65). - Dopo la campagna elettorale nell'Illinois, Abramo Lincoln fu presentato come candidato repubblicano nelle elezioni presidenziali del r860. Pochi ancora conoscevano in lui quelle doti superiori che egli rivelò durante la guerra e che nel riverente ricordo degli Americani più lo avvicinano al ritratto morale di Washington: fermezza di carattere, senso della misura, serena costanza nelle situazioni più gravi. La vittoria dei repubblicani, resa più agevole per dissidî sorti fra i democratici del nord e quelli del sud, non significava, a stretto rigore, una minaccia immediata allo schiavismo. Gli stati del sud avrebbero potuto ancora battersi per le vie legali. Ma coerentemente alla tattica aggressiva degli ultimi anni, vollero precorrere gli avvenimenti. Ancora in carica Buchanan, la Carolina Meridionale si dichiarò sciolta dall'Unione (20 dicembre 1860); la seguirono, nel gennaio 1861, altri sei stati: Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Luisiana e Texas. Ciò facendo, gli stati del sud erano fermamente persuasi di esercitare nulla più che un loro elementare diritto. L'Unione non era forse nata dalla spontanea associazione di stati liberi, quasi come una società commerciale, ai fini di un comune vantaggio? Venendo a mancare questo fine comune, opponendosi anzi l'Unione a un loro vitale interesse, non avevano diritto gli stati schiavisti di fare parte a sé? Il 4 febbraio 1861 i sette stati dissidenti riunitisi a Montgomery (Alabama) si davano un nuovo governo: "Stati confederati d'America", presidente Jefferson Davis. Non si intendeva con ciò di rompere ogni ponte, ma piuttosto di esercitare una minaccia abbastanza grave perché il governo federale, necessariamente sollecito di salvare innanzitutto l'Unione, desse sicuri affidamenti al sud in fatto di schiavitù. Calcolo giusto nelle premesse, ma erroneo nelle deduzioni, specie con un uomo della tempra di Lincoln. Egli assunse il potere il 4 marzo 1861. Non minacce al sud nel suo messaggio presidenziale, ma l'irrevocabile volontà di difendere l'Unione e di applicarne le leggi; senza effusione di sangue, se possibile, a meno che non ve lo costringessero i dissidenti. Il caso previsto e temuto si verifico. Fort Sumter, posto a guardia del porto di Charleston, era stato bloccato dai secessionisti. Lincoln dichiarò netto che al primo colpo di cannone il governo federale avrebbe risposto con la guerra. Dopo tre mesi di attesa snervante, il 12 aprile 1861, i secessionisti presero il forte sotto il fuoco dei loro cannoni. Lincoln risponde chiamando alle armi le milizie. Di fronte al precipitare degli avvenimenti, gli altri stati del sud prendono posizione: la Virginia (salvo la parte occidentale che rimase fedele all'Unione e che nel 1863 fu eretta a stato a sé), l'Arkansas, il Tennessee e, ultima, la Carolina Settentrionale (20 maggio 1861) entrarono nella Confederazione. Gli altri quattro stati schiavisti (i cosiddetti stati di frontiera) rimasero nell'Unione o perché avversi all'idea della secessione (Maryland, Delaware) o perché troppo divisi fra unionisti e secessionisti (Kentucky e Missouri). Le previsioni sulle sorti della guerra non potevano essere dubbie, se si prendeva in considerazione solo il rapporto numerico delle forze: i 19 stati del nord avevano una popolazione bianca di quasi 19 milioni, mentre gli 11 stati del sud non superavano i 5½ milioni di Bianchi. Nel corso della guerra il sud mise in campo circa 800.000 soldati contro 2 milioni circa del nord. Il nord era ricco di risorse, di industrie, di commerci, di una flotta mercantile e di una flotta da guerra, che quasi senza eccezione rimase fedele al governo federale. E avere la flotta significava potere, se non bloccare del tutto, almeno ridurre di molto il commercio d'esportazione del cotone di cui il sud principalmente viveva. Ma appunto su questo argomento faceva affidamento il sud, calcolando che gl'industriali cotonieri inglesi, privi della materia prima, avrebbero costretto il governo britannico a esigere la revoca del blocco e a intervenire a favore del sud; e anche sull'intervento francese si calcolava. Calcoli erronei. Il 13 maggio 1861 l'Inghilterra dichiarò la neutralità, né più da quell'atteggiamento si mosse; Napoleone III intervenne, ma nel Messico ove sperava di dare corpo a un suo sogno imperiale. Ma di fatto, il sud aveva sul nord qualche vantaggio reale. Era militarmente meglio preparato al cimento, mentre la Unione, al principio delle ostilità, poté contare poco più che sui 16 mila uomini dell'esercito federale permanente. Il nord era ben provvisto di materiale umano, ma era un materiale privo di ogni preparazione militare. Nel sud le tradizioni e l'esperienza militare erano più vive; la carriera delle armi aveva sempre attratto più che nel nord i figli delle famiglie aristocratiche. Nessuna meraviglia che il corpo degli ufficiali, posto a scegliere fra il nord e il sud, desse un contingente incomparabilmente migliore e più numeroso al sud. Ma il maggior vantaggio, per il sud, derivava dal fatto che esso, a differenza dal nord, non si prefiggeva di ricomporre un'unione che comprendesse anche gli stati del nord; il sud aveva partita vinta, se riusciva a difendere la Confederazione e a ottenerne il riconoscimento; il nord solo se riusciva a imporre agli stati del sud di sciogliere la Confederazione e di rientrare nell'Unione. Il sud poteva limitarsi alla difesa del proprio territorio; il nord doveva difendere il proprio e conquistare quello avversario.
Le operazioni si svolsero in tre distinti teatri di guerra: uno, orientale, fra i monti del Blue Ridge, il Potomac e la baia di Chesapeake, fu considerato il principale, come quello che comprendeva lo stato principale della Confederazione, la Virginia, con la piazzaforte di Richmond, e minacciava da presso Washington; il secondo, quello occidentale, si estendeva dai Monti Appalachiani al Mississippi; il terzo, a occidente del Mississippi, non vide azioni militari di grande rilievo. Dopo oltre due mesi di preparazione, la prima mossa offensiva dei nordisti sul Bull Run a sud-ovest di Washington (2i luglio 1861) fu uno scacco e provò soltanto l'inesperienza delle truppe e degli ufficiali. Lincoln chiamò al comando generale dell'esercito G. B. Mc Clellan, ottimo organizzatore, che ebbe almeno chiara la visione che occorreva una lunga preparazione. Dispose le truppe a difesa sul Potomac contro quelle sudiste del generale J. E. Johnston e spese ogni cura nell'addestramento dei numerosi volontarî. Si era detto nel sud e nel nord che la guerra si sarebbe risolta in 90 giorni; ora si cominciava a capire che la lotta sarebbe stata lunga. Più attiva fu in questo primo anno la flotta unionista; ma essa, con le sue 70 navi, fra cui, le più, antiquate, e solo una dozzina a vapore, non poté rendere effettivo il blocco né impedire del tutto il commercio con i porti sudisti né il contrabbando, specie con le isole Bahama inglesi. Solo verso la fine del 1861, con l'occupazione di punti forti che comandavano l'accesso ad alcuni porti (p. es., Hilton Head nella Carolina Meridionale), il blocco divenne più efficiente; con qualche spiacevole incidente tuttavia, come quello avvenuto allorché la flotta unionista arrestò dei delegati secessionisti su una nave inglese, il Trent, onde derivò una grave controversia diplomatica composta a fatica. Solo nel 1862 l'attività bellica si fa più intensa: comincia nell'ovest a mettersi in vista un comandante allora in sottordine, U. S. Grant, che s'impadronisce di Fort Henry e Fort Donelson, al confine fra il Kentucky e il Tennessee, e risalito il fiume Tennessee strappa una dura vittoria a Shiloh (6-7 aprile 1862). Con ciò una buona parte del Tennessee era riguadagnata all'Unione, mentre per il movimento combinato di flottiglie dal nord e dal sud (quest'ultime comandate dall'unionista D. G. Farragut, che il 26 aprile aveva occupato New Orleans) si rendeva quasi per intero libera per l'Unione l'importante via fluviale del Mississippi, cuore degli Stati Uniti. Anche sull'Atlantico (a Hampton Roads davanti a Norfolk) gli unionisti avevano avuto successi, adoperando contro una nave corazzata sudista, la Merimac, quel nuovo tipo di navi corazzate a basso bordo, potentemente armate di artiglierie di grosso calibro sistemate in torretta, che dal nome della prima costruita si dissero monitori. Ma sul teatro principale la superiorità strategica del generale secessionista Robert E. Lee s'imponeva. L'opinione pubblica unionista era impaziente; chiedeva la marcia su Richmond. McClellan, temporeggiatore per natura, non giudicava ancora compiuta la preparazione dell'esercito; ma dovette cedere alle istanze dei politici. Nel maggio 1862 si portò in una regione boscosa fino a poche miglia a oriente da Richmond, nella penisola di York percorsa dal Chickahominy; ma il sudista "Stonewall" Jackson minacciò di tagliargli le comunicazioni con Washington. Per sette giorni (26 giugno-2 luglio), fra scontri continui, Lee e McClellan impiegarono le risorse più raffinate dell'arte bellica; infine l'unionista, benché superiore di forze, ripiego sul Potomac, troncando senza visibili risultati questa che fu detta la "campagna peninsulare". La Confederazione si considerò prossima alla vittoria: il Lee prese l'offensiva, sconfisse gli unionisti sul combattuto terreno del Bull Run (o di Manassas: 29-30 agosto) e minacciò d'invadere il Maryland. Momento grave per l'Unione. Ma nell'accanita battaglia dell'Antietam (o di Sharpburg: 17 settembre 1862) la vittoria rimase incerta; per gli invasori significò la necessità di ritirarsi. Cinque