STATI UNITI
(XXXII, p. 523; App. I, p. 1019; II, II, p. 889; III, II, p. 821; IV, III, p. 457)
I problemi dell'ambiente. − Per quanto le modifiche dell'ambiente dovute a fattori naturali siano molto lente, un aggiornamento al riguardo risulta opportuno, sia per l'accelerarsi delle molte trasformazioni operate dall'uomo, sia per il risveglio negli S.U. di una sensibilità verso i valori dell'ambiente, che ha portato a ''scoprire'' nuovi aspetti e nuove problematiche in questo campo.
Uno dei cambiamenti ambientali con maggiori conseguenze riguarda le condizioni dell'aria, dal punto di vista sia climatico che delle sostanze presenti in essa, aspetti d'altronde collegati. Nel 1988 si è verificata la peggiore siccità in 50 anni, ma ancora più grave è l'aumento generale di temperatura riscontrato su tempi lunghi: dal 1880 al 1950 la crescita è stata di 1°C, nei 40 anni successivi la temperatura è salita di un altro mezzo grado e per il 2025 si prevede un aumento ben più consistente, fino a 10°C alle alte latitudini. In gran parte le cause dell'accelerarsi di questo fenomeno sono attribuite all'''effetto serra'', particolarmente rilevante sugli Stati Uniti. La conseguente nuova legislazione per il controllo dell'aria, il Clean Air Act del 1970, ha avuto effetti tra loro contraddittori: se c'è stata una diminuzione dell'inquinamento urbano relativo alle particelle visibili e all'anidride solforosa, tuttavia è cresciuta la quantità di particelle microscopiche e di ossido di carbonio. Ancor più inquietante è l'estendersi dell'inquinamento dell'aria in zone di nuovo sviluppo, come la California, e in località del vasto territorio americano dove prima era sconosciuto: le foreste devastate dalle piogge acide sono in aumento, la coltre di foschia da inquinamento giunge a velare il cielo del Grand Canyon o del parco nazionale di Shenandoah.
Anche il controllo dell'inquinamento delle acque e del suolo presenta analoghe caratteristiche contraddittorie. La sufficiente efficienza con cui sono state controllate le immissioni degli scarichi industriali ha consentito che fiumi e laghi − incluso il già inquinatissimo lago Erie − siano più puliti e limpidi che in passato. Ci si è accorti, tuttavia, che è cresciuta l'immissione incontrollata di inquinanti da punti diffusi, come campi e fattorie, miniere, strade urbane. Un altro potenziale rischio ambientale deriva dai siti di discarica dei rifiuti tossici. A parte i casi di depositi incontrollati, risalenti ai decenni scorsi e che si vanno ora scoprendo, ci sono ben 802 depositi a rischio, che prossimamente saliranno a circa 1000. La concentrazione dei siti di questo genere è significativa, perché sono addensati negli stati della vecchia industrializzazione, cioè quelli del Nord-Est e dei Grandi Laghi: quattro stati (New Jersey, New York, Pennsylvania e Michigan, in ordine decrescente) ospitano oltre un terzo dei depositi pericolosi.
Un altro aspetto riguarda la lotta all'erosione del suolo. L'intervento federale finanzia gli agricoltori che lasciano per più anni a riposo il terreno o applicano tecniche di aratura e lavorazione adeguate. Si stima che la metà del suolo annualmente asportato dall'erosione provenga dai terreni agricoli, finora coltivati senza precauzioni particolari.
Popolazione. - Mentre altri paesi sviluppati hanno visto rallentare o fermarsi la crescita demografica, negli S.U. la popolazione negli ultimi anni ha continuato a crescere con costanza. Nel decennio intercensuario 1970-80 la crescita è stata dell'11,4%, quasi pari a quella del precedente decennio ( + 11,8%), e negli anni successivi il ritmo non ha avuto flessioni sensibili. Il numero dei residenti è quindi cresciuto da 203,3 milioni (1970) a 226,5 milioni (1980) e 248,7 milioni (1990). Le proiezioni per il 2010 prevedono una crescita che nell'ipotesi intermedia dovrebbe portare a 298 milioni gli abitanti (317 milioni come massimo, 278 come minimo).
La natalità ha tassi abbastanza elevati, anche se non ai livelli del baby boom degli anni 1946-55: attualmente si mantiene su 15,6÷15,8‰, con un leggero incremento rispetto ai minimi del 15ı degli anni Settanta. In parte la natalità ancora elevata è da attribuire al comportamento demografico di specifici gruppi etnici: essa infatti è più elevata della media nella comunità nera e in quella di origine latino-americana. Anche nella distribuzione geografica si notano squilibri: Alasca e Utah hanno i tassi più elevati, per l'età giovane nel primo stato e per la prevalenza religiosa mormone nel secondo, mentre in Texas, Nuovo Messico, Distretto di Columbia e Louisiana, i tassi elevati si possono collegare alla predetta motivazione etnica.
Anche la mortalità ha tassi abbastanza costanti, stabilizzati negli ultimi anni intorno all'8,5÷8,7ı annuo; questi livelli si erano raggiunti d'altronde già da diversi anni. Sono cambiate soltanto le componenti della mortalità: oggi le cause di morte legate al numero di anziani, sempre crescente, ne sono la componente principale, mentre la mortalità infantile, precedentemente rilevante, è diminuita fino a livelli molto bassi (10ı). Anche in questo caso gioca però una differenza etnica: la mortalità della comunità nera è ancora connessa a una mortalità infantile relativamente forte, e comunque all'incirca doppia di quella dei bianchi (17÷18ı). Il saldo naturale globale degli S.U. è positivo, per una crescita di circa 2 milioni di abitanti all'anno, pari al tasso dello 0,8% in media.
La speranza di vita della popolazione statunitense è salita dai 70 anni (alla nascita) del 1965 ai 77 circa del 1992. Sono rimaste comunque le differenze di sesso e di razza. Tra i bianchi, l'uomo ha una speranza di vita di 74 e la donna di 79 anni; tra i neri, le cifre sono di 65 per gli uomini e di 73 per le donne.
La composizione della popolazione per sesso rimane a favore della parte femminile, che è il 51,2% del totale (1991), pressoché uguale al 1970. Invece la composizione per età vede un lento e progressivo invecchiamento della popolazione. L'età media, di 30 anni nel 1980, è passata a 33,1 nel 1991. L'invecchiamento dovrebbe crescere, man mano che la generazione del predetto baby boom si approssima alla mezza età. L'attuale percentuale di anziani (di 65 anni e più) è di 12,6, pari a circa 32 milioni di persone, contro i 65 milioni di giovani sotto i 18 anni (26% del totale). Si prevede che la quota di anziani salirà al 13% nel 2000 e a cifre ancora più elevate nei primi decenni del prossimo secolo, in cui ci sarà un anziano su 5 abitanti: la situazione rispetto al gruppo di giovani sarà rovesciata.
I problemi per il futuro sono facilmente intuibili, ma già adesso l'attenzione verso le persone anziane vede una situazione contraddittoria. Il mercato dei beni di consumo e dei beni durevoli si è mosso vivacemente: come esempio ricordiamo che la rivista Modern Maturity (22,8 milioni di copie) è la prima del paese per tiratura, ed è veicolo di promozione pubblicitaria di prodotti specializzati. Anche il mercato di abitazioni ''alternative'' ha avuto un forte aumento: si tratta di case di riposo vere e proprie, insieme a comunità alloggio, villaggi riservati ad anziani o semplicemente case a basso costo fornite di qualche servizio per gli anziani. Ma, per altro verso, non mancano aspetti negativi e il reddito di cui godono gli anziani pensionati è il problema più grave. Le pensioni sono piuttosto basse, e il reddito di chi si ritira dal lavoro scende improvvisamente di un terzo o anche della metà, con la conseguenza che molti anziani si trovano a fronteggiare per la prima volta in vita loro uno stato di povertà. Infatti, circa un pensionato su 8 ha un reddito al di sotto della soglia ufficiale di povertà, cioè generalmente pari o inferiore alla metà di quello nazionale medio. La situazione è ancora peggiore per le donne, per gli anziani di oltre 80 anni, per le minoranze meno favorite. Una pensionata nera, di età avanzata, ha il 60% di probabilità di avere un reddito al di sotto della soglia di povertà. Come risposta ai disagi, alcuni cercano un nuovo lavoro, magari a tempo parziale, altri cambiano residenza, alla ricerca di località con costo della vita meno caro.
L'immigrazione non è più quel fattore di crescita demografica che era in passato. Ogni anno varcano legalmente le frontiere circa 700.000 nuovi stranieri (media 1981-90). Decisamente cambiata è soprattutto la provenienza: quasi scomparso l'apporto europeo, domina l'origine latino-americana (Messico, area caribica e centro-americana). Alle cifre predette si deve aggiungere una più numerosa immigrazione stagionale negli stati di confine con il Messico, più un'immigrazione clandestina difficilmente valutabile, anche perché ampiamente tollerata nei periodi di espansione economica. Questi nuovi apporti, combinati con il già accennato comportamento demografico differenziato, hanno provocato un nuovo assetto della composizione etnica. La popolazione nera è salita al 12,2% (30 milioni nel 1990), contro l'11,1% del 1970. Ma la crescita maggiore è quella della comunità o, meglio, delle diverse comunità di lingua ispanica, che contano 22,4 milioni di residenti legali (1990), in continua espansione e con forti concentrazioni negli stati meridionali (Texas, California, Florida) e a New York.
La mobilità geografica interna è mutata negli ultimi vent'anni. Pur rimanendo la tendenza al frequente cambiamento di sede (il 18% degli abitanti cambia abitazione ogni anno), il fenomeno ha acquisito nuove caratteristiche spaziali: prevale il trasferimento di corto raggio, con un semplice 3% di trasferimenti interstatali, e quando lo spostamento è di lungo raggio si dirige per lo più da nord a sud. Gli stati con il più alto saldo migratorio positivo sono la California, come nei decenni passati, ma oggi anche la Florida, il Texas e l'Arizona.
Insediamenti e città. - La densità di popolazione, ancora bassa come media generale della confederazione, con 26 ab./km2, è in sensibile aumento nelle aree meridionali e occidentali, mentre è stabile negli stati da sempre più popolosi. Nel Medio Atlantico (stati di New York, New Jersey e Pennsylvania) era di 140 ab./km2 nel 1970 ed è ancora la stessa nel 1990, mentre in Texas e in California è aumentata del 35÷40% nello stesso periodo. Il baricentro demografico ha continuato a spostarsi verso ovest, secondo una tendenza costante da secoli: all'inizio del Novecento era nell'Indiana, nel 1970 nell'Illinois, nel 1990 nel Missouri, presso Steelville. Inoltre nell'ultimo decennio il baricentro si è abbassato dal 39° al 38° parallelo.
La popolazione urbana è cresciuta in termini globali, ma è ormai stabile in termini percentuali (73,5% nel 1970; 73,7% nel 1980, 75,0% circa nel 1990). L'afflusso verso le aree metropolitane e verso le città minori è in parte compensato dal movimento contrario verso villaggi e zone considerate rurali. Dopo il censimento del 1980 è stata fatta una nuova classificazione delle aree metropolitane, chiamate ora MSA (Metropolitan Statistical Areas), con criteri che aderiscono più che in passato al concetto di ''zona funzionale''; le aree così individuate hanno almeno 100.000 ab. e una località centrale di almeno 50.000 ab., mentre le più grandi possono avere località centrali subordinate. Ne sono state definite così 284, che ospitano 193 milioni di ab. (1990), su una superficie di 1,5 milioni di km2. Undici di queste grandi unità urbane superano i 3 milioni di ab., mentre la maggiore (New York-New Jersey-Long Island) supera i 18 milioni. Queste aree metropolitane non hanno un'unica amministrazione, anzi spesso coprono molte contee e si estendono in più stati confinanti, ma la loro individuazione contribuisce a mettere in rilievo l'estensione enorme di sistemi urbani ininterrotti. Peraltro le diverse amministrazioni confinanti sono orientate verso forme di cooperazione per risolvere i complessi problemi di gestione del territorio. È evidente l'incremento dei grandi centri del Sud, dove crescono anche i centri medio-piccoli, con ritmi persino più elevati. Invece, le grandi città settentrionali dimostrano quasi tutte stabilità negli ultimi anni, dopo un periodo (1970-80) addirittura di flessione.
Il censimento del 1980 aveva già classificato 11.400 villaggi, ufficialmente i centri con meno di 2500 abitanti, non compresi in aree metropolitane. Il loro numero è addirittura superiore a quello di un ventennio prima, quando la popolazione agricola era ben più consistente. Il fenomeno, tuttora in atto, si spiega con la trasformazione delle funzioni dei piccoli insediamenti: non più centri commerciali a servizio della campagna, ma luoghi di svariate attività terziarie avanzate e industriali. Il decentramento, che ha visto un successo particolare nel West, nel Sud e nelle Great Plains, è facilitato dal fatto che il villaggio può offrire una migliore qualità della vita, servizi più accessibili e spazi disponibili a buon mercato. Inoltre gli attuali nuovi residenti sentono poco l'isolamento, facilmente collegati come sono ai grandi centri, sia per l'informazione (televisione via cavo e via satellite, rete informatica), sia per gli affari e il tempo libero (uso intensivo dell'auto, rete aerea periferica).
Un altro aspetto dello stesso fenomeno è il decentramento urbano. Nell'ambito di una stessa città, le zone periferiche sono cresciute a fronte di uno spopolamento dei quartieri centrali, che il più delle volte hanno subito un degrado sociale e fisico. La più recente tendenza è quella di una ripresa urbanistica dei quartieri centrali, dove si costruiscono edifici imponenti e dalle qualità architettoniche spettacolari. A Manhattan si costruiscono di nuovo i grattacieli, a Detroit è sorto il Renaissance Center, a Baltimora il degradato Inner Harbor ha visto sorgere palazzi lussuosi sulle sue rive; lo stesso avviene a Chicago, St. Louis, Dallas. Ma la ricostruzione dei quartieri centrali li priva ulteriormente di popolazione, poiché questo tipo di edifici è dedicato a uffici, alberghi, centri commerciali e, solo in misura modesta, ad abitazioni.
Condizioni economiche. - Gli S.U. sono al vertice mondiale non soltanto per l'attività economica complessiva, ma nuovamente anche per il reddito pro capite, superati in questo solo di poco da taluni stati europei (Norvegia, Svizzera). La distribuzione di tale reddito non è priva di squilibri geografici: a un estremo, gli stati di Mississippi e West Virginia hanno un reddito pro capite pari a 2/3 della media nazionale, mentre all'estremo opposto il Connecticut ne ha uno superiore di 1/3 a questa media.
La superiorità degli stati del Nord-Est industrializzato sta comunque per volgersi a favore degli stati della Sun Belt, la ''cintura del sole'', che attrae migrazioni interne di persone e di attività industriali e terziarie avanzate. L'area tra il Medio Atlantico e i Grandi Laghi ha perso 1,5 milioni di addetti all'industria in meno di un decennio (1977-85), durante la fase di recessione economica. In seguito l'emorragia si è fermata, ma la perdita è rimasta. Oltre alla costa del Pacifico, che ha visto da tempo l'arrivo di attività produttive emigrate dall'Est, anche il Texas, la Florida, l'Arizona e stati tradizionalmente poveri come la Georgia ospitano sempre nuovi e crescenti impianti delle industrie più produttive, quelle cioè a tecnologia avanzata. Lo spostamento dell'asse portante dell'industria ha varie cause: tra i motivi classici, la disponibilità di spazi a basso costo, la reperibilità di manodopera a buon mercato (latino-americana) per i lavori meno qualificati, l'indifferenza dei costi di trasporto dell'energia e dei materiali, necessari in quantità non rilevanti per molte produzioni avanzate. A ciò si aggiungono due fattori meno ponderabili: in primo luogo gli stati del Sud, più conservatori, presentano condizioni più favorevoli dal punto di vista fiscale e sindacale; in secondo luogo l'ambiente naturale piacevole, con climi subtropicali e disponibilità di luoghi per il tempo libero, attira la manodopera specializzata e i tecnici assai più di un aumento di salario nelle zone urbane inquinate e nebbiose del Nord.
La popolazione attiva nel 1991 contava 125 milioni di persone, di cui circa 8 milioni disoccupate. Tra gli occupati, registrano una flessione i settori dell'agricoltura (il 2,5% dei lavoratori contro il 4,4% del 1970) e della stessa industria (23,5%, incluso il settore delle costruzioni, contro il 33,1% del 1970). In crescita risulta invece il terziario, con il 74% degli addetti; in particolare si è triplicato il sottosettore dei servizi alle imprese (pubblicità, marketing, ecc.) e quasi altrettanto quello delle attività professionali.
La produzione agricola si mantiene su livelli elevati, con il prevalere dei territori coltivati a cereali; di questi il mais (2400 milioni di q nel 1992) occupa l'estensione maggiore (29 milioni di ha), soprattutto negli stati di Illinois, Iowa, Minnesota, Nebraska, che insieme hanno la metà della superficie coltivata. Il grano e la soia costituiscono altri due prodotti strategici, in quanto sono esportati nel mondo per l'alimentazione di paesi sviluppati e sottosviluppati; una vasta gamma di altri prodotti è coltivata soprattutto per il mercato nazionale.
Quanto alle disponibilità energetiche, assai larghe, gli S.U. non puntano solo sul petrolio, ancora ampiamente sfruttato (Texas, Alasca), ma del quale è necessario importare un terzo del fabbisogno. Il carbone ha riacquistato importanza e ne vengono estratte circa 800 milioni di t; il primato della produzione non è più della Pennsylvania, ma del Kentucky, seguito dal Wyoming e dal West Virginia.
I trasporti e le comunicazioni, già ben sviluppati, hanno avuto una ulteriore crescita in alcuni settori. Il trasporto automobilistico, che si giovava di una buona rete stradale, si è arricchito di nuove autostrade (72.000 km di autostrade interstatali). Particolarmente cresciuto è il settore commerciale. Dal 1970 al 1990 le auto in circolazione sono passate da 80 a 123 milioni (+53%), mentre i camion sono passati da 18 a 56 milioni (+210%); a quest'ultima crescita ha contribuito una nuova e più liberale normativa del traffico interstatale, ma anche la generale espansione del commercio interno. Opposto andamento si è avuto nel traffico ferroviario, che ha subito un calo. Il traffico aereo ha segnato un aumento ancor più veloce, con un numero di passeggeri imbarcati annualmente passato da 382 a 466 milioni negli anni 1985-90, e in seguito cresciuto con egual ritmo. La liberalizzazione della concorrenza anche tra compagnie aeree ha visto aumentare il traffico in particolare negli aeroporti sede centrale di talune compagnie in ascesa. L'aeroporto di Chicago è tuttora il primo, con circa 30 milioni di passeggeri imbarcati annualmente; Dallas, Los Angeles e Atlanta lo seguono da vicino. New York risulta avere un traffico più numeroso se si sommano i dati dei tre aeroporti principali, e inoltre il JFK (o aeroporto Kennedy) è quello al primo posto per i voli internazionali. Esistono 17.000 aeroporti in attività, di cui 5000 pubblici; gli aerei civili in circolazione sono 275.000, dei quali circa 3200 di linea.
Il commercio estero a lungo raggio si svolge con il tradizionale mezzo navale, ma in misura crescente anche con quello aereo. Negli scambi, i paesi asiatici hanno acquistato un ruolo importante. Per le esportazioni, i principali paesi di destinazione sono, in ordine decrescente, Canada (21% del valore), Giappone (12%), Messico, Regno Unito e Germania. Per le importazioni, i primi paesi sono: Giappone e Canada (18% ciascuno), Germania, Messico, Taiwan.
Bibl.: C.F. Bennet, Conservation and management of natural resources in the United States, New York 1983; R.M. Bernard, B.R. Rice, Sun Belt cities. Politics and growth since World War II, Austin 1983; R.A. Bobbio, L'ultima città dell'Occidente. Il fenomeno urbano negli Stati Uniti d'America, Roma 1988; F. Farnocchia Petri, E. Manzi, L'America anglosassone, Torino 1991; Bureau of the Census, Statistical abstract of the United States, 1992, Washington D.C. 1992; Geographical snapshots of North America, a cura di D. Janelle, New York 1992.
Politica economica e finanziaria. - Il prodotto interno lordo degli S.U. è cresciuto nel periodo 1980-94, a prezzi correnti, a un tasso medio annuo del 6,8% circa. Nel 1994 esso ha superato i 6000 miliardi di dollari; il prodotto pro capite è passato dai 12.000 dollari del 1980 ai 23.000 circa del 1992. In termini reali, il tasso medio d'incremento del PIL è stato pari al 2,6% circa negli anni Ottanta e al 2% nei primi cinque anni Novanta, contro un valore medio del 2,8% negli anni Settanta.
L'economia ha avuto ampie oscillazioni cicliche. Nel 1982 c'è stata una forte recessione, superiore per intensità a quella del 1975; a essa è poi succeduta una prolungata fase di espansione durata fino al 1990, che ha trasmesso impulsi positivi al resto dell'economia mondiale. Tale fase è stata caratterizzata da modifiche importanti nella struttura dell'economia statunitense, specie nel settore manifatturiero e del commercio internazionale nel suo insieme. Rispetto al 7% del decennio precedente l'inflazione è significativamente decelerata; essa si è attestata sul 5,5% negli anni Ottanta ed è scesa ulteriormente al 3,5% circa in media nella prima metà degli anni Novanta. La disoccupazione è fortemente cresciuta avvicinandosi al 10% delle forze di lavoro nell'anno in cui più pronunciata è stata la contrazione dell'attività produttiva (1982): il livello più elevato del periodo postbellico. Negli anni successivi, essa è progressivamente scesa riportandosi su valori prossimi a quelli della prima metà degli anni Sessanta. Il fenomeno ha riflesso il recupero della capacità di creare nuovi posti di lavoro, in particolare nei settori dei servizi, e di assorbire così efficacemente l'espandersi delle forze di lavoro che è scaturito, oltre che dal notevole incremento demografico, dall'aumento dei tassi di partecipazione. Nel 1990, dopo un lungo periodo di espansione, l'economia statunitense è entrata in una fase di recessione, causata soprattutto dall'impennata dei prezzi petroliferi e dal calo di fiducia generati dalla Guerra del Golfo. In conseguenza di ciò è stata attuata una politica monetaria più espansiva che, insieme al ritorno dei prezzi del petrolio ai loro livelli prebellici, ha fatto sì che la recessione fosse virtualmente terminata nella seconda metà del 1991. L'uscita dalla recessione dopo la fine della Guerra del Golfo non si è tradotta però in una crescita sostenuta del PIL e la disoccupazione ha continuato a crescere sia nel 1991 che nel 1992, raggiungendo in quest'ultimo anno il 7,4%. La ripresa, favorita da persistenti bassi tassi d'interesse, è proseguita nel 1993 e 1994 accompagnandosi a un calo della disoccupazione.
Mentre nel corso degli anni Settanta e nei due decenni precedenti la bilancia dei pagamenti correnti aveva registrato in media un modesto attivo, dal 1982 si sono avuti forti e crescenti disavanzi, che hanno rappresentato un evento senza precedenti nella storia del secondo dopoguerra; essi hanno raggiunto un valore massimo nel 1987, superando i 160 miliardi di dollari. Negli anni successivi, il disavanzo si è progressivamente ridotto, raggiungendo quasi il pareggio nel 1991, ma è poi risalito drasticamente negli anni seguenti e ha superato di nuovo i 150 miliardi di dollari nel 1994. Come conseguenza dell'accumularsi di questi disavanzi, la posizione netta sull'estero degli S.U. ha registrato una brusca inversione di tendenza, passando a un saldo negativo nel 1986 dopo essere stata creditoria per l'intero periodo successivo al 1914. Il dollaro ha segnato un pronunciato apprezzamento sin dal 1980-81 riflettendo il combinarsi di una politica monetaria restrittiva (sin dal 1979) e della politica espansiva di bilancio perseguita dall'amministrazione Reagan. Il periodo di ascesa del dollaro culminava nel febbraio 1985; nei mesi successivi, con il concorso delle banche centrali che tendevano a contenerne l'apprezzamento, ivi inclusa quella americana che abdicava così alla posizione di ''benevola indifferenza'' circa il corso del cambio caratteristica della prima metà degli anni Ottanta, iniziava un deprezzamento, interrotto da un certo recupero nel 1989 e 1993 e poi fortemente acceleratosi nella prima metà del 1995 (in particolare rispetto a marco e yen).
La politica economica ha subito nel quindicennio in esame mutamenti importanti nella sua conduzione, nell'impostazione concettuale e anche ideologica. Hanno prevalso, prima, fra il 1979 e il 1982, indirizzi di politica monetaria che si rifacevano più o meno strettamente al monetarismo, come scuola di pensiero economico; ma l'elemento più caratterizzante è stato l'affermarsi dal 1980, sotto l'amministrazione Reagan, di una corrente di pensiero, detta della supply-side economics o ''economia dell'offerta'', che in modo multiforme, pragmatico e, a tratti, contraddittorio, ha fortemente influenzato gli orientamenti di politica economica, specie fiscale, degli anni successivi. La filosofia governativa è gradualmente mutata durante il secondo mandato presidenziale di R.W. Reagan (1984-88) e sotto l'amministrazione Bush (1988-92) facendosi più eclettica, e recuperando anche elementi di ''keynesianesimo'' tradizionale. Con l'insediamento alla presidenza di W.J. Clinton (1992), la politica economica è venuta a caratterizzarsi ulteriormente in senso ''interventista''.
I principali andamenti economici. - Nel 1980 il tasso d'inflazione era arrivato al 13,5%, i tassi d'interesse nominali a breve all'11,4%. Dall'ottobre 1979 la Riserva Federale aveva modificato radicalmente la conduzione della politica monetaria. Il desiderio di contenere la dinamica eccessiva dei prezzi attraverso una restrizione monetaria suggerì, infatti, di adottare la moneta come obiettivo intermedio. Con l'aumento del livello e della variabilità dell'inflazione non era infatti più possibile avvalersi del tasso d'interesse come guida della politica monetaria, mentre appariva opportuno mantenere l'andamento degli aggregati monetari entro fasce-obiettivo prefissate. Alla base della prescrizione di una regola monetaria, che consisteva nella graduale riduzione del tasso di espansione della moneta, stava l'idea monetarista secondo cui è quest'ultimo tasso che governa quello del reddito nominale e, nel lungo periodo, quello d'inflazione. In realtà furono tollerate ampie fluttuazioni della moneta e anche deviazioni dagli obiettivi programmati: le novità del nuovo regime di restrizione monetaria furono piuttosto la decisione d'indirizzare la politica monetaria all'obiettivo della stabilità dei prezzi, e la maggiore variabilità dei tassi d'interesse rispetto al regime antecedente.
Il periodo di disinflazione fu quindi segnato da forti aumenti dei tassi reali d'interesse (dall'1,9% nel 1980 al 3,3% del 1981); ne conseguirono la recessione del 1982 (il PIL scese del 2,2%), l'aumento del tasso di disoccupazione fino a quasi il 10%, un disavanzo federale che sfiorò quell'anno i 130 miliardi di dollari, pari al 3,4% del prodotto. Già alla fine del 1982, in virtù della contrazione dell'attività economica e dell'apprezzamento del dollaro alimentato dal formarsi di differenziali d'interesse a esso favorevoli, l'inflazione scendeva al 4% (da oltre il 10% nel 1981). Nel frattempo, nell'ottobre 1982, la Riserva Federale modificava le proprie tecniche di controllo in modo tale da prevenire aumenti nel livello e nella variabilità dei tassi d'interesse che sarebbero scaturiti dall'aumento della domanda di moneta causato dall'innovazione finanziaria: in particolare, l'offerta di nuovi strumenti bancari con elevata liquidità a rendimenti non regolamentati. La decisione di espandere più decisamente la creazione di moneta nel 1983 fu influenzata anche da considerazioni relative agli obiettivi finali dell'azione monetaria. Da un lato, infatti, la recessione in atto rendeva urgente allentare le condizioni monetarie, dall'altro la stessa stabilità del sistema finanziario interno e internazionale era messa in forse dal permanere di elevati tassi d'interesse. Nell'agosto 1982 il problema del debito estero dei paesi in via di sviluppo era emerso nella sua gravità e il costo del suo servizio rischiava di precipitare la crisi debitoria fino a esiti traumatici; all'esposizione del sistema bancario statunitense verso questi paesi si aggiungeva poi quella verso settori dell'economia nazionale (l'agricoltura, in particolare) severamente colpiti dall'effetto congiunto degli alti tassi e della flessione dell'attività. Con il 1983 l'inflazione fu contenuta a circa il 3%; la flessione dei tassi d'interesse e l'incremento del reddito disponibile reso possibile dalla politica di sgravi fiscali varata nel 1981 diedero impulso all'attività economica; il prodotto si sviluppò di quasi il 4%, gli investimenti dell'11%. Alla ripresa di quell'anno sarebbe seguita una lunga fase di espansione nel prosieguo del decennio; la ripresa e la successiva fase sono state stimolate dalla spinta espansiva del bilancio pubblico che da un lato alimentava la domanda aggregata, dall'altro, gravando sul mercato dei capitali, faceva lievitare i tassi d'interesse e il corso del dollaro, dando origine per tale via a crescenti disavanzi della bilancia di parte corrente.
È opportuno esaminare più in dettaglio la questione del disavanzo federale che ha dominato la storia economica degli S.U. negli ultimi quindici anni; esso si situava nell'anno fiscale 1981 sugli 80 miliardi di dollari, ma già nel 1983 raggiungeva i 200 miliardi. Il debito pubblico passava dal 34% del PIL nel 1981 al 41% nel 1983; la quota del Tesoro sul credito totale interno dal 28 al 38%, nello stesso periodo; il peso del pagamento di interessi sul debito saliva all'11% della spesa pubblica complessiva, immediatamente successivo, per dimensioni, alla spesa militare e a quella di natura sociale. Questo risultato scaturì dal concorrere degli effetti della recessione del 1982 e del programma economico di Reagan, tradottosi nell'Economic Recovery Act introdotto nel 1981. Il programma s'ispirava alla supply-side economics, nella versione semplificata e resa popolare da A. Laffer, secondo cui al crescere dell'imposizione fiscale il gettito dello stato aumenterebbe fino a una soglia massima oltre la quale calerebbe per effetto della riduzione dell'attività economica, derivante dall'eccessiva pressione fiscale. Gli elementi essenziali del programma erano i seguenti: a) una politica stretta di bilancio per ridurre il tasso di crescita della spesa al di sotto di quello delle entrate, con l'obiettivo di un bilancio di pareggio entro il 1984; b) riduzioni delle aliquote d'imposta per le persone fisiche e incentivi fiscali agli investimenti; c) una politica monetaria non inflazionistica; d) la deregolamentazione dei mercati dei prodotti e dei servizi al fine di ridurre il peso del settore pubblico nell'economia e di accrescere efficienza e competitività delle imprese.
Degli elementi succitati, quelli riguardanti la tassazione e, in misura più circoscritta, il contenimento della spesa pubblica ebbero relativo compimento e successo. L'imposta personale sul reddito fu ridotta di quasi un quarto nell'arco di tre anni; nel contempo, incentivi furono accordati agli investimenti d'impresa attraverso la facoltà di effettuare ammortamenti accelerati e la concessione di crediti d'imposta. L'amministrazione realizzò così uno dei cardini del programma di politica economica, abbassando l'imposizione e compensando parte della conseguente perdita di gettito mediante riduzione della spesa non militare; si ebbe così uno spostamento di priorità nella struttura della spesa pubblica con un aumento di quella militare dal 5,3% del PIL nel 1981 al 6,5% nel 1985-86, e una flessione delle altre componenti dal 17,6% al 17%. Lo stadio successivo fu la riforma del 1986 con cui veniva ridotta la progressività dell'imposta personale sul reddito, fissando l'aliquota marginale massima al 33%; l'imposta sulle società veniva abbassata al 34%; nel contempo venivano eliminati gli incentivi agli investimenti decisi nel 1981 e molte esenzioni e detrazioni d'imposta sulle persone fisiche.
