TEODORICO
Re degli Ostrogoti, nato intorno al 451-454 da Teodemiro, della stirpe degli Amali, ed Erelieva.
In tenera età T. fu dato in ostaggio a Costantinopoli, dove rimase fino al 469-470 ca.; un soggiorno che lasciò un'impronta indelebile nella sua formazione culturale ed ebbe un'importanza decisiva nella costruzione della sua ideologia politica e della sua figura di committente.
Dopo essere ritornato dal padre, nel frattempo divenuto unico re degli Ostrogoti Amali, T. ne divenne collega e quindi successore intorno al 470-471. Con la vittoriosa spedizione intrapresa in quegli anni contro i Sarmati di Babai e la conquista di Singidunum (od. Belgrado), T. si mise in luce per le sue doti guerriere. Negli stessi anni riunì sotto la sua guida la maggior parte degli Ostrogoti, insediatisi nella Macedonia settentrionale; altri si aggregarono a Teodorico Strabone, suo consanguineo e rivale, in Tracia. Seguì un decennio di complesse e alterne vicende politiche che videro T. inserito nei dissidi della corte costantinopolitana, ora osteggiato, ora blandito dall'imperatore Zenone (476-491), che intendeva utilizzarlo contro Teodorico Strabone. Dopo la morte di questi, nel 481, T. nel 484 ne uccise il figlio e tornò a essere il migliore, ma anche il più temibile, alleato di Zenone, che lo allontanò con il pretesto di riconquistare all'impero l'Italia, allora sotto il governo di Odoacre. Le operazioni, iniziate nel 488, dopo le vittoriose battaglie del 489 all'Isonzo e a Verona e nel 490 all'Adda, si conclusero nel 493 con la resa di Ravenna e l'uccisione di Odoacre. Proclamato re dai suoi, T. ebbe solo tardivamente il riconoscimento ufficiale dell'imperatore Anastasio I (491-518), che - secondo la testimonianza dell'Anonimo Valesiano (16) - solo nel 497 o 498 gli rinviò la vestis regia e gli ornamenta palatii, che Odoacre aveva rispedito a Costantinopoli nel 476.Il regno di T., durato fino al 526, segnò per l'Italia una positiva inversione di tendenza del processo di degrado ambientale risultato dalla crisi economica e sociale maturatasi già nel Tardo Impero. La politica di ristrutturazione dei sistemi difensivi, di restauro delle strutture urbane e rurali, di rivitalizzazione dell'economia trova sempre più ampia conferma archeologica, che giustifica la fama medievale di T. quale sovrano costruttore per eccellenza; non si trattò dunque solo di un chiaro programma ideologico e di un'accorta propaganda politica, ma di reali e spesso cospicui interventi, improntati al modello del "nova construere sed amplius vetusta servare", ovvero animati dall'ammirazione, ma anche volti a un uso strumentale dell'Antico, avvertito come suprema e irripetibile esperienza di civilitas, una memoria da salvare.La ristrutturazione della difesa.- Fra le opere alle quali T. volse la sua attenzione con maggior sollecitudine si trovano le fortezze e le cinte urbiche. Nonostante infatti il regno goto avesse inglobato fin dall'inizio la Rezia, la Dalmazia, poco dopo anche la Pannonia (505) e la Provenza (508), e il sovrano avesse intessuto un sistema di alleanze con i re germanici, la perdurante preoccupazione di nuove invasioni dal Nord portò all'organizzazione di un poderoso sistema difensivo lungo l'arco alpino e a protezione delle città più importanti, tramite il recupero e il potenziamento delle strutture tardoantiche e la realizzazione di nuove opere fortificate. Tale formidabile dispositivo assicurò la pace per tutta la durata del regno di T., ma a nulla valse, pochi anni dopo, contro l'imprevista invasione bizantina sopraggiunta dalla parte opposta della penisola, di fatto totalmente sguarnita.Delle tre linee difensive settentrionali quella che interessa la penisola correva immediatamente a S delle Alpi e di questa sono stati riconosciuti o ipotizzati alcuni capisaldi, a controllo di importanti passi alpini, imbocchi di vallate e vie di comunicazione: sotto il controllo di Susa e Aosta e ad Auriate, non lontano da Cuneo, nel settore nordoccidentale; a Pombia, Castelnovate, Castelseprio, Garda, e Ceneda (od. Vittorio Veneto) nei settori centrale e orientale. Si trattava di castra o in alcuni casi di semplici sedi logistiche con presenza di guarnigioni.Più in particolare, a Flavia Sibrium (od. Castelseprio), per la cui fondazione è stata proposta una datazione nell'avanzato sec. 5° e che a quest'epoca