giorni dopo il Lincoln proclamava la libertà di tutti gli schiavi, a partire dal 1° gennaio prossimo. Proclamazione nell'apparenza platonica, finché il sud si sottraeva all'autorità del governo federale, ma proclamazione che dava alla guerra un carattere di crociata, che troncava ogni possibilità di compromesso che i democratici del nord potessero promuovere, e d'una mediazione anglo-francese che Napoleone III sollecitava a Londra. Nel novembre, il generale A. E. Burnside, successore del McClellan, riprese l'idea di un'offensiva su Richmond, ma fu battuto a Fredericksburg (13 dicembre 1862) una delle sconfitte più clamorose e sanguinose dell'Unione in questa sanguinosissima guerra. Come già da alcuni mesi la Confederazione (aprile 1802), così ora l'Unione dovette ricorrere alla coscrizione obbligatoria, approvata dal Congresso il 3 marzo 1863; sistema così contrario allo spirito anglosassone che provocò furiose rivolte, specie a New York, nei primi mesi di applicazione. Anche la situazione finanziaria si aggravò nei due campi e, com'è naturale, più nel sud che nel nord. Mentre il nord provvide, almeno in parte, con prestiti interni, con aumenti di imposte e di tasse, oltre che con l'inflazione, il sud ebbe ricorso quasi unicamente a questo disastroso sistema. Il dollaro della Confederazione valeva nel 1803 solo 33 centesimi di dollaro oro; nel 1865 solo 1,6 centesimi. Qualche successo potevano vantare gli unionisti nell'ovest (Murfreesboro o Stone River: 31 dicembre-2 gennaio 1863); ma qui le operazioni richiedevano necessariamente tempo, perché concentrate nell'assedio di Vicksburg, punto munitissimo sul basso Mississippi dominante le comunicazioni ferroviarie con la Luisiana e il Texas. Nell'est i sempre rinnovati tentativi contro Richmond non davano altro risultato se non quello di compromettere la fama dei migliori generali dell'Unione. Era un continuo esperimentare di nuovi comandanti. Ecco ora, dopo il Burnside, Joe Hooker: anch'egli si gioca il suo buon nome nella battaglia di Chancellorsville (1-4 maggio 1863); un vero disastro che incoraggiò il Lee a prendere l'offensiva e a invadere la Pennsylvania. Ma qui le sorti della guerra si volsero, finalmente, a favore dell'Unione: la battaglia di Gettysburg (1-3 luglio 1863) se non fu una schiacciante vittoria unionista, pure costrinse Lee a ritirarsi. Il giorno dopo, nell'ovest, il Grant si impadroniva di Vicksburg (4 luglio). Padrone della linea del Mississippi, il Grant mirava, procedendo verso l'Atlantico, a spezzare in due il territorio della Confederazione. Punto cruciale era Chattanooga, che comandava le comunicazioni ferroviarie. Lì presso, sul Chickamauga, i secessionisti ebbero ancora un vantaggio nel settembre; ma nella grande battaglia di Chattanooga (24-25 novembre 1863) il Grant li mise in piena rotta. La Georgia era aperta all'invasione unionista; la capitale Atlanta cadeva nelle mani del generale W. T. Sherman. Il Grant, elevato al grado che era stato di Washington (luogotenente generale) assumeva il comando delle operazioni nella Virginia (marzo 1864). Egli intraprendeva nel maggio-giugno un'audace campagna (la Wilderness Campaign) nella regione, rotta da corsi d'acqua, boscaglie e paludi a occidente di Richmond, cercando di avviluppare Lee sulla sinistra, attraverso aspri combattimenti quasi quotidiani, nei quali spesso venne applicata la nuova tattica della guerra di trincea. Il Grant non si lasciò smuovere nemmeno da una pericolosa scorribanda secessionista fino a poche miglia da Washington (luglio 1864). Lo Sherman con audacissima marcia attraverso la Georgia puntava sull'oceano e lo raggiungeva occupando Savannah (10 dicembre). Il 27 dello stesso mese, G. H. Thomas, unionista benché virginiano di nascita, vinceva a Nashville forze sudiste ripiombate nel Tennessee. Oramai la Confederazione era ridotta alle due Caroline e alla Virginia. Anche la resistenza morale del sud era agli estremi. Lo Sherman dal sud montava verso Richmond, si univa al Thomas. Il 3 aprile il Grant entrava in Richmond; il 9 il Lee, quasi accerchiato da forze soverchianti, si arrendeva a lui nel piccolo villaggio di Appomattox Court House, a occidente di Richmond. Era la fine della guerra. Il 10 maggio il presidente fuggitivo della Confederazione era catturato nella Georgia; il 26 l'ultima armata sudista oltre il Mississippi si arrendeva. Ma già il 14 aprile, all'indomani della vittoria che per tanta parte era la vittoria della sua indomita fermezza, il presidente Lincoln cadeva vittima, per mano di J. W. Booth, di una congiura che invano sperava, sopprimendone il primo artefice, di stroncarne anche l'opera: l'unificazione nazionale.
La ricostruzione nazionale e lo sviluppo economico (1865-1896). - Con la tragica fine del Lincoln l'Unione perdeva un capo d'indiscussa autorità, che avrebbe saputo, con fermezza e moderazione, affrontare il gravissimo problema: come riconquistare il sud, oltre che militarmente, anche moralmente, come ricostruire l'unione nazionale e pluribus unum secondo il motto iscritto nell'emblema nazionale. Il vicepresidente Andrew Johnson (1865-69) che assunse la presidenza non fu all'altezza del compito. Negli stati del sud tutto era da rifare. Era evidente che l'occupazione militare doveva cedere a governi costituiti da uomini che godessero la fiducia del paese. Il presidente Johnson sarebbe stato conciliante; ma non seppe imporsi al Congresso che voleva trattare il sud con i sistemi che si applicano ai vinti. Non soltanto il Congresso pretese - e dopo la vittoria poteva essere una giusta pretesa - il riconoscimento del XIII emendamento alla Costituzione che aboliva la schiavitù, ma andò oltre: rifiutò di accogliere nel suo seno come rappresentanti del sud quanti avevano combattuto nel campo sudista, cioè gli uomini più degni del sud; non si accontentò di avere accordata ai Negri la libertà personale: col XIV emendamento (13 giugno 1866) volle concedere a essi anche tutti i diritti politici, compreso quello di voto. Bisognava ignorare le condizioni del sud per non comprendere l'enormità di tale disposizione; applicata integralmente, veniva a significare che la vita e gli averi dei Bianchi erano abbandonati alla discrezione di uomini ignoranti, vendicativi, pur ieri schiavi. Degli undici stati del sud, tutti meno uno - il Tennessee - si rifiutarono di ratificare il XIV emendamento e fecero resistenza passiva. Col Reconstruction Act del 2 marzo 1867 il Congresso sottopose di fatto i dieci stati recalcitranti alla legge marziale: e all'ombra protettrice delle baionette federali si formarono dei governi cosiddetti "ricostruiti", che non erano certamente l'espressione del sud, ma un'accozzaglia di avventurieri e mestatori calati dal nord (i cosiddetti carpet-baggers) e di Negri senza lavoro e senza pane, illusi o delinquenti. Questi furono i governi che riportarono il sud al Congresso; ne rimanevano ancora fuori Virginia, Texas e Mississippi, dove il disinvolto sistema ricostruttivo non era riuscito. Governi allegri che fecero man bassa delle pubbliche finanze, immiserendo ancor più il sud, già rovinato per la guerra. Il presidente Johnson cercava, col diritto di veto, di arginare il malgoverno del Congresso; nel 1868 entrò in fiero conflitto con esso; la Camera dei rappresentanti citò il presidente davanti al Senato per delitto di alto tradimento (in realtà il Johnson si era permesso di licenziare un suo ministro senza il preventivo consenso del Senato). Per quattro mesi si assistette allo spettacolo di un presidente sul banco degli accusati: fu assolto per un solo voto di maggioranza (maggio 1868). Ma la più valida difesa contro le angherie del Congresso il sud trovò in sé stesso. Si formarono delle associazioni segrete: la più famosa, anche se non la più efficiente, il Ku-Klux Klan, che con le sue mascherate notturne terrorizzava le fantasie impressionabili dei Negri; con tutti i mezzi si cercò di intimidirli, di distoglierli dall'esercizio del diritto di voto, di imporre a essi il senso delle distanze sociali e di razza. Poi un po' per volta l'elemento bianco indigeno del sud venne riprendendo il suo posto nel governo degli stati, soppiantando a poco a poco gli intrusi carpet-baggers. L'amnistia del 1872 permise il quasi generale ritorno alla vita pubblica dei compromessi nella guerra di secessione. Gli odî via via illanguidirono; nuove generazioni montavano. Anche nel nord, veniva spegnendosi quello spirito di vendetta che aveva dominato il Congresso durante la presidenza Johnson. Ma sotto le due presidenze del generale Grant (1869-73 e 1873-77) ancora prevalse l'interessato criterio che il governo dell'Unione apparteneva a coloro che avevano salvato l'Unione; vale a dire, monopolio del partito repubblicano. Il Grant come politico non dimostrò le belle qualità che avevano fatto di lui l'eroe di Vicksburg. Si considerò lo strumento del suo partito, personalmente onesto, si circondò di gente di dubbia moralità; per debolezza e per partigianeria tollerò scandali inauditi nella pubblica amministrazione, favoritismi vergognosi verso speculatori sulle forniture militari, sulle dogane, sulle ferrovie che in quegli anni venivano costruite con un ritmo vertiginoso. Personalità del governo e del Congresso furono coinvolte in scandali; le amministrazioni locali caddero preda di politicanti affaristi o profittatori di professione che formarono vere e proprie organizzazioni (rings) per dilapidare il pubblico denaro; tristamente famoso il Tweed Ring di New York. Funzionarî federali si prestarono a ordire e a coprire scandali. Una reazione si manifestò nell'ala "liberale" dello stesso partito repubblicano, la quale chiese la riforma del servizio civile e la fine della politica di oppressione contro i Bianchi del sud. Nelle elezioni presidenziali del 1876 quest'ala liberale si alleò con i democratici; il risultato delle urne diede motivo a gravi e fondate contestazioni da parte dei democratici. Fu dato a una commissione mista il compito di sbrogliare l'intricata matassa: con un voto di maggioranza fu proclamato presidente il candidato repubblicano R. B. Hayes (1877-81). Si inaugura con lui un periodo di pacificazione generale. Il sud fu liberato delle ultime vestigia di minorità politica e poté regolare da sé le proprie faccende, senza sottostare alla tirannia dei repubblicani radicali del congresso. Il problema della convivenza delle due razze era, ed è anche oggi, sempre aperto. Per affermare la loro supremazia politica i Bianchi del sud introdussero a poco a poco nelle legislazioni degli stati, in margine agli emendamenti XIII, XIV e XV (quest'ultimo vietava all'Unione e ai singoli stati di revocare o limitare il diritto di voto ai Negri), tutto un sistema di sottili accorgimenti, di interpretazioni capziose, di restrizioni ingegnose per ridurre a poco o nulla la libertà d'azione politica dei Negri, per toglierle ogni reale efficienza. Ove non bastasse, c'era il ricorso saltuario a mezzi di intimidazione come il linciaggio. È il sistema che vige anche oggi nel sud come in ogni altro stato dell'Unione dove sia preoccupante la massa delle genti di colore. Il Hayes fece onesti sforzi per sanare la pubblica amministrazione, caduta molto in basso per i sistemi partigiani. Ci riuscì in parte; ciò che gli valse dai repubblicani l'epiteto ironico di halfbred (come dire il repubblicano di sangue misto) e gli costò di non essere ripresentato alle elezioni del 1880. Il partito gli preferì J. A. Garfield, che riuscì eletto. Ucciso costui dopo soli quattro mesi di presidenza da un sollecitatore di impieghi deluso, Ch. J. Guiteau, gli sottentrò il vicepresidente Ch. A. Arthur (1881-85). Questi finalmente riuscì a fare approvare una legge (legge Pendleton, 1882) per la riforma dell'amministrazione; ma con ciò egli non faceva che mettersi al rimorchio del partito democratico che con questo programma aveva trionfato nelle elezioni per il Congresso del 1882. La superiorità democratica si riaffermò nelle elezioni presidenziali del 1884. Dopo 24 anni di governo - e a volte di sgoverno - repubblicano, ecco un presidente democratico, Grover Cleveland (1885-89). Ma è doveroso riconoscere gl'immensi progressi fatti dagli Stati Uniti nel campo economico durante questi 24 anni. Ne era stata un simbolo evidente l'esposizione universale di Filadelfia, nel 1876, primo centenario dell'indipendenza. L'espansione verso l'ovest e il nord non aveva cessato un momento; le tribù indiane avevano dovuto indietreggiare, sotto questa pressione incessante ridursi nelle "riserve" federali; le loro praterie, dove prima vagavano i bisonti, davano ora pascolo a immense mandre d'allevamento, che le ferrovie portavano rapidamente ai più lontani mercati; altre parti estesissime erano coltivate a cereali, secondo sistemi industrializzati di agricoltura. Anche il sud partecipava a poco a poco a questo progresso agricolo. Ma più impressionante era lo sviluppo industriale nel nord-est, nella regione dei laghi, sul versante occidentale degli Allegani, presso i giacimenti minerarî: le industrie meccaniche si sviluppavano, sorgevano città fumanti. E parallelamente si organizzavano i sindacati operai (i Knights of Labor dal 1869) e si acuivano, specie dopo la crisi finanziaria del 1873, i conflitti con le classi padronali: asprissimi quelli di Pittsburg nel 1877. Nell'agricoltura, ma più nell'industria, trovava sfogo l'immigrazione europea che vedeva negli Stati Uniti la terra delle possibilità infinite: oltre tre milioni di immigrati nel decennio 1870-80. Bene accolti in genere, perché il paese aveva bisogno di braccia, perché in maggioranza nordici (Irlandesi, Tedeschi, Scandinavi) e però assimilabili con relativa facilità. Tutta la vita degli Stati Uniti era talmente vibrante per i fermenti interni che quasi sembrava estraniarsi a quanto si svolgeva fuori di essa, in Europa e altrove, quasi non conoscesse problemi di politica estera. Liquidati con un arbitrato gli strascichi della guerra di secessione nei suoi riflessi esteriori (principale quello con la Gran Bretagna, che aveva permesso a qualche vascello secessionista, come l'Alabama, di armarsi in porti inglesi), l'Unione, con l'inviare truppe alla frontiera messicana (1865), induce Napoleone III a richiamare dal Messico il corpo spedizionario francese; nel 1866, ispirandosi a scopi puramente commerciali, compera dalla Russia l'Alasca, nota per la ricchezza di legname e di animali da pelliccia, non ancora per i giacimenti auriferi. Poi, per oltre un ventennio, l'Unione si chiude in sé stessa, tutta occupata nell'assestare il suo prodigioso sviluppo economico e demografico.
Dopo la vittoria democratica del 1884 il peso, anche politico, dei grandi interessi industriali si fece sentire con sempre maggiore insistenza. I partiti politici, cadendo sotto l'influenza di queste grandi forze economiche e finanziarie, dovettero ognor più impostare i loro programmi secondo i grandi interessi. I problemi economici diedero il bando ai problemi più squisitamente politico-ideali, imponendosi crudamente, senza orpelli e mascherature. Il Cleveland, carattere indipendente, avrebbe voluto abbassare le tariffe doganali, dato che esse bastavano a coprire largamente le necessità del tesoro federale. Ma su questo punto trovò debole appoggio nel suo partito e fiera resistenza nel partito repubblicano, sostenuto dai trusts industriali. In questa guerra d'interessi, nella quale egoismi di classe erano messi in piazza senza pudore, i sindacati operai trovavano argomenti in abbondanza per denunziare le inframmettenze politiche dell'alta finanza e della grande industria, per chiedere l'intervento di leggi federali a protezione delle classi lavoratrici. Gli anni 1886-87 furono gravemente turbati da agitazioni operaie, scioperi e conflitti a mano armata. Nel protestare contro la grande industria si univano gli agricoltori i quali, non senza ragione, accusavano le possenti compagnie ferroviarie di proteggere scandalosamente, con tariffe preferenziali, certe industrie e certi trusts petrolieri (la Standard Oil Company, per es.) a danno dei produttori agricoli. Il Congresso era troppo legato agl'interessi industriali per intervenire efficacemente: votò (febbraio 1887) l'Interstate Commerce Act, che praticamente portò poco rimedio. Ma l'aver proposto riduzioni tariffarie costò a Cleveland la presidenza nelle elezioni del 1888. Tornarono al potere i repubblicani con B. Harrison (1889-93); e con maggior baldanza, che tosto si manifestò nell'approvazione della nuova tariffa McKinley, ancor più protettiva; nella legge Sherman (1890), che imponeva al tesoro federale l'acquisto di argento, a tutto profitto dei potenti proprietarî di miniere dell'ovest; nell'energia, a momenti eccessiva e del tutto nuova, nella politica estera, foriera di un vero e proprio imperialismo americano. Azione questa, più che del presidente, figura scialba, del suo dinamico segretario di stato James G. Blaine. Egli volse gli occhi all'America latina, dove si propose di battere la concorrenza commerciale britannica: nell'inverno 1889-90 convocò tutti gli stati dell'America latina a una conferenza panamericana, prima di una serie saltuaria che continua ancora; e adattando al panamericanismo la dottrina di Monroe, grandi progetti vi sciorinò: unione doganale, ferrovia intercontinentale, ecc. Ma parallelamente anche politica di forza: nel 1891 gonfiò deliberatamente un incidente col Chile fino a farne quasi un casus belli; altro incidente con l'Inghilterra per la pesca delle foche nel mare di Bering (1891); e un altro con l'Italia (1891) in cui dovette riconoscersi in torto, per l'assassinio di emigrati italiani a New Orleans. Bilancio passivo, in sostanza; ma ecco l'attivo: 1889, prima presa di possesso, regolata poi nel 1899, di alcune delle Isole Samoa; 1893, primo intervento nelle Isole Hawaii, che porterà poi alla loro annessione, nel 1898. Tutto ciò poteva meritare ai repubblicani il suffragio degli elettori nelle elezioni presidenziali del 1893; ma in quello stesso anno una delle ricorrenti crisi finanziarie, un diffuso malessere nelle classi medie e operaie, il disinteressamento dei più ai problemi dell'espansione nel Pacifico portarono alla vittoria i democratici e il Cleveland fu presidente per la seconda volta (1893-97). Per quanto ben disposto verso le classi operaie, fu costretto ad adoperare le forze federali per soffocare pericolosi moti operai a sfondo anarcoide, specie a Chicago nel 1894; e per quanto antimperialista, pur fece la voce grossa - anzi troppo grossa - in una questione per le frontiere fra il Venezuela e la Guiana inglese, da cui gli Stati Uniti avrebbero potuto benissimo astenersi. Ma per dritto o per rovescio, ci si volle far entrare la dottrina di Monroe e applicarla a favore del Venezuela. La questione si invelenì al punto che, alla fine del 1895, per poco non si venne alla guerra fra le due nazioni anglosassoni. Quest'eventualità fu considerata in Inghilterra quasi un delitto; le teste responsabili mantennero il sangue freddo e spiegarono propositi concilianti. Tutto si accomodò con un arbitrato che, anche se non ratificato dal Senato, pur valse ad attenuare una tensione in gran parte ingiustificata.