Il disavanzo federale crebbe (dall'1% del PIL nel 1981 a circa il 4% nel 1983, permanendo su valori intorno al 3% fino al 1986), in virtù, oltre che dell'aumento delle spese militari, dell'onere del servizio di un debito pubblico crescente; la consistenza dello stesso passò dal 33%, in rapporto al prodotto, del 1981 al 50% nel 1986. La paralisi decisionale in materia di bilancio si protrasse fino al dicembre 1985 allorché, dopo un lungo negoziato tra Congresso e amministrazione, fu approvato l'emendamento (Gramm-Rudman-Hollings Act) che stabiliva un calendario di riduzione del disavanzo fino al suo azzeramento, e a tal fine prevedeva una procedura automatica di tagli di spesa qualora il disavanzo stimato per il successivo esercizio finanziario eccedesse il limite prefissato in sede legislativa. L'elemento innovativo e più efficace della nuova legge, malgrado le perplessità sollevate inizialmente, era l'incentivo che ne scaturiva perché Congresso e amministrazione raggiungessero un compromesso sul bilancio prima dell'entrata in vigore del meccanismo automatico previsto. Sotto l'impulso della nuova legge e per effetto della prolungata espansione economica, il disavanzo federale si ridusse dal 3,1% in rapporto al PIL nel 1985 all'1,5% circa nel 1989. Nel 1990, il Gramm-Rudman-Hollings Act è stato abolito e sostituito dall'Omnibus Budget Act nella speranza di conseguire un più soddisfacente controllo del deficit di bilancio, che tuttavia, a causa della recessione allora in corso, è tornato al 2,5% del PIL nel 1990 e al 3,2% nel 1991.
Le conseguenze desiderate del programma economico reaganiano sulle principali grandezze reali (risparmi, investimenti, produzione, produttività) non si avverarono. Non si ebbe l'aumento sperato nel risparmio delle famiglie: esso era pari al 9,1% del reddito disponibile nel 1981, e nel 1993 era pari a poco più del 4,5%. Con il crescere, nello stesso periodo, del risparmio negativo del settore pubblico, il risparmio complessivo del paese diminuì, e soltanto il forte afflusso di capitali esteri, sollecitato da alti tassi d'interesse, consentì di finanziare gli investimenti. Circa l'effetto atteso delle politiche d'offerta sulla produttività, principalmente attraverso la riduzione del carico tributario e la deregolamentazione nell'industria e nei servizi, avviata peraltro già sotto l'amministrazione Carter, questo fu modesto; il prodotto per addetto per l'intera economia è cresciuto a un tasso dello 0,7% annuo. Come indicatore più comprensivo del benessere economico, il reddito reale pro capite, al netto delle tasse, invece crebbe nel periodo dell'amministrazione Reagan dell'1,5% l'anno, a fronte di aumenti medi del 2,3% negli anni Settanta e del 2,8% negli anni Sessanta; risultato certamente positivo, ma fortemente influenzato dai guadagni di ragioni di scambio e dalla riduzione dell'imposizione. Con l'avvento dell'amministrazione Clinton nel 1992, la politica economica si è fatta più interventista anche se è rimasto fermo l'impegno a ridurre il deficit federale. Uno dei punti caratterizzanti del programma di Clinton, la riforma del sistema sanitario nazionale, ha tra i suoi obiettivi la riduzione e razionalizzazione delle spese sanitarie che costituiscono una quota significativa del totale delle spese federali. L'amministrazione è stata molto attiva anche sul piano delle iniziative internazionali, spingendo in favore di una conclusione positiva dell'Uruguay Round, concludendo le trattative sull'accordo NAFTA con Messico e Canada e quelle per una nuova cooperazione economica con il Giappone. La crescita economica è proseguita nel corso del 1994 anche se con alcuni segni di rallentamento. La disoccupazione si è ulteriormente ridotta e si prevedono ulteriori cali negli anni a venire. Il 1995 si è aperto con la presentazione, in febbraio, del budget per l'anno fiscale 1996 che prevede tagli alle spese, assicurando però il mantenimento di quelle per la previdenza sociale, e riduzioni fiscali soprattutto a beneficio delle classi medie. L'eliminazione del disavanzo federale resta uno dei temi centrali del dibattito di politica economica. Nel 1995, sia la camera che il senato hanno approvato risoluzioni di bilancio della nuova maggioranza repubblicana che mirano al raggiungimento del pareggio entro il 2002. Il presidente Clinton, nel giugno 1995, ha risposto con una sua proposta di realizzazione del pareggio di bilancio in dieci anni, cioè entro il 2005.
Bibl.: Per un'analitica ricostruzione storica sono da vedere le pubblicazioni periodiche: Economic Outlook (semestrale) dell'OCSE, World Economic Outlook (semestrale) del Fondo Monetario Internazionale, e Annual Report of the Council of Economic Advisers, del governo statunitense. Per vedute più sintetiche: S. Axilrod, US monetary policy in recent years. An overview, in Federal Reserve Bulletin, 1985; S. Marris, Deficit and the dollar: the world economy at risk, Washington 1985; AA.VV., America oltre il boom, Milano 1986; O. Blanchard, Reaganomics, in Economic Policy, 1987; B. Friedman, Day of reckoning: the consequences of American economic policy under Reagan and after, New York 1988; F. Modigliani, Reagan's economic policies: a critique, in Oxford Economic Papers, 1988; A. Ando, F. Brayton, Prices, wages and employment in the U.S. economy: a traditional model and tests of some alternatives, in NBER Working Paper, 4568 (1993); A. Gore, From red tape to results - Creating a government that works better and costs less: Report of the National Performance Review, Washington D.C. 1993; Congressional Budget Office, The economic and budget outlook: Fiscal years 1995-1999, ivi 1994.
Storia. - Negli S.U. alla fine degli anni Settanta giunsero a maturazione mutamenti socioeconomici e culturali che determinarono una svolta conservatrice destinata a segnare a lungo la storia del paese. Si trattò non solo di un rigetto della controcultura libertaria elaborata dai movimenti new left negli anni Sessanta, ma anche di una crisi dell'ideologia progressista, o liberal, che stava a fondamento del welfare state. La crisi economica e la ristrutturazione industriale degli anni Settanta provocarono, infatti, il dissesto del Nordest, ove il movimento sindacale era forte, e la crescita del Sudovest, terra di individualismi rampanti; al tempo stesso la ''rivoluzione dei costumi'' del decennio precedente spinse i fondamentalisti protestanti e i gruppi etnici cattolici a un approdo conservatore. Il blocco elettorale del Partito democratico, in conseguenza, si deteriorò, portando alla crisi del trinomio stato, sindacato, grande industria su cui fin dal New Deal si erano retti la politica liberal e il welfare state.
Questa serie di trasformazioni rese il Partito repubblicano recettivo a una forma di conservatorismo assai più in grado d'interpretare gli umori della popolazione di quello tradizionale di B. Goldwater. L'elaborazione dell'ideologia neoconservatrice fu opera di intellettuali, molti già progressisti, raccolti attorno a fondazioni di ricerca quali lo American Enterprise Institute e la Heritage Foundation, che vedevano nel new left e nei programmi della ''grande società'' johnsoniana una cultura politica che, abbandonato l'''individualismo americano'' fondato sull'etica del lavoro e sulla centralità della famiglia e della religione, aveva sostituito al concetto di ''uguaglianza delle opportunità'' quello di ''uguaglianza delle prestazioni''. La conseguente crescita di aspettative nella popolazione aveva causato un'eccessiva dilatazione dell'intervento statale e una contestuale ingovernabilità che minacciavano la libertà individuale e provocavano inefficienza e anarchia. Contro questi mali i neoconservatori, e l'ancor più radicale Nuova destra, intendevano rilanciare l'individualismo concorrenziale e i valori etici tradizionali, nonché smantellare lo stato sociale e la regolamentazione pubblica dell'economia, in ciò sostenuti dal rilancio delle teorie di mercato operate dalla scuola dell'economia dell'offerta (supply side). Le idee neoconservatrici filtrarono nella società per mezzo di specialisti dell'organizzazione e delle comunicazioni sociali, che le coniugarono ai mutati umori dell'opinione pubblica attraverso strutture quali il Conservative Caucus o la Direct Mailing Organization, oppure, come nel caso della Moral Majority, le diffusero fra le chiese fondamentaliste.
In vista delle elezioni presidenziali del 1980 il presidente J.E. Carter, indebolito dalla crisi economica e dai rovesci internazionali dell'anno precedente, riuscì a fatica a farsi ricandidare dal Partito democratico, che lo preferì a E. Kennedy, fratello minore del presidente J.F. Kennedy, solo perché quest'ultimo appariva ancor più vulnerabile a causa del suo progressismo e di alcuni episodi oscuri della sua vita privata. Nel frattempo i repubblicani, quasi certi della vittoria, si trovarono a scegliere fra due candidati maggiori, R. Reagan e G. Bush. Bush, legato ai circoli finanziari dell'Est e con una lunga carriera diplomatica e di direttore della CIA alle spalle, non possedeva il carisma trascinante dell'ex governatore della California e, sconfitto alle primarie, dovette accontentarsi della candidatura a vicepresidente. Reagan si dimostrò, invece, in possesso di una grande capacità di comunicazione, che gli consentiva di esprimere le idee del radicalismo conservatore, di cui era campione, con una semplicità e un senso di ottimismo in netto contrasto coi toni cupi del conservatorismo tradizionale. Appellandosi alla rinascita morale degli S.U., alle elezioni di novembre ottenne il 51% del voto popolare e 489 voti elettorali, contro il 41% e 49 voti elettorali di Carter; una schiacciante vittoria che evidenziò il passaggio al candidato repubblicano del tradizionale elettorato democratico conservatore del Sud, nonché di quello cattolico del Nord e che, accompagnata dalla conquista repubblicana del Senato e da un'avanzata repubblicana alla Camera, venne interpretata come un mandato a governare secondo i principi neoconservatori.
Reagan formò un governo di uomini esperti e conosciuti (A. Haig agli Esteri, C. Weinberger alla Difesa, D. Regan al Tesoro, nonché i consiglieri E. Meese, D. Stockman, M. Deaver, J. Baker, R. Allen agli uffici della Casa Bianca), il che gli consentì d'instaurare un rapporto di fiducia con il Congresso, ove i democratici conservatori del Sud lo appoggiarono senza riserve. Durante il 1981 gli riuscì, pertanto, di porre in essere con facilità quel nuovo corso economico che assunse il nome di reaganomics e che, fondandosi sulle idee della supply side economics, intendeva giungere a una ''reindustrializzazione'' degli S.U., risolvendo al tempo stesso il preoccupante deficit pubblico (76,2 miliardi di dollari nel 1980) e riducendo la disoccupazione, giunta al 7,6%. A tal fine Reagan fece proprio il piano Kemp-Roth per una diminuzione delle imposte del 30% in tre anni, accompagnato da tagli alle spese federali per 50 miliardi nel 1981-82 e dall'abolizione delle norme che regolavano importanti settori industriali. Significativo in questa rivoluzione diretta a rafforzare il mercato contro lo stato fu che il presidente, fedele alla sua immagine di amico dell'''uomo della strada'' sobrio e lavoratore, evitò di abolire le misure sociali rivolte ai ceti operai più solidi − pensioni, indennità di disoccupazione, programmi sanitari (Medicare) − e fece cadere i tagli sui programmi di aiuto al Terzo Mondo e su quelli di sostegno agli studenti e alle fasce sociali povere − Medicaid, food stamps, AFDC (Aid for Families with Dependent Children) −, ritenuti immorali perché spingevano coloro che ne fruivano a sopravvivere senza cercar lavoro e che, in ogni caso, andavano a beneficio di gruppi marginali o tenacemente democratici come i neri. Ripresosi dalle ferite riportate il 30 marzo 1981 in un attentato, Reagan ottenne dal Congresso quasi tutto quello che aveva chiesto e in agosto dimostrò la propria forza sconfiggendo i controllori di volo in sciopero in un confronto che rivelò la debolezza dell'intero movimento sindacale.
La reaganomics parve, però, fallire nel 1982, quando, in seguito all'ulteriore aumento dei prezzi petroliferi, ma anche a previsioni errate sulla destinazione al risparmio delle somme derivanti dai tagli fiscali, che vennero invece indirizzate al consumo, il boom delle importazioni portò il deficit commerciale a circa 38 miliardi, la produzione diminuì e la disoccupazione crebbe al 9,7%. L'anno successivo, tuttavia, mentre cresceva l'opposizione parlamentare e popolare, l'economia ebbe un'improvvisa inversione, con una spettacolare ripresa che nel 1984 ridusse la disoccupazione al 7,5% e l'inflazione al 4%. Fra le ragioni, complesse e contraddittorie, sono da annoverare il sia pur ritardato manifestarsi degli effetti della reaganomics e il rifiuto del Congresso di cancellare programmi di spesa, nonché il finanziamento della crescita col deficit di bilancio, che nel 1984 raggiunse i 195 miliardi.
L'economia fu l'area in cui il presidente rischiò di più e costruì il successo della sua amministrazione. Negli altri campi egli si mosse con un misto di azioni concrete e di quella ''politica simbolica'' che gli studiosi considerano specifico dell'agire di Reagan. Così, se il suo ''nuovo federalismo'', diretto a rafforzare gli stati e più ancora le comunità locali contro il governo federale, ebbe risvolti istituzionali concreti, esso servì anche a sostenere lo specifico modo di agire del presidente nel campo dei valori che la Nuova destra intendeva restaurare. Reagan appoggiò pubblicamente i movimenti che volevano rendere illegale l'aborto, reintrodurre la preghiera nelle scuole pubbliche e affievolire i programmi d'integrazione razziale nelle scuole; ma nel suo primo mandato non avanzò proposte legislative in materia. Egli preferiva fossero movimenti popolari a prendere l'iniziativa, come avvenne per la reintroduzione della pena di morte nella maggioranza degli stati. Da parte sua favorì la loro azione con la nomina di giudici conservatori nella magistratura federale e alla Corte Suprema, ove nel 1981 colse un successo con la nomina della prima donna mai giunta a tale posizione, la conservatrice S. O'Connor.
Il ristabilimento del prestigio degli S.U. nel mondo e la riconquista della superiorità sull'Unione Sovietica costituivano per i neoconservatori una conseguenza della ripresa morale della nazione. Reagan spostò, quindi, l'asse della politica estera dai rapporti Nord-Sud, privilegiati da Carter, a quelli Est-Ovest. Il confronto con l'URSS, da lui definita ''impero del male'', assunse subito toni da ''guerra fredda'' e portò la nuova amministrazione a una politica di riarmo che fece balzare le spese militari dal 5,3 al 6,5% del PIL fra 1981 e 1986. La pressione dell'opinione pubblica statunitense e internazionale, spaventata all'idea di un olocausto atomico, spinse, tuttavia, Reagan a riaprire i colloqui di Ginevra per l'abolizione dei missili a medio raggio (novembre 1981) e di quelli strategici (giugno 1982). Questa mossa, avversata dai falchi dell'amministrazione al punto da costringere alle dimissioni il Segretario di stato Haig, non portò ad alcun risultato perché i sovietici rifiutarono la cosiddetta ''opzione zero'', cioè la proposta di cancellare lo spiegamento in Europa dei Cruise e dei Pershing 2 in cambio dello smantellamento degli SS20 russi, quando alcuni paesi europei accettarono i primi sul proprio territorio. I rapporti fra le superpotenze continuarono a deteriorarsi nel 1983, quando fu abbattuto un aereo di linea coreano entrato per errore nello spazio aereo sovietico, e nel 1984 a causa del boicottaggio russo delle Olimpiadi di Los Angeles. Se tali avvenimenti indicavano che gli S.U. mantenevano l'iniziativa nei confronti di una dirigenza sovietica immobilizzata dai problemi della successione a L. Brežnev, morto nel 1982, la politica statunitense, condizionata dallo schema bipolare, si rivelò insufficiente nelle altre aree di tensione.
In America Centrale la tesi del complotto destabilizzante sovietico-cubano portò all'appoggio incondizionato al regime autoritario del Salvador e ai contras, i guerriglieri antisandinisti del Nicaragua; ma i problemi del Centroamerica avevano radici che andavano al di là della pur reale pressione sovietica e che il presidente non volle riconoscere, al punto da incorrere nell'opposizione del Congresso, che fin dal 1982 proibì gli aiuti militari ai contras e tagliò quelli agli stati della regione. Pur non riuscendo a ottenere risultati tangibili Reagan poté servirsi della sua politica centroamericana per mantenere vivo il sentimento anticomunista e per fini soprattutto simbolici, come nel caso dell'invasione con cui pose fine al regime marxista della piccola isola di Grenada nell'ottobre 1983. Nel Medioriente, invece, non giunse neppure a ciò e andò incontro a una logorante serie di insuccessi. La scelta di rafforzare la presenza militare nel Golfo Persico in funzione antisovietica a scapito della questione arabo-palestinese, portò al deterioramento della situazione in Libano, all'intervento israeliano del giugno 1982 e, rivelatosi questo non risolutivo, al diretto intervento degli S.U. con lo sbarco a Beirut di 2000 marines, nucleo di una forza multinazionale. Come conseguenza di una politica malconcepita, che portò anche al fallimento della proposta del nuovo Segretario di stato, il moderato G. Shultz, per una confederazione giordano-palestinese con cui risolvere il problema dei territori occupati da Israele, gli S.U. si trovarono impantanati nella questione libanese e, dopo due attentati che costarono la vita a circa trecento militari statunitensi e francesi, finirono col ritirarsi nel febbraio 1984 senza risultati.
Più attenta alla politica interna e ai rapporti con l'URSS, l'opinione pubblica statunitense non fu scossa da questi insuccessi, tanto che Reagan si presentò alle elezioni del 1984 con un indice di popolarità, circa il 55%, superiore a quello del suo ingresso alla Casa Bianca. La ritrovata prosperità ne era una delle ragioni, ma non la sola; più significativa era la fiducia che il presidente aveva instillato nella nazione e la convinzione che la ''rivoluzione conservatrice'' stesse dando i suoi frutti. Questa temperie ideologica rendeva politicamente irrilevante il continuo peggioramento dei deficit di bilancio e commerciale, nonché l'allargarsi dall'11 al 15% della quota di popolazione il cui reddito era al di sotto della soglia di povertà (la stessa percentuale del 1964). Quest'ultimo dato, al pari della crescita dell'occupazione perseguita con l'erosione dei sindacati e l'aumento degli impieghi sottopagati nei servizi, si potrebbe, però, far rientrare nella rivoluzione conservatrice, che si delineava come un progetto che, giudicando irrilevante il peso politico e insufficiente il valore morale dei gruppi sociali marginali, intendeva restaurare l'efficienza del sistema diminuendo le garanzie nei loro confronti. Accanto a ciò prese corpo una riforma tradizionalista, rilevabile per es. nelle battaglie contro l'insegnamento della biologia evoluzionista, giudicata atea, e che fece la sua vittima più illustre nel 1982, quando lo Eagle Forum, un'organizzazione conservatrice dominata da gruppi protestanti tradizionalisti, con la sua azione impedì la ratifica da parte degli stati dello Equal Rights Amendment, che avrebbe inserito nella Costituzione il diritto all'eguaglianza sessuale e che era ritenuto espressione di un individualismo distruttore della famiglia. Il successo e la novità della presidenza Reagan consistettero quindi nella sua capacità di amalgamare nel suo progetto politico efficientismo e individualismo economici, tradizionalismo morale e fondamentalismo religioso, trascinando dietro di sé settori disparati e lontani della popolazione. Ciò portò anche al rafforzarsi dell'ufficio della presidenza a scapito non più tanto del Congresso, come nei decenni precedenti, ma del partito. Il Partito repubblicano, infatti, divenne ''partito del presidente'' e, privo di una leadership collettiva riconosciuta, fu costretto ad accettare l'azione dei PAC (Public Action Committees), gruppi per lo più della Nuova destra impegnati a propagandare un singolo problema (single issue) e a sostenere i candidati favorevoli alle loro posizioni. I PAC sono stati la novità politica più rilevante del decennio e si affermarono anche nel Partito democratico, ma senza riuscire a farlo divenire maggioranza al Congresso.
Nel 1984, in vista delle presidenziali, i maggiori esponenti democratici mossero alla riconquista del partito, caduto secondo loro nelle mani di ''dilettanti'' espressione diretta della base, e trovarono il loro candidato in W. Mondale, già vicepresidente con Carter. Mondale non si rivelò dotato di grande personalità e a fatica riuscì a ottenere la nomination contro il giovane senatore tecnocrate G. Hart. La vera novità venne, invece, dal sindaco di Chicago, il pastore battista nero J. Jackson, che, pur senza speranze di ottenere la candidatura, conquistò neri e ispanici con un forte programma di riforme. La campagna presidenziale fra Reagan, ricandidato senza opposizione dai repubblicani, e Mondale fu caratterizzata dal disperato tentativo del secondo di rimontare i dieci punti di svantaggio che i sondaggi gli assegnavano; un'impresa impedita anche dalle rivelazioni sulle frodi fiscali compiute dal marito della candidata alla vicepresidenza, G. Ferraro. Di conseguenza Reagan, la cui campagna soprattutto televisiva si basava su una studiata posizione di ottimismo, ottenne una clamorosa vittoria, con un'alta percentuale di voti, sul suo avversario, che riuscì a prevalere solo nel Minnesota, suo stato natale. Uniche ombre del trionfo furono la bassissima percentuale dei votanti (53,3%) e l'incapacità repubblicana di migliorare al Congresso le proprie posizioni, già indebolite dalle elezioni del 1982.
Il secondo gabinetto Reagan fu simile al precedente, con l'eccezione dell'ingresso alla Giustizia dell'ultraconservatore E. Meese e, al Tesoro, del moderato J. Baker che scambiò con D. Regan il posto di Chief of Staff della Casa Bianca. Regan nel 1985, quando il presidente venne ricoverato per un intervento chirurgico, assunse un ruolo da primo ministro ombra tanto da spingere altri consiglieri a dimettersi. Pertanto, l'abitudine di Reagan di demandare a uomini di fiducia responsabilità chiave, se gli consentì di mantenere il ruolo di grande ispiratore politico, finì col creare un clima di intrighi e di sospetto attorno alla Casa Bianca. I problemi di politica interna che il presidente dovette subito affrontare furono quelli del deficit federale e commerciale. Convinto che dipendessero da un'insufficiente applicazione della reaganomics, propose una radicale riforma fiscale e ulteriori riduzioni ai programmi sociali. Nel Congresso, il declino della forza dei partiti aveva accresciuto l'autonomia di senatori e deputati, anche repubblicani, attenti a dimostrare agli elettori la propria indipendenza. Furono quindi essi a prendere l'iniziativa: le due principali leggi del 1985-86, il Gramm-Rudman-Hollings Act e la riforma fiscale, non vennero dal presidente ma dal Congresso. La prima prescrisse tagli automatici al bilancio di molti ministeri (fra cui la Difesa) al fine di pervenire al pareggio, nel caso Congresso e presidente non si accordassero sui tagli da operare. La seconda ridusse a due soli gli scaglioni dell'imposta federale sul reddito (15% e 27%), cancellando una selva di esenzioni e favorendo i redditi più bassi, col che avviò una delle più vaste riforme fiscali della storia americana. Le due misure, pur indice di una minore forza politica di Reagan, rientravano nella sua filosofia di governo e implicavano che tutte le parti politiche ritenessero ormai scontata la necessità di ridimensionare il ruolo dello stato.
Gli esiti del Gramm-Rudman-Hollings Act nel breve periodo non furono, però, quelli sperati, tanto che nel 1986 il deficit di bilancio raggiunse i 221 miliardi. Difficile si rivelò anche la lotta al deficit commerciale, campo in cui il presidente, liberoscambista convinto, operò in vista di ottenere autolimitazioni delle esportazioni negli S.U., soprattutto da parte del Giappone, e guidando nel 1985 una discesa controllata del dollaro. Ciononostante, nell'agosto 1986 il deficit commerciale raggiunse i 160 miliardi e divenne sempre più difficile resistere alle spinte protezioniste del Congresso. Inflazione e disoccupazione continuarono, però, a scendere consentendo a Reagan di mantenere intatta la propria popolarità, anche se il suo potere politico continuava a erodersi, come dimostrava la crescente percentuale di misure governative bocciate dal Parlamento (46,5%, e addirittura 66% alla Camera). Sconfitte significative furono, per es., quelle delle misure tendenti a proibire l'aborto e a reintrodurre la preghiera nelle scuole pubbliche, sostenute con eclatanti campagne da E. Meese e dal ministro all'Educazione W. Bennett come parte dell'''agenda sociale'' del governo.
Le elezioni congressuali del 1986 diedero la misura del mutato clima politico. Nonostante l'impegno personale di Reagan, infatti, i democratici rafforzarono la loro posizione di maggioranza alla Camera e riconquistarono il Senato. Il presidente, tuttavia, continuò a muoversi per far avanzare la sua ''rivoluzione conservatrice'' nel campo amministrativo e, soprattutto, in quello giudiziario. Nel 1986 il ritiro del Chief Justice W. Burger gli consentì di promuovere a capo della Corte Suprema l'ultraconservatore W. Rehnquist e di nominare alla medesima A. Scalia, primo italoamericano a raggiungere tale posizione. L'anno successivo, nonostante per ben due volte il Senato rifiutasse la ratifica di suoi candidati, Reagan riuscì infine a costituire una maggioranza conservatrice alla Corte (cinque su nove) con la nomina di A. Kennedy. Un avvenimento destinato ad avere ripercussioni di lunga durata sulla giurisprudenza costituzionale degli S.U., nel senso, per es., di un'interpretazione restrittiva dei diritti individuali, dato che il mandato dei giudici della Corte Suprema non ha scadenza.
La fine del 1986 portò un'altra tempesta sull'esecutivo. Rivelazioni di stampa indicarono l'esistenza di un'operazione segreta di vendita di armi all'Iran, nonostante il divieto congressuale e la rigida linea antikhomeinista del governo, per ottenere la liberazione degli ostaggi statunitensi catturati in Libano da organizzazioni filoiraniane, tre dei quali erano stati effettivamente rilasciati. L'amministrazione non poté negare a lungo l'esistenza di un accordo ''armi in cambio degli ostaggi'' e spostò la sua linea nel senso di sostenere l'assoluta estraneità personale del presidente all'accaduto. La crisi costituzionale venne evitata; ma apparve chiaro che alti funzionari della Casa Bianca avevano potuto dar vita, senza controlli, a un'operazione delicatissima e contraria a decisioni ufficiali. L'''affare Irangate'' si complicò ulteriormente con la rivelazione che i fondi ricavati dall'Iran erano stati segretamente usati per inviare armi ai contras del Nicaragua nonostante il divieto del Congresso. Lo scandalo portò alle dimissioni di D. Regan e del Consigliere per la sicurezza nazionale J. Poindexter, nonché all'incriminazione di quest'ultimo e del col. O. North che aveva materialmente eseguito l'operazione. Il presidente riuscì, con un accorato intervento televisivo del marzo 1987, in cui si assunse la piena responsabilità politica per errate azioni compiute a sua insaputa, a riconquistare l'opinione pubblica; ma la sua capacità di controllare la situazione politica venne messa seriamente in discussione. Un'ulteriore conseguenza fu la fine del predominio dell'ala radicale, sconfitta in seno all'amministrazione dai moderati G. Shultz, H. Baker, nuovo Chief of Staff, e F. Carlucci, nuovo Consigliere per la sicurezza nazionale.
Negli ultimi due anni del suo mandato Reagan incontrò crescenti difficoltà a far avanzare il suo programma. Inascoltata fu la sua richiesta di approvare un emendamento costituzionale diretto a rendere obbligatorio il pareggio di bilancio, così come caddero le proposte di smantellare numerose agencies responsabili di programmi di sviluppo e di regolamentazione economica, e di privatizzare parti del sistema postale e penitenziario. Solo in alcuni casi, come nella più rigida legislazione contro la droga e l'immigrazione clandestina, egli trovò il Congresso pronto a seguirlo; mentre in altri, per es. la parziale sostituzione dei programmi di edilizia pubblica con buoni-affitto da spendere sul mercato, dovette accettare forti norme antidiscriminatorie. La più significativa legislazione del periodo fu ancora una volta opera del Congresso. Così nel caso della legge sul commercio estero del 1988, a cui il presidente pose inutilmente il veto e che, sull'onda dei timori per l'incapacità del governo a contenere il deficit commerciale, lo impegnò a rappresaglie contro i paesi colpevoli di protezionismo o pratiche sleali. Ovvero per la legge dello stesso anno, firmata da Reagan solo per preoccupazioni elettorali, che impose un periodo di preavviso ai lavoratori in caso di licenziamento o di chiusura di una fabbrica. Frutto dell'iniziativa del senatore democratico D.P. Moynihan, anche se interna a quel ripensamento sul ruolo dello stato di cui si è detto, fu anche la legge del 1988 che mise in essere la più profonda riforma delle norme di welfare del dopoguerra. Per evitare che l'assistenza sociale creasse ''dipendenza'' in chi ne fruiva, essa impose a chi richiedeva sussidi pubblici la partecipazione a programmi d'istruzione e addestramento al lavoro organizzati dagli stati, nonché un certo numero di ore settimanali di lavoro gratuito in servizi comunitari.
In politica estera la seconda amministrazione Reagan colse notevoli successi nei rapporti Est-Ovest, ma continuò a sembrare priva di una strategia certa nelle altre aree, anche se nel 1988 si ebbero sviluppi positivi ricollegabili alla sua linea politica generale.
In Medio Oriente solo nel 1988 il Segretario di stato Shultz fu in grado di formulare una proposta significativa, quella di una conferenza internazionale per la soluzione del problema palestinese che portò in dicembre ai primi incontri fra S.U. e OLP di Y. ῾Arāfāt. Seccamente respinto da Israele, che vi vedeva una sconfessione del suo rapporto privilegiato con gli S.U., il piano Shultz venne bloccato. Rimasero, così, insoluti i problemi della regione, compreso quello del terrorismo a cui l'amministrazione aveva dato altissima priorità e che l'aveva spinta a un continuo confronto con la Libia, accusata con l'Iran di aiutare i terroristi palestinesi. L'intrico mediorientale, che aveva l'altro suo teatro nella lunga guerra Iran-῾Irāq, provocò, come abbiamo visto, lo scandalo Irangate, mentre nel Golfo Persico montava una pericolosa tensione fra gli S.U., impegnati con la flotta a consentire il passaggio delle petroliere, e l'Iran, che culminò in una serie di scontri navali e nell'abbattimento per errore da parte statunitense di un aereo di linea iraniano nel luglio 1988. L'accettazione nello stesso mese del cessate il fuoco da parte dell'Iran, prostrato dalla guerra, impedì ulteriori peggioramenti.
Nel frattempo si erano manifestati tutti i limiti della politica centroamericana dell'amministrazione, che aveva fatto del Nicaragua il test principale della sua linea di controsovversione, volta a sostenere ovunque i movimenti anticomunisti. Furono, infatti, i governi centroamericani, non gli S.U., a dar vita nell'autunno 1987 a un piano di pace che mise in moto una serie di incontri fra le parti in conflitto. Gli S.U. si trovarono invischiati in una posizione difficile e passiva, aggravata dalla spaccatura fra Congresso e presidente, che si rifletté nella loro impotenza di fronte all'uomo forte del Panama, M. Noriega, accusato di connivenza con il cartello colombiano della cocaina. Nonostante sanzioni economiche e minacce militari intervenute nella primavera 1988, Noriega riuscì, infatti, a restare al potere.
La strategia dell'amministrazione si dimostrò, invece, vincente nei rapporti con l'URSS, perché colse con esattezza i segni di crisi e di novità in quest'ultima. La lettura in chiave Est-Ovest di tutti i conflitti regionali, se mostrò limiti evidenti per quanto attiene alla loro soluzione, consentì di esercitare una pressione sull'URSS che questa, impegnata da M. Gorbačëv, segretario del PCUS dalla primavera 1985, in una profonda revisione interna, non fu in grado di sostenere, come dimostrò, per es., il ritiro sovietico dall'Afghānistān nel 1988. Gorbačëv non era leader disposto a gestire semplicemente il ridimensionamento della potenza sovietica e, quindi, tentò la strategia della distensione, instaurando un rapporto diretto con Reagan che segnò una svolta nelle relazioni internazionali. Gli incontri fra i due leaders (Ginevra, novembre 1985; Reykjavik, ottobre 1986; Washington, dicembre 1987; Mosca, maggio 1988; Washington, dicembre 1988) sbloccarono le trattative sul disarmo, portarono alla firma nel 1987 del trattato INF (Intermediate-range Nuclear Force) per lo smantellamento dei missili a medio raggio e a un avvicinamento delle posizioni sulla riduzione del 50% dei missili intercontinentali. Shultz e il negoziatore P. Nitze furono gli artefici statunitensi degli accordi alla cui base, però, vi era l'intuito di Reagan. Nella primavera 1983 egli aveva annunciato il programma SDI (Strategic Defense Initiative), un avveniristico progetto di difesa antimissile del territorio americano con raggi laser piazzati su piattaforme orbitanti (v. scudo spaziale, in questa Appendice). Per quanto dimostratosi tecnicamente inagibile e ridimensionato negli obiettivi, lo SDI minava la supremazia missilistica sovietica e quindi lo status di parità politico-militare fra le superpotenze. Potenzialmente destabilizzante, esso si trasformò in un veicolo di pace quando Gorbačëv decise di servirsi del suo impatto per raggiungere un accordo che consentisse all'URSS di ridurre le insostenibili spese militari, e Reagan, da sempre preoccupato di una guerra atomica, lo seguì sulla strada del disarmo.