prevedeva il muro di cinta e alcuni edifici civili, oltre alla prima fase della chiesa di S. Giovanni, è attestato un livello d'uso databile agli inizi del 6° secolo. Le caratteristiche dei materiali recuperati nei livelli inferiori dell'insediamento, inoltre, potrebbero suggerire la presenza di una guarnigione 'barbara' nel castrum, forse gota, fin dalle origini (v. Castelseprio).Il contributo più eloquente e rilevante apportato dalla ricerca archeologica in materia di fortificazioni di età gota è costituito dalle indagini a monte Barro, nelle vicinanze di Lecco (Archeologia, 1991). Il grande edificio, verosimilmente abitato da un personaggio di alto rango, e gli undici di dimensioni medie finora individuati, oltre a una chiesa dedicata a s. Vittore, erano protetti da mura e da strapiombi naturali e la loro durata è compresa fra il 5° e la metà del 6° secolo. L'interpretazione del complesso, per il quale si presume un intervento da parte delle massime autorità dello Stato, visto il dispendio di risorse impiegato nella sua realizzazione, prevede almeno tre funzioni: quella di importante base militare gota, sede di un comes castri, ma anche di rifugio temporaneo in momenti di emergenza e di ultima resistenza per la popolazione locale, nonché area fortificata utilizzabile anche in caso di lungo assedio. Le fonti nominano invece esplicitamente un'altra fortezza di rifugio, attrezzata per volontà di T. a protezione della popolazione locale: castellum Verruca (Cassiodoro, Variae, III, 48). Identificato solitamente con il Doss Trento, è stato di recente riconosciuto nel castello di Ferruge, al limite fra i vescovadi di Trento e di Sabiona (Settia, 1994). Un provvedimento analogo venne ordinato dal re per la città di Tortona, priva di mura, e finalizzato alla costruzione di case nel castello già esistente, da utilizzare come ultimo rifugio in caso di emergenza (Cassiodoro, Variae, I, 17).A tale rete di fortificazioni corrispondeva poi un imponente apparato logistico e per l'approvvigionamento alimentare: horrea, grandi granai pubblici, sono attestati a Cividale, Aquileia, Concordia Sagittaria, Treviso, Trento, Verona, Pavia, Tortona e Ravenna. Nell'ambito delle città, è da ricordare in primo luogo la fondazione di Theodoricopolis, in Rezia, della quale non sono noti né il sito né l'impianto urbanistico: un'impresa effimera data la breve durata del centro, citato solo dall'Anonimo Ravennate (IV, 26), ma chiara espressione della volontà di T. di emulare la tradizione imperiale del 'sovrano fondatore', soprattutto sull'esempio di Costantino.Anche all'interno delle linee di frontiera T. dedicò notevoli cure per la sicurezza dei centri urbani. In posizione strategica rispetto ai percorsi provenienti dalle Alpi Retiche, Como conserva tracce di un rafforzamento delle mura tardorepubblicane e della porta Pretoria (Lusuardi Siena, 1984). Anche per la città di Brescia la mancanza di una datazione puntuale per il muro di cinta e quello con contrafforti rinvenuti all'esterno del lato ovest delle fortificazioni augustee e per il restringimento dell'area urbana a S, oltre che per la banchina portuale e per il grande edificio pubblico rispettato dal perimetro delle nuove mura a O, tutti tardoantichi, rende plausibile un sostanziale intervento da parte della massima autorità gota nella città (Lusuardi Siena, 1984; Brogiolo, 1993).I più sicuri e cospicui lavori edilizi in ambito urbano furono assicurati dal sovrano a Verona, Pavia, Ravenna e Roma. La prima città era particolarmente cara a T., come riferisce Ennodio (m. nel 521) nel Panegyricus dictus clementissimo regi Theoderico e come è possibile ricavare dalle saghe germaniche altomedievali che ricordano il re come Dietrich von Bern, ossia T. di Verona. Recentemente è stata attribuita al sovrano goto la cinta precedentemente ritenuta di Gallieno (Cavalieri Manasse, 1994): tale cortina di materiale di spoglio, che riprende il percorso della cinta municipale riproponendolo pochi metri più all'esterno, corrisponderebbe in realtà ai muros alios novos con cui, secondo l'Anonimo Valesiano (22), il re circondò la città, e costituirebbe una sorta di antemurale, che sfruttava gli apprestamenti delle porte municipali preesistenti. L'ipotesi conferma la validità dell'Iconografia Rateriana, disegno allegato a un perduto codice di argomento veronese