L'imperialismo americano e la guerra mondiale (1896-1918). - Con la vittoria nelle elezioni presidenziali del 1896, si inizia un nuovo periodo di predominio repubblicano che durerà per sedici anni, fino al 1912. I due partiti classici già da molto tempo non rappresentano due programmi fondamentalmente antitetici; né i repubblicani sono per antonomasia gli assertori del potere federale, né i democratici dei diritti degli stati; né i repubblicani sono sempre gli esponenti, o i soli esponenti, degl'interessi plutocratici e imperialistici né i democratici i fautori di una più larga partecipazione al governo delle classi popolari. I rispettivi programmi non rappresentano nulla di fermo e continuo. Ciò che li contraddistingue è il vario atteggiarsi di fronte a problemi concreti che via via si presentano nelle campagne elettorali, senza che in questa presa di posizione si possa riscontrare alcunché di prestabilito e di idealmente coerente, alcuna adesione a principî aprioristici. Nelle elezioni del 1896 la lotta si imperniò su una questione monetaria: monometallismo, come volevano i repubblicani, o bimetallismo, come chiedevano i democratici e con maggiore insistenza i democratici degli stati argentiferi dell'ovest? La propaganda repubblicana seppe con maggiore abilità presentare il proprio programma come promotore del benessere nazionale, come quello che avrebbe sollevato il produttore agricolo dalla grave depressione del 1894 per il rinvilio del grano, come quello che avrebbe messo in valore i giacimenti auriferi allora scoperti nel Klondyke; e specialmente seppe approfittare dell'incertezza dei democratici dell'est, molti dei quali dissentivano, su questo e altri punti, dal programma ufficiale democratico. Il candidato repubblicano W. McKinley ebbe partita vinta (1897-1901). Con lui venivano alla Casa Bianca gli interessi della grande industria e le tendenze imperialistiche: onde nel 1897 un inasprimento delle tariffe protettive (tariffa Dingley); nel 1898 la guerra con la Spagna per Cuba e le Filippine; l'interessata partecipazione alle questioni dell'Estremo Oriente; un'incipiente politica di armamenti navali. Rispetto a Cuba non più, come nel 1854, preoccupazioni schiavistiche dettavano l'atteggiamento, bensì motivi di predominio economico e militare nel Golfo del Messico e nell'America Centrale.
Il capitale americano era largamente investito a Cuba, in aziende minerarie, ferroviarie, piantagioni, ecc. E, fatto essenziale, Cuba ha una posizione dominante nel Golfo del Messico. Era incontestabile che l'amministrazione spagnola teneva l'isola in condizioni di regresso economico e morale; che certe sommarie misure prese dal 1895 in poi, per reprimervi la ribellione, sembravano fatte apposta per dare motivi di scandalizzate emozioni all'interessato umanitarismo americano. Non era un mistero per nessuno che i ribelli cubani facevano affidamento sull'appoggio americano per ottenere l'autonomia della loro isola. E negli Stati Uniti si faceva sempre più strada la convinzione che solo l'intervento americano avrebbe liberato l'isola dai suoi mali. Sotto questo filantropismo, in alcuni di sola superficie ma nei più profondamente sentito, le tendenze imperialistiche erano tuttavia trasparenti; sennonché l'americano, per la sua struttura morale impregnata di spiriti calvinistici, diviene ostinato e aggressivo allorché, conciliati cielo e terra, vede o crede di vedere una causa configurarglisi come una causa morale, come un imperativo della coscienza morale, come una missione. Furono vani gli sforzi collettivi fatti dalle potenze europee per scongiurare un conflitto e tentare una mediazione; nessuna, in fondo, delle potenze era pronta a impegnarsi per la Spagna; anzi l'Inghilterra, a differenza soprattutto della Germania, tenne a mostrare particolari riguardi agli Stati Uniti. Alcuni incidenti abilmente sfruttati (una lettera intercettata e pubblicata del ministro spagnolo a Washington; l'esplosione, nel porto dell'Avana, della nave da guerra Maine, 15 febbraio 1898) predisposero l'opinione pubblica a soluzioni estreme. Un ultimatum intimava alla Spagna di ritirare le sue truppe dall'isola. Il 25 aprile 1898 il Congresso dichiarava la guerra. In quattro mesi, tutto fu finito, tra, una, serie di successi americani. La Spagna, rimasta isolata, turbata da moti interni, costretta a combattere, impreparata, in punti lontanissimi, vide una sua flotta distrutta dal commodoro G. Dewey a Manila, nelle Filippine (1° maggio); un'altra, sotto l'ammiraglio P. Cervera, bloccata nel porto di Santiago di Cuba e parimenti distrutta in un tentativo di evasione (3 luglio); le poche forze di terra, dopo vigorosa resistenza, costrette a capitolare a Santiago (14 luglio); e cadere Portorico e Manila (13 agosto). Il giorno innanzi, 12 agosto, la Spagna aveva dovuto riconoscersi vinta e accettare i preliminari della pace che fu firmata il 10 dicembre dello stesso anno. In forza di essa la Spagna abbandonava Cuba, ove rimanevano a presidio le truppe americane, finché vi si fosse costituito un governo regolare isolano (ciò che avvenne nel 1902).
Se a Cuba almeno si salvavano le apparenze, altrove il giovane imperialismo americano si spiegava in pieno, non senza qualche opposizione da parte degli zelatori della lettera e dello spirito della Costituzione, la quale, nata un secolo avanti e in altro clima storico, naturalmente non poteva prevedere questi sviluppi eterodossi della vita americana. L'isola di Portorico fu annessa senz'altro, non più alla guisa dei territorî continentali, bensì come territorio coloniale, ossia in condizioni di permanente minorità, cui non furono estranee preoccupazioni di concorrenza nel commercio del caffè e della canna da zucchero. Anche l'acquisto delle Filippine, regolato pro forma con lo sborso di 20 milioni di dollari alla Spagna, diede luogo a un simile regime dopo che vi fu soffocata una ribellione durata oltre tre anni. Questa politica energica di espansione nel Pacifico e nel Golfo del Messico non poteva non influire sull'atteggiamento degli stati rivieraschi o interessati in quei mari e coinvolgere ulteriormente l'azione politica degli Stati Uniti. Infatti nel 1900 gli Stati Uniti parteciparono attivamente all'intervento delle principali potenze in Cina contro i Boxers, riuscendo ad affermare, contro cupidigie europee, il principio della "porta aperta" in Cina, ciò che li obbligherà d'ora in poi a tenere gli occhi bene aperti sulle mire del Giappone specialmente. L'amministrazione McKinley poteva vantare dei successi che vivamente solleticavano l'amor proprio nazionale. Nelle elezioni del 1900 egli uscì nuovamente eletto; ma nel settembre 1901 veniva gravemente ferito da un anarchico d'origine polacca, L. Czolgosz, e il 14 soccombeva alle ferite. Assumeva la presidenza il vicepresidente Theodore Roosevelt (1901-05). Con la risolutezza che lo caratterizzava, egli portò innanzi la politica del defunto nei riguardi delle repubbliche dell'America Centrale. Dopo vivace dibattito, era stata approvata la costruzione di un canale navigabile attraverso l'Istmo di Panamá, via di vitale importanza militare e commerciale. Furono intavolate trattative con la Colombia. Ma poiché il senato colombiano mostrava qualche velleità di resistere alle pretese americane, si produsse sull'istmo un colpo di scena, la cui spontaneità lasciava qualche legittimo dubbio, data la contemporanea presenza sul luogo di unità navali americane: un'insurrezione locale proclamò l'indipendenza della repubblica di Panamá, subito riconosciuta da Washington. La Colombia non poté che rassegnarsi all'ineluttabile. E la nuova repubblica - di fatto un protettorato americano - si affrettò a concludere il trattato (26 febbraio 1904) di fronte al quale la Colombia aveva recalcitrato: cedeva in perpetuo agli Stati Uniti il diritto di occupare e dominare una fascia di terra attraverso l'istmo, dove in brevissimi anni fu scavato il canale. Nel secolo e mezzo del loro prodigioso sviluppo gli Stati Uniti non avevano mai dato segni di stanchezza; sotto l'impulso animatore del Roosevelt questa marcia trionfale di un grande popolo verso il suo futuro sembrava raddoppiare il suo ritmo, trasportata da un'ondata di generale ottimismo, consapevole della propria potenza economica e militare. Dava essa alle vecchie nazioni europee, provate da secoli e secoli di dura storia, l'impressione di un giovane atleta nell'esuberanza delle sue forze fisiche, nella fresca inesperienza e spensieratezza delle sue energie spirituali. Le agitazioni operaie, che pure furono frequenti e aspre fra il 1902 e il 1905, sembravano nemmeno scalfire la compatta saldezza della nazione. L'immigrazione che era stata di oltre 5 milioni nel decennio 1881-90, di 3½ milioni fra il 1891-1900 superava ora, nel decennio 1901-10, gli 8 milioni; eppure non rappresentava che il 34% nell'incremento della popolazione, tanta era la vitalità di questo popolo composito e l'eccesso delle nascite sulle morti. Col suo dinamismo realizzatore il Roosevelt era l'interprete verace della nuova nazione; nessuna meraviglia che nelle elezioni del 1904 egli fosse confermato nella presidenza con una maggioranza di voti senza precedenti. La sua autorità, anche nel campo internazionale, si accrebbe nella sua seconda presidenza (1905-09): fu il mediatore della pace fra la Russia e il Giappone (agosto 1905) e rese audacemente il potere federale arbitro di cause profondamente sentite nel paese: legislazione sui trusts, sull'immigrazione (cominciava a preoccupare l'immigrazione difficilmente assimilabile e sempre crescente dai paesi slavi e mediterranei e di colore), sulle ferrovie, sulle terre pubbliche, sulle acque. Per opera sua e - significativo - senza che gli stati si sentissero troppo lesi nei loro diritti e alzassero troppo alte