La ratifica del trattato INF da parte del Congresso consentì a Reagan di avviarsi trionfalmente alla conclusione della sua presidenza al termine della quale, nel gennaio 1989, i sondaggi di opinione gli assegnarono un 68% di favore popolare, la più alta percentuale di ogni presidente nel dopoguerra. Esclusa dalla Costituzione una sua terza candidatura, il campo dei concorrenti alle presidenziali del 1988 si presentò molto folto. Fra i democratici fu il governatore del Massachusetts M. Dukakis a ottenere la candidatura su un lotto di avversari fra cui il solo J. Jackson apparve dotato di vero carisma. Dukakis giocò la carta del progressismo efficientista per risolvere i problemi del deficit e attenuare le ingiustizie sociali provocate dai neoconservatori. In campo repubblicano il vicepresidente G. Bush s'impose sul senatore R. Dole e sui candidati dell'estrema destra del partito, muovendosi all'insegna della continuità con il presidente Reagan, pur fra alcuni significativi distinguo, quali l'impegno a mantenere alti standard morali nell'azione dell'amministrazione, a una lotta non solo verbale contro la droga e a una maggiore attenzione ai problemi degli emarginati. Forte del rasserenato clima internazionale e sostenuto dal costante miglioramento della situazione economica − nel corso dell'anno il deficit commerciale scese per la prima volta, attestandosi a fine 1988 a 127 miliardi, e la disoccupazione calò a sua volta al 5,5%, mentre la crescita del PIL si mantenne sostenuta − Bush riuscì a invertire un iniziale svantaggio nei sondaggi con una campagna ideologica che dipinse Dukakis come un liberal cedevole nei campi della lotta al crimine e alla droga. A novembre, sebbene Dukakis desse dimostrazione di maggiore forza del previsto ottenendo il 46% del voto popolare, Bush vinse agevolmente, anche se i democratici rafforzarono la loro maggioranza al Congresso.
G. Bush, un conservatore di stampo tradizionale legato ai valori dell'establishment economico del Nordest, giunse alla presidenza nel momento in cui il Partito repubblicano aveva sposato il conservatorismo populista e aggressivo nato nel Sudovest del paese. Un movimento che egli non comprendeva a fondo e del quale non era in grado di divenire il leader, ma al quale il peso dell'eredità di Reagan lo costrinse a rimanere fedele. Privo di un vero programma di politica interna − al di là delle intenzioni di creare un'America più umana verso i propri cittadini −, Bush si dedicò con entusiasmo alla politica estera. Anche in questo campo egli aveva una visione cauta e tradizionale, tanto da dare l'idea di credere che l'Unione Sovietica personificasse ancora il pericolo comunista. Solo dopo il mancato intervento di Mosca nei drammatici eventi che portarono al crollo dei regimi comunisti in Europa e alla caduta del muro di Berlino, si convinse delle intenzioni riformatrici di Gorbačëv, che incontrò il 2-3 dicembre 1989 a Malta. Un vertice ''informale'' e senza risultati immediati, che dimostrò tuttavia la possibilità di una vera collaborazione fra le due superpotenze. Questa collaborazione non fu messa in discussione neanche dall'invasione statunitense di Panama nello stesso dicembre 1989 (v. panama in questa Appendice).
Per tutto il 1989 l'azione di Bush fu facilitata dal positivo andamento dell'economia, che registrò una crescita del 2,5% del PIL, con la disoccupazione ridotta al 5,3%. La situazione però prese lentamente a peggiorare nei primi mesi dell'anno successivo e a fine 1990 si cominciò a parlare di crisi. Le ragioni del mutamento non erano solo di natura ciclica, ma provenivano dal retaggio della presidenza Reagan, che aveva fatto perdere concorrenzialità al sistema produttivo e dato il via a una pericolosa spirale d'indebitamento pubblico sui mercati interno e internazionale per finanziare le spese federali senza ricorrere a tasse. La politica fiscale reaganiana aveva inoltre provocato un peggioramento nella distribuzione della ricchezza − solo il 20% delle famiglie, le più ricche, avevano migliorato il proprio reddito − con conseguenze negative sui consumi. A ciò si aggiungevano la saturazione del settore dei servizi, ormai incapace di assorbire la manodopera espulsa dall'industria, e le avvisaglie di una crisi finanziaria di vari stati e città, che non riuscivano a raggiugere il pareggio di bilancio a cui si erano obbligati.
Al deteriorarsi della situazione economico-sociale non faceva riscontro una volontà di azione comune. Le fratture ideologiche degli anni Ottanta, infatti, si approfondirono al punto da far temere una sorta di frantumazione del paese. Il movimento conservatore, al cui interno cresceva il fondamentalismo cristiano, insisteva sulla fine del welfare state e sull'intervento dello stato per imporre i valori della tradizione, onde eliminare l'''abitudine alla dipendenza'' che le politiche sociali pubbliche avevano ingenerato nei singoli e che il movimento riteneva all'origine dell'immoralità delle classi medie e del degrado dei ghetti urbani. Sul versante opposto montava il radicalismo di neri, ispanici e nativi americani , nonché quello del movimento delle donne e degli omosessuali, che non chiedevano più tanto la parità dei diritti, quanto il riconoscimento del ''diritto alla differenza'', vale a dire un trattamento paritario fra le loro specifiche culture e i valori dei bianchi e maschili. Il movimento multiculturale − che poteva giungere a forme escludenti di organizzazione e a richieste di separatismo in materia scolastica − e il movimento conservatore, a sua volta sempre più aggressivo, diedero il via a una serie di ''guerre culturali'', come sono state definite, destinate a durare al di là della presidenza Bush.
I democratici, ancora scossi dalle sconfitte degli anni Ottanta, nel 1990 non si lasciarono trascinare in questo scontro e, fedeli alla nuova ortodossia del pareggio di bilancio che avevano anch'essi abbracciato, preferirono attaccare la politica di bilancio di Bush per la sua incapacità a raggiungere il pareggio. Dopo una lotta defatigante, il bilancio venne approvato solo a pochi giorni dalla scadenza elettorale di novembre, con un compromesso che indebolì il presidente, costretto a riconoscere l'esigenza di ritocchi alle imposte, ma che indicò anche l'assenza di una chiara proposta politica fra i suoi avversari, i quali non ottennero infatti che una modesta vittoria alle elezioni di medio termine. Il bassissimo afflusso alle urne, appena il 36,4%, segnalò anche una diffusa disaffezione per la politica.
Nel corso del 1990 la politica interna passò, in ogni caso, in secondo piano a fronte degli eventi internazionali. Il processo di normalizzazione dei rapporti con l'URSS proseguì speditamente con il summit di Washington del 31 maggio-3 giugno, durante il quale furono normalizzate le relazioni commerciali, ci si avvicinò alla firma del trattato START per la riduzione degli armamenti atomici strategici e si siglò quello per la riduzione delle armi chimiche; ma l'ottimismo dominante venne interrotto all'inizio di agosto dall'invasione irachena dell'emirato del Kuwait. L'amministrazione Bush, colta di sorpresa, reagì con prontezza dichiarando di non accettare il fatto compiuto e inviando navi e truppe nel Golfo Arabico e in Arabia Saudita. Nei mesi seguenti il presidente riuscì a formare una vasta coalizione internazionale anti-irachena, giocando sulle profonde inimicizie all'interno del mondo arabo e sulla dipendenza europea e giapponese dal petrolio del Golfo. Bush non cercò di approfondire le cause regionali della crisi con un approccio più consono agli anni Novanta, ma scelse la strada dello scontro ideologico frontale e delle alleanze militari egemonizzate dagli S.U., tipiche della ''guerra fredda''. In ogni caso Bush ebbe successo. L'intransigenza del presidente iracheno Ṣ. Ḥusayn aprì la strada all'unanime risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU del 29 novembre 1990, che autorizzava l'uso della forza per costringere gli iracheni al ritiro. L'operazione Desert storm, iniziata il 16 gennaio 1991 con massicci bombardamenti aerei statunitensi e alleati, proseguì il 24 febbraio con un attacco terrestre che in quattro giorni travolse le forze irachene e liberò il Kuwait. La rapidità della vittoria, ottenuta contro ogni aspettativa con perdite lievi, fece del comandante delle forze degli S.U., generale N. Schwarzkopf, un eroe, scatenò un'ondata di patriottismo e portò l'indice di popolarità del presidente a oltre l'85%, anche se molti non capirono perché la guerra non fosse proseguita fino alla caduta di Ṣ. Ḥusayn. In realtà Bush, preoccupato dal vuoto di potere che si sarebbe potuto creare in ῾Irāq e dall'eventualità di una lunga campagna militare, preferì attenersi ai contenuti delle risoluzioni delle Nazioni Unite che non contemplavano la caduta di Ḥusayn.
Bush approfittò del successo per avviare a soluzione il conflitto palestinese-israeliano. La fine della ''guerra fredda'' aveva reso Israele meno importante ai fini strategici degli S.U., come dimostrò la decisione con cui questi chiesero agli Israeliani di non rispondere agli attacchi missilistici di Ḥusayn nel corso della Guerra del Golfo. Una serie di visite in Medio Oriente del segretario di stato J. Baker portò alla convocazione della conferenza di pace di Madrid il 30 ottobre 1991, sotto la presidenza congiunta di S.U. e URSS. Nel frattempo, però, nonostante e forse anche a causa del terzo summit Bush-Gorbačëv −che si era svolto a Mosca a fine luglio e aveva portato alla firma del trattato START −, in agosto si era avuto il fallito colpo di stato contro Gorbačëv che fece assurgere B. El'zin a vero protagonista della politica russa e portò rapidamente alla disgregazione dell'Unione Sovietica.
A fine 1991 gli S.U., terminata la ''guerra fredda'' con la dissoluzione dell'URSS, erano rimasti l'unica superpotenza mondiale. La vittoria nel Golfo, l'avvio del processo di pace arabo-israeliano che proseguì con successo nel 1992, la cooperazione con il leader russo El'zin che portò alla firma di un ancor più incisivo accordo START ii, le crescenti difficoltà del regime castrista a Cuba, nonché le migliorate relazioni con la Cina e il Vietnam, parevano indicare l'avvento di una nuova pax americana. I successi, che sembravano quasi automatici, sollevavano però domande sul ruolo del paese nella nuova situazione internazionale e in un'economia globale, a cui il presidente non pareva in grado di fornire risposte.
Il 29 aprile 1992 a Los Angeles, dopo l'ingiusta assoluzione di alcuni poliziotti accusati di violenza verso un nero, scoppiò una rivolta razziale che durò sei giorni e provocò 58 morti. Era il segno di una crisi politica profonda. All'improvviso il paese parve accorgersi che il presidente non era riuscito a trovare il bandolo per risolvere i conflitti ideologici e i problemi della droga e della violenza, così come era fallita la sua politica economica, legata in modo non innovativo alle misure reaganiane di diminuzione delle imposte, che non avevano impedito la crescita della disoccupazione fino al 6,7% e la diminuzione dello 0,6% del PIL nel 1991, nonché una previsione di 351 milioni di dollari di deficit per il 1993. A giugno, infine, la Corte suprema, che Bush aveva posto interamente nelle mani dei conservatori con alcune nomine molto controverse, affermò contro ogni attesa la costituzionalità del diritto di aborto, una sentenza che suonò come una sconfitta politica del presidente.
Bush, che a fine 1991 era talmente forte da spingere i maggiori esponenti democratici, a partire dal governatore di New York M. Cuomo, a non presentarsi candidati alle presidenziali, nella primavera del 1992 appariva indebolito e messo sotto attacco anche dalla destra religiosa del suo partito, guidata da P. Buchanan. All'improvviso i pur semisconosciuti aspiranti democratici parvero avere delle possibilità di vittoria. Fra di essi emerse il giovane governatore dell'Arkansas, W.J. (Bill) Clinton, che ottenne la nomination con un programma centrista, che, se prometteva la riforma del sistema sanitario per ricomprendere in esso tutti i cittadini degli S.U., riconosceva la necessità di contenere spese e tasse, di legare contributi di welfare state all'accettazione di programmi di riqualificazione e di unire strettamente prevenzione e repressione nella lotta al crimine e alla droga.
La comparsa di un candidato indipendente, il miliardario R. Perot, che ottenne un largo seguito soprattutto fra i potenziali elettori di Bush con un programma libertario e antistatalista, indebolì ulteriormente il presidente, che non riuscì a montare una campagna elettorale efficace. A novembre Perot ebbe il 19% dei voti e contribuì alla disfatta di Bush, che ne ottenne il 37,5% con 168 voti elettorali, contro il 43% e 480 voti elettorali per Clinton.
Nonostante la vittoria dei democratici, ottenuta dopo tre sconfitte alle presidenziali, nel 1992 la maggioranza della nazione era rimasta conservatrice. Il presidente Clinton, che pure aveva un Congresso amico, doveva dimostrare a un paese ideologicamente diviso che una politica di riforma socialmente equa e al tempo stesso non statalista e capace di proporre valori unitari era possibile. Nei due anni successivi egli non parve riuscire in quest'intento. Il suo progetto di riforma sanitaria, osteggiato dalle compagnie di assicurazione che temevano gravi perdite e dai datori di lavoro a cui sarebbe toccato sostenere buona parte dei costi, fu infatti sconfitto in Congresso dopo un anno e mezzo di lotta, mentre le elezioni congressuali dell'autunno 1994, segnate da un'ulteriore avanzata della destra cristiana, diedero la maggioranza ai repubblicani, guidati dall'ultraconservatore N. Gingrich, divenuto presidente della Camera dei rappresentanti.
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Lingua. - Negli S.U. oltre 200 milioni di persone parlano l'inglese come madrelingua con un alto grado di omogeneità, dovuto al continuo spostamento e ai contatti delle popolazioni sin dal periodo coloniale, come anche alla non marcata divisione fra classi sociali e a una certa tendenza per la standardizzazione. L'inglese britannico (English English) e l'inglese americano (North American English) costituiscono le principali varietà d'inglese nel mondo, ammesse ora ambedue nell'insegnamento (v. anche inglese, lingua, in questa Appendice). Lo standard britannico (RP o Received Pronunciation, usato con lievi differenze anche nella Scozia, nel Galles, nell'Irlanda del Nord e nella Repubblica Irlandese, in Australia, nella Nuova Zelanda e nella Repubblica Sudafricana) corrisponde all'uso nella BBC, nelle scuole pubbliche e nelle classi borghesi, e ha la sua origine nell'Inghilterra sudorientale; lo standard americano corrisponde all'uso colto negli S.U. e nel Canada, e tende oggi a imitare l'uso delle reti televisive più importanti (Network English) di origine centro-nordorientale.
L'inglese venne introdotto nel continente nordamericano e vi si è andato modificando attraverso tre principali direttrici: l'insediamento di 4 milioni di colonizzatori, provenienti soprattutto dalla Gran Bretagna, lungo la costa orientale dall'inizio del Seicento alla fine del Settecento; l'immigrazione dall'Europa del Nord, specie dall'Irlanda e dalla Germania, fino al 1890 e la simultanea espansione verso l'Ovest; l'immigrazione dall'Europa meridionale dopo il 1890, con forte partecipazione degli Italiani. Dalla metà del 20° secolo ha prevalso l'immigrazione dal Messico, da Portorico, dai paesi latino-americani e dall'Asia sudorientale. L'introduzione dell'inglese in periodo elisabettiano e le condizioni incontrate nel Nuovo Mondo spiegano lo sviluppo diverso e indipendente dell'inglese nordamericano e alcune sue caratteristiche arcaiche: tra queste ricordiamo la conservazione della pronunzia di /r/ post-vocalica e della /a/ schiacciata (flat a), ambedue tipiche dell'inglese fino al Settecento (v. XXXII, p. 588). Il contatto con popolazioni indigene, con coloni di lingua non inglese e con le ondate successive degli immigranti ha contribuito all'arricchimento del lessico nordamericano. Dal contatto con le lingue amerindiane derivano termini come moose, skunk, squash, sequoia, chipmunk; dai coloni francesi vengono prestati, per es., chowder, prairie; da quelli ispanici marijuana, armadillo, taco, sierra, pueblo, canyon; dall'olandese derivano coleslaw, cookie, yankee, boss; dal tedesco noodle, delicatessen, sauerkraut, hamburger; dall'italiano minestroni, pizza, ravioli; dal cinese chow; dalle lingue africane jazz, banjo; dallo yiddish schlep ("portare").
Fra le varietà regionali proposte dal Linguistic atlas of the United States and Canada (1939-), ora registrate nell'imponente Dictionary of American regional English di F.G. Cassidy (1985-), si distinguono quelle della Nuova Inghilterra, di New York City, dell'entroterra settentrionale (Grandi Laghi), del North Midland (New Jersey, Pennsylvania, Delaware, Maryland), del South Midland (West Virginia, North Carolina, Kentucky, Tennessee), del Sud e del controverso General American, ognuna con caratteristiche particolari che però non impediscono la comunicazione e perciò non sono paragonabili alle differenze dialettali del Regno Unito.
La riforma nella grafia (honor per honour, wagon per waggon, ecc.) e l'importante opera lessicografica di N. Webster (1758-1843), che ambivano all'autonomia di una lingua americana con tendenze semplificatorie non sono sfociate però in uno standard prescrittivo e comunemente accolto da tutti gli americani. Le importanti ricerche sociolinguistiche compiute da W. Labov mettono in evidenza la presenza anche di varietà sociali di cui l'inglese della popolazione nera è quella più spiccata e più studiata. Tale varietà (il cosiddetto Black vernacular English) tende oggi a essere spiegata come un creolo la cui base sarebbe un pidgin parlato sulla costa dell'Africa occidentale e sviluppato ulteriormente negli Stati Uniti. Fra i creoli statunitensi più importanti vi sono inoltre il gullah lungo la costa della Carolina del Sud, il creolo francese della Louisiana e il creolo hawaiiano.
Il plurilinguismo presente negli S.U. è stato indagato da J.A. Fishman (1966) il quale elenca 111 lingue diverse parlate come madrelingua da 35 milioni di persone, con 17 milioni di bilingui: fra queste lingue lo spagnolo è la più rilevante, usata specialmente nella Florida del Sud, nel Sudovest degli S.U. e a New York. Nel 1968 è stato approvato il Bilingual Education Act, con lo scopo di favorire gli alunni con conoscenza limitata dell'inglese, ma tale legge ha suscitato forti polemiche sulla politica linguistica da seguire. Recenti studi illustrano come la maggioranza degli emigrati venga assimilata linguisticamente già dalla seconda generazione, e come l'uso della lingua originaria sia limitato alla sfera privata.
Per quanto riguarda le differenze linguistiche fra l'inglese britannico e quello nordamericano, oltre a quanto già detto in XXXII, p. 588, si possono segnalare la lenizione di /t/ intervocalica (per cui non c'è differenza fra latter e ladder), e nelle parlate del Sud la tendenza alla monotonghizzazione (high, ride=[ha'] [ra'd]). L'accento cade non di rado su sillabe diverse, specie nei forestierismi (S.U.: cígarette, ínquiry, résearch, wéekend; Gran Bretagna cigarétte, inquíry, reséarch, weekénd). Certe ortografie ''sensazionali'', usate soprattutto nella lingua pubblicitaria ma anche nella segnalazione stradale, sono tipiche degli S.U.: hi, bi, lo, thru, nite, xing per high, buy, low, through, night, crossing. Nella morfosintassi troviamo numerose differenze, sia pur lievi, come la sostituzione generale dell'ausiliare modale shall dell'inglese britannico con will in quello americano, di should con would nelle ipotetiche; la sostituzione di forme verbali forti con quelle deboli nel passato (burned, spelled, dreamed, invece di burnt, spelt, dreamt); la posizione diversa dell'attributo (the Hudson river/the River Thames); l'uso di preposizioni diverse (to be on a team, to be on sale/to be in a team, to be in a sale), ecc. Una notevole agilità linguistica si nota inoltre nella frequenza con cui l'inglese americano cambia la categoria grammaticale nella formazione di parole nuove: dal nome al verbo (an author >to author, a room>to room, a contact>to contact), dall'aggettivo al nome (personal>the personals, nelle inserzioni pubblicitarie), dal verbo al nome (to dump>a dump). Notevole anche la produttività di derivazioni del tipo −ify e −ize (city>citify; slenderize, burglarize, demoralize).
Differenze notevoli riguardano il lessico: per es. in America la posta è detta mail e il postino letter-carrier o mail man, in Gran Bretagna rispettivamente post e postman; la ferrovia è railroad in America e railway in Gran Bretagna; il bagaglio americano baggage corrisponde all'inglese luggage, truck (il camion) a lorry, gas(oline) a petrol (benzina), subway a underground, ecc. Si notino anche voci quali go-getter ("tipo intraprendente"), joy-ride ("gita in automobile rubata"), dope-fiend ("appassionato di droga"), ecc.
Il prestigio che gli S.U. riscuotono nel mondo continua a esercitare il suo influsso come superstrato linguistico; basti pensare all'afflusso di anglo-americanismi in italiano, nonché in molte altre lingue del mondo. Esiste inoltre una spinta all'uso di un tipo ridotto d'inglese anglo-americano come lingua franca in molti settori (economico, scientifico, culturale).
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Letteratura. - Negli ultimi anni la scena letteraria statunitense ha assunto sempre più le caratteristiche di un'estrema eterogeneità, in costante e contraddittorio mutamento. Alla coerenza di ricerca linguistica e tematica di scuole e movimenti dalle poetiche relativamente ben definite si è andata sostituendo una proliferazione di tendenze dalla vita assai breve e che spesso si trasformano in direzioni del tutto inattese. La rete di influenze che determina l'ambito della tradizione o che viceversa produce l'atto di sfida dell'innovatore non è più così chiaramente delineata come poteva essere per le correnti conservatrici o rivoluzionarie di qualche decennio fa, ed è ormai difficile leggere in questo o quell'atteggiamento estetico l'intenzione di seguire una certa linea convenzionale o al contrario di operare una scelta radicalmente eversiva. Del resto, la medesima etichetta della ''postmodernità'', di gran voga nelle descrizioni della civiltà contemporanea, ha ormai perso ogni funzionalità distintiva, e invece d'individuare particolari modalità letterarie o più in genere culturali è giunta a definire l'intera epoca che stiamo vivendo, in tutte le sue configurazioni: e gli S.U., unica vera potenza ''imperiale'' di questa fine di millennio, sono diventati il fulcro irradiatore della postmodernità, ovvero dell'ideologia che ha sostituito l'immagine della società come universo gerarchicamente strutturato in classi e polarizzato nei loro conflitti con una nuova visione del mondo fondata sulla pluralità tendenzialmente infinita delle interrelazioni orizzontali tra innumerevoli centri di produzione e diffusione dell'informazione. Non più determinati dal possesso dei mezzi di produzione, trasformazione o distribuzione di beni materiali, il potere e la ricchezza sarebbero ora generati dal controllo della virtualità immateriale dei processi informativi.
In ambito letterario questo spostamento della prospettiva socioculturale ha condotto a una crisi profonda del significato stesso del fare letteratura. Se all'origine del valore della vita degli individui e delle collettività non v'è più né la materialità dei rapporti socioeconomici né la trascendenza di una verità superiore ormai dispersa nella galassia cibernetica, ne consegue che la letteratura medesima si trova a non poter più parlare di realtà esterne al mondo della comunicazione, cioè al suo mondo. Di qui l'enfasi sempre più pronunciata sulle dinamiche metaletterarie e autoriflessive, ovvero sui procedimenti di costruzione e d'interpretazione del testo, che rimandano continuamente a se stesse e perdono progressivamente di vista ogni ipotesi di intervento concreto sulla realtà. Il vero dramma dell'autore contemporaneo non è più quello dell'essere troppo radicale, ''maledetto'' da una società che non ne accetta le visionarie deformazioni della ''realtà'', ma al contrario quello di non riuscire ad aprire questo conflitto, di non essere più in grado di operare lo ''scandalo'' in un universo dove ogni segno − anche il più sovversivo − viene alla fine assimilato e depotenziato all'interno dell'incessante dialogo intertestuale degli universi immaginari creati dalle reti telematiche.
Lo scrittore americano contemporaneo − sia esso un maschio bianco benestante o un membro di una qualsiasi delle sempre più numerose minoranze sociali, etniche o sessuali − non può più credere, quindi, d'essere il portavoce di una rivoluzione, sociale o estetica o quant'altro. Può però utilizzare le soluzioni formali elaborate nel corso dei turbolenti anni Sessanta per rendere più ''visibili'' esperienze usualmente lasciate al margine dell'orizzonte culturale dominante, approfittando dell'esposizione garantita dalla comunicazione globale, giocando con la maggiore disposizione del pubblico ad accettare visioni ''altre'' del mondo. L'impulso della scrittura non sarà più rivoluzionario e dirompente, diretto a ''distruggere'' la cultura egemone, ma sarà più modestamente in grado di ''decostruirla''; gli autori e le autrici non riusciranno a formare movimenti collettivi forti, capaci con il loro sforzo comune di cambiare in profondità il panorama culturale grazie a spettacolari atti estetici, ma sapranno però, sempre, spostare i termini del discorso pubblico di quanto basta per non lasciare senza tracce il paesaggio dopo averlo attraversato con la loro scrittura.
Saggistica. - Alla fine degli anni Settanta si assiste a una profonda ridefinizione del pensiero critico statunitense. Le correnti teoriche che si erano andate affermando nel corso dei decenni successivi al secondo dopoguerra − il formalismo del New Criticism, il neo-aristotelismo della scuola di Chicago, la critica mitica di N. Frye e L.A. Fiedler, i cultural studies di H. Nash Smith, L. Marx e R.W.B. Lewis, l'ermeneutica fenomenologica post-heideggeriana, lo strutturalismo semiotico, la critica femminista e quella neo-marxista − subiscono tutte l'impatto dirompente delle nuove realtà culturali prodotte dalla cosiddetta società postindustriale e postmoderna, lucidamente descritto da Ch. Lasch (1932-1994) in The culture of narcissism (1979; trad. it., 1981) e poi da M. Berman in All that is solid melts into air (1982; trad. it., L'esperienza della modernità, 1985).
La figura chiave della scena critica statunitense del periodo è senz'altro quella del filosofo francese J. Derrida, i cui primi scritti fondamentali risalgono già agli anni Sessanta (nel 1967 appaiono le edizioni originali di La voix et le phénomène, De la grammatologie, e L'écriture et la différence) ma vengono tradotti in inglese soltanto nel decennio successivo, segnando l'avvento nell'accademia statunitense della teoria del decostruzionismo (v. in questa Appendice), diffusa sia da Derrida medesimo, che a partire dai primi anni Settanta insegna part-time anche nelle maggiori università degli S.U., sia da suoi epigoni della prima ora come P. de Man, H. Bloom, G.H. Hartman e J.H. Miller, i maggiori esponenti della ''scuola di Yale''.
Il decostruzionismo statunitense appare comunque meno radicale e più interessato all'analisi dei testi, soprattutto letterari, rispetto a una lezione, quella di Derrida, che si focalizza soprattutto sulla demolizione dei termini del dibattito filosofico, riprendendo talune intuizioni di Nietzsche e Heidegger. Così, de Man (1919-1983) sostiene la sostanziale metaforicità del linguaggio (ogni discorso rimanderebbe non a dei referenti ma ad altri discorsi) già nei saggi dei tardi anni Sessanta raccolti in Blindness and insight (1971; trad. it., 1975) e poi in quelli degli anni Settanta di Allegories of reading (1979; trad. it. parziale in AA.VV., Allegorie della critica, 1987), indipendentemente da Derrida ma partendo anch'egli dalle teorie retoriche di Nietzsche. A sua volta, Bloom (n. 1930) non ha bisogno di Derrida per asserire (soprattutto in The anxiety of influence, 1973; trad. it., 1983; e in A map of misreading, 1975; trad. it., 1988) che ogni testo è in realtà un intertesto, ovvero il punto d'incontro di una pluralità di discorsi dai quali l'autore vorrebbe ma non può liberarsi (di qui l'''ansia dell'influenza'') e che egli non può far altro che leggere e in qualche modo riprodurre nel suo testo, ''deviandone'' consapevolmente o inconsapevolmente il senso (di qui la ''dislettura''). Più direttamente influenzato da Derrida è Miller (n. 1928), che gioca con le radici etimologiche delle parole per dimostrare come ogni specificazione del loro senso porti a ulteriori peregrinazioni nei meandri dei vocabolari delle lingue umane e quindi alla finale indecidibilità/indicibilità del loro ''senso'' (Fiction and repetition, 1982; The ethics of reading, 1987; trad. it., 1989). Hartman (n. 1929) segue anch'egli Derrida nel suo tentativo di liberare il linguaggio dalla tirannia del senso (Criticism in the wilderness, 1980; trad. it., 1991), ma cerca in Saving the text (1981) di reintegrare il valore delle parole come mezzi di comunicazione interpersonale.
Ai decostruzionisti veri e propri si devono poi aggiungere le figure di I. Hassan (n. 1925), il ''profeta'' del postmodernismo, che teorizza in The postmodern turn (1986) come la planetarizzazione mediologica produca non una maggiore ''unitarietà'' della cultura mondiale ma al contrario una sua sempre più diffusa frammentazione; e di R. Rorty (n. 1931), filosofo appartenente alla tradizione tutta statunitense del pragmatismo (si legga il suo importante Consequences of pragmatism, 1982; trad. it., 1986) ma che è sempre pronto a far tesoro delle ricerche più nuove e stimolanti, utilizzandole in Philosophy and the mirror of nature (1979; trad. it., 1986) per rivolgere al fondamentalismo logocentrico una critica assai simile a quella dei decostruzionisti. L'istituzionalizzazione del decostruzionismo come scuola dominante nel dibattito critico statunitense − in contrasto con un panorama letterario ''creativo'' privo di figure o movimenti egemonici − avviene nel corso dei primi anni Ottanta: nel 1982 On deconstruction di J. Culler (trad. it., 1988), Deconstructive criticism di V.B. Leitch e Deconstruction di Ch. Norris ne sistematizzano le aperture teoriche e ne consentono una maggiore agibilità, garantendone la diffusione anche in correnti critiche più o meno distanti dal pensiero di Derrida.
Il femminismo degli anni Settanta sembrerebbe interessato a un percorso esattamente opposto, diretto non alla disintegrazione ma al contrario verso l'affermazione di un'identità fino ad allora costretta al silenzio: non per nulla, due fondamentali raccolte di saggi del periodo s'intitolano On lies, secrets, and silences (di A. Rich, 1979; trad. it., Segreti, silenzi, bugie, 1989) e Silences (di T. Olsen, 1980). Eppure, ben presto la critica femminista si appropria del principio derridiano della différance (termine che unisce la nozione di differenza a quella di differimento nello spazio e nel tempo, reso in italiano con il neologismo differanza) per riutilizzarlo come strumento di destrutturazione delle dicotomie proposte dalla cultura dominante, prima tra tutte quella che oppone il maschile al femminile come l'originario al derivato, il centrale al marginale, il superiore al subordinato. Al recupero della specificità femminile operato da testi come The female imagination di P. Meyer Spacks (1975), The lay of the land di A. Kolodny (1975), Literary women di E. Moers (1976), A literature of their own (1977; trad. it., 1984) di E. Showalter (che nel 1986 ha curato il basilare New feminist criticism), The madwoman in the attic (1979; cui seguirà No man's land, 1988) di S. Gilbert e S. Gubar, succede la revisione delle nozioni medesime di maschile e femminile tentata da B. Johnson (autrice del seminale The critical difference, 1981), Sh. Felman e G.Ch. Spivak in un celebre numero speciale di Yale French Studies del 1981 (Feminist readings). Durante gli anni Ottanta il decostruzionismo femminista si è avvalso di altri apporti provenienti dalla Francia, in particolare quelli di H. Cixous, J. Kristeva e L. Irigaray, e ha sottoposto a una critica serrata il linguaggio medesimo con cui si esprimono le categorie del pensiero dominante (ovviamente maschile): i women's studies si sono quindi progressivamente trasformati in gender studies, dove al criterio biologico del sesso si sostituisce quello culturale/linguistico del ''genere'', elemento centrale nelle analisi di J. Gallop (The daughter's seduction, 1982), T. Moi (Sexual/textual politics, 1985), D.M. Bauer (Feminist dialogics, 1988).