attribuito al vescovo Raterio (sec. 10°), che rappresenta correttamente tale cinta (Cipolla, 1900). Nella rappresentazione rateriana poi, l'enfasi data a elementi della topografia cittadina quali il palatium, l'horreum ancora chiaramente menzionato e la fortificazione del castel S. Pietro ben si presta a essere ricondotta alla propaganda della politica teodoriciana e ciò porta a non escludere un archetipo dell'immagine di età gota.Quanto all'anfiteatro veronese, già inglobato nelle mura e trasformato in potenziale fortilizio dal più limitato intervento di ripristino di Gallieno (253-268), nel Medioevo non a caso fu denominato Ditrica, dal nome di T., Dietrich von Bern, e anche domus Theodorici, toponimo che si ritrova anche a proposito del mausoleo di Adriano a Roma: essi sembrano però ricordare, soprattutto nel caso romano, uno stanziamento a carattere difensivo piuttosto che residenziale.Procopio di Cesarea (De bello Gothico, III, 3) inoltre, attesta l'esistenza, in età gota, della fortezza di castel S. Pietro, in posizione dominante sulla collina di Verona a sinistra dell'Adige, finalizzata a un'ultima resistenza quando la città bassa veniva espugnata e questa operazione avrebbe comportato l'abbattimento o la modifica dell'impianto paleocristiano della chiesa di S. Stefano (Anonimo Valesiano, 19, 22). Ridotti fortificati in cui era possibile rifugiarsi dovevano essere stati apprestati anche nelle 'munitissime' Bergamo e Brescia, a Trento e nella già ricordata Tortona.La politica edilizia urbana.- Secondo l'Anonimo Valesiano T. amava l'architettura e il restauro delle città. Ripristinò l'acquedotto di Ravenna, fatto costruire dall'imperatore Traiano, e dopo molto tempo riportò l'acqua in città. Condusse a compimento la costruzione del palazzo, senza però inaugurarlo. Portò pure a termine i portici nelle adiacenze del palazzo. Parimenti, a Verona, fece costruire un palazzo e le terme, aggiungendovi un portico che andava dalla porta delle mura al palazzo. Rimise in sesto l'acquedotto che da molto tempo giaceva inutilizzato, riportò l'acqua nella città, che venne poi circondata con altre, nuove mura. Parimenti per Pavia ordinò la costruzione di un palazzo, delle terme, di un anfiteatro e di altre mura. Ma anche in altre città i suoi interventi furono molti e utili (Anonimo Valesiano, 22). L'Anonimo Ravennate, insieme a Cassiodoro, è la fonte più esplicita nell'attribuire a T. precise costruzioni in ambito urbano. Per Verona mancano tracce archeologiche del palatium, ma indizi topografici e storico-documentari sembrano avvalorarne la collocazione, fornita dall'Iconografia Rateriana, in corrispondenza dell'Odeon, sul colle fortificato di S. Pietro; dell'edificio è noto solo che la facciata doveva essere fiancheggiata da due torri, che un portico lo congiungeva al ponte Postumio e che, forse, era dotato di terme. Recentemente è stato inoltre supposto (Cavalieri Manasse, 1994) che la spoliazione sistematica, riconducibile alla prima metà del sec. 6°, delle murature del Capitolium in corsi di laterizi, spesse e consistenti a tal punto che in alcuni tratti furono tagliate in blocchi mediante scalpello, dovette essere finalizzata al reimpiego in un'altra struttura edilizia di grande impegno come potrebbe essere il palatium.A Pavia, stando alle fonti, T. avrebbe edificato ex novo un palatium o ripristinato quello tardoantico, nella parte orientale della città, come suggerisce l'esistenza di una porta Palacense: se si dispone di alcuni elementi per meglio ubicare l'area del viridarium ricordato da Ennodio come una delle componenti costitutive del vasto complesso (Hudson, 1987), nulla è noto tuttavia dello sviluppo planimetrico generale. Interventi relativi all'anfiteatro, poi proseguiti o integrati per volontà di Atalarico (526-534), potrebbero averne previsto anche l'inserimento entro la cerchia di mura di età gota, giustificandone il singolare allargamento nella zona sudorientale della città.Quanto a Monza, Paolo Diacono (Hist. Lang., IV, 22) tramanda che il clima salubre avrebbe indotto T. a commissionare una residenza estiva. Non è chiaro se si trovasse vicino al Lambro, dove a lungo sopravvisse il toponimo ponte de Parazo, od. S. Gherardo (Cracco Ruggini, 1969), oppure all'interno del castrum vetus (Mirabella Roberti, 1976), riconosciuto nei pressi del duomo, cioè nella