proteste, l'autorità federale fece altri notevoli passi verso l'estensione della sua competenza. Se non fosse stato il tradizionale ossequio all'esempio di Washington, il Roosevelt avrebbe potuto tranquillamente porre la sua candidatura per una terza presidenza. Nel 1908 fu eletto il candidato repubblicano da lui suggerito, W. H. Taft (1909-13). Questi proseguì, nelle sue grandi linee, la politica del Roosevelt, ma non ne ebbe la potente suggestiva personalità; si lasciò sfuggire di mano l'iniziativa in varie occasioni; rimorchiato o inceppato da interessate influenze, permise che urgenti problemi (prepotere dei trusts, disordine amministrativo nelle grandi città) rimanessero insoluti o fossero accaparrati dal partito democratico. Una larga parte del partito repubblicano, logorato da una permanenza al potere che durava, con pochi intervalli, da mezzo secolo, inclinava al conservatorismo (i cosiddetti standpatters) mentre solo un'ala progressista (gli insurgents), capeggiata dal senatore R. M. La Follette e che godeva le simpatie del Roosevelt, chiedeva che si procedesse sulla via delle riforme politiche, sociali, amministrative. La scissione, delineatasi nel 1909 e approfonditasi negli anni successivi, non poteva che avvantaggiare i democratici, i quali nelle elezioni del 1912 fecero trionfare il loro candidato, Woodrow Wilson (1913-17). La riduzione delle tariffe doganali era già nel programma dei repubblicani progressisti; il democratico Wilson l'attuò, provvedendo alle necessità finanziarie del governo federale con una imposta sul reddito e disciplinando la finanza con un nuovo ordinamento delle banche (Federal Reserve Act, 1913). Ma rispetto al Messico il suo atteggiamento non fu diverso da quello che avrebbe tenuto un governo repubblicano "imperialista"; solo che, com'era nella sua natura di intellettuale ideologo e nel fondo del suo sentimento di presbiteriano, amò motivare la sua politica riconducendola a cause ideali e disinteressate, il che era subiettivamente vero, anche se non possa non recare maraviglia, che a conti fatti e nella maggioranza dei casi, la politica più disinteressata si trovasse a essere anche la politica più redditizia. Indubbiamente nella lotta sanguinosa fra le due fazioni messicane di Victoriano Huerta e di Venustiano Carranza, favorendo quest'ultimo gli Stati Uniti favorivano la causa del minuto popolo messicano; ma favorivano anche la causa della fazione che era meno avversa alla penetrazione capitalistica americana nel Messico. Allorché, in seguito a un incidente nel porto di Tampico, il Huerta si rifiutò di dare soddisfazione alla bandiera americana, truppe americane occuparono Veracruz (aprile 1914). Il Huerta dovette dimettersi e lasciare il Messico. Quando nel novembre 1914 il contingente americano evacuava Veracruz, la guerra mondiale imperversava già da quattro mesi.
Comunque, resta il fatto che il "problema negro" va sempre più assumendo caratteri di particolare urgenza e gravità.
È chiaro infatti che, non avendo la massa dei Negri fatto mai buon viso ai tentativi di ricondurla in Africa a svolgere un'azione colonizzatrice in quello che poteva apparire fosse il suo ambiente naturale, la presenza di questa cospicua minoranza di colore rappresenta un grave ostacolo alla formazione dell'unità etnica. L'opinione più comune negli Stati Uniti è che i Negri non siano in alcun modo assimilabili, né fisicamente né intellettualmente né moralmente. Quanto vi sia di vero in tale opinione, riferita qui nella sua forma più assoluta, è assai difficile stabilire, anche perché alcuni dei fatti che vengono citati in sostegno di essa, sono in realtà, o si possono considerare, a loro volta come un risultato dell'isolamento in cui i Negri sono stati tenuti a lungo. E d'altra parte tra i Negri stessi esiste, più o meno espresso o latente, un dissidio: giacché, nati e educati negli Stati Uniti in cui non sono, a rigore, meno "indigeni" di un grandissimo numero di Bianchi, essi appartengono alla civiltà americana, e le loro stesse caratteristiche - per es., nel folklore, nella musica, ecc. - sembrano non risalire più in là del periodo coloniale. La terra d'origine è dimenticata, anche se per avventura qualcosa ne sopravviva nella musica, in certe credenze o usanze superstiziose, nella impressionabilità e facilità con cui le superstizioni vengono non soltanto accolte ma trasmesse, insieme con racconti e canzoni. Ma, specialmente nel Nord, il Negro - come del resto gl'immigrati, specie a partire dalla seconda generazione - assorbe con grande facilità gli elementi della civiltà in mezzo a cui vive e tende - anche per effetto di un più o meno cosciente sentimento della loro superiorità - ad uniformarsi al modo di vita dei Bianchi, e ad imitarli. Ma d'altra parte si è venuta delineando, specie tra certi gruppi di "intellettuali", una tendenza a fare dell'isolamento stesso una forza, a resistere all'ambiente, a formare e proclamare l'esistenza di una "coscienza di razza", che li aiuti a mantenersi uniti nella lotta per la conquista di nuovi diritti e di condizioni di vita migliori. Si spiega così, tra l'altro, come i capi del movimento negro cerchino sempre più di imitare i metodi e i sistemi di propaganda che sembravano proprî della lotta di classe; mentre d'altra parte anche coloro che riconoscono l'attuale inferiorità culturale, tecnica, ece., dei Negri e mirano ad ottenere sopra tutto l'assimilazione, tendono a presentare il problema specialmente nel suo aspetto sociale.
D'altra parte, tra i Bianchi, sono diffuse opinioni ehe tendono a presentare i Negri come razza inferiore, naturalmente e inevitabilmente incapace di raggiungere un alto grado di civiltà. Di qui le polemiche e l'incertezza, anche tra gli studiosi obiettivi (in conseguenza della scarsità di informazioni veramente attendibili e non falsate da preconcetti in qualsiasi senso) sulla maggiore o minore produttività del lavoro dei Negri: questi sono dipinti volta a volta come lavoratori pigri, lenti, di scarsa intelligenza e iniziativa, disordinati, non puntuali; e come solerti, attivi, diligenti, disciplinati al pari, se non anche più, degli operai bianchi dei varî gruppi etnici. Di qui, anche, altre polemiche e incertezze circa la moralità dei Negri, che vengono generalmente accusati di presentare una delinquenza molto maggiore, specie relativamente ai delitti che implicano maggiore impulsività ed emotività e minore adattamento alle necessità della convivenza sociale. I dati - del resto non molto completi né dovuti a fonti ugualmente buone - tendono a dimostrare che la percentuale degli arrestati, condannati e incarcerati è, tra i Negri, parecchio più elevata che tra i Bianchi. Ma è stato anche osservato che sia sugli arresti, sia sulle condanne, sia sulle condanne condizionali agiscono fattori sentimentali, il più importante dei quali è l'atteggiamento dei Bianchi stessi verso i Negri; e che pertanto i dati disponibili permettono solo di stabilire che "il Negro, come gruppo sociale, viene in contatto con la giustizia penale più spesso che il Bianco; ma se sia o non più delinquente è impossibile asserire con un qualche grado di certezza" (Th. Sellin). Bisogna anche tener presente il fenomeno dell'accentrarsi dei Negri nelle città, in ambiente nuovo e al quale non è sempre facile l'adattamento. Quanto all'istruzione dei Negri, non bisogna dimenticare anzitutto che durante il periodo schiavista essa mancò quasi del tutto: varî stati, come la Carolina del Sud fin dal 1740, la Georgia (dal 1770) e il Mississippi, l'Alabama, la Virginia, la Carolina del Nord e il Missouri (tra il 1823 e il 1847) emanarono leggi contro l'istruzione dei Negri, mentre altri stati ancora (Kentucky, Delaware, Maryland, Illinois, Ohio) limitarono ai soli Bianchi il diritto di frequentare le scuole pubbliche. Del resto, anche nel New York e nella Pennsylvania nel sec. XVIII le poche scuole per i Negri furono private e in gran parte alimentate dalla beneficenza, segnalandosi in questa attività, come in tutto ciò che poteva contribuire a migliorare la condizione dei Negri, soprattutto i quaccheri. Questo stato di cose spiega come i governi della cosiddetta "Ricostruzione" spendessero per le scuole somme sproporzionate alle loro capacità finanziarie. Ma ancora nel 1880 gli analfabeti erano circa il 20%: da allora si sono realizzati grandi progressi; tuttavia, specie in alcuni stati, l'istruzione dei Negri lascia ancora a desiderare, così come la percentuale dei ragazzi che frequentano le scuole rimane bassa: sotto questo aspetto, in confronto con i Bianchi, i Negri sono in ritardo di circa un ventennio. La sproporzione è anche maggiore per le scuole medie e superiori. In generale, si nota, specie per le scuole medie, una certa inferiorità degli alunni Negri rispetto ai Bianchi, e - negli stati settentrionali - dei Negri provenienti dal Sud in confronto di quelli nati nel Nord; ciò può dipendere quindi, fino a un certo punto, dalla minor efficacia dell'istruzione elementare impartita nel Sud, dove le scuole per Negri scarseggiano e hanno generalmente insegnanti mal pagati e, in complesso, di livello intellettuale e preparazione professionale piuttosto bassi. Quanto all'intelligenza dei Negri, specialmente di quelli che frequentano le scuole, si è cercato di stabilirne il livello medio con varie inchieste, applicando con diversi criterî il sistema dei tests. I metodi, la loro applicazione pratica, e pertanto i risultati appaiono spesso criticabili; tuttavia non si può nascondere che da quasi tutte le inchieste, nonostante la varietà dei metodi, dei criterî, delle domande rivolte, ecc., i Negri sono apparsi in complesso inferiori ai Bianchi; benché in qualche caso siano anche risultati pari, e talvolta quelli nati ed educati in città si mostrino superiori ai Bianchi delle campagne.