Un percorso simile è quello seguito dagli intellettuali afroamericani. La critica militante degli anni Sessanta e Settanta − quella della Black aesthetics, che prende le mosse da Malcolm X e attraverso L. Jones (poi Amiri Baraka) e A. Gayle Jr. (autore appunto di Black aesthetics, 1971) giunge allo H.A. Baker Jr. di Blues, ideology, and Afro-American literature (1984) − cede il passo a una nuova generazione che, se non sfoggia la stessa radicalità politica, dimostra maggiore finezza d'analisi proprio grazie all'utilizzo di metodologie poststrutturaliste e talvolta dichiaratamente decostruzioniste. Il maggior esponente della nuova critica afroamericana è probabilmente H.L. Gates Jr. (n. 1950), che con la cura dei fondamentali Black literature and literary theory (1984) e ''Race'', writing, and difference (1986), ma principalmente con The signifying monkey (1988; trad. it., La scimmia retorica, 1995), declina in senso etnico la critica decostruzionista al logocentrismo, smantellando i pregiudizi eurocentrici che dominano il pensiero teorico statunitense. Operazione analoga è quella compiuta da G. Vizenor in Narrative chance (1989) per quanto concerne la letteratura degli indiani d'America.
Più difficile è stato il rapporto tra la critica post-strutturalista e la scuola neo-marxista, che ha spesso accusato il decostruzionismo di occultare, dietro all'esaltazione del libero e non gerarchico gioco dei segni e dei significati tipico della postmodernità, la realtà di rapporti di potere tutt'altro che paritari: un tipico esempio si trova in Literature against itself di G. Graff (1979), mentre F. Lentricchia (After the New Criticism, 1980; Criticism and social change, 1983) e D. La Capra (History and criticism, 1985; Soundings in critical theory, 1989), entrambi influenzati tanto da A. Gramsci e dal critico sovietico M. Bachtin quanto dagli inglesi R. Williams e T. Eagleton, preferiscono ribadire l'ineluttabile politicità sia dell'atto creativo sia dell'analisi letteraria, senza polemizzare troppo direttamente con i post-strutturalisti. Tuttavia, anche i neo-marxisti procedono dalla revisione dei modelli strutturalisti: come F. Jameson (n. 1934), che in The prison-house of language (1971; trad. it., 1982) stigmatizza l'astoricità e l'autoritarismo di metodi d'analisi che privilegiano l'aspetto esclusivamente sincronico del testo, e in Marxism and form (1971; trad. it., 1975) presenta la sua proposta di ''critica dialettica''; successivamente, con The political unconscious (1981; trad. it., 1990), Jameson propone una serie di ipotesi di lettura che utilizzano procedimenti decostruttivi per portare alla luce le opzioni ideologiche nascoste nelle ''strutture'' manifeste del testo e procedimenti ''restaurativi'' per assicurare comunque l'accesso a quella dimensione utopica e ''critica'' che l'ideologia del testo vorrebbe controllare; infine, Postmodernism (1991; trad. it. parziale, Il postmoderno, 1989) disegna con lucidità il profilo culturale del ''tardo capitalismo''. Ancor più esplicitamente orientato alla coniugazione delle pratiche decostruzioniste con le teorie marxiste è Marxism and deconstruction (1982) di M. Ryan, cui fa da pendant il volume Textual power (1985) di R. Scholes, già esponente di spicco dello strutturalismo semiotico e qui impegnato a riaprire la dimensione della testualità ponendo sullo stesso piano il contesto sociale, anche se da una prospettiva non marxista.
Già alla fine degli anni Sessanta, del resto, si diffonde una corrente che preferisce affrontare le questioni letterarie o più generalmente culturali non dal punto di vista delle ''opere'' che dovrebbero rappresentarne il corpus, ma da quello degli individui e delle collettività che ''leggendole'' costituiscono il vero ''corpo'' di una civiltà. Il cosiddetto Reader-response criticism, che focalizza l'attenzione sull'esperienza della letteratura da parte del lettore, ha il suo primo grande fautore in S.E. Fish (n. 1938), che giunge a teorizzare in Is there a text in this class? (1980; trad. it., 1987) come il senso di un testo sia in definitiva quello prodotto dalle ''comunità interpretanti'' che se ne appropriano. Influenzata successivamente dall'''estetica della ricezione'' dei tedeschi H.R. Jauss e W. Iser, la scuola della reader response (che ha un altro importante esponente nell'americanista S. Mailloux) apre vasti campi d'intervento alla critica femminista, che intende destabilizzare le interpretazioni ''autorizzate'' offerte dalla critica (e dalla lettura) maschile dando voce anche al pubblico femminile; non per nulla le due antologie critiche di Reader-response criticism che aprono gli anni Ottanta sono curate da donne (The reader in the text, a cura di S. Suleiman e I. Crosman, 1980; Reader-response criticism, a cura di J. Tompkins, 1980), dopo che J. Fetterly aveva rivendicato la ''diversità'' della lettura femminile in The resisting reader (1978).
Altrettanto decisivo per l'apertura del campo di ricerca oltre i limiti del testo è il rinnovato entusiasmo per gli studi ''culturali'', che trova le prime compiute manifestazioni nell'opera di E. Said (n. 1935; Beginnings, 1975; Orientalism, 1978, trad. it., 1991; The world, the text, and the critic, 1983) e nella Poetics of culture elaborata da S. Greenblatt (n. 1943) in Renaissance self-fashioning (1980) e Shakespearean negotiations (1988); proprio a Greenblatt usualmente si assegna la paternità della corrente che negli anni Novanta sembra aver preso il posto del decostruzionismo in qualità di movimento critico egemone, quel New historicism che incontra nel 1987 la risposta polemica e tradizionalista di A. Bloom (The closing of the American mind; trad. it., 1988). Testi classici della nuova scuola, influenzata anche dall'antropologia di C. Geertz (The interpretation of cultures, 1973; trad. it., 1987) e J. Clifford (The predicament of culture, 1988), sono la raccolta The new historicism a cura di H. Aram Veeser (1989) e The new historicism and other old-fashioned topics di B. Thomas (1991).
Parallelamente alle ricerche teoriche dei ''neo storicisti'' corrono gli studi di S. Bercovitch (n. 1933; The puritan origins of the American self, 1975; The American jeremiad, 1978; America puritana, 1992; Rites of assent, 1994), che analizzano testi e periodi molto diversi tra loro per dimostrare la sostanziale omogeneità del discorso ideologico dominante dalla prima colonizzazione fino alle soglie del 21° secolo, e la sua diffusione tanto nella cultura d'élite quanto in quella di massa. Proprio a Bercovitch si deve la direzione di quella che appare la maggiore impresa critico-letteraria americana della fine del millennio, ovvero la New Cambridge history of American literature, di cui è apparso il primo volume nel 1994.
Poesia. - La grande propulsione innovativa che aveva rivoluzionato i modi del fare poetico negli anni Sessanta e Settanta perde innegabilmente parte della propria energia con l'ingresso negli anni Ottanta, ma continua comunque a far sentire la propria influenza anche nel nuovo decennio. In primo luogo, i poeti più anticonvenzionali proseguono la loro ricerca e offrono altri esempi di poesia ''eversiva'' e allo stesso tempo ''popolare''. Gli ex beats G. Corso, R. Duncan, L. Ferlinghetti, A. Ginsberg e G. Snyder non rinunciano alle loro voci dissonanti e dissacranti fin nell'ultimo decennio del secolo. Allo stesso modo membri del gruppo della Black Mountain come R. Creeley e D. Levertov insistono nel ''proiettare'' i loro versi (il riferimento è al projective verse ideato da Ch. Olson, 1910-1970) anche dopo la fine della loro esperienza collettiva. Non possono più offrire, invece, il loro contributo di passione e sperimentalità L. Zukofsky e K. Rexroth, che scompaiono rispettivamente nel 1978 e nel 1982. Persino le correnti in apparenza più distanti da questo tipo d'impegno, come i Confessional Poets e la scuola della cosiddetta Deep Image, hanno contribuito in qualche modo al generale processo di democratizzazione del linguaggio poetico, gli uni scrivendo di esperienze quotidiane con un linguaggio programmaticamente restio all'oscurità intellettuale, l'altra lavorando su quei materiali archetipici dell'inconscio che sono patrimonio comune della collettività oltre ogni distinzione di classe sociale, sesso, etnia, educazione.
Per es. R. Bly (n. 1926), nelle sue numerose raccolte da Sleepers joining hands (1973) a Meditations on the insatiable soul (1994), costruisce un corpus di ''immagini profonde'' che derivano tanto dal surrealismo europeo quanto dalla psicanalisi postbellica, ma non sottovaluta mai la contingente rilevanza dei più superficiali eventi sociopolitici. J. Wright (1927-1980) costruisce a sua volta un paesaggio simbolico che non esclude concreti riferimenti alla geografia e alla storia americana. Più provocatorio e assai meno realistico, nel suo tentativo di espandere la poetica già "espansionale" di J. Berryman (il termine si deve al critico L. Lieberman), è il fantasmagorico proliferare di identità che si trasfondono nel linguaggio incantatorio di J. Dickey (n. 1923; nel 1992 è uscito il poderoso Collected poems). Con andamento ugualmente nevrotico e allucinato si muove infine la poesia ''mitopoietica'' di W.S. Merwin (n. 1927; Finding the Islands, 1982; The rain in the trees, 1988).
L'inevitabile reazione moderata degli anni Ottanta, dominati a livello politico dalle presidenze repubblicane di Reagan e Bush, preannunciata a livello di teoria poetica dalla pubblicazione del ''revisionista'' The situation of poetry di R. Pinsky (1976), non arresta nemmeno lo sviluppo di un altro movimento poetico impegnato, che proprio negli anni Sessanta si era imposto all'attenzione critica come la novità forse più autentica sulla scena della poesia contemporanea: la poesia delle donne. Momento determinante in questo processo, ovviamente sospinto con forza dai movimenti femministi, è la pubblicazione della raccolta Diving into the wreck (1973) di A. Rich, vero e proprio manifesto poetico del femminismo; nonostante l'assoluta impervietà a qualunque compromesso con le convenzioni del bello scrivere −per non parlare della franca esaltazione del lesbismo − il libro vince il National Book Award, aprendo le porte dell'accademia poetica ufficiale a versi che incarnano la passione e la rabbia non solo della donna-scrittrice fino ad allora non riconosciuta dalla cultura dominante, ma anche di tutte le altre donne, costrette da una società maschile e maschilista a silenzi ben più concreti e dolorosi. Le successive raccolte hanno confermato la statura della Rich quale maggiore esponente donna della poesia americana contemporanea.
Questa operazione di rottura radicale ha subito trovato un riscontro teorico-critico di grande rilevanza con Naked and fiery forms (1976), lo studio di S. Juhasz sulla Modern American poetry by women, che costituisce il contraltare rivoluzionario alla proposta reazionaria o comunque conservatrice di Pinsky. Proprio grazie alle ipotesi di rilettura proposte dalla Juhasz il femminismo poetico è riuscito a riappropriarsi della voce di quella E. Bishop (1911-1979) per lungo tempo esaltata come perfetto esempio di poesia delicatamente e timidamente femminile. A celebrare l'importanza della Bishop è giunta nel 1983 l'edizione di The complete poems, che offre il percorso completo di una poetessa dal linguaggio sommesso eppure dalle altre donne immediatamente avvertibile e avvertito nella sua nascosta ma irriducibile ''differenza''.
Il passaggio agli anni Ottanta vede molte poetesse intente alla radicalizzazione di scelte formali e tematiche che già agli inizi di carriera segnalavano un profondo disagio rispetto ai clichés della scrittura femminile allora imperanti. Così, C. Kizer (n. 1925) nella raccolta Yin (1984, vincitrice del premio Pulitzer) conduce al culmine la propria ricerca appassionata sul principio della creatività femminile, dopo esser stata celebrata, agli esordi, come graziosa esponente di una poesia formalmente ineccepibile. Analoga parabola è quella disegnata da G. Brooks (n. 1917), che aggiunge però alle difficoltà della ri-costruzione della propria identità femminile gli ostacoli frapposti dall'appartenenza a una minoranza etnica. Più drastiche sono le scelte di A. Lorde (n. 1934), che in qualità di femminista e lesbica afroamericana (ma anche di madre di due figli avuti da un matrimonio interrazziale) sottopone a una critica tanto violenta quanto rigorosa tutti gli assunti relativi ai ruoli sessuali ed etnici diffusi dalla cultura e dalla letteratura a lei contemporanee, per mezzo di un lessico e una sintassi diretti ed espliciti ma sempre sottoposti al vaglio di un senso del ritmo potente e sofisticato. N. Giovanni (n. 1943) ha invece ammorbidito la decisa militanza della prima fase della sua carriera già agli inizi degli anni Settanta, ferma restando una dedizione alla causa delle donne afroamericane che è ancor più decisa nella produzione di S. Sánchez (n. 1935), L. Clifton (n. 1936), J. Jordan (n. 1936) e M. Evans (n. 1923). La contraddizione tra identità sessuale e appartenenza etnica esplode nella produzione di A. Walker (n. 1944), che promuove apertamente la predominanza del legame della ''sorellanza'' e della matrilinearità, e impiega di conseguenza un idioma meno personale e stridente rispetto alla Lorde o alla Giovanni, ma più realisticamente adeguato alla comunicazione tra donne. La complessità dei fattori che concorrono a formare l'identità poetica di un'autrice americana contemporanea trova l'esemplificazione paradigmatica con Ai (ovvero Fl. Ai Ogawa, n. 1947), che è costretta a rispondere alle domande poste dal suo essere in parte giapponese, in parte native American, in parte afroamericana, e in parte financo irlandese. Le medesime conquiste ottenute dalle donne nel campo della cultura e più in particolare della poesia hanno portato a una sorta di rilassamento della tensione programmatica in altre autrici degli anni Ottanta: a M. Piercy (n. 1936), M. Hacker (n. 1942), Sh. Olds (n. 1942) e M. Jo Salter (n. 1954) non è più parso necessario affermare con veemenza la propria identità di genere né respingere il fascino della versificazione più tradizionale. Anche il riflusso ideologico dell'era reaganiana ha contribuito a smorzare certi toni polemici, e a spingere molte poetesse a recuperare argomenti e stili della poesia confessionale, alla ricerca di un'espressione più intima della condizione femminile.
Paradossalmente, è appunto quando queste autrici attenuano il loro slancio che si riavvicinano non tanto ai modelli della poesia femminile pre-femminista, quanto a quelli di certa poesia maschile a loro contemporanea. Come per una reazione difensiva di fronte all'aggressività formale e ideologica delle loro colleghe, molti poeti uomini degli ultimi due decenni hanno infatti preferito rifugiarsi nella cura di una ''sensibilità'' quasi dimessa, sottraendosi al dibattito sulle sorti dell'umanità (e della poesia) postmoderna e dedicandosi viceversa alla descrizione, soffusa di nostalgia, di ambienti suburbani o rurali prossimi a svanire, secondo una sorta di rinnovata poetica del local color: si leggano autori del Nordest come S. Lea (n. 1942) e B. Galvin o del Nordovest come R. Hugo (1923-1982), che sembrano recuperare addirittura la lezione antiindustrialista di W. Wordsworth. Altre forme di poesia neotradizionalista, caratterizzate tuttavia da un maggiore vigore espressivo e dalla scelta di moduli prevalentemente narrativi, sono sorte soprattutto nel Sud degli S.U.: il virginiano D. Smith (n. 1942), per es., riattualizza la passione faulkneriana per la riproduzione delle varianti individuali e regionali della lingua parlata.
Il nuovo realismo poetico ha comunque espresso voci che non rinnegano l'esperienza radicale degli anni Sessanta, grazie anche all'importante mediazione di L. Simpson (n. 1923), attivo nel gruppo della Deep Image ma interessato soprattutto a riprendere la tradizione del colloquialismo whitmaniano: Ph. Levine (n. 1928) denuncia le contraddizioni nascoste dietro la superficie apparentemente opulenta della vita dell'americano medio; C.K. Williams (n. 1936) traduce in poesia il disagio delle classi privilegiate di fronte alla sofferenza e allo sfruttamento che continuano a esistere e anzi si diffondono nel corso degli anni Ottanta; D. Johnson (n. 1949) si confronta con l'alterità del nero o dell'immigrato; in tutti si avverte la presenza quasi archetipica della poetica whitmaniana. Anche l'ex formalista A. Hecht (n. 1923) rigenera la propria voce poetica traducendola in versi narrativi di grande impatto emotivo.
Se la ricerca della scuola neorealistica si è svolta in prevalenza nell'ambito delle scelte tematiche, due altre correnti ''maschili'' si sono invece dedicate, negli ultimi venti anni, alla revisione dei canoni stilistici: si tratta del Neoformalismo, che tenta una vera e propria restaurazione del verbo critico-poetico dei primi anni Cinquanta; e della cosiddetta Language poetry, che viceversa sceglie come proprio nume tutelare il più ''deviante'' dei poeti modernisti, W. Stevens, e ne rinnova l'eredità leggendola attraverso le lenti delle più recenti teorie critiche, in primis il decostruzionismo. La rinascita del formalismo, promossa con l'appoggio fondamentale del New Criterion di H. Kramer (che non a caso riprendeva il titolo della rivista diretta da Eliot fino al 1939), corrisponde alla riemersione sul proscenio poetico di R. Wilbur (n. 1921) e J. Merrill (1926-1995), cui non può aggiungersi A. Macleish, scomparso nel 1982: con l'edizione dei Collected poems (1988) del primo, e la pubblicazione di Late settings (1985) e The inner room (1988) del secondo, molti giovani poeti americani (M. Peacock, n. 1946; J. Moffett, n. 1942; B. Leithauser, n. 1953; V. Seth, n. 1952) riscoprono il fascino della sottigliezza ironica e dell'eleganza ritmica e rimica e il fastidio per le problematiche più scopertamente politiche. Gli esponenti della Language poetry giocano con gli assunti fondamentali del neoformalismo − innanzitutto la concezione della poesia come sistema linguistico retto da precise regole che non contemplano il coinvolgimento emotivo e politico − per ribaltarne funzione e funzionamento. Il più noto di questi poeti (forse il più acclamato dell'ultimo decennio) è J. Ashbery (n. 1927), che riprende soprattutto le tecniche dell'ultimo Stevens (quello meditativo) per trasformare il componimento poetico da mezzo d'espressione lirica a strumento di meditazione astratta; a differenza dei neoformalisti, tuttavia, questa meditazione produce non un coerente ordine formale e soprattutto semantico, ma al contrario una complessa rete di relazioni tra segno e senso al cui interno è sempre prevista l'irruzione di fattori eversivi, che scombinano ogni volta i procedimenti interpretativi presupposti e promossi dal testo medesimo. Seguaci fedeli della lezione di Ashbery sono R. Hass (n. 1940), L. Hejinian (n. 1941). Anche la poesia degli afroamericani (maschi) ha conosciuto nel corso degli anni Settanta e Ottanta una graduale attenuazione dello spirito rivoluzionario che la permeava nel decennio precedente, sostituito da una maggiore attenzione alle questioni della costruzione formale. Dopo l'esplosività creativa di A. Baraka (n. 1934), D.L. Lee (poi Haki R. Madhubuti, n. 1942) e R. Hayden (1913-1980), i poeti più giovani hanno scelto di lavorare con minore enfasi e aggressività e maggiore cura dei dettagli stilistici all'elaborazione di forme poetiche che potessero rendere appieno la ricchezza sonora, lessicale e sintattica dell'idioma dei neri d'America. Il jazz contemporaneo, in particolare, offre a poeti come M. Harper (n. 1938) e C. Eady l'opportunità di scoprire nuove possibilità espressive.
In conclusione, la poesia statunitense degli ultimi anni presenta una scena davvero variegata, dove le determinazioni etniche e socio-economiche interagiscono e confliggono con le scelte politiche ed estetiche, aprendo all'artista un vastissimo ventaglio di scelte creative, anche se non sempre utilizzato con la spavalderia dei decenni precedenti.
Narrativa. - Come nella poesia, anche nella narrativa lo spirito rivoluzionario degli anni Sessanta è andato progressivamente smorzandosi, tanto al livello più schiettamente ideologico quanto a quello della sperimentazione formale. L'iconoclastia del grande romanzo postmoderno di J. Barth, K. Vonnegut, Th. Pynchon e R. Coover cede il passo a una scrittura meno conflittuale rispetto alle convenzioni della comunicazione quotidiana, per il semplice motivo che molti degli assunti delle avanguardie postmoderne − il collasso delle ''grandi narrazioni'' (la cristianità, il marxismo), lo smarrimento del senso dell'origine, l'impossibilità di un rapporto oggettivo con la realtà e la conseguente disintegrazione del principio di verità − sono divenuti il nuovo senso comune, diffuso e anzi commercializzato in forme ovviamente depurate dall'industria dei mass media.
Proprio l'autore che più di ogni altro ha incarnato lo spirito del postmoderno americano, J. Barth (n. 1930), dichiara nel suo celebre articolo su The literature of replenishment (1979; trad. it., in P. Carravetta, P. Spedicato, Postmoderno e letteratura, 1984) la fine del periodo di sperimentazione totale (e di altrettanto totale sfiducia nella possibilità di riuscire per suo tramite a produrre un qualche significato) che il precedente The literature of exhaustion (1967; trad. it., ibid.) aveva teorizzato con l'annunciare l'esaurimento della letteratura così come era stata fino ad allora concepita; la nuova letteratura sarà invece il risultato di un consapevole recupero sia del modernismo sia del pre-modernismo (il grande romanzo borghese dell'Ottocento), e ne sintetizzerà le conquiste anziché tentare di ''superarle'' in un nichilistico gesto autodistruttivo. Non che il Barth più recente sia meno sperimentale, anzi: Sabbatical (1982) è un romanzo costellato di sdoppiamenti della voce narrante, intricati sovrapporsi d'intrecci, folli connessioni intertestuali, fantasmagorici giochi di parole; tuttavia, anziché arrendersi alla moltiplicazione incontrollabile del senso e porre definitivamente in crisi il potere dell'autore (quello di garante dell'''ordine'' del testo), Sabbatical ripropone il principio salvifico della creatività, in senso sia artistico sia biologico.
Se le ascendenze di Barth sono prevalentemente quelle della letteratura alta − modernista, realista, anche romantica − la scrittura di K. Vonnegut Jr. (n. 1922) continua a giocare piuttosto con le convenzioni della letteratura di consumo, innanzitutto fantascientifica, spostando però l'obiettivo dello straniamento introdotto per via di quelle tecniche narrative dal passato della storia o dal presente dell'attualità al futuro prossimo di Hocus Pocus (1990; trad. it., 1991) o remotissimo di Galapagos (1985; trad. it., 1993), come se le mutazioni della civiltà a lui contemporanea avessero già raggiunto quell'incomprensibile assurdità che egli aveva denunciato in classici come Slaughterhouse 5 (1972) e Breakfast of champions (1974), costringendolo a spostarsi avanti nel tempo per essere nuovamente in grado di sorprendere il lettore e d'indignarlo.
Come Vonnegut, anche Pynchon (n. 1937) ha fatto ricorso alle strutture narrative del romanzo fantascientifico per costruire i suoi poliedrici romanzi maggiori, utilizzandone tuttavia più le aperture epistemologiche sulle domande poste dalla scienza e dalla tecnologia che non, come Vonnegut, il potenziale straniante. Quel che spiazza il lettore di Pynchon non è cioè la deformazione della realtà causata dalla sovrapposizione della cornice fantascientifica, ma quell'interno sgretolamento delle certezze conoscitive che è il risultato diretto del sovraccarico d'informazione cui è sottoposto il cittadino della postmodernità, e che quindi produce, anziché esserne prodotto, la deriva verso un tipo di narrazione antirealistica. D'altronde, l'ultimo Pynchon sembra meno interessato all'esplorazione dei paradossi della conoscenza, e preferisce costruire macchine narrative più leggibili come Vineland (1990; trad. it., Milano 1990), romanzo ''cibernetico'' che racconta il conflitto tra i superstiti (come lui) del movimento radicale degli anni Sessanta e il potere tecnologizzato neoconservatore degli anni Ottanta, scaraventando il lettore in quella stessa atmosfera d'incubo, tanto più reale quanto più ''virtuale'', che è descritta dai cosiddetti romanzieri cyberpunk (W. Gibson, n. 1948; B. Sterling, n. 1954).
Per il Coover (n. 1932) di Gerald's party (1986; trad. it., 1988) è invece il detective novel il modello narrativo che consente di presentare al lettore la scena caotica della contemporaneità così com'è creata (prima ancora che ''trasmessa'') dai mezzi di comunicazione, nel continuo afflusso sul luogo di un delitto di persone più o meno direttamente interessate a investigare (poliziotti, giornalisti, fotografi, cameramen), che s'incontrano e si scontrano mentre la festa continua, e nel farlo confondono se stessi e il mistero dell'omicidio fino all'inverosimile, anziché risolverlo; una soluzione alla fine arriva, ma dopo una lunga serie di altre morti più o meno immotivate non sembra avere grande importanza decidere quale sia stata la causa originale del primo delitto. Il party di Gerald drammatizza quindi sulla scena del crimine quel libero gioco delle interpretazioni che il postmoderno consente e il decostruzionismo teorizza, e con esso quella perdita del senso dell'origine che ne è alla base: un'origine che comunque è quella di una fine, di una morte. Con Pinocchio in Venice (1991) la frammentazione del principio d'identità sarà poi proiettata da Coover sul simbolo della disumanizzazione per eccellenza, il burattino, e sulla città che più perfettamente può specchiarne ''goticamente'' l'artificio.
Nell'opera di R. Federman (n. 1928) le sperimentazioni linguistiche dei primi postmoderni raggiungono altezze vertiginose e si contaminano nei modi più disparati con le altre forme di comunicazione, com'è teorizzato dallo stesso Federman in Surfiction (nuova ed., 1981). A sua volta, G. Sorrentino (n. 1929) abbatte con analoga energia le pretese della rappresentazione realistica in testi proteiformi ed esplosivamente intertestuali, ma sempre pervasi da una giocosa ironia, come Mulligan stew (1979) o Misterioso (1989).
Autori come J. Updike (n. 1932) e J. Cheever (1912-1982) hanno viceversa assimilato dell'estetica postmoderna non tanto le soluzioni formali quanto l'ossessiva paura della disintegrazione della psiche individuale (soprattutto quella degli apparentemente benestanti membri della classe media), studiata con realistica passione da Updike nel ciclo del Rabbit (ma Updike è anche capace di bizzarre escursioni visionarie nel fantastico) e da Cheever nei racconti e in Falconer (1977; trad. it., Il prigioniero di Falconer, 1978). Questioni analoghe sono affrontate, ma in modi più esplicitamente politici e con un linguaggio di taglio naturalista-espressionista, dal T. Wolfe (n. 1931) di The bonfire of vanities (1988; trad. it., 1988), che grazie alla sua esperienza di cronista traduce le frustrazioni studiate in dettaglio da Cheever e Updike in un affresco collettivo dai colori accesi. D. DeLillo (n. 1936) estremizza le soluzioni ''giornalistiche'' di Wolfe in senso fantascientifico, estendendone la profondità storica e radicalizzandone la polifonia in romanzi come White noise (1984; trad. it., 1987) e Libra (1988; trad. it., 1989).
In una posizione più laterale rispetto al mainstream del romanzo postmoderno troviamo J. Hawkes (n. 1925; Virginie, 1983; Whistlejacket, 1988), autore di romanzi assai meno controllati formalmente di quelli dei suoi colleghi e governati piuttosto da un'immaginazione informe e visionaria, attratta dalla violenza più esasperata, che sembra debitrice soprattutto del surrealismo francese, o eventualmente di quella tradizione del ''gotico americano'' che da B. Brown arriva fino a Faulkner. A questa medesima tradizione fa esplicito riferimento, fin dal titolo, Carpenter's gothic (1985; trad. it., Gotico americano, 1990) di W. Gaddis (n. 1922), che però non si compiace dell'esibizionismo di violenze gratuite e conduce invece il lettore in un labirintico alternarsi di rivelazioni e falsificazioni, epifanie e occultamenti, e condanna i personaggi all'esitazione continua tra il tentativo di controllare razionalmente gli eventi e la tentazione di cedere all'illogico e all'incomprensibile, come i personaggi di tanti racconti di Poe. La struttura del racconto investigativo e l'atmosfera del gotico sono fuse nella New York trilogy (1985-86; trad. it., 1987) di P. Auster (n. 1946), traboccante di citazioni dalla grande letteratura americana ottocentesca.
La narrativa breve è la forma che più si addice a D. Barthelme (1933-1989), per il quale, coerentemente con le sue convinzioni sulla natura irrimediabilmente frammentata del mondo contemporaneo, il racconto è l'unico mezzo espressivo che riesca a catturare, denunciandola parodisticamente, la minacciosa polverizzazione dei centri del potere. Anche per W.H. Gass (n. 1924) considerazioni filosofiche decisamente pessimistiche sulla possibilità d'istituire relazioni non ingannevoli tra linguaggio e realtà si riflettono nella predilezione della forma breve. W. Abish (n. 1931) vi si dedica soprattutto per creare attraverso complesse operazioni di (s)montaggio una rete intra/intertestuale dal grande potere affabulatorio. R. Sukenick (n. 1932) esercita infine la propria voce narrativa postrealistica in racconti che s'intrecciano tra loro fino a creare quasi un romanzo e in romanzi che centrifugamente si sgretolano in un'infinità di racconti.
Forse proprio in ragione di questo insistere del postmodernismo sulla metafora della disintegrazione, una fitta schiera di autori che possono definirsi in senso più o meno stretto postmoderni proviene dalla comunità ebraica, la cui storia millenaria è tutta inscritta sotto il segno della dispersione. Del resto, già S. Bellow aveva anticipato negli anni Cinquanta alcuni aspetti della narrativa dei decenni successivi, e ha proseguito anche negli ultimi romanzi (The Dean's december, 1982; trad. it., Il dicembre del professor Corde, 1986; More die of heartbreak, 1987; trad. it., 1987) la disamina ironica, ma non per ciò meno decisa, della condizione dell'uomo contemporaneo, esule tra milioni di altri esuli che vorrebbero tornare al mondo ordinato della premodernità.
Più disperata appare la conclusione della carriera di B. Malamud (1914-1986), a giudicare da God's Grace (1982; trad. it., Dio mio, grazie, 1984), che tratteggia lo scenario desolatamente apocalittico della fine dell'umanità, per quanto filtrato da un tono spesso sardonico. Non altrettanto ''preoccupati'' sembrano invece il sarcastico H. Gold e soprattutto Ph. Roth (n. 1933), che si diverte con la Storia e con la sua storia personale inventando una sequela di alter ego che vengono coinvolti nelle vicende più imbarazzanti: come quel Nathan Zuckerman protagonista di una serie di romanzi pubblicati negli anni Ottanta. Il collegamento tra l'autobiografia (vera o fittizia) dello scrittore ebreo americano e il tumultuoso evolversi della storia di questo secolo torna nella produzione di E.L. Doctorow, che dopo Ragtime (1975; trad. it., 1976), un best seller, ha pubblicato altri romanzi di grande successo dove si cerca di mediare tra la difficoltà di lettura posta dall'estetica postmoderna e le più facili affabulazioni richieste dal pubblico. Scelte simili, ma virate verso un durissimo humor nero, sono quelle operate da S. Elkin e J. Heller (n. 1923), il quale ultimo, più che scrivere romanzi sull'esperienza degli ebrei d'America, preferisce parodizzare crudelmente la scrittura di romanzi di tal fatta in Good as gold (1979) e God knows (1984; trad. it., 1985). Nel 1994 è poi riapparso sulla scena letteraria, dopo sessant'anni di latitanza, H. Roth (n. 1907), che con A star shines over Mt. Morris Park (1994; trad. it., 1994), il primo della serie di volumi di cui si compone l'autobiografico Mercy of a rude stream, torna all'impresa di riscrivere l'esperienza infantile e adolescenziale iniziata col celebre Call it sleep (1934; trad. it., 1989).