stessa area dove poi sarebbe sorto il palazzo di Teodolinda, che potrebbe allora essere una semplice ristrutturazione dell'edificio goto e di cui sono state riconosciute ipoteticamente alcune parti. La stessa corona ferrea (Monza, Mus. del Duomo), secondo la tradizione medievale, sarebbe stata lasciata a Monza da T. e un legame del manufatto con il sovrano goto sembra accreditato da recenti studi (Lusuardi Siena, 1988).Anche a Spoleto, città che T. scelse come capoluogo amministrativo dell'Italia centrale, la tradizione tramanda il ricordo di un palazzo goto in seguito rioccupato dai duchi longobardi: potrebbe trattarsi del riadattamento di un edificio di età sillana, utilizzato poi come residenza ducale, tra i fabbricati del recinto arcivescovile presso S. Eufemia. Anche nella città umbra vennero stanziate ingenti somme per riattivare le terme, come a Verona, Pavia, Abano, Porto, ecc., edifici monumentali e prestigiosi, ma soprattutto una delle espressioni della supremazia tecnologica della civiltà romana, verso la quale T. mostrò ammirazione e desiderio di conservazione, nonostante il degrado ormai dilagante ne minacciasse la memoria; emblematico in proposito l'elogio delle terme di Abano (Cassiodoro, Variae, II, 39).Le attenzioni maggiori tuttavia furono rivolte alla capitale del regno, Ravenna (v.). Già ultima sede degli imperatori romani d'Occidente, la città prevedeva un palatium: un complesso ampio e articolato comprendente una serie di corti porticate collegate da edifici e che si estendeva in un vasto settore urbano sudorientale. Gli interventi teodoriciani dovettero limitarsi a una serie di ristrutturazioni, per le quali vennero impiegati anche materiali architettonici appositamente fatti pervenire da Roma e da altre località. Dell'edificio è noto archeologicamente solo un limitato settore a E di S. Apollinare Nuovo, la chiesa di palazzo: un'ampia corte con relativi ambienti di rappresentanza e di servizio che concludeva a E il complesso in prossimità dell'antica spiaggia. Raffigurazioni musive e sectilia pavimentali decoravano riccamente gli ambienti. L'ingresso originario doveva affacciarsi sulla platea maior, a non molta distanza da S. Apollinare Nuovo; qui infatti nel sec. 9° Agnello di Ravenna (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 94) designa l'ingresso del palatium teodoriciano con il toponimo ad Calchi, chiaramente allusivo alla Chalké, il monumentale vestibolo del palazzo imperiale fatto erigere da Costantino nella capitale orientale. L'ingresso e i portici che, secondo l'Anonimo Valesiano, T. fece costruire intorno al complesso sono stati da taluni riconosciuti nella rappresentazione del palatium del celebre mosaico di S. Apollinare Nuovo, composto da un corpo centrale sporgente scandito da tre arcate e coronato da un frontone, affiancato da portici sormontati da gallerie finestrate (Johnson, 1988).La chiesa S. Apollinare Nuovo, in origine dedicata a s. Martino in coelo aureo, e il complesso episcopale ariano, che si componeva della cattedrale dedicata all'Anastasi, di un battistero e di un palazzo episcopale non pervenuto, furono costruiti ex novo secondo gli schemi architettonici e decorativi caratteristici dell'area padana e nordadriatica; esistono però anche chiari punti di contatto con l'architettura religiosa bizantina del sec. 5°, in particolare fra la cattedrale e la basilica di S. Giovanni di Studios a Costantinopoli. Nell'ambito dell'edilizia religiosa, inoltre, va ricordato che i documenti attestano l'esistenza di una ecclesia Gothorum, nell'area della od. rocca Brancaleone, nei pressi della quale, forse nel sec. 6°, fu edificata la chiesa di S. Andrea dei Goti: da uno di questi luoghi di culto dovrebbero provenire i capitelli compositi con il monogramma di T., finemente lavorati (in parte reimpiegati nel portico del palazzetto Veneto in piazza del Popolo, in parte conservati al Mus. Naz. di Ravenna), rivelatori dell'importanza che T. assegnava a questo edificio ravennate.Il monumento forse più significativo dell'attività edilizia del re è il suo mausoleo. Fu costruito a N-E della città, in un'area cimiteriale gota da cui provengono anche le famose guarnizioni in oro e almandini note come elementi di corazza di T. (già Ravenna, Mus. Naz.), ma in realtà da ricondurre a una sella da parata di un personaggio di altissimo