Sembra quindi che le asserzioni di carattere assoluto circa l'inferiorità, o la parità, "naturale" dei Negri in confronto dei Bianchi, tengano finora troppo poco conto dell'elemento ambientale e, insomma, della storia. L'importanza di questo fattore appare evidente, proprio quando si passi a considerare l'aspetto fisico, biologico, del problema. Le ricerche di M. J. Herskovits hanno stabilito che non solo i Negri americani sono i discendenti di Negri appartenenti a gruppi etnici africani diversi, ma che vi è stata una forte commistione non solo di sangue bianco, ma anche indiano; sicché "mescolanza di tutte le razze - africana, caucasica, mongoloide - il Negro americano presenta un esempio di incrocio razziale affascinante per lo studioso". Ora, i dati antrodometrici dimostrano che i Negri americani costituiscono un gruppo perfettamente omogeneo, nel senso che presentano indici di variabilità minori di quelli di altri gruppi antropologicamente ben definiti. Il Negro americano per la maggior parte dei caratteri somatici occupa una posizione intermedia tra le medie delle popolazioni indiano-americane ed europee, da una parte, e le africane, dall'altra. Secondo il Herskovits, ciò sarebbe precisamente dovuto alle condizioni d'isolamento dei Negri, che non avrebbero più subito immistioni di sangue bianco o indiano: quindi la segregazione avrebbe contribuito a consolidare e facilitato la formazione del "nuovo Negro": i cui caratteri antropologici, derivati da varie razze, non sarebbero dunque semplicemente giustapposti l'uno all'altro, ma combinati tra loro. D'altronde lo stesso Herskovits nota che alcune delle caratteristiche del Negro sono molto meno pronunciate in una serie particolare di misure, prese tra persone più colte e facoltose del centro negrn di Harlem (Città di New York), le quali dunque si avvicinano di più al Bianco. E anche nei matrimonî si nota che normalmente il Negro sceglie una sposa di colore più chiaro: insomma il Negro subisce l'attrazione e tende a conformarsi al modello del bianco. D'altra parte alle differenze somatologiche corrispondono anche differenze di conformazione anatomica degli organi interni, e differenze biologiche, fisiologiche e patologiche. Da studî di R. Pearl e R. B. Bean risulterebbe che i Negri hanno il lobo temporale del cervello di forma differente e più piccolo dei Bianchi; e anche minori sono la milza e il fegato. Ma anche alle malattie i Negri reagiscono diversamente dai Bianchi: in particolare sembra maggiore tra i Negri la mortalita per cancro e tumori maligni, che mostrerebbero tra essi una particolare tendenza a localizzarsi nell'apparato digerente nel fegato e nel pancreas, tra i maschi, e negli organi della riproduzione, tra le femmine; maggiore la mortalità per malattie del sistema respiratorio (in particolare, i Negri sembrano essere specialmente soggetti alla tubercolosi); altissima anche la mortalità per sifilide; minore, invece, che tra i Bianchi, per altre affezioni. Ma, in genere, le condizioni sanitarie dei Negri sono assai peggiori di quelle dei Bianchi: il che ha indotto alcuni a concludere nel senso di una minore resistenza del Negro alle malattie. Ma sta di fatto che la mortalità dei Negri era in complesso minore che tra i Bianchi, nell'epoca schiavista, quando il padrone aveva cura della salute degli schiavi di sua proprietà - mentre tra i Negri liberi la mortalità era a sua volta maggiore che tra i Bianchi; e ciò tenderebbe a dimostrare che le affermazioni sull'assoluta e irrimediabile inferiorità fisica della razza sarebbero alquanto avventate, così come le previsioni catastrofiche che si fecero intorno al 1890, prevedendone la graduale estinzione. Infatti, da allora, le condizioni sanitarie sono notevolmente migliorate: la mortalità per tubercolosi, pure rimanendo questa la principale causa di morte almeno fino al 1930, è sensibilmente diminuita, e così quella per altre malattie. La mortalità assoluta, e così pure la mortalità infantile, è pur sempre più alta che tra i Bianchi; ma la durata. media della vita, che secondo calcoli della Metropolitan Life Insurance Company, di New York, era di soli 33 anni nel 1900, era salita nel 1930 a 45 anni, contro 59 per i Bianchi: uguagliando così la durata media della vita per i Bianchi nel 1900. Anche a questo proposito, dunque, i Negri appaiono in ritardo rispetto ai Bianchi; ma i progressi fatti autorizzano a ritenere che anche su quest'ordine di fenomeni i fattori ambientali e storici esercitino un'influenza rilevante.
In fatto di cultura, fra il disorientamento generale dei Negri e la difficoltà dell'adattamento alle nuove condizioni, subito dopo l'emancipazione, si ebbe pure notevole impulso: singolare e istruttivo libro a tale riguardo la celebre autobiografia di B. T. Washington. Questi ebbe gran parte nel promuovere l'istruzione dei Negri, che dapprincipio desiderava soprattutto avviare verso studî professionali. Ma non mancano anche - benché molte vivano una vita grama - le scuole superiori che impartiscono una cultura superiore: le migliori, anzi forse le sole degne veramente di questo nome, sono le università Howard, a Washington, la Fisk, a Nashville (Tennessee), e quella di Atlanta.
È da notare che fin dal 1827 J. B. Russwurm e S. E. Comish pubblicarono a New York il Freedom's Journal, e intorno al 1850 un possidente di Providence, T. M. Bennister, creò intorno a sé il primo cenacolo di artisti negri, cui seguirono poi quelli di Chicago e di Naw York. Oggi, tra i Negri più colti prevale, come abbiamo detto, una tendenza ad esaltare l'"isolazionismo", come quello che rafforzerebbe, impedendone la dispersione, le doti intellettuali e artistiche della razza. La quale possiede numerosi giornali, tra cui il principale è il Chicago Defender. Tra le riviste culturali merita particolare menzione il Journal of Negro History. I varî centri culturali, come tutto il movimento per la difesa degl'interessi e dei diritti dei Negri, fanno capo alla National Association for the advancement of Coloured People, con sede in New York.
Letteratura. - La letteratura dei Negri d'America è in lingua inglese; ma si è manifestato da tempo uno speciale dialetto afro-americano che è stato elevato da alcuni scrittori e principalmente da P. L. Dunbar (When Malindy Sings) a dignità letteraria.
Caratteristica della letteratura negra è tutto un pathos speciale che la accomuna con le altre manifestazioni culturali della razza sino a costituire un tutto inscindibile, basato essenzialmente su di un fondamentale romanticismo sociale, assolutamente ignoto alla cultura americana, e che trova la sua ispirazione nel sentimento della razza. Scrittori, poeti e artisti si ispirano al problema centrale della vita negra, animatore d'arte e di poesia e se scorgiamo diversità di indirizzi nella letteratura negra ciò è dovuto al temperamento personale dei varî autori. Non sembra accettabile l'opinione del Brawley, secondo cui si distinguono nella letteratura negra il vecchio indirizzo romantico e una nuova corrente realistica. Questi due termini, nel loro significato tradizionale, non sono applicabili alla produzione letteraria dei Negri, in cui non vi è né il romanticismo degli inglesi Burns, Shelley o Keats, né il realismo pudibondo-borghese della scuola di Howells, né il nuovo americanissimo realismo del psicologo Dreiser, del sensualista Anderson o del satirico Sinclair Lewis.