Benché meno sperimentale sul piano puramente linguistico rispetto a quella dei loro colleghi maschi, la narrativa delle scrittrici ebraico-americane offre un apporto decisivo al rivoluzionamento delle categorie culturali che determinano la configurazione delle relazioni interpersonali nella società contemporanea, e presenta come figura carismatica quella di T. Olsen (n. 1913), autrice di un romanzo ormai entrato nella leggenda, Yonnondio, iniziato negli anni Trenta e pubblicato solo nel 1974; nella Olsen alle difficoltà poste dall'essere donna ed ebrea (e anche relativamente illetterata) si aggiungono quelle della persecuzione politica, in ragione del suo impegno nel movimento comunista. G. Paley (n. 1922) descrive invece i propri racconti (raccolti nel 1994 in The collected stories) come "storie di uomini e donne in amore", ma la poeticità con cui l'immaginazione dell'autrice segue i fili degli intrecci sentimentali non esclude mai una critica radicale ai rapporti uomo-donna così come sono dettati dal potere maschile. C. Ozick (n. 1928) si dedica infine con passione al recupero dell'eredità storica e culturale ebraica, nello sforzo continuo di dare un senso alla spaventosa esperienza dell'Olocausto.
Nella narrativa afroamericana degli ultimi due decenni l'apporto delle scrittrici è risultato assai più significativo di quello degli uomini, tra i quali solo I. Reed (n. 1938) con il ''multiculturale'' Reckless eyeballing (1986) è riuscito a tenere alta la tradizione dei R. Ellison e dei R. Wright, cui già aveva contribuito col funambolico Mumbo Jumbo (1972; trad. it., 1981). L'affermazione di una vasta e importante letteratura femminile afroamericana è stata suggellata dal conferimento del premio Nobel per la letteratura 1993 a T. Morrison (n. 1931), autrice di romanzi dal grande afflato epico-mitico che culminano in quel Beloved (1987; trad. it., Amatissima, 1988) che traspone nell'inchiostro della scrittura la voce ugualmente scura della cultura orale dei neri d'America: sull'intelaiatura di una storia di fantasmi, con una figlia uccisa ''per amore'' che torna dalla madre a reclamare la propria quota di felicità, e sullo sfondo degli S.U. appena usciti dalla guerra civile, l'autrice ricrea la sofferenza e l'incubo che hanno generato le identità individuali, familiari e collettive degli afroamericani dopo la fine della schiavitù, sulla scia di un linguaggio ondeggiante che evoca l'andamento doloroso del blues e dello spiritual, e prelude al più sistematico impiego dei ritmi della musica nera di Jazz (1992).
L'interesse per le storie e le leggende orali e per la musicalità peculiare del black English torna in G. Jones (n. 1949), N. Shange (n. 1948) e G. Naylor (n. 1950), ma è A. Walker a trarne risultati estetici paragonabili a quelli della Morrison. Influenzata soprattutto dalla letteratura del ''Rinascimento di Harlem'' degli anni Venti, e in particolare da quella Z. Neale Hurston che proprio lei è riuscita a riproporre all'attenzione critica con un'importante biografia, la Walker disegna gli intrecci attorno al duplice nodo che opprime le donne nere, ovvero l'appartenenza a una doppia minoranza, di genere e di etnia. Meridian (1976; trad. it., 1987), i racconti di You can't keep a good woman down (1981; trad. it., 1988), e più di tutti The color purple (1983; trad. it., 1984), cercano nella trascendenza dell'attività creatrice (letterariamente, nell'arte, e letteralmente, nella maternità) un modo per superare gli ostacoli alla crescita intellettuale e spirituale delle donne nere: le lettere che raccontano la storia di The color purple tessono la rete di solidarietà alla quale si aggrappano madri e figlie e amiche per resistere alla violenza del razzismo e del sessismo, ma consentono anche a ognuna delle scrittrici di prendere coscienza della propria voce individuale. Del resto, la centralità della ricerca della voce come principio d'identità è illustrata dalle cinque autobiografie che compongono il corpus principale dell'opera di M. Angelou, oltre che da Gemini (1971), l'altrettanto indicativa autobiografia della poetessa N. Giovanni. Più collettiva e multiculturale appare infine la ricerca di T. Cade Bambara, e più disposta ai compromessi con i generi letterari di consumo (la fantascienza) quella di O. Butler.
L'intersecazione delle identità di genere e di razza e le complesse espressioni culturali (popolari e non, orali e scritte, fondate nella leggenda e nella storia) che ne vengono prodotte stanno al centro dell'opera di autrici appartenenti anche ad altre minoranze: è il caso di M. Hong Kingston (n. 1940) e del suo The woman warrior (1976; trad. it., 1982), che ricostruisce miticamente un'appartenenza tanto complessa quanto può essere quella delle donne sino-americane. Per L. Marmon Silko (n. 1948) e L. Erdrich (n. 1954) la dimensione mitica assume una risolutiva importanza strutturale e linguistica, dettata dal ricorso al patrimonio culturale degli indiani d'America. Il rapporto di Silko ed Erdrich con le fonti della cultura indiana originaria non si fonda però sulla speranza di poter attingere direttamente ad esse nella loro primitiva purezza, ma è sempre mediato da una già solida tradizione letteraria, che nasce in senso proprio con House made of dawn (1968; trad. it., 1993), il sognante romanzo di N. Scott Momaday (n. 1934), autore più recentemente del non meno fascinoso The ancient child (1989).
Tra le narratrici contemporanee non ''marcate'' etnicamente si distingue soprattutto E. Welty (n. 1909), esponente di rilievo di quel gotico sudista che già ha conosciuto le crude esplorazioni di C. McCullers e F. O'Connor; della Welty sono state pubblicate nel 1980 le Collected stories. Anche J.C. Oates (n. 1938), pur essendo prolifica autrice che non conosce confini di genere, si esprime al meglio quando ricorre alla tradizione del gotico americano per sottoporre a ironia spietata l'interrelazione tra un passato misterioso e un presente angosciante; tuttavia, ultimamente la Oates si è dedicata con successo alla composizione di racconti di taglio neorealisticamente minimalista. Nell'opera di J. Didion (n. 1934) si avverte chiara l'influenza dell'esperienza giornalistica, che organizza lo stile serrato di Democracy (1984), romanzo politico ambientato in California. Negli ultimi decenni le donne non hanno conquistato però solo le cittadelle dei generi letterari più nobili, ma anche quelle della letteratura di consumo non eminentemente femminile, mutandone in modo radicale forme e contenuti. Si sono così affermate gialliste eccentriche come P. Highsmith (1921-1995), che non temono confronti con gli esponenti della scuola neo-hard boiled, E. Leonard (n. 1925) e Th. Harris (n. 1940); autrici di fantascienza ''femminista'' come U.K. LeGuin (n. 1929) o esplicitamente lesbica come J. Russ (n. 1937), che creano fantasie alternative non meno straordinarie di quelle di Ph.K. Dick o I. Asimov; scrittrici horror come Sh. Jackson (1919-1965) e A. Rice (n. 1941), che proiettano nell'universo di cui è maestro riconosciuto S. King i terrori della condizione ''altra'' per eccellenza, quella femminile.
Forse proprio in reazione alla quasi esasperata ''spettacolarità'' della narrativa postmoderna, intorno alla metà degli anni Ottanta si è formata una corrente di giovani narratori che anziché lanciarsi nelle euforiche vertigini della sperimentazione si sono come ritirati in un ambito tematico e linguistico estremamente ristretto, dai contorni emotivi desolati e raggelanti: la cosiddetta scuola "minimalista" riprende l'elementarità volutamente asettica della prosa di Hemingway e la dissecca ancor di più, eliminando ogni dimensione mitizzante, riducendo l'estensione della vita rappresentata nel testo al quotidiano più angusto e insignificante. Prima che il termine "minimalista" si affermasse nel gergo critico, i principali modi compositivi che con esso si designano erano già stati in qualche modo codificati, e con una padronanza forse ineguagliata dai suoi seguaci, nei racconti di R. Carver (1939-1988), che abbandonano i settings mirabolanti di tanta narrativa contemporanea e si addentrano negli angoli meno evidenti della società statunitense, descrivendoli con uno stile che proprio mentre cerca di essere più piattamente realistico si converte in veicolo della defamiliarizzazione e del perturbante, e lasciando nel non detto le motivazioni e le origini di azioni e atteggiamenti spalanca davanti al lettore uno spazio vuoto e misterioso.
All'esempio di Carver s'ispira R. Ford (n. 1944), anch'egli dedito alla descrizione della vacuità della vita contemporanea per mezzo di una stilizzata lingua vernacolare. I più giovani J. McInerney, D. Leavitt e B.E. Ellis trasferiscono il senso di disperata inadeguatezza dal mondo provinciale e piccolo borghese o proletario di Carver e Ford all'universo scintillante delle città reaganiane, popolate di yuppies tanto amorali quanto infelici; Ellis (n. 1964), peraltro, esaspera la competitività quasi animalesca degli agenti di borsa in un'anodina coazione a esercitare il culto di sé, fino a farla esplodere nell'isterica violenza di American psycho (1991). La ferocia con cui Ellis espone il carattere eminentemente violento del (post?-)capitalismo non ha pari neanche nei romanzi esplicitamente radical di G. Vidal o nella visionarietà eversiva di W.S. Burroughs, e tantomeno nelle fughe in mondi preindustriali di P. Theorux.
Gli ultimi quindici anni hanno visto la scomparsa di molte voci importanti della narrativa statunitense. Tra queste vanno ricordate se non altro quelle di H. Miller (1891-1980), il mitico autore di alcuni dei romanzi più ''scandalosi'' del 20° secolo; di K.A. Porter (1890-1980), antesignana di scrittrici dedite soprattutto alla short story di tendenza quasi naturalistica come G. Paley; di D. Barnes (1892-1982), l'autrice unius libri di Nightwood (1936); di R. Brautigan (1935-1984), che ha il tempo di confermare il suo talento visionario, poetico e ironico a un tempo, in The Tokyo-Montana Express (1980) e So the wind won't blow it all away (1982); di J. Gardner (1933-1982), creatore di brillanti fantasie linguistiche in Mickelsson's ghosts (1982) ma anche sostenitore di una letteratura eticamente impegnata nei saggi raccolti in On moral fiction (1978); di E. Caldwell (1903-1987), cui si devono alcuni dei romanzi più rappresentativi degli anni Trenta; di J. Baldwin (1924-1987), uno dei massimi esponenti dell'intellettualità afroamericana; di R.P. Warren (1905-1989), romanziere, poeta e saggista che alla fedeltà alla causa della cultura del Sud ha unito una severa teorizzazione e applicazione dei principi del New Criticism; di M. McCarthy (1912-1989), campionessa del realismo liberal e ironico/grottesco, assieme a J. Purdy e W. Percy; di J. Kosinski (1933-1991), anatomizzatore delle crudeltà più folli e violente dell'era postmoderna; di I.B. Singer (1904-1991), uno degli ultimi depositari dell'eredità yiddish degli ebrei d'America; di Ch. Bukowski (1920-1993), il cantore dell'abbandono all'alcool e al sesso; di R. Ellison (1914-1994), cui va il merito d'aver scritto uno dei romanzi più importanti del secolo, Invisible man (1952).
Alla metà degli anni Novanta, comunque, con l'estinzione della carica rivoluzionaria del postmodernismo e l'esaurimento del modello minimalista causato dall'eccessiva riduzione dei registri stilistici, la narrativa statunitense non sembra volersi piegare a categorizzazioni troppo precise: uomo o donna, bianco o indiano o nero o appartenente a gruppi etnici di più recente ''americanizzazione'' (almeno un cenno va rivolto alla fiorente narrativa degli immigrati messicani e portoricani), chi scrive romanzi e racconti negli S.U. d'oggi è costretto (o ne ha l'opportunità) a muoversi tra i vari generi, le diverse tecniche narrative, i multiformi modelli linguistici e tematici, senza una guida sicura, alla ricerca di modi espressivi che possano far udire la sua voce e le sue storie oltre il rumore comunicativo prodotto dall'esplosione dei mass media.
Teatro. - Negli ultimi vent'anni il teatro americano riconferma, dopo le travolgenti sperimentazioni dei movimenti off-Broadway e off-off-Broadway, la centralità di quel mainstream che a partire dagli anni Trenta si era imposto con i suoi codici rappresentativi. Dopo la morte di T. Williams (1983), resta soprattutto A. Miller a difendere l'onore della vecchia guardia. The Archbishop's ceiling (1977) conferma l'impostazione del celebre Crucible (1953), ma sposta il tema della persecuzione politica dall'America della caccia alle streghe (del 1692 così come dell'era maccartista) all'Europa dell'Est dei regimi stalinisti. Anche The American clock (1980; trad. it., 1986) affronta, nella vena naturalistica che è tratto distintivo della drammaturgia milleriana, questioni di carattere sociale; ma successivamente Miller ha diretto il suo sguardo verso situazioni più intime, esplorando l'ambiguità delle relazioni interpersonali.
Per E. Albee, invece, il proseguimento della carriera dopo i grandi successi dei primi anni Sessanta ha condotto a una sorta di esasperazione, talvolta autoparodica, di certe tendenze tardoesistenzialiste presenti nella sua produzione fin dall'inizio, come la gelida denuncia dell'incomunicabilità tra i sessi di Listening (1977), la sofferta inchiesta sul significato della morte di The lady from Dubuque (1980), o la rabbia espressionistica di The man who had three arms (1982). L. Wilson (n. 1937) attualizza la lezione cecoviana adattandola, con l'aggiunta di problematiche omosessuali, alla disillusa America post-Vietnam (5th of July, 1978) o a quella solo in apparenza più ''romantica'' della fine della seconda guerra mondiale (Talley's folly, 1979; Talley & Son, 1985); più di recente si avventura nella passionalità violenta e sconnessa di Burn this (1987) con toni che sembrano quelli di S. Shepard piuttosto che dei prediletti drammaturghi europei. A Shepard (n. 1943) si deve infatti la progressiva introduzione nel dramma realistico delle esuberanze visionarie e furenti che caratterizzano la prima fase della sua carriera, dedita a più spettacolari tradimenti delle attese del pubblico: in Curse the starving class (1977), per es., il dettato di Odets e O'Neill spinge Shepard a cercare l'irruenza metaforica non nel fantastico ma in un realismo potente e privo di remore. Buried child (1978; trad. it., in Scene americane, 1985) trasforma la decadenza di una famiglia di agricoltori del Midwest nella drammatizzazione della decadenza della società statunitense, e True West (1980; trad. it., ibid.) gioca sulla trasformazione del mito del West (e della fuga verso la libertà che esso simbolizza) nell'unica realtà che può garantire uno spazio all'agire di individui altrimenti emarginati e condannati a un insensato esercizio della violenza. Della produzione successiva di Shepard sono da ricordare almeno Fool for love (1983; trad. it., 1986) e The war in heaven (1991). Lo stesso fascino per l'aggressività dei gesti e delle parole è riscontrabile nella produzione di D. Rabe (Streamers, 1977) e A. Innaurato (Gemini, 1978).
Il teatro di D. Mamet (n. 1947) si fonda su una diversa concezione del realismo, che nei suoi testi è diretto a rappresentare non tanto realtà sociali o psicologiche quanto i ritmi e le volute del linguaggio parlato. Ne sono icastica dimostrazione il breve The duck variations (1972), dove nel dialogo tra due anziani in un parco si assiste a scambi di battute ''filosofiche'' dalla perfetta strutturazione formale ma assolutamente prive di un qualsiasi senso, e Sexual perversity in Chicago (1974; trad. it., in Teatro, ii, 1989), che inscena la disintegrazione di una coppia felicemente in amore per opera delle efficienti retoriche di due ''amici''. In American Buffalo (1977) è il gergo dei gangsters di mezza tacca a essere tradotto sulla scena con grande precisione, così come in Glengarry Glen Ross (1983; trad. it., in Teatro, i, 1986) il mondo degli agenti immobiliari trascende in un corrusco inferno di competizione e inganni dominato dalle ambiguità del linguaggio; non meno inesorabile nella sua esposizione della doppiezza della lingua è infine Speed-the-Plow (1987), ambientato a Hollywood (ironia della sorte, proprio la sua abilità linguistica ha consentito a Mamet di diventare uno dei più richiesti sceneggiatori cinematografici, oltre che regista egli stesso).
Il più interessante autore teatrale afroamericano è A. Wilson (n. 1945): Ma Rainey's black bottom (1984), Fences (1987), Joe Turner's come and gone (1988) e The piano lesson (1990) affrontano ciascuno un decennio diverso di questo secolo, portando sulla scena i conflitti interni alla stessa comunità nera nei passaggi più importanti per la definizione della sua identità. Le medesime questioni sono state portate sulla scena da S.-A. Williams (n. 1944), Ch. Fuller (n. 1939) e N. Shange, cui vanno aggiunte le voci della minoranza chicana (L. Váldez, n. 1940) e sino-americana (D.H. Hwang, n. 1957).
Assai rilevante, soprattutto nel corso degli anni Ottanta, è stata la diffusione del teatro femminile, che ha espresso autrici di grande interesse come W. Wasserstein, B. Henley e M. Norman.
La Wasserstein (n. 1950) indirizza la propria analisi sull'atteggiamento ambivalente delle donne di fronte ai nuovi orizzonti − ma anche ai nuovi rischi − aperti dal femminismo degli anni Sessanta-Settanta, riassumendo infine, in termini assai critici, il percorso delle donne dal primissimo attivismo radicale al neoconformismo degli ultimi anni in The Heidi chronicles (1988). La Henley (n. 1952) utilizza certi modi espressivi gotico-grotteschi della tradizione letteraria del Sud (Faulkner, O'Connor) per iperbolizzare drammaticamente (talvolta anche comicamente) la ''guerra dei sessi'' nelle regioni degli S.U. dove più forte è il dominio di una certa cultura maschilista (Crimes of the heart, 1979). La Norman (n. 1947) dipinge il quadro contraddittorio della costruzione dell'identità femminile negli S.U. contemporanei, trovando una incerta soluzione nella solidarietà che inattesa si crea tra le persone attraverso la sofferenza (Third and oak, 1978), o nell'ardua ridefinizione dei rapporti tra madri e figlie ('night, mother, 1982). Il successo di queste autrici ha aperto le porte di Broadway ad altri talenti, tra i quali ricordiamo E. Mann, T. Howe, C.L. Johnson e S. Nanus.
Tuttora vitale, sebbene meno influente rispetto a due o tre decenni fa, è l'esperienza dei collettivi teatrali, luoghi deputati degli esperimenti scenici e linguistici più provocatori. Tra tutti, uno dei più interessanti ed emblematici è il Wooster Group, che ha sede nel quartiere newyorchese di Soho ed è guidato artisticamente da E. LeCompte (n. 1944). Seguendo la dottrina di R. Schechner, fondatore di quel Performance Group che ha poi dato vita al Wooster, l'importanza del testo è secondaria rispetto alla sua realizzazione sulla scena, alla quale collaborano senza alcuna distinzione gerarchica tutti coloro che vi sono presenti. La LeCompte utilizza tuttavia le intuizioni di Schechner nella direzione di un maggior controllo razionale della performance, senza l'enfasi (auto-)psicoanalitica che era così importante nel teatro collettivo degli anni Sessanta, e con una maggiore disinvoltura nell'impiego di pratiche intertestuali di matrice decostruzionista. Altri gruppi innovativi sono la Mabou Mines Company di L. Breuer, influenzata principalmente dal teatro di Beckett; il Bread and Puppet Theater, che fonde la brillantezza delle presentazioni sceniche con la fantasia delle proposte musicali; il W.O.W. Café, locale sperimentale per le performances di sole donne; e un gran numero di gruppi femministi tra i quali spiccano l'At the Foot of the Mountain Theater e il Feminist Amerikan Theater. Non si può concludere senza ricordare l'importanza di alcune collaborazioni tra il teatro e la musica e/o la danza (R. Wilson e Ph. Glass; L. Anderson; M. Clarke; S. Shelton Mann; J. Goode; M. Monk), che tentano con la fusione delle arti di contrastare (o di sfruttare) la confusione comunicativa imperante nell'era della televisione e del computer.
Bibl.: Opere di carattere generale: La Modern Language Association di New York pubblica annualmente la MLA International Bibliography, con ampio spazio dedicato alla letteratura americana. Per una costante informazione sulla scena letteraria americana si possono consultare le riviste trimestrali americane PMLA, American Literature e American Quarterly, oltre all'annuale American Literary Scholarship, o le italiane Letterature d'America, Rivista di studi americani e Acoma. Altri sussidi bio-bibliografici sono offerti dai volumi continuamente aggiornati della Gale Research di Detroit, Dictionary of Literary Biography, Contemporary Authors e Contemporary Literary Criticism.
Si vedano inoltre: F. Binni, Caratteri esclusivi: saggi sull'identità letteraria angloamericana, Pisa 1981; I contemporanei. Letteratura americana, a cura di E. Zolla, Roma 1981-83; Three American literatures: essays in Chicano, Native American, and Asian-American literature for teachers of American literature, a cura di H.A. Baker jr., New York 1982; L.A. Fiedler, What was literature?: class culture and mass society, ivi 1982; Sigfrido nel Nuovo mondo, a cura di P. Cabibbo e A. Goldoni, Roma 1983; A. Walker, In search of our mother's gardens, New York 1983; A. Kazin, An American procession, ivi 1984; Reconstructing American literary history, a cura di S. Bercovitch, Cambridge (Mass.) 1986; M. Cunliffe, The literature of the United States, nuova ediz., Baltimora 1986 (trad. it., Storia della letteratura americana, Torino 1990); R. Reising, The unusable past: theory and the study of American literature, New York 1986; American literature since 1900, a cura di M. Cunliffe, ivi 1987; Columbia literary history of the United States, a cura di E. Elliott, ivi 1987 (trad. it., Storia della civiltà letteraria degli Stati Uniti, Torino 1990); L. Marx, The pilot and the passenger: essays on literature, technology, and culture in the United States, ivi 1988; N. Baym e altri, The Norton anthology of American literature, nuova ediz., ivi 1989; Scrittori ebrei americani, a cura di M. Materassi, Milano 1989; E. Zolla, I letterati e lo sciamano: l'indiano nella letteratura americana dalle origini al 1988, nuova ediz., Venezia 1989; M. Bradbury, R. Ruland, From puritanism to postmodernism, Londra 1991; G. Fink e altri, Storia della letteratura americana, Firenze 1991; N. Baym, Feminism and American literary history, New Brunswick (N.J.) 1992; A. Portelli, Il testo e la voce: oralità, letteratura e democrazia in America, Roma 1992; J. Clayton, Contemporary American literature and theory, New York 1993; W. Berthoff, American trajectories, University Park (Penn.) 1994; A. Portelli, La linea del colore, Roma 1994; P. Shaw, Recovering American literature, Chicago 1994.
Poesia: D. Levertov, Light up the cave, New York 1981; M. Perloff, The poetics of indeterminacy, Princeton (N.J.) 1981; B. Lanati, Poesia americana, Roma 1982; Ch. Altieri, Self and sensibility in contemporary American poetry, Cambridge (Mass.) 1984; M. Perloff, The dance of the intellect, ivi 1985; The Harvard Book of contemporary American poetry, a cura di H. Vendler, ivi 1985; R. Von Hallberg, American poetry and culture, 1945-1980, ivi 1985; American women poets, a cura di H. Bloom, New York 1986; M.E. Sánchez, Contemporary Chicana poetry, Berkeley (Cal.) 1986; M. Konuk Blasing, American poetry, New Haven (Conn.) 1987; L. Anceschi, Poetica americana, nuova ed., Firenze 1988; Harper's anthology of twentieth-century Native American poetry, a cura di D. Niatum, San Francisco 1988; R. Bly, American poetry: wildness and domesticity, New York 1990; G. Carboni, B. Lanati, Poesie americane, Torino 1990; U. Rubeo, L'uomo visibile: la poesia afroamericana del Novecento, Roma 1990; J. Holden, The fate of American poetry, Athens (Georgia) 1991; A profile of twentieth-century American poetry, a cura di J. Myers e D. Wojahn, Carbondale (Mass.) 1991; T. Pisanti, Le muse erranti, Napoli 1991; R. Poirier, Poetry and pragmatism, Cambridge (Mass.) 1992; The Longman anthology of contemporary American poetry, 1950-1990, a cura di S. Friebert e D. Young, New York 1993; No more masks!: an anthology of twentieth-century American women poets, a cura di F. Howe, nuova ediz., ivi 1993; The Columbia history of American poetry, a cura di J. Parini, ivi 1993; Every shut eye ain't asleep: an anthology of poetry by African-Americans since 1945, a cura di M.S. Harper e A. Walton, Boston 1994; Postmodern American poetry: an anthology, a cura di P. Hoover, New York 1994.
Narrativa: R. Scholes, Fabulation and metafiction, Urbana (Ill.) 1979; J. Klinkowitz, The practice of fiction in America, Ames (Iowa) 1980; S. Perosa, Vie della narrativa americana, nuova ediz., Torino 1980; Fiction by American women, a cura di W. Farrant Bevilacqua, Port Washington (N.J.) 1983; F. La Polla, Un posto nella mente, Ravenna 1983; F.R. Karl, American fiction, 1940-1980, New York 1984; G. Carboni, La finzione necessaria, Torino 1984; Ph. Fisher, Hard facts: setting and form in the American novel, New York 1985; R. Sukenick, In form: digressions on the art of fiction, Carbondale (Ill.) 1985; Narrativa postmoderna in America, a cura di C. Bacchilega, Roma 1986; B.W. Bell, The Afro-American novel and its tradition, Amherst (Mass.) 1987; Contemporary American fiction, a cura di M. Bradbury e S. Ro, Londra 1987; J.F. Callahan, In the African-American grain: the pursuit of voice in twentieth-century Black fiction, Urbana (Ill.) 1988; American women writing fiction, a cura di M. Pearlman, Lexington (Ky) 1989; T. Pisanti, Dalla zattera di Huck, Napoli 1990; R. Saldívar, Chicano narrative, Madison 1990; Bibliography of American fiction, 1919-1988, a cura di J. Bruccoli e J. Baughman, New York 1991; The Columbia history of the American novel, a cura di E. Elliott, ivi 1991; Modern American women writers, a cura di E. Showalter, ivi 1991; M. Walker, Down from the Mountaintop: Black women's novels in the wake of the civil rights movement, 1966-1989, New Haven (Conn.) 1991; M. Bradbury, The modern American novel, Oxford 1992; G. De Biasio, Memoria e desiderio: narratori ebrei d'America, Torino 1992; J. Klinkowitz, Structuring the void: the struggle for subject in contemporary American fiction, Durham (N.C.) 1992; L. Owens, Other destinies: understanding the American Indian novel, Norman (Okla.) 1992; National identities and post-americanist narratives, a cura di D.E. Pease, Durham 1994.
Teatro: S. Perosa, Storia del teatro americano, Milano 1982; C.W.E. Bigsby, A critical introduction to the twentieth-century American drama, 3 voll., Cambridge 1982-86; R. Bianchi, G. Livio, Il teatro postmoderno, Torino 1983; The theatre of Black Americans, a cura di E. Hill, New York 1987; Nuovo teatro d'America, a cura di M. Maffi, Genova 1987; S.-E. Case, Feminism and theatre, New York 1988; Contemporary American theatre, a cura di B. King, ivi 1991; G.M. Berkowitz, American drama of the twentieth century, Londra 1992; C.W.E. Bigsby, Modern American drama, 1945-1990, New York 1992; G. Bordman, The Oxford companion to American theatre, nuova ediz., ivi 1992; The Cambridge guide to American theatre, a cura di D.B. Wilmeth e T.L. Miller, Cambridge 1993.
Arte. - Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta nel campo delle arti figurative degli S.U. si sono verificati due sostanziali mutamenti di clima. Gli anni Settanta si configurarono, dapprima, come un decennio eterogeneo, privo della coesione assicurata da un movimento predominante: dopo l'egemonia critica e il successo commerciale della pop art e del minimalismo, emersero atteggiamenti fortemente anticommerciali e un nuovo spirito di eterodossia. La pittura, in particolare l'astrazione formale, assunse una posizione subordinata rispetto sia all'elaborazione eccentrica di oggetti (process art) sia all'arte ''senza oggetto'' (arte concettuale, performance, video, installazioni, land art, body art). Alla fine del decennio tuttavia si verificò un ritorno alla pittura e rapidamente s'impose, come stile dominante, il neoespressionismo, che ripropose dimensioni eroiche, temi letterari e quasi autobiografici, oltre a un trattamento violento della superficie pittorica, caratteristica convenzionale della soggettività. Queste tendenze furono ratificate da un boom del mercato artistico, alimentato dalle nuove fortune nate nel periodo di Reagan. Tuttavia, ancora una volta, alle soglie degli anni Novanta l'orientamento preminente dell'arte statunitense ha subito un mutamento di rotta, tornando a un atteggiamento più freddo, con una nuova arte concettuale, concentrata sul linguaggio e sui mass media, contraria alla pittura, considerata veicolo privilegiato di espressione di sentimenti individuali, e impegnata nella denuncia della commercializzazione dell'arte, strumento del tardo capitalismo. Di contro ai drammatici contrasti emergenti da questa lettura ciclica, si devono rilevare tre aspetti salienti della cultura artistica degli S.U. che hanno unificato il periodo in questione: l'emergere e l'affermarsi di un progetto femminista, il ruolo critico svolto dalla fotografia e il discorso ad ampio raggio condotto da artisti e critici sulla vitalità del modernismo e dell'avanguardia come modello di mutamento culturale. Questi tre fattori hanno dato forma al tentativo di articolare una teoria del postmodernismo nelle arti visive. Nel 1977 il critico R. Pincus-Witten diffuse il termine post-minimalism per definire la pluralità di ricerche volte a un superamento liberatorio del formalismo degli anni Sessanta: notando lo spirito ribelle alimentato negli S.U. dalla politica del dopo Vietnam e del dopo Watergate e dall'emergere del movimento femminista, Pincus-Witten descrisse l'arte post-minimalista del 1966-76 come "una moltitudine di soluzioni stilistiche precedute e scaturite da uno stile apparentemente fecondo". Dalla frusta inespressività del minimalismo erano derivate tre tendenze vitali: la scultura iniziatica, colorata, ''pittorica'' degli esponenti della process art, come E. Hesse, L. Benglis, B. Le Va, K. Sonnier; le ricerche epistemologiche sul linguaggio e sull'informazione degli artisti concettuali, come S. LeWitt, M. Bochner, D. Rockburne; e, infine, la ripresa con inflessioni ontologiche di principi dada nelle performances e nella body art di L. Benglis, C. Burden, D. Oppenheim, V. Acconci. L'assioma dell'eterogeneità dell'arte degli anni Settanta non è rimasto tuttavia incontestato: già nel numero della primavera 1977 di October, R. Krauss affermava che l'uso diffuso della fotografia − come mezzo espressivo autonomo; come strumento e fonte di dati per la pittura, nella forma narrativa del video; e, ancora, come documentazione di altre forme artistiche, per es. la performance - costituiva l'elemento unificatore dell'intero decennio, sovvertendo fra l'altro la promessa centrale dell'arte moderna di presenza non-mediata, con il presentare invece un linguaggio denso di convenzioni estetiche.
In queste considerazioni preliminari sul crollo dell'unità dei movimenti di avanguardia e sul ruolo della fotografia nella produzione culturale erano contenuti in nuce i fondamenti del successivo dibattito sul postmodernismo. Tali implicazioni, tuttavia, inizialmente furono messe in ombra dalla prevalente preoccupazione per quella che risultava la grande assente del dramma, la pittura. Uno dei pochi punti di accordo nel panorama artistico statunitense della metà degli anni Settanta era che le soluzioni minimaliste dell'astrazione formalista (con il prestigioso supporto degli scritti di C. Greenberg, M. Fried e B. Rose) e l'ascetismo anti-oggetto dell'arte concettuale avevano condotto la pittura a uno stato di spossata inconsistenza. In un numero della rivista Artforum dedicato alla crisi della pittura (settembre 1975) M. Kozloff osservava che, insistendo sulla specificità della pittura, se ne era ostacolato "l'interesse per la narrazione, la complessità delle forme, l'impegno politico, la presenza decorativa, l'elaborazione autografica e molte altre possibilità".
Tra queste ''possibilità'' la prima a prender forma fu il movimento Pattern and Decoration, molti esponenti del quale avevano precedentemente lavorato con i linguaggi essenziali dell'astrazione geometrica e del field painting. Le sue prime espressioni furono elaborate all'università di California a San Diego, dove all'inizio degli anni Settanta si trovavano il critico A. Goldin e gli artisti M. Schapiro, R. Zakanitch, K. MacConnel e R. Kushner. Nel 1975 Schapiro e Zakanitch organizzarono a New York il Pattern and Decoration Artists Group cui aderirono J. Kaufman, V. Jaudon, J. Kozloff, T. Robbin, A. Slavin, G. Sugarman, J. Torreano e B. Zucker. Due mostre testimoniarono l'ampia diffusione del movimento: Pattern painting, organizzata nel 1977 dal critico J. Perreault nello spazio alternativo P.S.1 di Long Island, e Decorative impulse, curata da J. Kardon all'Institute of Contemporary Art di Filadelfia nel 1979. Il gruppo, all'inizio, tenne mostre anche nell'Alessandra Gallery e nella Holly Solomon Gallery, situate ambedue a Soho, nella parte meridionale di Manhattan, contribuendo a lanciare quest'area alternativa di gallerie, che fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta avrebbe eguagliato l'influenza dello establishment commerciale dei quartieri centrali.
Pattern and Decoration attaccava polemicamente sia l'estetica che la politica: condannando l'avanguardia in auge perché eurocentrica, autoritaria e puritana, il movimento propugnava il godimento visivo, la tattilità e la complessità, in quanto valori ''preindustriali'' ed essenzialmente non-occidentali. Sfidando il tradizionale disprezzo dell'arte occidentale per l'arte applicata, con le sue connotazioni di lavoro anonimo, femminile e utilitaristico, ricercava ispirazione proprio nelle arti decorative, dai disegni delle carte da parati e dei tessuti ai tappeti orientali. Come rivivendo la sfida di Matisse alla cerebrale monocromia del Cubismo, gli artisti di Pattern and Decoration impiegavano colori opulenti in un aperto tributo al lusso; pur mantenendo le dimensioni monumentali della pittura del dopoguerra, preferivano alla rigidità delle tele i contorni morbidi della stoffa drappeggiata; alla purezza formalista dei materiali sostituivano collages di tessuti, al bordo intelaiato cuciture; la geometria imposta dall'hard edge painting era sostituita dai disegni d'ispirazione organica, ripetibili all'infinito, delle stoffe tessute e delle mattonelle di ceramica.
Schapiro è stata la più appassionata nel valorizzare il regno tradizionalmente ''femminile'' del lavoro fatto a mano: sostituì la pittura con monumentali assemblaggi, le cui forme derivavano da quelle familiari di ventagli, cuori, kimoni e rappresentavano un'iconografia ''domestica'' di case, cancelli, mazzi di fiori, vestiti e uova; ricavate con seta, pizzi, fazzoletti ricamati, bottoni, lustrini e simili, le sue femmages (femme+image/hommage) si proponevano come alternative agli assemblages di impersonali rifiuti urbani creati dai suoi predecessori maschi (P. Picasso, K. Schwitters, R. Rauschenberg, R. Stanckiewicz). Kozloff s'ispirava all'arte popolare e agli ornati architettonici studiati nei suoi viaggi in Messico e in Marocco: l'uso di tessuti, mattonelle e vetro e la pratica dell'arte ornamentale quale espressione sociale e non privata, la portarono dalla pittura alla creazione di installazioni in galleria e in spazi pubblici. Fra gli artisti che usavano i tessuti, Kushner era quello che sottolineava con più ardore la spiritualità degli ornati non-occidentali, creando collages di stoffa drappeggiata e dipinta e mescolando pittura, performance e disegno di costumi in ritualistiche esposizioni in galleria, durante le quali indossava ogni pezzo prima di attaccarlo solennemente al muro. MacConnel trovava un'ispirazione meno esotica in tessuti commerciali di poco prezzo che dipingeva, sovrapponendovi grandi motivi di sapore pop, e appendeva in collages a forma di bandiera, composti da strisce verticali irregolari. Zakanitch compose opere di dimensioni murali di acrilico su tela, nelle quali inseriva il vocabolario ridondante ma intrinsecamente piatto dei disegni delle carte da parati nell'infrastruttura modernista della reiterazione e della griglia: le immagini di fiori, foglie e pampini erano ordinatamente definite da montanti che ricordavano graticci da giardino, mentre l'attraente tavolozza del decoratore di interni era usata con la vivace spontaneità ereditata dall'action painting. L'opera di Jaudon invece si manteneva più vicina al linguaggio senza oggetto dell'hard edge painting, pur modificandolo con allusioni alle arti decorative e all'architettura: le sue tele dipinte con intrecci angolari o ricurvi di nastri colorati ricordavano la serie Protractor di F. Stella, ma l'influenza disciplinante del tecnigrafo vi era sostituita da una ricchezza e una complessità ispirate all'arte islamica e celtica.
Nel tentativo di situare Pattern and Decoration in un continuum storico Perreault (Artforum, settembre 1977) osservava che "il pattern painting può essere considerato un prodotto della pittura allover (Jackson Pollock) e della pittura a griglia (Agnes Martin), che a loro volta hanno rappresentato una rottura della composizione relazionale (Picasso, Mondrian)". C. Rickey (Arts, gennaio 1978) sottolineava la paradossale eterogeneità del gruppo, il cui richiamo alle fonti non-occidentali poteva essere letto in chiave erudita o anti-imperialista, e le cui composizioni potevano apparire assolutamente caotiche o più affini a una pittura sistematica, generata da una formula ripetuta esponenzialmente. Pattern and Decoration è stato un movimento di transizione, a cui ha arriso un successo variabile: il suo permissivismo ha contribuito a erodere l'ermetismo dell'astrazione statunitense, ma i suoi connotati artigianali e polimaterici hanno fatto sì che non costituisse una seria minaccia per i sostenitori della pittura pura. Inoltre, sebbene gli artisti del gruppo introducessero provocatori elementi figurati, la loro ripetizione li rendeva astratti e in subordine rispetto alla coerente piattezza del disegno. Come notava Perreault, il pattern painting, così come, prima di esso, l'astrazione geometrica e il field painting, era "bidimensionale, non gerarchico, allover, acentrico e aniconico".
La critica all'attitudine patriarcale del modernismo fatta da Pattern and Decoration fu una delle prime espressioni del movimento femminista nell'arte statunitense. La sfida all'ideologia determinata dal sesso nel mondo dell'arte, scaturita dalla scia dell'attivismo anti-establishment degli anni Sessanta, si manifestò inizialmente nel tentativo di riscoprire le storie di artiste donne, le cui realizzazioni erano state invalidate dai pregiudizi maschilisti della critica dominante. Lo sforzo di revisione dei canoni stabiliti trasse consistenza dal successo dell'importante mostra Women artists: 1550-1950, tenuta nel 1976 al Los Angeles County Museum of Art e curata da A.S. Harris e L. Nochlin. Parallelamente a questa ricerca di documentazione di una voce specificamente femminile nell'arte del passato si svolgevano indagini di stampo essenzialista, con l'affermazione di una natura e di un'immaginazione femminili specifiche e biologicamente determinate. Nel 1971 J. Chicago e M. Schapiro fondarono il Feminist Art Program al California Institute of the Arts di Valencia. In collaborazione con un gruppo di studenti realizzarono Womanhouse, un ambiente esclusivamente femminile sistemato in un palazzo abbandonato di Hollywood, includendo nel progetto opere d'arte, performances e installazioni sul tema degli interessi e delle fantasie delle donne. Artist In Residence (AIR), la galleria fondata a New York nel 1972 da una cooperativa di donne, metteva a disposizione spazi espositivi per artiste che, rifiutando l'autorità dei capolavori, indagavano il fondamento biologico della creatività femminile.
Qui furono esposte le riproduzioni dei disegni di Ingres bruciati e macchiati di D. Attie, i nudi maschili di S. Sleigh, le sculture in ceramica e latice a forma di vagina di H. Wilke, le gouaches di parole e immagini erotiche ispirate ai poemi di A. Artaud di N. Spero, le morbide sculture a forma di bambola e le maschere di F. Ringgold. Il movimento femminista degli anni Settanta svolse anche un'attività, palesemente impegnata, di performance, video e body art con opere, fra le altre, di E. Antin, N. Buchanan, L. Labowitz, S. Lacy, A. Mendieta, L. Montano, R. Rosenthal, M. Rosler, C. Schneemann, H. Wilke, M. Wilson. Una sorta di summa rappresentò nel 1979 il Dinner Party di J. Chicago, un'installazione dedicata alla riscoperta della storia perduta delle donne, che riuniva il lavoro di dozzine di tessitrici, ricamatrici e ceramiste in un tributo, divenuto famoso, alle sottovalutate attività ''muliebri'' del nutrire, dell'artigianato e del lavoro collettivo.
L. Lippard (Art Journal, autunno-inverno 1980) riassunse il contributo del femminismo all'arte degli anni Settanta, notando che le artiste femministe, come alcuni dei loro colleghi maschi, si erano opposte alla tendenza prevalente con aperture pluralistiche, collaborazione e un nuovo rispetto del pubblico, avevano introdotto emozione e autobiografia nel campo delle performances, dei video, della body art e dei libri d'arte e avevano cercato di "reintegrare l'io sociale e l'io estetico" impegnandosi in creazioni collettive. Con una notevole intuizione, dato il ruolo centrale che il femminismo ebbe nella successiva critica postmodernista, Lippard osservava che "il massimo contributo apportato dal femminismo al futuro dell'arte è stato probabilmente la sua mancanza di contributo al modernismo".
Dopo Pattern and Decoration una nuova e più decisiva rottura nel regno della pittura formalista fu provocata da un gruppo di artisti che si proposero di riattribuire all'arte figurativa potere narrativo e psicologico. La nuova tendenza fu anticipata dal verificarsi di due controverse ''diserzioni'' nel mondo artistico di New York. Nel 1970 Ph. Guston dichiarò di aver abbandonato l'espressionismo astratto, da lui praticato con notevole raffinatezza, per tornare al figurativismo e alla narrazione: mediante un personale e ossessivo vocabolario di simboli (orologi, fruste, lampadine, pattumiere, scarponi, sigarette, uomini incappucciati del Ku Klux Klan) prese a trasmettere una tormentata visione della vita e della morte ambientata in una città da incubo e nello studio del pittore, somigliante a una cella; caratterizzate da un segno crudo e spesso, queste opere ricordano lo stile conciso dei comics dell'epoca della depressione, quando Guston era giovane. Poco dopo il 1970 M. Morley, inglese di nascita, passò dal fotorealismo a un pittoricismo eccentrico, centrando le sue opere, dipinte approssimativamente, sulla figura umana e inserendo una critica al colonialismo britannico in un clima peraltro politicamente indifferente come quello della pittura newyorkese. Fra i primi a entrare in rapporto con questa nuova iconoclastia fu la direttrice del New Museum di New York, M. Tucker, che nel 1978 organizzò la mostra ironicamente intitolata Bad painting. Riunendo le opere di quattordici artisti di tutte le parti degli S.U. (J. Albertson, J. Brown, E. Carrillo, J. Chatelain, W. Copley, C. Garabedian, R.C. Hendon, J. Hilton, N. Jenney, J. Linhares, P.W. Siler, E. Staley, S. Urquhart, W. Wegman), Tucker presentò un movimento anarchico che sfidava tutte le convenzioni delle belle arti e del buon gusto che il classicismo formale dell'arte minimalista e il fotorealismo rispettavano.
La mostra identificava un gruppo di artisti figurativi i cui temi andavano dal domestico al mitico e al mostruoso, e il cui temperamento era alternativamente toccante e violento. Non tutti però erano pittori convenzionali: Wegman, già noto come autore di performances e di video di orientamento concettuale, era rappresentato da disegni schematici, mentre mezzo di espressione di Urquhart erano gli arazzi figurati. Ostentando un carattere romantico ed espressionistico, Bad painting, con la sua diretta franchezza, con la voluta goffaggine dell'esecuzione e con la marcata diversità delle fonti, che andavano da precedenti rispettabili di storia dell'arte (primitivi italiani, arte popolare messicana e indiana, arte bizantina, espressionismo tedesco) al kitsch e al profano (fumetti, illustrazioni di calendari, pornografia, tatuaggi), affermava la relatività di ogni giudizio critico. Tucker paragonava il movimento allo spirito antirazionalistico e sovversivo dada, ma forse coglieva maggiormente nel segno quando osservava che gli artisti di Bad painting avevano fatto rivivere l'intenzionale mancanza di eleganza e l'antiintellettualismo della pittura statunitense degli anni Trenta. Un antecedente più immediato e significativo era tuttavia costituito dall'opera di pittori crudamente figurativi come quelli di Chicago degli anni Cinquanta e Sessanta, noti con i nomi di Monster Roster e Hairy Who, che avevano sfidato l'autorità, da poco affermatasi, dell'astrazione della New York School.
Uno dei pittori più anziani e più argutamente comici presentati in Bad painting, Garabedian, si specializzò in voluminosi nudi arcaici e in ispessite rese pittoriche di tozzi templi porticati. Brown, che dalla fine degli anni Sessanta era stata una dei famosi artisti figurativi della Bay Area di San Francisco, dipingeva temi personali − autoritratti, membri della famiglia, animali, scene domestiche − con una piattezza potentemente naïve. Allo stesso modo, sfruttando la tensione fra la figuratività pittorica e il campo piatto del formalismo, Jenney dipingeva oggetti e figure dal disegno infantile su spesse e gestuali superfici monocrome: le giustapposizioni enigmatiche, insieme ai titoli dettagliatamente descrittivi incisi sulle pesanti cornici lignee delle opere, accennavano a un'assenza di carattere esplicativo della narrazione (nella mostra non erano presenti i contemporanei quadri di Jenney di paesaggi e cieli, che testimoniavano la sua padronanza dell'illusionismo e le più ampie possibilità di una nuova figurazione e rappresentazione tematica). Bad painting dunque, identificando un certo numero di posizioni d'indipendenza e di dissenso, metteva in evidenza la mancanza di uno stile ufficiale e coerente: oltre alla sua prospettiva decentralizzata, che favoriva il crescente interesse per le scuole figurative regionali fiorite fuori New York, a Chicago, Houston, New Orleans, San Francisco e Los Angeles, l'aspetto più significativo era il carattere irriverente e retrospettivo dell'approccio al figurativismo, che costituiva un netto ripudio dell'imperativo rivoluzionario del modernismo. Come scriveva Tucker: "la libertà con cui questi artisti mischiano fonti classiche e di arte popolare, kitsch e immagini tradizionali, fantasie archetipe e personali costituisce per sé un rifiuto del concetto di progresso".
Alla fine degli anni Settanta, la reintroduzione della figura avvenne in una maniera meno apertamente sfacciata, a opera di altri pittori che conservavano forti ma ora paradossali tracce di uno stile un tempo puramente astratto. Questi artisti, raccolti sotto il nome New image painting, presentavano l'immagine come segno decontestualizzato, simbolo immediato della realtà − un cavallo, una testa, una bambola, una barca, ecc. − il cui invito all'interpretazione era in contrasto con il campo monocromo circostante, convenzionalmente significativo di arte pura. Nella mostra New Image Painting, dalla quale il movimento trasse il nome, tenuta nel 1978-79 al Whitney Museum, il curatore R. Marshall presentò dieci di questi pittori: N. Africano, J. Bartlett, D. Green, M. Hurson, N. Jenney, L. Lane, R. Moskowitz, S. Rothenberg, D. True, J. Zucker. Mostrando la stessa sfiducia per l'ortodossia che aveva caratterizzato l'approccio di Tucker alla nuova figurazione, Marshall descrisse questi artisti come "liberi di manipolare l'immagine sulla tela in modo che possa essere sperimentata come un oggetto fisico, una configurazione astratta, un'associazione psicologica, un ricettacolo per la pittura applicata, un esercizio di sistemazione analitica, un'ambigua quasi-narrazione, un'esperienza specificamente non specifica, un veicolo di esplorazioni formali o come combinazione di questi vari aspetti". Sebbene l'immagine potesse essere dominante, le opere non si prestavano a una semplicistica categorizzazione di ''figurative'' o ''astratte''.
Dal punto di vista professionale il più anziano del gruppo era Moskowitz, che precedentemente aveva creato quadri astratti, assemblaggi neo-dada e una serie di dipinti monocromi, con accenni di rappresentazione di angoli architettonici, che esploravano la tensione fra il disegno lineare illusionistico e il campo piatto minimalista; a partire dalla metà degli anni Settanta intensificò la presenza dell'immagine iconica nel campo monocromo in una serie di quadri di silhouettes, in cui le forme ingrandite, semplificate e mozzate ricordavano il profilo di mulini, grattacieli, fari, e di note sculture di Rodin, Giacometti, Brancusi e altri. Anche Rothenberg indagava la tensione fra il simbolismo delle forme e il formalismo dello sfondo, creando ampi campi di spessa pittura sui quali si delineavano cavalli, teste e mani dall'aspetto primitivo; l'immediata potenza delle immagini e il presupposto significato espressivo del gesto della pennellata venivano utilizzati contro l'indifferente piattezza della superficie monocroma, la cui planarità era evidenziata da linee e barre. Africano dipingeva ampie superfici monocrome su cui piazzava figure miniaturizzate a bassorilievo che sembravano mettere in scena drammi di perdita, confronto ed estraniamento, rappresentando sinteticamente e in modo ironico momenti del quotidiano allo stesso tempo patetici e comici. Punto di partenza di Bartlett era, invece, la griglia dell'arte concettuale, di cui l'artista si serviva per inconsueti scopi narrativi, dipingendo a smalto semplici immagini simili a geroglifici (case, alberi, barche, cerchi, quadrati) su lastre quadrate di acciaio, disposte in griglie di dimensioni murali: la sua opera era una sfida alla systemic art e alla sua ricerca seriale delle mutazioni logiche e inespressive del segno, mediante l'audace affermazione dell'intervento della mano dell'artista sull'immagine e la dimostrazione che una narrazione è frutto inevitabile della ripetizione, della successione e del desiderio umano di comunicare.
A partire dalla metà degli anni Settanta la pittura astratta subì un cambiamento tanto importante quanto lo era stato il ripristino della figurazione, cambiamento per altri versi annunciato da una ''conversione'' eccellente nel mondo dell'arte, quella di F. Stella. Dopo la retrospettiva del 1970 al Museum of Modern Art che celebrava il suo ruolo di protagonista di spicco del minimalismo, Stella sostituì le tele rigide e le strisce dipinte con pitture a rilievo costituite di materiali misti, come legno, cartone e alluminio a nido d'ape, e iniziò a produrre opere di complessità visiva senza precedenti, ricche di colore e illusionismo e aggressive nell'immediatezza fisica con la quale i pezzi disposti in strati aggettavano dal muro. All'inizio del decennio successivo Stella era divenuto uno dei critici più eloquenti della sterilità della pittura astratta degli anni Settanta; in un volume che raccoglieva alcune sue conferenze e che ebbe larga diffusione (Working space, 1986) sostenne che l'arte figurativa del passato, in modo particolare quella di Caravaggio, poteva guidare l'astrazione contemporanea a sviluppare quello di cui appariva priva: la pittoricità, la contrapposizione illusionistica, l'inventiva strutturale e la pienezza spaziale non compromessa dalla decorazione o dall'illustrazione. Gli artisti astratti che rivendicavano queste nuove possibilità d'immediatezza fisica, complessità formale e ricchezza associativa furono documentati dalla mostra Three dimensional painting, tenuta nel 1980 al Museum of Contemporary Art di Chicago. La sua curatrice, J. Tannenbaum, presentava Stella insieme a nove altri artisti (L. Benglis, S. Diamond, R. Gorchov, R. Humphrey, M. Lenkowsky, J. Obuck, E. Phelan, B. Schwartz, J. Torreano) che avevano infranto il confine fra pittura e scultura, interpretando in senso letterale gli elementi pittorici di base e proiettando la pittura nello spazio reale attraverso l'impiego di materiali eterogenei e di strutture complesse. Le opere di questi artisti rimanevano essenzialmente limitate dalla parete, frontali e astratte, ma si allontanavano dalla presenza immacolata e letterale della pittura formalista per la loro eccentricità compositiva, il segno della mano dell'artista e il ruolo di forme allusive. Dopo aver lavorato a rilievi murali in tecnica mista, J. Pfaff nei primi anni Ottanta si liberò della parete in una serie di impressionanti installazioni. Lo spazio delle gallerie fu invaso da una moltitudine di componenti di materiali vari in combinazioni spesso caratterizzate come action paintings a tre dimensioni.
La tendenza alla complessità e al figurativismo entro una pratica essenzialmente astratta trovò un'autorevole espressione nella pittura dinamica di E. Murray, che nel 1980 iniziò a combinare tele segmentate in opere dalla forma eccentrica, ricche di immagini metamorfiche ispirate agli avvenimenti della sua vita con entusiastici riferimenti all'astrazione biomorfica di Arp e Miró e ai personaggi burleschi dei fumetti americani; le tele sagomate, un tempo emblema della ferrea logica del systemic painting, ora obbedivano alle imprevedibili esigenze del disegno espressivo. Nel catalogo di una mostra di Murray al Dallas Museum of Art (1987) R. Smith definiva l'artista un esempio del diffuso "ringiovanimento post-formalista o del ritorno a temi psicologici della pittura astratta". Pochi pittori tuttavia rischiarono l'autocoinvolgimento di Murray. I quadri di T. Winters si rifacevano all'esposizione visiva della conoscenza empirica propria dei diagrammi scientifici: in densi, protoplasmatici campi di pigmento Winters disponeva forme che richiamavano esemplari di insetti, strutture botaniche e cristalli, evitando la composizione soggettiva con l'imposizione di un sistema non gerarchico e convenzionale, radicato tuttavia nell'osservazione naturale e non nella definizione di pittura quale mezzo bidimensionale. Le forme grasse e pulsanti dei quadri di C. Dunham condividevano l'ottimistica energia dell'opera di Murray, ma il fatto di esporre i resistenti supporti lignei dei dipinti e la precauzionale evidenza del disegno sottostante a carboncino e grafite escludevano ogni tentativo di leggere le opere come improvvisazioni incensurate di un'immaginazione erotica. I quadri di G. Stephan riattivavano lo spazio pittorico come campo di effetti visivi fantastici e vagamente inquietanti; Stephan creava composizioni potenti, ma in definitiva indeterminate, attraverso la manipolazione di forme metamorfiche e ambiguità tra figure e sfondo. B. Marden e R. Mangold, evitando il figurativismo assoluto, conseguivano una trasformazione più sottile dell'astrazione formalista: con colori squillanti e configurazioni che evocavano portali e altari, le opere di Marden affermavano il potenziale di trascendenza della pittura (consentendo paragoni con il sublime di B. Newman), mentre le composizioni di Mangold, tele sezionate e forme geometriche segmentate, sostituivano al campo olistico del minimalismo richiami interni ricchi di ambiguità e sorpresa.
Una riaffermazione del figurativismo, sostenuta da uno spirito di permissivismo e ironia, finì per trasformare anche la scultura dalla metà degli anni Settanta fino agli anni Ottanta. Il riconoscimento della critica giunse più lentamente e, alla fine, le opere furono assorbite nella categoria della New image art, che inizialmente era stata ideata per la pittura. Gli scultori (tra i quali S. Burton, D. Butterfield, J. Duff, N. Graves, B. Hunt, J. Shapiro, J. Surls) reinventarono molto di quello che era stato screditato e condannato negli anni Sessanta, non ultimo il tema dell'opera. Caratteristiche comuni erano l'eterogeneità dei materiali e delle tecniche (notevoli il revival della fusione in bronzo, della patinatura e della scultura dipinta); l'eccentricità delle forme e delle strutture; una preferenza per la metafora e l'allusione; la tolleranza, infine, per tutto quanto mancava alla puritana rielaborazione minimalista dell'estetica industriale, vale a dire instabilità, eccesso, riferimenti vernacolari e storici, emozione. La scultura New image rispondeva anche alla passività intrinseca, per quanto polemica, della manipolazione dei materiali degli assertori della process art mediante l'aggressiva imposizione della forma scultorea attraverso il modellare, tagliare, costruire e fondere. Una prima documentazione sperimentale dell'ampio orizzonte della ricerca post-minimalista fu offerta dalla mostra, tenuta nel 1981 al Whitney Museum di New York, Developments in recent sculpture, curata da R. Marshall, e che riunì opere di L. Benglis, S. Burton, D. Dennis, J. Duff e A. Saret. Successivamente mostre collettive gettarono luce sulla nuova complessità della scultura recente (Metaphor: New projects by contemporary sculptors, curata da H.N. Fox allo Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington, con progetti di V. Acconci, S. Armajani, A. Aycock, L. Ewing, R. Morris e D. Oppenheim) e su una serie di artisti, appartenenti a generazioni e nazionalità diverse, che facevano uso dei nuovi materiali in modo non convenzionale (6 in bronze, curata da P. Tuchman al Williams College Art Museum, Williamstown, Massachusetts, nel 1984, con la partecipazione di N. Graves, B. Hunt, G. Segal, il sudafricano di nascita I. Witkin insieme al britannico A. Cairo e all'italiano S. Chia).
Come Moskowitz nella pittura, Shapiro e Burton ebbero l'atteggiamento più provocatorio nel conservare e sovvertire allo stesso tempo la severità e la serializzazione del minimalismo. Shapiro animava la geometria solida di forme primarie con immagini primitive di case e figure umane in bronzo fuso, ferro fuso e legno. Le case in scala ridottissima evocavano la vulnerabilità dell'infanzia, l'intimità e una dolorosa nostalgia: erano presentate direttamente sul pavimento o attaccate alla parete creando un teatro metaforico estraneo allo spazio esattamente delimitato del minimalismo. Dopo aver prodotto alla metà degli anni Settanta una serie di piccoli uomini in corsa, verso il 1980 Shapiro introdusse grandi figure erette, generiche e assemblate da solidi geometrici che parodiavano le composizioni verticali di Cubi prodotte da D. Smith negli anni Sessanta. Il corpo umano fungeva sia da misura sia da immagine assente nell'''arredamento artistico'' di Burton, che si proponeva di portare la scultura, secondo le sue parole, "da un atteggiamento ermetico, ieratico, introverso" a uno "più civico ed estroverso, meno presuntuoso". Adoperando una virtuosistica gamma di materiali sia naturali che industriali (granito, legno, marmo, onice, bronzo, acciaio, cemento preformato, formica, acrilico, gomma) Burton progettava sedie, panche e tavoli che avrebbero potuto essere prodotti in serie o come oggetti unici; oltre all'ammirazione per l'eleganza elementare e la rielaborazione a guisa di tavolo del piedistallo proprie di Brancusi, Burton chiamava in causa de stijl e il costruttivismo come precedenti della sua opera che comprendeva sculture per luoghi pubblici e arredi per parchi oltre che oggetti da studio. Abbandonando totalmente l'eredità del minimalismo, Surls e Butterfield creavano opere figurative servendosi di materiali trovati in natura. Surls modellava sculture sia erette che sospese ricavandole da rami, tralci e radici raccolti nei boschi: i suoi umanoidi scheletrici e frastagliati sembravano demoni di leggende popolari, ma nella loro sofisticata linearità palesemente invitavano al paragone con le opere molto precedenti di A. Giacometti, T. Roszak e D. Smith. Butterfield, come Rothenberg, faceva rivivere l'immagine del cavallo in sculture realizzate dapprima con bastoncini e argilla e poi con metallo e catrame, ma diversamente da Rothenberg gradiva la tradizione interpretativa che accompagnava l'immagine, e conferiva alle figure erette o recline dignità, pathos e presenza drammatica.
Le innovazioni più audaci nell'immagine e nella struttura si trovano nella scultura di Graves e Hunt. Ispirandosi a fossili, scheletri, forme animali e vegetali Graves faceva fusioni in bronzo di objets trouvés, sia organici che manufatti, amalgamati in complesse strutture capaci di sorreggersi, arricchite da una patinatura chimica policroma; simili a pizzi, angolari e imprevedibili, le opere ostentavano la loro eccentricità strutturale e miravano a conseguire un'appariscente grandiosità. Hunt ridefinì la gamma delle forme giudicate appropriate o persino realizzabili a tre dimensioni con opere ispirate a monumenti architettonici o a elementi paesaggistici: dopo un gruppo di sculture che rappresentavano architetture od opere d'ingegneria, si dedicò a una serie di laghi e cascate in bronzo fuso che si contrapponevano alla ''letteralità'' degli earthworks: i laghi, i cui contorni erano derivati da cartine geografiche, con la superficie mossa da increspature ''pittoriche'', poggiavano direttamente a terra, come in risposta all'usuale disposizione sul pavimento dei pezzi modulari minimalisti; le cascate, dalla suggestiva rappresentazione a tutto tondo, erano delle sinuose gettate di bronzo in cui le armature a vista fornivano un complemento lineare alla piacevole forma liquida.
La neo-scoperta soggettività della scultura fu condotta a livello di Gesamtkunstwerk da J. Borofsky, che, a partire dal 1975, esternò timori, sogni e ricordi in estese installazioni che incorporavano pitture, oggetti, disegni, fotografie, fotocopie, video, registrazioni sonore, gigantesche figure motorizzate realizzate con forme piatte ritagliate, e testi scritti a mano. La sua produzione si poneva alla confluenza dell'archetipo e del narcisistico, sviluppando un lessico di simboli miticamente risonanti, che l'artista dichiarava essere tutti autoritratti. Le opere erano numerate, ma non firmate, per registrarne la posizione in un infinito monologo interiore di conteggio, un processo di definizione soggettiva del tempo che raggiunse ampiamente i numeri a sette cifre. Le immagini erano rese nella maniera sommaria del Bad painting, ma senza la sua ironica distanza. Infatti i drammi onirici, coercitivi e ansiosi di Borofsky lo avrebbero condotto negli anni Ottanta nell'orbita degli artisti più espressionisti.
Nella seconda metà degli anni Settanta la fotografia, come la pittura e la scultura, iniziò a mostrare il declino dell'autorità del formalismo, che aveva ristretto i confini di ciascun mezzo artistico all'esplorazione delle sue proprietà intrinseche. Fino a quel momento la fotografia era stata dominata dall'estetica purista della ''bella stampa'', intesa come veridicità documentaria di immagini in bianco e nero, conseguita attraverso la padronanza tecnica della camera oscura. Ora i fotografi rivendicavano la libertà d'inventare, piuttosto che semplicemente registrare la realtà, e di esibire la complicità della fotografia nel divulgare i clichés dei mass media, piuttosto che perpetuare il suo ruolo di un unico mezzo veritiero. A.D. Coleman (in Artforum, settembre 1976) coniò il nome directorial mode per la nuova fotografia di situazioni palesemente messe in scena, mentre altri preferirono mutuare il termine auteur (fotografia d'autore) dalla coeva critica cinematografica. Precedenti significativi esistevano nella fotografia concettuale (J. Dibbets, E. Ruscha, J. Baldessari, D. Michals), in cui gli artisti fotografavano quadri predisposti, e la prevalenza delle cornici multiple e delle opere seriali sfidava la tradizionale autosufficienza della stampa singola. Ma a paragone di quelle opere precedenti, fredde e circospette, la fotografia della fine degli anni Settanta si compiaceva di melodramma, complessità, umorismo e di un'aperta artificiosità che veniva conseguita ritirandosi nel controllato ambiente di uno studio. La stampa a colori, che i formalisti avevano sdegnato, venne alla ribalta con l'ausilio della Polaroid Corporation, la quale nel 1978 rese disponibile agli artisti l'uso del formato grande (20 × 24 pollici); l'equipaggiamento fisso, che produceva stampe di grande formato ad alta risoluzione e in colori saturi, diede ulteriore impulso allo sviluppo della fotografia allestita in studio.