Nel tracciare, sia pure brevemente, la storia letteraria negra non si possono trascurare i precursori, vissuti ancora nel periodo schiavista. Così Jupiter Hammon (circa 1720-circa 1800), schiavo nel Long Island, che pubblicò nel 1761, un primo volume di versi (An Evening Thought), col ricavato della vendita del quale ottenne l'emancipazione; mentre la Address to the Negroes of the State of New York (1786) fu poi presa a modello dai sociologi di fine secolo. Dedicò anche un poema a Phillis Wheatley (1753-1784), trasportata giovanetta dal Senegal a Boston, ove si acquistò l'affetto dei suoi padroni i Wheatley, che, liberatala dai lavori servili, le permisero di istruirsi e di essere considerata come un vero prodigio, a Boston e anche a Londra: di lei abbiamo oltre quaranta poesie e poemetti raccolti in tre volumi (Poem on the Death of the Reverend George Whitefield, Boston 1770; Poems on Various Subjects, Religious and Moral, Londra 1773; Elegy Sacred to the Memory of Dr. Samuel Cooper, Boston 1784) e le sue lettere all'amica Obour Tanner (ediz. Deane, Boston 1864).
Di Georges Moses Horton (1797-1880) si ricorda The Hope of Liberty (Boston 1829); come di Frances Ellen Watkins, Poems on Miscellańeous Subjects (1854). Nei versi di Albery A. Whitman, pastore metodista (Not a Man and yet a Man, Springfield 1877) si sente la forte influenza del Longfellow e del Moore. Già nei primi versi (Oakand Ivy, 1893; Majors and minors, 1895) di Paul Laurence Dunbar (1872-1906) è tutto il lirismo romantico dell'anima negra, potenziato da un eticismo fortemente concettuale; le Lyrics of lowly Lije (1896) sono una raccolta di versi facili e spontanei sgorgati da una fonte limpidissima e fresca di sentimento. Altre raccolte (Lyrics of the Hearthside, 1899; Lyrics of Love and Laughter, 1903; Lyrics of Sunshine, and Shadow, 1905) riaffermano la sua genialità poetica e ne fanno l'iniziatore della poesia negra contemporanea, mentre l'eticismo critico si afferma nei suoi romanzi (The Uncalled, 1896; The Love of Landry, 1900; The Fanatics, 1901; The Sport of the Gods, 1902) e nei suoi volumi di novelle (Folks from Dixie, 1898; The Strength of Gideon and other stories, 1900; In Old Plantation Days, 1903; The Heart of Happy Hollow, 1904), seritti durante le sue peregrinazioni nel Colorado, nell'America del Sud e in Europa.
Maggior fama di romanziere al volgere del secolo acquistò Charles Waddell Chesnutt da Cleveland che iniziò la sua vasta produz. one letteraria come novellista (The Conjure Woman, 1899; The Wife of his Youth and other stories of Color-Line, 1899). Questi ultimi sono racconti di vita reale, tratti da ambienti negri con squisito gusto e densi di un descrittivismo in cui l'autore tocca le più alte vette di un'arte purissima. The House behind the Cedars (1900) è il suo primo grande romanzo, intessuto sulla storia sentimentale di una fanciulla negra, Rena Walden, amata contemporaneamente da tre giovani, dei quali uno, negro come lei, con il suo affetto, la sua dedizione e la sua tenerezza si guadagna l'amore di Rena: l'indagine psicologica è condotta con un equilibrato senso di obiettività. In The Marrow of the Tradition (1901) il Chesnutt è maggiormente dominato dai problemi della razza, agitati in un ambiente più realistico.
William Edward Burghardt Du Bois, nato in Great Barrington, Mass. (1868), è insieme uno storico, un sociologo e uno strenuo difensore dei diritti della sua razza (The suppression of the African Slave Trade to the United States of America, 1895; John Brown, 1909; The Negro, 1915). Poeta vigoroso, egli è l'autore delle "Litanie di Atlanta". Nel suo primo romanzo (The Quest of the Silver Fleece, 1911) il Du Bois affronta i principali problemi sociali, presentati dalla vita dei Negri in America, con acuta intuizione e con uno spigliato senso d'arte; anche il suo secondo romanzo (Dark Princess, 1928) offre un quadro mirabile di ambiente negro in cui si agita il protagonista che assomma in sé, nel dramma del suo cuore, il dramma intimo della razza negra.
Tra gl'iniziatori della letteratura negra vanno menzionati William Stanley Braithwaite, nativo di Boston (1878) poeta e critico, autore di Lyrics of Life and Love (1904), The House of Falling Leaves (1908), in cui la tecnica del verso spesso ci ricorda Keats e Shelley. Oltre a lui, James Weldon Johnson, brillante scrittore che ha dato la nota Autobiography of an Ex-Colored Man (1912), di piacevolissima lettura. Il suo volume di poesie (Fifty Years and other poems, 1917) ci rivela un poeta forte al quale Dunbar non ha mancato d'imprimere il gusto del romantico. Intorno a costoro troviamo altri poeti e scrittori, quali S. Cotter (The Band of Gideon), Fenton Johnson (A little dreamcing; Visin of the dusk; Songs of the soil), Alice D. Nelson (The Goodness of St Rocque and other stories), Jessie Fausset (Christmas Eve in France), Georgia D. Johnson (The heart of a Woman and other poems; Bronze; An Autumn love cycle), ecc.
Ma accanto a questi, sono da ricordare anche gli storici, gli educatori e i polemisti. Tra questi, sono da ricordare almeno Booker Taliaferro Washitngton, fondatore del Tuskegee Institute, il vescovo Daniel Payne, M. R. Delany, W. Still, G. W. Williams, T. G. Steward, J. W. Cromwell, C. G. Wodson, B. Brawley, ecc.
Dopo la guerra mondiale si manifestò, sin dal 1918, un violento movimento capitanato dal nuovo apostolo della razza negra, Marcus Garvey, oriundo della Giamaica, che diede nuovo e maggiore impulso alla rinascita letteraria negra. Sotto le insegne di un nazionalismo rinnovato, nuove schiere di poeti e di romanzieri diffondono il verbo della libertà e dell'indipendenza, con forma più maschia e vibrata che non fosse quella dei primi romantici. Tre nomi ìmpersonano principalmente la nuova tendenza: Eric Walrond, Claude MacKay e Countee Cullen, considerati come gl'iniziatori della letteratura realistica negra. Pure la rinuncia al romanticismo non appare ancora decisa nei nuovi campioni. Se esso sembra talvolta bandito nell'interessante romanzo del MacKay (Home to Harlem), denso di vivo sapore folkloristico, altrove lo stesso autore si mostra dominato dal romanticismo passionale dei suoi maestri (Harlem Shadows). Nello stesso Walrond (Tropic Death) ritroviamo le lamentele del Dunbar e perfino del Horton, e nei versi del sensitivo Cullen (Color; Copper Sun; The Ballad of the Brown Girl) quell'elemento romantico ehe sembra connaturale ai poeti negri.
Arti figurative. - Anche per la pittura negra, conviene risalire al cenacolo raccolto intorno a T. M. Bennister. Sull'esempio di questo primo nucleo sorsero ben presto altri circoli e accademie negre, mentre alcune scuole d'arte anglo-sassoni cominciavano ad ammettere, come rara eccezione, studenti negri. Tra i pittori più noti sono il paesista W. A. Harper, morto nel 1910, che dopo avere studiato a Chicago visse per vario tempo a Parigi, ove affinò anche la sua arte e la sua tecnica. Altro paesista di fama fu, ai primi del secolo XX, Richard Brown; un ritrattista, invece, coscienzioso e forse minuzioso è Edwin Harleston. Come il Harper, studiò a Chicago e venne a lavorare a Parigi, William Scott, di cui La Pauvre voisine, esposta nel Salon d'Automne del 1912, suscitò largo interesse e fu acquistato dal governo argentino. Ritornato in America, nel 1913, lo Scott si è poi dedicato interamente alla pittura murale e decorativa, accrescendo ancora la sua notorietà.
Altro pittore di fama è Henry O. Tanner, che lavorò a Roma, a Venezia, a Milano (1891-96) e a Parigi: quadri di lui hanno figurato in esposizioni internazionali (Parigi, 1900; Buffalo, 1901; St Louis, 1904; S. Francisco, 1915). Il suo temperamento religioso lo ha spinto a trattare soggetti biblici, come nella Resurrezione di Lazzaro (1897; Parigi, Musée du Luxembourg). La sua pittura risente del romanticismo e del soggettivismo negro; la sincerità, la spontaneità, la malinconia della razza hanno in questo pittore la loro più genuina espressione. Altri pittori contemporanei tra i più noti sono Laura Wheeler Waring, Palmer C. Heyden, Hale Woodruff, Archibald Y. Motely, Malvin Gray Jonson, Aaron Douglas.
Iniziatrice della scultura negra contemporanea si può considerare Edmonia Lewis, nata a New York nel 1845, che nel 1865 venne a Roma, ove compose le sue migliori opere, tra cui La morte di Cleopatra esposta all'esposizione internazionale di Filadelfia (1876), e numerosi busti in terracotta, quali quelli di John Brown, di Lincoln, di Longfellow. Altra scultrice di fama è May Howard Jackson. Ma più nota e dotata di personalità più forte e ardita è Meta W. Fuller, nata a Filadelfia nel 1877, cui uno dei primi lavori La testa di Medusa procurò la fama d'essere scultrice dell'orribile e cui un gruppo Miseria, esposto al Salon di Parigi nel 1983, ha procurato notorietà internazionale.