Molti fotografi pensarono di porre sotto controllo tutto ciò che rientrava nel campo visivo della macchina e di fare di questo controllo il reale soggetto dell'arte. S. Skoglund fotografava installazioni della grandezza di una stanza, costruite con arredi di scena e colori manipolati in modo tale da suggerire l'idea di una catastrofe fatale del mondo naturale: le sue stampe in brillante Cibachrome sembravano parodiare la seriosità iperbolica della fantascienza persino quando si basavano sulla credibilità del mezzo fotografico per provocare uno shock nello spettatore. Le opere colorate come cartoons di N. Nicosia presentavano modelli che con rigida legnosità inscenavano dibattiti contemporanei o drammi domestici ambientati in stanze schematicamente costruite. B. Kasten, lavorando in una vena più astratta che alludeva al costruttivismo, fotografava elaborati assemblaggi di materiali industriali e specchi: lo spazio, le dimensioni e anche il numero dei componenti venivano tutti messi in questione in queste illusioni inscenate senza un nesso. L'interesse per l'invenzione e la manipolazione spinse altri fotografi a investigare le pratiche proprie dei mass media. J.A. Callis fotografava tableaux con figure, mobili e altri arredi di scena: oggettivamente le immagini erano prive di ogni azione o evento, ma il loro innegabile impatto emozionale era derivato dal mondo cinematografico, le cui convenzioni in fatto di messa in scena, illuminazione e angolazione della camera avevano soppiantato quelle proprie della straight photography. J. Golden si serviva di sé come modella in foto nelle quali indossava una serie di affascinanti maschere: ogni identità diveniva un'evidente sciarada, eppure si conformava a un tipo così noto attraverso i mass media che la familiarità stessa conferiva una certa ''veridicità'' all'immagine. Indubbiamente chi riscosse il maggior successo nel rendere popolare la nuova fotografia e nel sabotare ogni possibile residuo di serietà documentaria fu W. Wegman che inscenò una serie di composizioni facendone protagonista il suo cane, Man Ray, in una gran varietà di costumi e maschere; la comica futilità degli sforzi di Wegman di trasformare intieramente il suo modello, equivaleva a un passaggio di potere dal padrone al cane e così, subdolamente, si ribaltava anche la presunzione della ''padronanza'' artistica.
Alla fine degli anni Settanta i critici si sforzavano di valutare il risultato ultimo di un decennio che aveva minato alle basi l'autorità del modernismo senza offrire il vantaggio della coerenza stilistica goduta negli anni Cinquanta e Sessanta. In un articolo in cui dava l'"addio al modernismo" (in Arts Magazine, ottobre 1979) K. Levin definiva gli anni Settanta un periodo ibrido e di transizione e, descrivendo "una sfiducia nell'intero mondo creato dall'uomo, nella civiltà dei consumi e nella pretesa obiettività delle scienze" che andava ben oltre il campo specifico dell'arte, asseriva che il postmodernismo "iniziava con un ritorno alla natura". Paradossalmente le molte nuove alternative per l'arte che avrebbero potuto essere riconosciute, furono eclissate inizialmente dalla facile equazione fra postmodernismo e morte dell'imperativo del progresso attraverso l'astrazione, e dall'idea erronea che il postmodernismo avrebbe voltato le spalle alla cultura tecnologica piuttosto che criticarla in modo sovversivo dall'interno. La pittura, armata della nuova legittimazione teorica del revival e della citazione, consolidò il vantaggio acquisito alla fine degli anni Settanta e fu la prima a reclamare l'insegna del postmodernismo con un'ondata di arte figurativa espressionista. Insieme al trionfale ritorno alla ribalta della pittura, forse il cambiamento più profondo fu rappresentato dalla fine dell'altero isolamento in cui era l'arte statunitense. C. Ratcliff, in una critica delle mostre newyorkesi degli italiani S. Chia e F. Clemente e del tedesco R. Fetting (in Saturday Review, settembre 1981) annunciava "la fine dell'era americana", intendendo la fine di quel predominio americano sulla scena dell'avanguardia che si era instaurato fin dalla conclusione della seconda guerra mondiale; è peraltro significativo che Ratcliff non mettesse in questione se quel predominio fosse stato realmente così totale e diffuso quanto gli Americani amavano credere. Comunque fosse, le critiche e il linguaggio del mercato d'arte furono sopraffatti dalla Transavanguardia italiana e da Die neue Wilden tedeschi. Per la prima volta la rivista Art in America dedicò un intero numero (settembre 1982) alla nuova arte europea, mentre periodici europei come Flash Art godevano negli S.U. di un'autorevolezza senza precedenti. Ben lungi dall'addolorarsi per la perdita di un'egemonia che personalmente non avevano mai esercitato, gli artisti più giovani degli S.U. accolsero con entusiasmo le notizie provenienti dall'estero, come se fossero il necrologio lungamente atteso del moribondo formalismo statunitense e si sentirono sostenuti dal nuovo discorso internazionale nella loro riscoperta del soggetto dell'opera, del forte sentimento e della storia. La mostra A new spirit in painting (curata da C.M. Joachimides, N. Rosenthal e N. Serota alla Royal Academy of Art di Londra nel 1981) fu la prima di numerose esposizioni internazionali che ebbero un ruolo guida nel ricontestualizzare l'arte statunitense e nello stabilire le credenziali di nuove figure autorevoli. I curatori, riunendo opere di artisti astratti e figurativi di tre generazioni, caratterizzarono la pittura degli anni Settanta come una pratica ''furtiva'' (e il rispetto della tradizione fu definito un atto di resistenza), che era pronta ad affermare l'esperienza individuale e la diversità espressiva come attributi funzionanti da pietra di paragone nell'arte degli anni Ottanta. Fra i 38 pittori c'erano gli statunitensi W. de Kooning, P. Guston, C. Twombly, A. Warhol, R. Ryman, B. Marden, M. Morley, F. Stella e, unico della generazione più giovane, J. Schnabel.
L'anno seguente a Berlino Joachimides e Rosenthal curarono una mostra internazionale più vasta, Zeitgeist, che presentava un maggior numero di artisti giovani e proponeva una definizione più ristretta del ''nuovo spirito'' della pittura come un'ondata dionisiaca di neo-espressionismo che riabilitava "la soggettività, il visionario, il mito, la sofferenza e la grazia". Insieme a Morley, Schnabel, Stella, Twombly e Warhol già presenti nella mostra londinese, Zeitgeist includeva gli statunitensi J. Borofsky, J.L. Byars, B. McLean, R. Morris, S. Rothenberg e D. Salle. Nel catalogo lo storico R. Rosenblum notava che un prodotto secondario del neoespressionismo era il riscatto della New York School dall'interpretazione formalista grazie alla riscoperta dello spiritualismo e delle ricerche della prima produzione di Pollock, Gottlieb e Rothko. Gli studiosi statunitensi avevano già intrapreso l'opera di revisione dell'espressionismo astratto e le strutture museali presto procedettero a ridefinire il ruolo degli S.U. tra i protagonisti della scena internazionale dell'arte. Nel 1984, per es., il Museum of Modern Art di New York inaugurò le nuove sale con una mostra incentrata sul rinnovato potere dell'immagine e del sentimento nell'arte occidentale (An international survey of recent painting and sculpture, curata da K. McShine). Il padiglione degli S.U. alla Biennale di Venezia del 1984 potrebbe considerarsi come il riconoscimento ufficiale del mutato volto dell'arte statunitense in patria e all'estero: il commissario Tucker, che aveva lanciato Bad painting, presentò 24 pittori di figure umane, paesaggi e animali, dei quali molti lavoravano fuori New York, e in aperta sfida con essa. Col titolo miltoniano Paradiso perduto, Paradiso riconquistato, le opere melanconiche e ironiche si presentavano come i segni della partecipazione statunitense alla ricerca transculturale di nuovi valori in un mondo dominato dall'ansia.
Campioni del neoespressionismo negli S.U. furono D. Kuspit, T. McEvilley, R. Ricard e P. Schjeldahl; nel frattempo, però, si era sviluppato acceso dibattito critico sull'autenticità del movimento. B. Buchloch (in October, primavera 1981) denunciava il ritorno internazionale al figurativismo come manifestazione di regressione e repressione, una mascherata d'individualismo e irrazionalità che stava cancellando il razionalismo progressista del modernismo. C. Owens (in Art in America, gennaio 1983) analizzava l'ambivalenza e l'impotenza di un movimento che faceva risorgere e allo stesso tempo parodiava l'artista-eroe modernista e che annullava le intenzioni radicalmente dirompenti dell'autentica pratica modernista, dando autorevolezza a una serie di resuscitate convenzioni. Per molti il neoespressionismo statunitense fu in gran parte una proiezione del mercato, che godette di un successo senza precedenti del fascino per l'arte, con la proliferazione di nuove gallerie, un afflusso imponente di capitali internazionali e l'emergere di due superstars, Schnabel e Salle. Ambedue ripudiavano l'ermetismo del recente modernismo con quadri monumentali che presentavano come principali soggetti miti di esperienza maschile. Schnabel produceva le opere più teatrali, sgargianti dipinti gestuali su tela, legno e incerata su cui incollava pezzi di terracotta, corna e pelli animali per ottenere una superficie irregolare e impura. Se Schnabel sembrava propendere per un influsso dell'action painting, Salle era preparato a scandagliare l'intera storia del modernismo alla ricerca di stili e manierismi screditati. In tele singole e in dittici i cui pannelli sembravano appaiati arbitrariamente, combinava riferimenti all'arte ''maggiore'' (de stijl, pop e color field), con immagini derivate da mass-media, scatole di fiammiferi e manuali di sesso. Provocatoriamente Salle faceva rivivere lo stile dell'ultimo Picabia, fino ad allora disprezzato dagli storici dell'arte, oscurando parzialmente le immagini dipinte con disegni lineari sovrapposti. I risultati erano scollegati, irritanti e pornografici, e fu presto chiaro che le basi teoriche del neoespressionismo, cioè storicismo, figuratività e soggettività, non erano sufficienti a giustificare le calcolate trasgressioni di Salle.
I critici che sostenevano il neoespressionismo presto inserirono in questo movimento l'opera della pittrice New Image Rothenberg, sebbene le sue contemplative esplorazioni del segno e della superficie contraddicessero il dichiarato proposito neoespressionista di un'arte emotiva ed estroversa, fatta di narrazione, illusione e confessione. Analogamente fu annoverato fra i neoespressionisti E. Fischl, da molti giudicato uno dei più capaci pittori figurativi allora emergenti; tuttavia Fischl, che ritraeva le tensioni e gli imbarazzi della vita americana suburbana visti nell'ansiosa prospettiva di un voyeur adolescente, preferiva essere considerato semplicemente un ''narra-storie'' nella linea della tradizione pittorica narrativa statunitense. Più agevolmente riconducibile nell'alveo del neoespressionismo era la produzione più recente di Morris, che all'inizio degli anni Ottanta, dopo aver contribuito in maniera significativa al minimalismo, alla performance e alla land art, espose un'angosciante serie di rilievi e dipinti che evocavano la devastazione totale dell'olocausto nucleare: tali visualizzazioni di un cataclisma universale richiamavano Leonardo e Turner, mentre le sproporzionate modanature in rilievo che incorniciavano le opere più grandi assumevano la funzione di proscenio in composizioni che univano pittura, scultura e architettura, in un'esibizione di teatralità barocca. Fra gli altri artisti la cui opera era giudicata testimonianza della nuova appassionata sensibilità pittorica vi erano J. Alexander, G. Amenoff, R. Bosman, P. Dean, M. Diamond, L. Fishman, L. Golub, B. Jensen, K. Porter, P. Wofford, F. Young: considerata globalmente, la loro produzione copriva un'ampia gamma di indagini figurative e paesaggistiche, accomunate da una patente urgenza psicologica e un'aggressiva presenza materiale.
Proprio mentre agli inizi degli anni Ottanta veniva salutato il ritorno della pittura tradizionale, ai margini dell'arte ''maggiore'' si andava affermando una vitale subcultura di arte ''da strada''. La sua preminente forma visiva, i graffiti, fu presto addomesticata per soddisfare il crescente desiderio di crudezza e d'immediatezza che si andava manifestando nel mondo artistico. I graffiti erano fioriti sui muri e sulle vetture della metropolitana di New York sin dalla fine degli anni Sessanta come espressione della cultura urbana hip-hop e come segno d'identificazione dei territori delle varie gangs; li eseguivano o ''scrivevano'' giovani armati di bombolette di vernice spray ispirandosi sia alle immagini della pubblicità sia agli stereotipi dei capolavori riportati dai libri di testo. All'inizio degli anni Settanta quella che era iniziata come una manifestazione di degrado civico cominciò a ricevere considerazione da parte delle riviste d'arte, finché i graffiti entrarono nella periferia del mondo dell'arte attraverso alcune cooperative di artisti, una delle quali, Fashion Moda del South Bronx, nel 1980 organizzò la mostra Graffiti art success. Le inflessioni comiche del linguaggio dei graffiti e la loro mistica trasgressiva attrassero numerosi pittori esperti che insieme ad alcuni originali ''scrittori'' di graffiti da strada parteciparono nel giugno 1980 al malfamato Times Square show: in un ex salone di massaggi, nel cuore del decadente quartiere commerciale di New York, una cooperativa approssimativamente organizzata chiamata Collaborative Projects, Inc. (CoLab), con Fashion Moda e altri, mise insieme una mostra all'aperto di un centinaio di artisti e non artisti di razze diverse, che esposero una serie variabile di oggetti, performances, film e video. Lo spirito era provocatoriamente trasandato e politicamente ribelle, antiartistico e anticommerciale, ma già l'anno seguente l'arte da ''strada'' si trasferì comodamente al chiuso quando la Brooke Alexander Gallery presentò alcuni dei partecipanti del Times Square show (J. Ahearn, R. Bosman, M. Glier, K. Haring, J. Holzer, R. Longo, R. Miller, P. Nadin, J. Rifka, W. Robinson) nella mostra Represent/Representation/Representative. Il successo popolare dei graffiti e di altre forme di arte da strada fu uno dei fattori del breve periodo di fioritura commerciale dello scenario artistico dell'East Village di New York nei primi anni Ottanta: bohémien apertamente imprenditoriale, l'East Village, nel momento di maggior successo, vantava più di due dozzine di gallerie.
Con sensibilità decisamente urbana e giovanile gli artisti dell'East Village (M. Bidlo, D. Birnbaum, G. Bender, G. Condo, R.A. Greenblatt, J. Otterson, J. Rifka, P. Schuyff, K. Smith, M. Vaisman, D. Wojnarowicz) producevano una cruda miscela di graffiti, neosurrealismo, video, vignette e alcune delle prime manifestazioni di ''appropriazionismo''. Il più controverso pittore emerso da questo ambiente fu forse J.M. Basquiat, che fu notato per la prima volta come ''scrittore'' di graffiti con la firma Samo. Basquiat univa un'ovvia conoscenza del primitivismo artistico con una gestuale maestria del disegno e simboli primordiali in uno stile a notazioni che fu pubblicizzato come prodotto naturale della diversità etnica di New York. A seconda dello schieramento del critico di turno, Basquiat o incarnava l'anima stessa dell'autenticità o ne dimostrava il profondo vuoto concettuale.
Sebbene i graffiti fossero inizialmente interpretati come una delle più sotterranee manifestazioni della vasta eruzione di pittura intuitiva, furono presto inseriti nel più ampio dibattito sul significato dello scontro fra arte ''maggiore'' e cultura popolare alla fine del 20° secolo. Ma col procedere del tempo, la prima ingenua identificazione del postmodernismo come amore del revival all'interno di un clima di eclettismo permissivo e ironico fu soppiantata da una critica più consistente e penetrante intorno alla posizione dell'arte in una società modellata dalla comunicazione di massa e dall'informazione elettronica. La critica europea, dalla Scuola di Francoforte al poststrutturalismo e al postmodernismo francese, ebbe un ruolo determinante nell'attacco mosso dagli artisti e scrittori statunitensi sia alle ultime vestigia del formalismo critico sia alla nostalgia dell'''autentica'' pittura espressiva e, seguendo questo corso, si posero le basi di una nuova arte concettuale. Stimolati dalle intuizioni di W. Benjamin, T. Adorno, R. Barthes, J. Derrida, M. Foucault, J. Lacan, F. Lyotard, G. Debord e J. Baudrillard, gli intellettuali statunitensi indagarono il significato della creazione artistica in una cultura che aveva assistito al crollo della ''grande narrazione'' del modernismo e per la quale la riproduzione di massa di simulacra aveva sostituito l'esperienza diretta di un originale. La strumentalizzazione delle riproduzioni di opere d'arte al fine di affermare l'autorità culturale e la conseguente feticizzazione dell'opera originale assente furono esaminate come esempi di un più diffuso processo, per il quale la disseminazione commerciale delle immagini e la manipolazione del desiderio collettivo servivano a rinforzare le strutture esistenti del potere politico ed economico. Gli artisti misero in questione l'originalità, l'immanenza e la trascendenza attribuita all'arte più elevata usando, secondo le parole di S.R. Suleiman, "l'appropriazione, la misappropriazione, il montaggio, il collage, l'ibridazione e in generale la mescolanza di testi e discorsi verbali e visivi, derivati da tutti i periodi del passato come da molteplici campi sociali e linguistici del presente". Questa critica fu accompagnata dalla rinnovata ammirazione per le trasgressioni dada (il montaggio e il readymade) e della pop art (l'immagine tratta alla cultura di massa), dal riconoscimento della nuova pertinenza critica della fotografia e dalla riconsiderazione dell'uso calcolato delle immagini di seconda mano nelle opere melodrammatiche di Longo, Salle e altri. La possibilità di una valida pratica di avanguardia in una cultura sopraffatta dai clichés dei mezzi di comunicazione fu oggetto di un acceso dibattito: o l'avanguardia era degenerata in un'arena ben accorta al mercato per assumere pose anti-sistema o gli sforzi degli artisti di denunciare il potere coercitivo delle immagini costituivano una reincarnazione dell'originaria offensiva mossa contro la repressione politica dall'avanguardia del 19° secolo. La più persuasiva ragione del postmodernismo a pretendere valide credenziali politiche fu vista nella sua utilità per chi non aveva mai determinato o detenuto alcuna influenza politica e culturale. C. Owens additò l'intersezione fra "la critica femminista del patriarcato e la critica postmodernista della figuratività"; A. Huyssen descrisse un "postmodernismo di resistenza" che abbracciava movimento ecologista, movimento femminista e gli sforzi di altri gruppi marginali d'infrangere l'autorità culturale occidentale.
Il nuovo freddo e giovanile neoconcettualismo divenne oggetto dell'attenzione della critica e del pubblico nel corso degli anni Ottanta, promosso da una valanga di scritti critici e con l'avallo di mostre di presentazione come A forest of signs: art in the crisis of representation (Museum of Contemporary Art di Los Angeles, 1989, curata da A. Goldstein e M.J. Jacob). La prima produzione significativa, tuttavia, era apparsa a metà degli anni Settanta −cioè contemporaneamente al riemergere della pittura − sostenuta dai critici R. Krauss, D. Crimp, H. Foster e C. Owens. Nel 1977 Crimp curò la mostra Pictures (Artists Space di New York) presentando T. Brauntuch, J. Goldstein, S. Levine, R. Longo e P. Smith. Negli anni successivi C. Sherman, L. Simmons, R. Prince, J. Holzer, B. Kruger, L. Lawler e A. McCollum si unirono a questo primo gruppo di artisti che intendevano indagare sul formarsi della coscienza attraverso le immagini. Levine riproduceva opere riconoscibili o ''standard'' di artisti dell'inizio del Novecento (Evans, Schiele, Mondrian, Kandinskij, Miró) e le rivendicava come proprie: come lo scolabottiglie e la ruota di bicicletta di Duchamp, queste immagini iconiche del modernismo divennero i suoi readymades, prodotti della cultura di massa da manipolarsi in una strategia mirata a minare le finzioni del genio creativo individuale e dell'oggetto unico. Lawler fotografava e commentava spassionatamente esposizioni nei musei, sedi imprenditoriali e case private per sostenere che gli oggetti servono soprattutto come trofei di autorità e privilegio. Le fotografie di Sherman mostravano immagini-tipo preesistenti (fotogrammi di film, modelli di moda, illustrazioni di fiabe) che comunicavano visioni stereotipe e prevalentemente maschili di donne; il forte impatto emotivo di ciascuna immagine era un patente artificio, poiché essa era ''percepita'' attraverso un processo di decodificazione di segni già noti usati nei media per indicare l'ansietà, la solitudine, l'impotenza della donna. In queste messe in scena di emozioni stereotipe Sherman agiva come artista e come modella, drammatizzando così la falsificazione della soggettività nella rappresentazione. La denuncia dell'imposizione dell'identità femminile attraverso clichés era alla base anche dell'opera di Simmons, che fotografava minuscole scene domestiche impersonate da bambole. Come quelle di Sherman le opere di Simmons parodiavano i fotografi-registi degli anni Settanta che aspiravano alla (illusoria) autonomia e trascendenza assicurata alla pittura. La serie successiva di Simmons indagava le problematiche del potere e dell'identità attraverso immagini di ventriloqui e dei loro fantocci fotografati contro fondali proiettati. Holzer e Kruger fecero uscire dalle gallerie la critica al potere e alla massificazione delle immagini, portandola negli spazi pubblici. Holzer inventava aforismi e slogan in una ''voce'' anonima che si alternava in affermazioni di autorità maschile e di resistenza femminile: i suoi brevi testi apparirono furtivamente dapprima in adesivi e poster, poi in un mezzo più energico, l'insegna elettronica. Rifacendosi alla tradizione del fotomontaggio dada Kruger invece incollava frammenti di immagini prelevate dai mass media e vi sovrapponeva affermazioni altisonanti stampate nel brutale linguaggio grafico dei rotocalchi: le opere, presentate in forma di spazi pubblicitari, proclamavano una condanna generale della manipolazione capitalista, insieme alla specifica accusa al capitalismo di avere nelle donne le vittime principali.
Via via che il neoconcettualismo avanzava negli anni Ottanta, la critica della figuratività e l'atteggiamento combattivo che lo avevano accompagnato lasciarono il posto a un'indagine più spassionata sull'arte come espressione paradigmatica della produzione e dei consumi tardo-capitalisti. La trasformazione fu documentata nell'importante mostra Art and its double (Fundacio Caixa des Pensions, Barcellona e Madrid, 1986), curata da D. Cameron, con opere di A. Bickerton, S. Charlesworth, R. Gober, P. Halley, J. Holzer, J. Koons, B. Kruger, L. Lawler, S. Levine, M. Mullican, T. Rollins e K.O.S., P. Schuyff, C. Sherman, H. Steinbach e P. Taaffe. Sotto la pesante influenza del pessimismo di Debord e Baudrillard quale si coglieva negli scritti del pittore Halley, che per breve tempo esercitarono una notevole influenza, l'arte era presentata come una delle manifestazioni di un processo inarrestabile di completa commercializzazione. L'oggetto d'arte figurava come un prodotto di consumo, un simulacrum mascherato da espressione originale, mentre lo spettatore/consumatore rispondeva ai dettami del desiderio manipolato. Si sosteneva anche che il dissenso artistico era inevitabilmente assorbito nella complicità: infatti gli artisti che affermavano di denunciare il sistema puntavano al loro successo commerciale come prova tautologica delle loro intuizioni sulla commercializzazione dell'arte. Mentre il termine ''simulazionismo'' veniva attribuito allo sviluppo nel suo complesso, i pittori che operavano con l'etichetta neo-geo riciclarono gli stili dell'arte non oggettiva del passato con la facilità dei cambiamenti di moda.
Halley usava il linguaggio modernista, un tempo liberatorio, dell'astrazione geometrica in ''rappresentazioni'' pittoriche dei sistemi autoritari di controllo. Sia R. Bleckner, sia Schuyff, sia Taaffe dipingevano con appropriatezza in molteplici stili non figurativi per negare globalmente la loro autenticità.
Gli autori di commodity sculpture fornirono le affermazioni più audaci intorno al conformismo e al commercio nell'arte. Steinbach esponeva prodotti domestici desueti e oggetti decorativi kitsch su mensole di formica, presentando sempre più di un esemplare per ciascun tipo. McCollum portò in galleria l'abbondanza della catena di montaggio con i suoi ''surrogati'' e ''veicoli'', ripetizioni senza fine di forme a guisa di vaso e di silhouettes incorniciate. Bickerton creava aggressive costruzioni parietali presentando ferramenta fuori misura, vernice metallica e collages di logo aziendali; le opere avevano incorporati rivestimenti e manici imbottiti, per alludere al loro essere pronte alla spedizione e al commercio. Koons, con allusioni burlesche all'arte del passato, dai bronzi di Brancusi al minimalismo, presentava apparecchi elettrici in vetrine, palloni da pallacanestro sospesi in acquari, sculture figurative a forma di caraffe di acciaio inossidabile, e statuette di porcellana di simboli della cultura pop: la sua ricerca sull'assorbimento di ogni esperienza nelle forme dello scambio commerciale lo portò a rappresentazioni quasi pornografiche dell'artista e della sua modella in sculture di legno policromo e fotografie ritoccate con l'aerografo.
Insieme al cinismo brutale della commodity sculpture negli anni Ottanta emerse anche un opposto e vigoroso sforzo di affermazione della persistente vitalità della scultura quale veicolo di espressione individuale. Come negli anni Settanta, critici e curatori di mostre ricorsero al concetto di ''pluralismo'' per accogliere una vasta gamma di ricerche formali e tecniche. Lo scultore W. Saunders (Art in America, novembre 1985) descrisse una generazione di artisti, tra i trenta e i cinquant'anni d'età, che si dedicavano a esplorare figuratività e citazione nell'ambito dell'astrazione, impronta personale e produzione in piccole proporzioni in studio, sensualità e improvvisazione, informalità e ironia. Saunders citò come caratteristiche di questa condivisa sensibilità le opere di T. Butter, R.M. Fischer, J. Fisher, J. Giegerich, R. Horn, B. Hunt, M. Kendrick, D. Lipski, R. Lobe, J. Newman, T. Otterness, J. Pfaff, J. Shea e R. Therrien. La mostra Sculpture inside outside (Walker Art Center, Minneapolis, 1988, curata da M. Friedman) cercò di stabilire una discendenza dal modernismo internazionale per le realizzazioni di diciassette scultori (P. Adams, T. Butter, R. Gober, B. Hatcher, J. Highstein, J.S. Kim, D. Lipski, R. Lobe, W. Martin, J. Newman, M. Puryear, J. Shea, P. Shelton, M. Singer, R. Therrien, M. Webster, S. Woodward) che operavano con astrazioni organiche e architettoniche, rappresentazioni figurative e creazione di assemblaggi ed environments. Più mirata a sottolineare il rinnovato vigore della rappresentazione simbolica fu la mostra Structure to resemblance: works by eight American sculptors (Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, 1987, a cura di M. Auping, con opere di L. Benglis, J. Chamberlain, J. Fisher, N. Graves, M. Puryear, J. Shea, J. Surls e R. Therrien). Della New image art degli anni Settanta questa scultura conservava l'interesse per i materiali tradizionali (pietra, bronzo, legno, ferro fuso), l'attrattiva delle immagini e delle citazioni simboliche e il desiderio di sondare i confini fra forma riconoscibile e non oggettività. Qualità originali di molte di queste opere erano lo studio di una presenza privata e persino criptica rispetto all'impulso più apertamente narrativo della New image art, il rispetto per l'artigianato che annullava sia gli atteggiamenti eroici sia la retorica impersonale della manifattura commerciale, un nuovo culto per l'eloquente semplicità dell'arte minimalista dopo la complessità in voga negli anni Settanta e la prontezza nel mescolare materiali e tecniche.
Uno degli scultori più ammirati fu Puryear, che inventava forme caratterizzate dalla sobria eleganza della geometria e da un attenuato biomorfismo: ispirandosi alla carpenteria tradizionale della Sierra Leone e della Svezia, Puryear lavorava principalmente con legno giuntato e piegato, oltre che con pietra intagliata, reticolati di filo, bronzo, argilla e catrame. L'invenzione di semplici forme astratte assunse un andamento più eccentrico nell'opera di Adams, che combinava elementi di bronzo, fusi separatamente e dipinti o patinati singolarmente, in composizioni sul tema del movimento e della sospensione. I rilievi e le opere a tutto tondo di Therrien, in bronzo, legno, cera, lacca e altri materiali, presentavano forme familiari radicalmente ridotte a profili elementari e superfici non piegate. Le sculture ripetevano i contorni di guglie di chiesa, pupazzi di neve, chiavi di volta, scrigni, e trombe, tutti riconoscibili e prosaici, eppure dotati di una essenziale presenza iconica che allo stesso tempo invitava e frustrava l'interpretazione. Shea perseguiva un'espressione più deliberatamente figurativa in sculture che presentavano drappeggi e vestiti senza contenuto, come surrogati dell'assente figura umana; altre opere a grandezza naturale in ferro e bronzo fuso mostravano tronchi e altre parti del corpo, spesso in tacita comunione con elementi geometrici o architettonici. Il riferimento ai manichini e alla scultura ellenistica e la giustapposizione di componenti figurativi e geometrici riprendevano un po' dello spirito enigmatico e melanconico dell'arte metafisica.
Alla fine degli anni Ottanta, la tematica politica e sociale ancora una volta è divenuta protagonista dell'arte statunitense. Il neoespressionismo e il simulazionismo apparvero le due facce della stessa moneta spesa dal supercapitalismo. Nel clima del dopo Reagan si avvertì una nuova austerità nata dalla recessione, dalla riduzione delle sovvenzioni private e pubbliche all'arte, dal collasso del mercato d'arte contemporanea, dal riemergere della censura, e dal terribile pedaggio pagato dal mondo artistico all'AIDS. Con l'arrivo dell'ultimo decennio del secolo il mito del ''crogiuolo delle razze'' è crollato di fronte alla realtà di una nazione in crisi, frammentata e multiculturale. È sembrato che l'arte non si potesse più permettere d'indulgere in opere che parodiavano o falsificavano la soggettività, e l'attenzione è stata rivolta verso artisti che indagavano i processi dell'autodefinizione collettiva e individuale. Il nuovo spirito fu riassunto da The decade show: frameworks of identity, una collaborazione realizzata a New York nel 1990 fra il New Museum of Contemporary Art, lo Studio Museum di Harlem e il Museum of Contemporary Hispanic Art; l'esposizione offriva una rassegna di artisti che avevano lottato contro problemi di razza, sesso e identità culturale negli anni Ottanta. I musei, le gallerie e le riviste iniziavano a dare maggiore riconoscimento ai risultati di artisti afroamericani, sia emergenti sia della generazione precedente (D. Hammons, M. Hassinger, J. Lewis, H. Pindell, A. Piper, F. Ringgold, B.L. Robinson, A. & B. Saar, J. Scott, L. Simpson, P.W. Williams, F. Wilson), di artisti americani aborigeni (J. Durham, E. Heap of Birds) e di artisti ispanoamericani (L.C. Azaceta, J. Baca, R. Garcia, C.L. Garza, G. Gomez-Peña, L. Jimenez, G. Lujan, J.B. Moroles, R. Trejo, J. Valadez).
Il sorgere nell'ambito della cultura americana di una corrente così ricca di voci e ribelle e il contemporaneo declino del mercato degli oggetti di alto prezzo, sono stati i due fattori che hanno contribuito al rinvigorirsi dell'arte elettronica, delle installazioni e dell'arte specificatamente legata a un luogo. D. Adams, D. Birnbaum, D. Graham, D. Hall, L. Hershman, G. Hill, J. Massey, A. Piper, B. Viola e J. Wall sono stati fra quelli che hanno fatto uso di immagini video, elettroniche e proiettate, in opere che spesso hanno preso in esame i mali sociali. Gli effetti delle tensioni sociali e della crisi economica sono stati colti da parte dei critici nell'umorismo nero di installazioni come quelle degli statunitensi M. Barney, D. Hammons, Z. Leonard, B. Nauman e C. Noland presenti a Documenta 9 (Kassel, 1992, curatore J. Hoet). Un importante cambiamento di tendenza nelle installazioni e in altre forme di arte legata al luogo, si è potuto avvertire nel fatto che la sensibilità per gli ambienti naturali e architettonici che aveva caratterizzato la produzione negli anni Settanta ha lasciato il posto a una pratica più attenta alla storia e alle istituzioni locali come contesti determinanti per l'arte. Esempi significativi in tale direzione si sono potuti trovare sia nell'esposizione di arti visive al Festival di Spoleto del 1991 (Places with a past: new site-specific art in Charleston, Charleston, South Carolina, a cura di M.J. Jacob, con importanti opere di A. Hamilton, D. Hammons e J. Scott), sia nella mostra Art at the Armory: occupied territory, sponsorizzata dal Museum of Contemporary Art di Chicago e organizzata da B.J. Wright nel 1992-93 (con opere di D. Birnbaum, A. Crane, V. Fisher, D. Hall, L. Hershmann, G. Hill, T. Hoang, J.S. Kim, E.A. Laramée, T. Miyajima, E. Newman, M. Shaughnessy, F. Torres, B. Viola, e dei gruppi Diller+Scofidio, Haha, Lazaretto Collaborative e TODT). Il primato delle installazioni nelle più importanti istituzioni è stato stabilito dalla mostra Dislocations al Museum of Modern Art di New York nel 1991-92 (a cura di R. Storr), che ha presentato sette installazioni con opere, tra gli altri, di Burden, Hammons, Nauman e Piper.
La tendenza all'allontanamento dalla pittura e dal fascino che essa aveva esercitato negli anni Ottanta, fu ratificata dall'elenco degli artisti scelti per la Biennale 1993 al Whitney Museum di New York. Questa rassegna, per un decennio condannata come mero barometro delle tendenze di mercato, fu ampiamente dedicata alle installazioni, ai film, ai video incentrati su problemi di razza, classe, povertà, sesso e AIDS. Evidentemente saranno gli esami di coscienza e gli atti di pentimento e di protesta − e non la decadenza e l'autoripiegamento − a caratterizzare la fin-de-siècle americana. Vedi tav. f.t.
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Architettura e urbanistica. - Dinamica territoriale e trasformazione urbana. - Gli anni Settanta sono caratterizzati da un significativo flusso migratorio interno con una tendenza che si conferma all'inizio degli anni Ottanta e provoca la comparsa di nuove aree d'intervento e di nuove città protagoniste dello sviluppo, con conseguenti trasformazioni del territorio e dello spazio urbano. A livello macroscopico questo fenomeno si traduce in una relativa stabilizzazione dell'area metropolitana nord-orientale, della cosiddetta Frost-Belt (nella quale continuano a essere concentrati i luoghi delle decisioni, della leadership economica e dell'industria culturale) e nella sensibile crescita della cosiddetta Sun-Belt, cioè dei territori degli stati meridionali e sud-occidentali.
La struttura metropolitana si conferma, differenziandosi secondo varie scale d'importanza e funzionalità: New York, San Francisco, Chicago e Houston sono centri di servizio plurifunzionali a livello nazionale e internazionale; Filadelfia, Boston, Dallas, New Orleans sono centri plurifunzionali a livello regionale, mentre Washington, New Haven, Detroit e San José si configurano come centri di servizio specializzati. A queste aree metropolitane se ne aggiungono altre caratterizzate come centri di consumo: in definitiva si configura un sistema di 25 aree metropolitane nelle quali si concentrano gli headquarters delle maggiori corporations, con localizzazioni anche molto lontane dal centro delle città. Procede al tempo stesso l'infrastrutturazione sempre più marcata del territorio extra urbano a minore densità insediativa, anche lontano dalle concentrazioni metropolitane: si rafforzano i centri di servizio territoriali (con la trasformazione degli shopping centers commerciali nei multifunzionali regional centers e nei più organizzati discount stores), mentre gli insediamenti residenziali sono più concentrati, presentandosi in forma di condomini piuttosto che seguendo il modello storico di residenze individuali. Completano il quadro un forte decentramento dei luoghi di produzione industriale e la creazione di office parks, cioè ampie aree attrezzate con verde e parcheggi destinate a edifici per uffici, che abbandonano il centro della città.
L'insieme di queste trasformazioni nell'organizzazione dello spazio fisico, che si basa, storicamente, su di una car-oriented society, è stato favorito nell'ultimo quindicennio dalla diffusa possibilità d'informazione in tempo reale garantita dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione; esso è avvenuto anche grazie all'importanza assunta da materie prime tradizionali come il petrolio o da nuove materie come le sabbie silicee nell'economia interna, e sul piano internazionale da una forte dilatazione del mercato finanziario. Maggiore attenzione viene inoltre prestata al quadro ambientale dell'intero territorio nazionale, che risulta sempre più aggredito dalle piogge acide e da inquinamenti marini da petrolio che interessano centinaia di miglia di costa; come anche una maggiore attenzione viene prestata alla qualità dell'ambiente urbano, che si traduce in una progressiva eliminazione dagli spazi pubblici di materiali edili potenzialmente dannosi alla salute, a base di amianto, e nell'avvio di una riduzione generalizzata delle barriere architettoniche.
Trasformazioni urbane e territoriali e uso dell'automobile continuano a essere strettamente collegati, oscillando tra due polarità apparentemente opposte, ma che si raccordano con la generalizzata importanza assunta dal tema della città: da un lato, infatti, nelle grandi concentrazioni metropolitane o nelle città che possiedono un tessuto storico, le nuove aree di servizio non vengono più fortemente dotate di aree per il parcheggio privato, per favorirne un uso pedonale e per ridurre i guasti nel tessuto urbano; dall'altro lato, nelle più limitate dimensioni provinciali, l'afflusso delle auto viene invece favorito presso le aree centrali, a confine di malls pedonali polifunzionali, per consentire lo sviluppo di una vitalità sociale concorrenziale a quella dei centri di servizio extra urbani.
Per es., all'inizio degli anni Ottanta, in città come Houston (Texas) la realizzazione di una rete pedonale sopraelevata generalmente collegata a un centro commerciale e a servizi ad alto reddito provocava un progressivo degradarsi delle aree a terra, abbandonate alle automobili, ai poveri e alle minoranze; si risolveva cioè un problema funzionale a danno della qualità architettonica e dell'integrazione sociale. In tempi più recenti a New York, nel Lower Manhattan, nel quadro della ristrutturazione di un quartiere storico (South Street Seaport), la creazione di 300.000 piedi quadrati di area a servizio è avvenuta senza realizzare parcheggi per auto private: è un'area della città molto frequentata, benché vi si acceda quasi esclusivamente con il trasporto pubblico. In città più piccole e senza tessuto storico l'attenzione per la qualità urbana porta, come nel caso di Bellevue (Washington), a contenere gli standard già in uso per la dotazione di parcheggi privati, a vietare la realizzazione di pareti cieche su strada, a enfatizzare gli spazi pedonali e il trasporto pubblico.
Architettura e città. - Mentre la casa unifamiliare resta affidata alle iniziative individuali e continua a costituire un campo di sperimentazione per piccoli studi professionali o per architetti isolati, gli interventi a media e grande scala sono oggetto di progettazione affidata a grandi studi e vedono la nuova figura del developer dotato di grande iniziativa, capace di muovere grandi capitali e perciò d'influenzare fortemente la politica urbana.
La figura del developer assume particolare importanza parallelamente ai tagli operati sui finanziamenti dei programmi sociali e di quelli relativi alla costruzione di abitazioni a basso costo. All'esterno della città, come abbiamo visto, si procede all'edificazione in condomini di alloggi più piccoli − per una famiglia media che è scesa al di sotto delle 3 unità − e di centri di servizio di migliore qualità architettonica; nella città, alla diminuzione di popolazione continua ad affiancarsi il fenomeno della progressiva degradazione edilizia di aree a basso reddito che non consentono il reinvestimento di capitali. Proprio sulle aree urbane, cioè, si concentrano iniziative che i developers devono concordare con le amministrazioni, e che devono far legittimare dalla pubblica opinione: in una società in cui, in generale, alla qualità edilizia e all'uso di materiali pregiati non si accompagna automaticamente qualità architettonica e urbana, si sta infatti determinando un atteggiamento di design consciousness, cioè di consapevolezza del progetto. I limiti imposti dall'amministrazione al developer possono essere volumetrici e funzionali: la contrattazione vede da un lato l'amministrazione chiedere servizi e spazi di uso pubblico e dall'altro il developer e le società finanziarie coinvolte, chiedere più cubatura.
In questo quadro economico e amministrativo, la qualità architettonica è stata caratterizzata negli ultimi anni da una moltiplicazione di ipotesi linguistiche che generalmente corredano l'operazione finanziaria facilitandone la collocazione sul mercato, continuando quel progressivo scollamento tra segno e significato che era caratteristico del messaggio comunicativo dell'architettura moderna. Al di là degli aspetti economici, tuttavia, questa moltiplicazione dei linguaggi architettonici è anche da mettere in relazione alla maggiore densità funzionale e comunicativa degli oggetti d'uso e degli spazi interni: semplici climatizzazioni, sonorizzazioni di spazi, come anche piccolissime attrezzature elettroniche sono in grado di conferire situazioni di maggiore benessere ambientale che nulla hanno a che fare con il linguaggio dell'architettura, che viene così quasi automaticamente a perdere la sua rilevanza semantica.
L'intersezione tra finanza e architettura, attraverso il ruolo del developer e dei grandi studi di progettazione, è diventata molto stretta; le stesse scuole di architettura sono coinvolte nel processo, a volte non solo marginalmente: gli stessi incarichi d'insegnamento nei corsi compositivi sono influenzati dall'andamento del mercato per la capacità di penetrazione nel mondo dei media che il mondo accademico possiede. In una situazione di così forte condizionamento dell'architettura da parte dell'economia si delinea, in particolare negli S.U., la figura del progettista star, che, legittimato dalla cultura e gratificato da pubblici incarichi, inserisce con facilità i suoi progetti come prodotti. Siamo molto lontani dal grande rilievo concettuale dato da L. Kahn all'architettura, e dall'appassionata ricerca di una tradizione americana operata da R. Venturi nei suoi scritti.
Pur generalmente partecipi della condizione post-moderna, non esenti dalle necessarie compromissioni con il mercato, sono tuttavia da segnalare come particolarmente interessanti almeno quattro linee di tendenza suscettibili di positivi sviluppi. In primo luogo si registra la ripresa di una continuità concettuale con la cosiddetta Scuola di Chicago; grossi studi professionali, con l'aiuto di singoli architetti come partners, costruiscono edifici in cui l'accento è posto non su curiosità stilistiche ma sull'uso di tecnologie rigorose nella ricerca di spazialità interne: ne sono esempio, a Chicago, H. Jahn con W. Murphy nello Xerox Centre (1977-80) e nello State of Illinois Centre (1979-85). La ricerca di una spazialità interna anche nella grande dimensione edilizia, peraltro, è già avviata negli S.U. dal 1967 con la Ford Foundation di K. Roche e J. Dinkeloo and ass. e con i grandi alberghi di J. Portman: lo Hyatt Regency a San Francisco (1972) e il Bonaventura Hotel a Los Angeles (1970-76).
L'eredità metodologica e concettuale dell'advocacy planning, in secondo luogo, si ritrova variamente distribuita tra i nuovi gruppi di tecnici che collaborano a livello delle comunità di base a supporto tecnico delle discussioni pubbliche sulle iniziative di trasformazione: i teams R/UDAT (Regional Urban Design Assistance Teams istituiti dall'AIA) che raccolgono gli architetti del cosiddetto Process Design, per es. C. Moore e W. Turnbull con M. Buchanan e D. Whitaker a New Haven, nello housing di Church Street South, finanziato dal governo federale. Nella loro opera la molteplicità linguistica si giustifica almeno nella raccolta minuziosa e documentata delle richieste di base da parte di una clientela generalmente attiva e collettiva.
In terzo luogo, la tendenza generalizzata a investire nella sistemazione di spazi aperti sia pubblici che privati, sia urbani che suburbani: Franklin Court, a Filadelfia (1972-76), di Venturi, Rauch e Scott Brown; il Faneuil Market Place a Boston (1972-78) e Harbour Place a Baltimora (1983) di B. Thompson con la Rouse Corporation, autori anche di Fulton Market in South Street Seaport a New York. Si tratta di una tendenza ormai generalizzata che corrisponde alla ricaduta positiva sullo spazio della città dei margini di una società affluente. Una tradizione che si può dire avviata a San Francisco alla fine degli anni Sessanta con gli interventi sul Waterfront: Ghirardelli Square (1962-67) di Wurster, Bernardi ed Emmons con L. Halprin. Tale tendenza, riscontrabile alla scala tanto del dettaglio che degli insiemi (strade o piazze), costituisce spesso un punto di contatto tra produzione artistica in senso stretto e spazio architettonico. Molti architetti, infine, come P. Soleri, continuano a caratterizzare il loro lavoro attraverso una fortissima tensione verso la ricerca, apparentemente disinteressati a problemi di moda e di mercato.
In conclusione, l'attuale produzione architettonica degli S.U. è caratterizzata da una grande vitalità, da un marcato eclettismo e dalla persistenza di alcuni caratteri ''regionali''. La sua vitalità trova conferma nel fatto che il progetto di architettura si colloca dalla piccolissima fino alla grandissima scala, dalla Pace Gallery di S. Hall in Madison Avenue a New York al grande piano di trasformazione urbana di Battery Park City a New York (1979) dovuto a Cooper e Eckstut Ass. Per quanto riguarda l'eclettismo, ogni studio che si confronta realmente col mercato ha nel cassetto soluzioni diverse a seconda dell'occasione e del cliente: vedi il grande studio SOM, che propone una certa varietà di stili sia a Houston nella Interfirst Plaza (1981) che a Times Square a New York (1987-93). F.O. Gehry con la sua casa di Norton Beach (1984), lo studio Arquitectonica con il Palace a Miami, Florida (1979-80), e Duany, Plater-Zybek con Charleston Place, Florida (1983), testimoniano una ripresa regionalistica in chiave storica. Vedi tav. f.t.
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Musica. - Durante gli anni Cinquanta dominano ancora la scena musicale alcuni compositori già affermatisi nel periodo fra le due guerre, e che si muovono in quegli anni in modo generalmente autonomo rispetto alle correnti della nuova musica. Fra i più importanti di essi, tutti allievi di N. Boulanger (1887-1979) durante gli anni Venti, si ricordano V. Thomson (1896-1989), vissuto in Francia fra il 1925 e il 1940; A. Copland (1900-1990), il primo degli allievi americani della Boulanger; E. Carter (n. 1908) e L. Bernstein (1918-1990), figura notevole di compositore soprattutto nel genere operistico e nel musical, nonché direttore d'orchestra fra i più celebrati del 20° secolo.
Carter, figura di rilievo della musica statunitense, inizia nell'immediato dopoguerra una fase più matura del suo sviluppo artistico: del 1945-46 è la Sonata per pianoforte; anticipa le forme del teatro strumentale con lavori come la Sonata per violoncello e pianoforte (1948) e Otto pezzi per timpano (1949-66), con cui guadagna una certa fama. Più tardi compone fra l'altro tre quartetti per archi (1951, 1959, 1973), l'opera A mirror on which to dwell, su testi di E. Bishop (1976), e le 9 Fantasie per pianoforte (1980). Si ricordano inoltre R. Sessions (1896-1985), che svolge un'opera fondamentale anche come insegnante (maestro fra gli altri di M. Babbitt e D. Martino), e S. Barber (1910-1981), allievo di R. Scalero al Curtis Institute di Filadelfia.
La diffusione dei principi del serialismo, cui già durante gli anni Trenta si erano richiamati, sia pure in modo isolato, A. Weiss (1891-1971) e W. Riegger (1885-1961), caratterizza, almeno fino ai primi anni Sessanta, una delle correnti principali della nuova musica statunitense, i cui rappresentanti più eminenti sono R.L. Finney (n. 1906), M. Babbit (n. 1916), M. Powell (n. 1923), G. Perle (n. 1915).
Finney, allievo di A. Berg a Vienna, adotta il serialismo nelle opere degli anni Cinquanta, come il Sesto quartetto per archi (1950) e la Seconda Sinfonia (1959). Babbitt fa uso di una ''serialità integrale'' in opere della fine degli anni Quaranta, come 3 compositions per pianoforte (1947-48), Composition per flauto, clarinetto, violino e violoncello (1948), Composition per 12 strumenti (1948; rev. 1954). Powell, allievo di P. Hindemith all'università di Yale, compone opere seriali come il Quintetto con pianoforte (1956); degli anni Sessanta è la composizione di musica elettronica, come Second electric setting (1962) e Immobiles I-IV con orchestra (1967). Perle mette a punto un ''sistema modale dodecafonico'' della cui fecondità già le sue prime composizioni costituiscono un valido esempio (così la Suite per pianoforte, 1940, fino alla Toccata per pianoforte, 1969).
L'altra corrente dominante la scena musicale degli anni Cinquanta è quella ''indeterministica'' o ''aleatoria'', che si sviluppa in piena antitesi con i principi della determinazione seriale: essa è rappresentata principalmente dall'opera di J. Cage (1912-1992). La figura di Cage è senza dubbio una delle più singolari del panorama musicale statunitense contemporaneo, e quella che ha avuto la maggiore influenza sugli sviluppi delle avanguardie europee degli anni Sessanta. Allievo in California di A. Schönberg, Cage si oppone molto presto alla dodecafonia, mettendosi in luce fin dagli anni Quaranta con la composizione di musica per pianoforte ''preparato'' (16 Sonate e 4 Interludi, 1946-48). Una nuova fase del suo itinerario artistico si apre negli anni Cinquanta, dopo l'incontro con la filosofia Zen e l'assunzione di procedimenti aleatori nell'atto compositivo (Music of changes per pianoforte e Imaginary landscape n. 4 per 12 apparecchi radio, 1951), procedimenti che implicano talora la casualità della lettura del testo musicale (Music for piano nn. 1-84, 1952-56) o anche l'indeterminazione degli strumenti esecutivi (Winter music, 1957); con 4′33″ (1962) l'esecutore è invitato semplicemente a tacere per tutta la durata della composizione. L'opera di Cage contribuisce notevolmente allo sviluppo del teatro strumentale e della sperimentazione elettronica (così Musik walk, 1950, e Variations III e IV, 1963). Tra i suoi ultimi lavori si ricorda Roaratorio and Irish circus on Finnegan's wake, da J. Joyce (1981).
Intorno a Cage si raccolgono fin dagli anni Cinquanta M. Feldman (1926-1987), E. Brown (n. 1926), D. Tudor (n. 1926), C. Wolff (n. 1934). Le prime opere aleatorie di Feldman, che incontra Cage nel 1951, sono Projections I (1950) e Marginal intersection (1951); tra le sue ultime composizioni si ricorda Crippled symmetry (1983). Del 1952 è l'opera più nota di Brown, forse il più radicale degli allievi di Cage, December 52; cui seguono immediatamente Twenty five pages (1953) e Four systems (1954); degli anni Settanta sono Cross sections (1973) e Stall piece (1975). Tudor collabora per lungo tempo con Cage: agli anni Sessanta risalgono per es. Talk I (1965) e Fontana mix (1967). Assieme agli altri componenti dell'avanguardia cageana, fonda (1952) il gruppo Project of music for magnetic tape, svolgendo attività di pianista nel campo della nuova musica. Wolff è anch'egli fra i più noti seguaci di Cage: delle sue opere si ricorda in particolare Duo for pianists II (1958), e i più recenti Studies, in cui viene lasciata all'esecutore grandissima libertà d'azione.
Sulla linea dell'indeterminismo di Cage si muove un gruppo di compositori dell'avanguardia degli anni Sessanta, che si rivolgono particolarmente a realizzare opere di arte integrale, dando talora vita a gruppi musicali d'improvvisazione: si ricordano in particolare R. Ashley (n. 1930), G. Mumma (n. 1935), R. Reynolds (n. 1934), M. Subotnick (n. 1933), e ancora L. Austin (n. 1930) e L. Foss (n. 1922).
Fra le composizioni di Ashley, che nel 1958 fonda con Mumma il Cooperative Studio for Electronic Music e nel 1960 dà vita, assieme a Mumma, Reynolds e Subotnick, all'ONCE Group di Ann Arbor, si ricordano Public opinion descends upon the demonstrators (1961), In memoriam Kit Carson (opera) per 8 esecutori, The entrance, per organo (1965-70), String quartet describing the motions of real bodies, per quartetto con interventi elettronici (1972). Ai primi anni Sessanta risalgono A twopiece (1961) di Mumma; The emperor of icecream (1962) di Reynolds; Play! (1964) di Subotnick. Austin, che fonda il New Music Ensemble (1962) e lavora al Center of the Creative and Performing Arts di Buffalo, risente della formazione jazzistica (così in Improvisation, 1961); è autore tra l'altro di Plastic Surgery per pianoforte elettrico, percussioni e nastro (1970) e Phantasmagoria per vari strumenti (1977). Foss, che nel 1957 dà vita all'Improvisations chamber ensemble, svolgendo inoltre attività di direttore d'orchestra (nel 1971 è stato nominato a capo della Brooklyn Philarmonia Orchestra di New York), è autore di opere come Time cyrcle (1959-60) per soprano e orchestra, Echoi (1961-63), per pianoforte, percussioni, clarinetto e violoncello, in cui si rifà ai principi dell'improvvisazione propri della musica jazz, Concerto per percussioni (1974), Quintetto per orchestra divisa in 5 gruppi solisti (1979).
Figura di rilievo della nuova musica statunitense è La Monte Young (n. 1935), che nel 1959 studia a Darmstadt con Stockhausen e fonda (1962) il Theatre of Eternal Music; si richiama nelle sue composizioni, oltre che al serialismo, all'improvvisazione di derivazione jazzistica e ad alcuni principi della filosofia indiana. Tra le partiture più interessanti, quelle per voce recitante (Compositions 1960 Nr. 1-15, 1960; 1961 Nr. 1-29, 1961) e The Tortoise, his dreams and journey, per voci, archi, suoni bordoni, microfoni, miscelatore, amplificatore, altoparlante e fonti luminose (1964).
Un altro fenomeno importante è rappresentato dalla diffusione della musica elettronica: nel 1953 V. Ussachevsky fonda presso il dipartimento di musica dell'università di Columbia/Princeton il Laboratorio di musica sperimentale. Altri studi elettroacustici sorgono in seguito nelle università di San Francisco, Los Angeles, Iowa City, Chicago, Stanford e Urbana (Illinois). Fra i maggiori rappresentanti dell'avanguardia statunitense, fa un uso particolare del sintetizzatore di musica elettronica il già ricordato M. Babbitt, in lavori come Ensemble for synthetizer (1962-64), Philomel (1964) e Phonemena (1974-76). Nell'ambito del genere elettroacustico si sviluppa una delle tendenze più significative della musica statunitense di questi ultimi decenni, quella della ''musica ripetitiva'' o ''minimalistica'', rappresentata da un gruppo di compositori newyorkesi, come T. Riley (n. 1935), Ph. Glass (n. 1937) e S. Reich (n. 1936).
Riley, che nel 1970 è incaricato presso il Mills College di Oakland (California), è autore di opere come In C per vari strumenti (1964) e The keyboard studies per strumenti a tastiera amplificati ed elettronici (1963), con cui influenza notevolmente lo sviluppo della musica ''ripetitiva'' nel suo paese. Glass risente particolarmente dei principi della filosofia e della musica indiana fin dalle prime composizioni degli anni Sessanta. Tra i suoi lavori si ricordano le opere teatrali Einstein on the beach (1976) e The juniper tree (1985), scritta in collaborazione con il compositore R. Moran (1937). Reich, che agli inizi degli anni Settanta è allievo di L. Berio, è autore di Music for 18 musicians (1976), New York counterpoint per flauto e nastro magnetico (1985) e Three movements per orchestra (1985).
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Cinema. - Dalla seconda metà degli anni Settanta il cinema statunitense ha mostrato di voler abbandonare o comunque trascurare alcuni suoi generi classici, soprattutto il western, dando spazi più ampi, con variazioni e accentuazioni al loro interno, a generi quali il gangster, la commedia, il fantastico, il filone degli investigatori privati, con puntate sempre più precise nell'horror e, nei primi anni Novanta, in climi più permissivi, anche nell'erotico: mentre, attorno, si profilavano in modo sempre più netto personalità di registi particolarmente qualificati affiancati da altri di origine europea, che ancora una volta, come in passato, trovavano modo di affermarsi all'interno delle strutture di Hollywood, anche con successi di rilievo.
Se per il western si può quasi soltanto citare nel 1990 il premiatissimo Dances with wolves (Balla coi lupi) di K. Costner, nelle cifre ormai correnti del rispetto verso gli Indiani, il filone gangster − all'interno di un genere che ha continuato a essere tra i più visitati anche dalla cinematografia di serie B − ha potuto proporre film quasi all'altezza del passato, come Scarface (Scarface, 1984) e The untouchables (Gli intoccabili, 1987) di B. De Palma, un regista discontinuo ma, nei suoi momenti migliori, specie se a contatto con i miti più classici del cinema d'America, capace di esprimersi con la forza e anche il rigore necessari fino a darsi uno stile.
La commedia, dopo la morte, agli inizi degli anni Settanta, di uno dei suoi padri più acclamati fra i Cinquanta e i Sessanta, F. Tashlin, l'inventore di J. Lewis, non ha tardato a scindersi in due correnti quasi opposte: quella in linea con la tradizione sofisticata, sviluppata come capofila da B. Edwards (Victor Victoria, Victor Victoria, 1982; Blind date, Appuntamento al buio, 1987; Skin Deep, Skin Deep il tuo piacere è il mio, 1988; Switch, Nei panni di una bionda, 1991; e il proseguimento della serie fortunatissima della Pantera Rosa: Trail of the Pink Panther, Sulle orme della Pantera Rosa, 1982; Curse of the Pink Panther, Pantera Rosa: il mistero Clouseau, 1983; Son of the Pink Panther, Il figlio della Pantera Rosa, 1993), e quella invece che, esasperando il demenziale anni Trenta, la screwball comedy di F. Capra e L. McCarey, lo trasforma in uno dei generi più esagitati e farseschi di Hollywood, con lo stesso gusto per il surreale e il nonsense praticato in Inghilterra dai Monty Python (Airplane!, L'aereo più pazzo del mondo, 1980, di J. Abrahams, D. e J. Zucker; Hot shots!, Hot shots! - La madre di tutti i film, 1991, di J. Abrahams), indirizzato spesso alla parodia di altri generi o di altri film di grande successo (per Airplane! il filone ''disastri'' e in particolare Airport, 1975; per Hot shots!, i film di guerra come Top Gun di T. Scott, 1986, e il ciclo delle avventure di Rambo interpretate da S. Stallone: First blood, Rambo, Rambo, 1984; Rambo II, Rambo 2 - La vendetta, 1986; Rambo III, Rambo 3, 1988).
Il filone fantastico, sorretto da mezzi tecnici spesso eccezionali grazie ai quali la fantascienza di marca hollywoodiana ha potuto toccare momenti di spettacolo sino allora ineguagliati, con consensi larghissimi presso le platee di tutto il mondo, ha avuto come suoi principali esponenti S. Spielberg e G. Lucas. Soprattutto il primo è arrivato a proporsi come l'incontrastato campione di un genere che, fra gli anni Ottanta e i Novanta, ha finito per dovergli le sue occasioni migliori e più vistose. Se Lucas s'impone soprattutto per Star wars (Guerre stellari, 1977; cui seguono The empire strikes back, L'impero colpisce ancora, 1980, e Return of the Jedi, Il ritorno dello Jedi, 1982) e come produttore dei maggiori successi di Spielberg, è quest'ultimo ad aprirsi presto uno spazio d'incontrastato prestigio all'interno di un genere che ha concorso non solo a rinnovare ma a dilatare: prima con le paure di Jaws (Lo squalo, 1975), poi con i misteri abbacinati e sospesi di Close encounters of the third kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977), quindi, dopo la serie avventurosa iniziata con Raiders of the lost ark (I predatori dell'Arca perduta, 1981), con il celebratissimo E.T. The extra-terrestrial (E.T. L'extraterrestre, 1982) che poi, in termini di fantascienza spinta al diapason, sarà seguito nel 1993 dal clamoroso e fastoso Jurassic Park (Jurassic Park), preceduto − nelle cifre però del cinema d'azione − dal proseguimento della serie meno esteriore e più meditata di Indiana Jones (Indiana Jones and the temple of doom, Indiana Jones e il Tempio maledetto, 1984; Indiana Jones and the last crusade, Indiana Jones e l'ultima crociata, 1989); approdando infine alla solida e coinvolgente rappresentazione dell'Olocausto con Schindler's list (Schindler's list, 1993), premiato da una serie di Oscar e dal consenso pressoché unanime di pubblico e critica. Ai margini del fantastico, il noir e l'horror: nell'ambito del primo, Blade Runner (Blade Runner, 1982) di R. Scott, tolto non a caso dal celebre romanzo di P.K. Dick, Il cacciatore di androidi; nell'ambito del secondo, oltre a molti film di B. De Palma (Carrie, ''Carrie'' lo sguardo di Satana, 1976; The fury, Fury, 1978; Raising Cain, Doppia personalità, 1992), spesso però più truculenti che non guidati dalle necessarie misure, le proposte a tratti anche sottili del canadese D. Cronenberg, da The fly (La mosca, 1986) a Dead ringers (Inseparabili, 1988), la sua impresa più attenta, a The naked lunch (Il pasto nudo, 1992), ispirato, quest'ultimo, all'omonimo manifesto beat di W. Burroughs, in cifre però quasi unicamente esteriori.
In parallelo con questi generi, cui potrebbe aggiungersi il filone sempre rivisitato sulle orme di R. Chandler degli investigatori privati (The long goodbye, Il lungo addio, 1973, di R. Altman; Chinatown, Chinatown, 1974, di R. Polanski; Hammett, Hammett: indagine a Chinatown, 1982, di W. Wenders), si pongono le carriere di registi che, o al loro interno o in modo autonomo, si sono via via affermati come i più interessanti di questi ultimi venti anni di cinema statunitense. Oltre a un grande come B. Wilder e a un autore di forte e sempre più sensibile ispirazione europea come W. Allen, certamente la personalità oggi più creativa che ci sia a Hollywood, sono da anni in primo piano, e con maturazione sempre più solida, registi quali R. Altman, M. Scorsese, S. Kubrick, F.F. Coppola, D. Mamett, A. Rudolph, M. Cimino, senza dimenticare i molti europei immigrati, da L. Malle a M. Forman, da W. Wenders a J. Boorman, da J. Jarmush all'australiano P. Weir; con opere, alcuni di questi, saldamente partecipi dei più accreditati modelli americani.
Nonostante vicissitudini finanziarie dovute quasi sempre alla sua fedeltà ai propri temi, anche controcorrente, specie in quegli anni Settanta in cui la società del ''riflusso'' smorzava tutti gli impeti di Hollywood, R. Altman si è fatto soprattutto strada con opere corali impeccabilmente costruite e rappresentate (M.A.S.H., Mash, 1970; Nashville, Nashville, 1975; A wedding, Un matrimonio, 1978; The player, I protagonisti, 1992; Short cuts, America oggi, 1993, e, meno fortunato, Prêt-à porter, 1995), sorrette da una contemplazione amara e in più occasioni polemica della società americana attuale. M. Scorsese, dopo prime prove dai dimessi toni realistici (Mean streets, Mean streets, 1973), ha finito per imporsi con opere d'impatto crudo (Taxi driver, Taxi driver, 1976; Raging bull, Toro scatenato, 1980), svelando presto solida maestria sia in cronache durissime (Good-Fellas, Quei bravi ragazzi, 1990), sia nella rivisitazione quasi alla Visconti di epoche in costume (The age of innocence, L'età dell'innocenza, 1992). S. Kubrick, il più solitario e forse il più esigente di tutti, dopo il raffinato Barry Lyndon (Barry Lyndon, 1975) e il sofisticatissimo The shining (Shining, 1979), ha dato, con Full metal jacket (Full metal jacket, 1987), una violenta e tutta personale rilettura della guerra in Vietnam. F.F. Coppola, oltre tre discusse ma spettacolari interpretazioni della mafia italo-americana (The Godfather, Il padrino, 1972; The Godfather Part II, Il padrino. Parte ii, 1974; The Godfather Part III, Il padrino. Parte iii, 1990), si farà soprattutto ricordare per un Vietnam rivisto attraverso J. Conrad (Apocalypse now, Apocalypse now, 1979), affidato a un linguaggio di sicuro impatto drammatico e visivo. D. Mamett, sempre fra teatro e cinema, ha rivelato vitalissimi fervori soprattutto in House of games (La casa dei giochi, 1987); e in Things change (Le cose cambiano, 1988); mentre A. Rudolph e M. Cimino, uno con gli affascinanti Welcome to Los Angeles (Welcome to Los Angeles, 1977) e Remember my name (Ricorda il mio nome, 1978), l'altro con il contestato ma aspro The deer hunter (Il cacciatore, 1978) e il romantico Year of the Dragon (L'anno del Dragone, 1980), non hanno stentato ad aprirsi spazi seri, sia pure, di recente, con ripensamenti e contraddizioni cui devono, inattesi, il dissenso della critica e la sfiducia dei produttori.
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