Teatro. - Un altro campo in cui l'originalità, il senso del ritmo, le capacità mimetiche, e il vivacissimo brio dei Negri ha trovato modo di affermarsi, suscitando l'interesse e l'ammirazione dei pubblici di tutto il mondo, è il teatro, a proposito del quale conviene ricordare almeno il nome dell'attore Ira Aldridge. Specialmente nello spettacolo detto "di varietà" i Negri, attori, cantori e danzatori rivelano talvolta doti sorprendenti di agilità, grazia, e un sentimento affinatissimo del teatro come puro spettacolo, pieno di movimento, di varietà, d'imprevisto. A questi elementi è dovuto soprattutto il grande successo ottenuto in Europa dalla Negro review di Josephine Baker e dei suoi compagni. Ma questo teatro così caratteristico non avrebbe certo potuto svilupparsi, ove non fosse stata la musica, che tra tutte le attività estetiche e folkloristiche dei Negri d'America è senza dubbio la più importante e interessante.
Musica. - Le origini della musica dei Negri americani risalgono al tempo della schiavitù nelle colonie del Sud. Si crede che gli schiavi negri provenienti in gran parte dall'Africa abbiano portato con sé alcuni elementi, particolarmente ritmici, di quella che fu poi denominata musica negro-americana. Tale opinione è fondata sul fatto che molte melodie negre americane possono essere ridotte a una scala pentatonica, la stessa degli strumenti che sembra siano tuttora in uso in certe regioni dell'Africa, e l'impiego della quale avrebbe inoltre così presso i negri d'America come "presso quelli d'Africa una spiccata tendenza alla sincopazione. La questione è comunque controversa e vi sono studiosi di folklore i quali asseriscono che le medesime scale e il loro uso sincopato siano comuni altresì alla musica tradizionale degli Scozzesi, degli Irlandesi e dei Gallesi; talché potrebbe essere avvenuto che la musica negra fosse nata dal contatto degli schiavi con i discendenti dei primi colonizzatori americani, d'origine britannica. Analisi comparate furono anche fatte fra canti negri e canti ebraici, e si trovò, ad esempio, che il canto Go down Moses presenta delle simiglianze col vecchio canto ebreo Caino e Abele. Ciò portò fra l'altro ad una teoria di affinità negro-semitica, teoria recentemente invocata per spiegare l'incremento portato al jazz, che si ritiene originariamente negro-americano, dagli Ebrei. Sta di fatto che come tutte le musiche popolari anche quella negro-americana è un prodotto di assimilazione e di elaborazione di elementi diversi, i cui principali possono stabilirsi in elementi ritmici nativi e in elementi melodici e armonici di provenienza europea. Questi secondi deriverebbero sopra tutto da vecchi canti popolari tedeschi e inglesi, e da melodie di inni portati in America alla fine del '700 e al principio dell'800 dai ministri delle chiese battista, non conformista e metodista. Tali melodie, mantenutesi dapprima pure, si trasformarono gradualmente nell'uso dei Negri che a poco a poco le cantarono associandole a qualsiasi preghiera, e in particolare alle parole del Vangelo, dando lungo al cosiddetto gospel hymn, dall'insistente ritmo e dalle molte ripetizioni, che divenne una delle forme più diffuse in tutte le riunioni religiose (camp meetings e revivals) delle colonie del Sud. Dai luoghi di riunione i canti si propagarono ben presto nelle case e nelle piantagioni, adattati spesso a parole diverse improvvisate sul momento e dettate da mistica immaginazione. Nacquero così gli spirituals, i canti spirituali, l'espressione più ricca e completa della musica negro-americana e fra le più caratteristiche dell'intera musica popolare. Espressione corale, bisogna aggiungere, la cui genesi particolare può ricostruirsi nel modo seguente. Un negro, generalmente un capofamiglia, durante le soste del lavoro o prima dei pasti e del riposo serale o in altre occasioni riprendeva i sacri temi appresi dai pastori, intonandoli su di una melodia innodica trasformata. Alla sua voce s'univano quelle dei compagni di lavoro o dei familiari, in un'armonia semplice, dall'alternativa tonica-dominante-tonica, tonica-sottodominante-tonica, anch'essa di derivazione innodica ma con immissione di suoni originali dissonanti. La nuova melodia era inoltre accentuata da un ritmo sovente sincopato che può ben definirsi di danza. E non di rado la danza e altre manifestazioni di infervoramento ritmico ossessivo accompagnavano il canto che assumeva talora un carattere sensuale e orgiastico. Strumenti primitivi oppure il percuotere delle mani sulle ginocchia sottolineavano il ritmo. Sfrondato da tali ripercussioni sensualistiche lo spiritual resta tuttavia un canto di natura triste confortata da una fede incrollabile nella felicità dei regni divini. Cessata con la guerra civile la schiavitù, gli sphituals sopravvissero e tuttora resistono alle moderne forme di coon songs (coon equivale "negro"), plantation songs e syncopated, la cui sorgente è del resto facilmente ritrovabile negli antichi canti negri.
Accanto agli spirituals sono i seculars o sinful songs, canti più direttamente collegati con la vita degli schiavi negri. I canti spirituali abbondano di frasi idiomatiche provenienti dalla Bibbia, sono dedicati principalmente alle emozioni suscitate dal pensiero della morte, dal timore dell'inferno; i secular songs trattano di argomenti inerenti all'esistenza di ogni giorno del Negro: i suoi amori, le sue antipatie, le sue privazioni, i processi cui è soggetto e che includono le ingiustizie del bianco, il suo benessere materiale. I seculars sono riferiti a situazioni antiche come la razza negra, di spirituals a una religione relativamente di recente adozione. Ai seculars appartengono i canti di prigionia, di lavoro, i bad men songs e i blues che sono stati trapiantati nel jazz. I versi sono sovente narrativi e la musica ora è simile a quella di alcuni spirituals, ora è una versione di melodie più moderne desunte da canti di montanari e da ballate inglesi.
La conoscenza e la diffusione dei canti negri negli Stati Uniti è avvenuta piuttosto tardi, principalmente per opera di cantori bianchi mascherati da negri, chiamati minstrels e che diedero i primi spettacoli intorno al 1830. Uno dei più popolari di questi cantori black-faced fu Thomas (Daddy) Rice che in quell'epoca eseguì a Pittsburgh con enorme successo il canto Fim Crow, il quale si crede che sia il nome così del canto come del Negro che lo creò nel Kentucky. Da allora in poi il Negro minstrel show si propagò rapidamente, i canti negri furono conosciuti anche nel nord, e s'incominciarono a scrivere canti ispirati agli spirituals (nel 1851 Foster scrisse il famoso Old folks at Home e altre canzoni per il "menestrello" Christy). Molti dei canti delle piantagioni (specialmente della Luisiana) furono introdotti in questi spettacoli, fra cui Coal black Rose, Zip Coon, Ole Virginny nebber tires. Gli spirituals furono più tardi diffusi da piccoli gruppi di cantori negri delle università Fisk ("The Jubilee singers"), Tuskegee, Hampton, ecc., dal 1871. Queste università, create per l'educazione dei Negri, furono in parte sovvenzionate con i ricavati di tali giri di concerti, e conservano tuttora intatta la tradizione spiritualistica, che hanno fatto conoscere anche all'estero (in Italia i Jubilee singers vennero per la prima volta nel 1927).
Di canti negri in genere e di spirituals in particolare esistono all'incirca 50 fra raccolte (per sole voci e con accompagnamento di pianoforte) e studî. Fra le prime vanno citate le raccolte di Harry Burleigh, Natalie Lurtis, Arthur Farwell, Weldon J. Johnson, Rosamond J. Johnson, Henry Krehbiel, William F. Allen, William A. Fisher, Theodor F. Seward, Clark N. Smith, la collezione curata da Nathaniel Dett, direttore della Hampton Instit., ecc. Gli esempî riportati alla colonna precedente sono inediti, e furono forniti dal musicista negro Frank Withers il quale apprese le melodie dalla nonna Louise Spears, nata schiava nel 1813 in Bourbin County, Kentucky, morta nel 1918. A quanto afferma il Withers le due melodie erano già conosciute dalla nonna di Louise Spears. L'uso dei canti negri è stato ed è tuttora frequente nella musica americana (dei musicisti europei A. Dvorák pare che abbia incluso alcuni canti nella sua Sinfona dal Nuovo Mondo, sebbene non sia provato che questi canti esistessero prima del suo lavoro e potrebbero essere anche stati composti da lui stesso, allo stesso modo dei canti composti da Stephen Foster), e hanno avuto fra l'altro il potere di attirare maggiormente l'attenzione su questo vasto campo della musica popolare del continente.
Bibl.: Annual Report of the National Association for the advancement of Coloured People; Negro Yearbook; American Negro (Annals of the Amer. Acad. of political and social science, CXL), Filadelfia 1928; C. S. Johnson, Negro in American civilization, New York 1930 (con ricca bibliografia); A. Hrdlička, Anthropology of the American Negro, Filadelfia 1927; M. J. Herskovits, Negro and the intelligence tests, New York 1927; id., American Negro, ivi 1928; id., Anthropometry of the American Negro, ivi 1930; D. Dutcher, Negro in modern industrial society, Lancaster (Pa.) 1930; T. J. Woofter, Negor problems in cities, New York 1930; S. D. Spero e A. L. Harris, Black worker, ivi 1931; Phelps-Stokes Fund Twenty Year Report (1911-31), ivi 1932; C. G. Woodson, Negro in our history, 6ª ed., ivi 1931; B. Brawley, Short history of the Am. N., 3ª ed., ivi 1931; id., Negro in literature and art in the U.S., ivi 1934; L. Y. Cohen, Lost spirituals, ivi 1928; N. I. White, American Negro Folk songs, Cambridge Mass. 1928; W. C. Emerson, Stories and Spirituals of the Negro slave, Boston 1929; W. F. Allen, Slave songs of the U. S., ristampa, New York 1929.