rango, che non si può a priori escludere essere lo stesso sovrano. Della costruzione, unica nel suo aspetto complessivo e piuttosto enigmatica, si è spesso sottolineato il contrasto fra la parte decagonale inferiore, riferibile a tipologie architettoniche di tradizione romana, e la parte superiore, di diametro minore, conclusa da una copertura monolitica decorata da un motivo germanico detto a tenaglia. A giustificazione di tale disomogeneità strutturale sono state offerte varie motivazioni, dal cambiamento della linea politica del re negli ultimi anni, all'intervento di un nuovo architetto, all'ipotesi di un'opera mai completata e inoltre manomessa in antico; una sistemazione postuma relativa soprattutto al recinto potrebbe essere stata realizzata dalla figlia Amalasunta, utilizzando materiali inviati da Costantinopoli. In sostanza però la testimonianza dell'Anonimo Ravennate (II, 33) lascia ipotizzare un progetto unitario, pensato per tempo, e ciò avvenne attingendo a tradizioni costruttive e decorative di diversa matrice, fuse a costituire un'opera di assoluta originalità.Il generale impiego di blocchi squadrati di pietra d'Istria, ormai desueta nell'Europa occidentale e in contrasto con la tradizione costruttiva, in laterizio, allora dominante e alla quale lo stesso T. si era uniformato per gli altri edifici ravennati, richiama modi e tecniche edilizie siriane. Pur non essendo noto l'architetto che progettò l'edificio, va tenuto presente il legame di consolidata fiducia di T. verso l'architetto Aloisio (v.), da taluni ritenuto un siriano. Assai presente è tuttavia il richiamo al prototipo imperiale dei mausolei, che ha fatto propendere qualcuno, tra l'altro, per un'interpretazione dei due livelli sovrapposti come l'uno, quello inferiore, destinato ad accogliere il sarcofago porfiretico di cui non si conosce l'esatta collocazione originaria e l'altro, soprastante, come cella memoriae (Johnson, 1988). Un influsso costantinopolitano è stato invece riconosciuto nelle dodici sporgenze lungo la circonferenza del monolite, finalizzate al sollevamento e alla messa in opera dello stesso, ma realizzate in forme che alludono a strutture tecnico-funzionali, come i tiranti di rinforzo, adottate in edifici a cupola dell'epoca, per es. nella Santa Sofia di Costantinopoli; se fossero contemporanee alla costruzione dell'edificio le iscrizioni apposte a tali elementi recanti i nomi dei dodici apostoli, nell'ordine più diffuso in ambito bizantino che occidentale, sarebbe evidente il desiderio di rifarsi all'Apostoleion della capitale orientale, dove Costantino fu sepolto circondato dai dodici a imitazione di Cristo.Quanto al motivo decorativo a tenaglia, esso ricorre frequentemente nelle oreficerie gote e in quelle delle popolazioni germaniche settentrionali in stile di Nydam (sec. 5°) e nel I stile animalistico (v. Animalistici, Stili) a esso successivo, che si diffuse ben presto nell'Europa centrale. Se poi in origine alcune parti del motivo ospitavano paste vitree colorate, viene confermato il legame con la coeva oreficeria policroma ad alveolo, che rende più stretta la connessione fra il mausoleo e le guarnizioni a cloisonné della c.d. corazza di T. e che esprime nuove correnti di gusto ben documentate anche in lastre decorative e funerarie di ambito visigoto, merovingio e longobardo.Acquedotti e fognature furono ripristinati a Ravenna (lo testimoniano anche fistulae di piombo con il nome del sovrano) come a Roma, dove numerosi furono i lavori di restauro agli edifici danneggiati. Se infatti nella capitale del regno T. si fece promotore di costruzioni nuove, in rivalità e per emulare l'autorità imperiale di Costantinopoli, nell'antico centro dell'impero si limitò a restaurare edifici già esistenti, con implicito atteggiamento di omaggio e reverenza verso il passato di Roma.Ingenti dovettero essere gli interventi al Palatino, nella Domus Augustana e nel suo ippodromo, e ciò fece sì che la residenza imperiale conservasse ancora la sua valenza simbolica di 'luogo del potere'. Nel 508 fu eseguito il restauro al Colosseo danneggiato da un terremoto, manifestazione dell'interesse del re anche nei confronti degli edifici per spettacolo; all'età teodoriciana dovrebbe risalire inoltre la ristrutturazione della fiancata della basilica Emilia verso il Foro, alla quale sono da aggiungere le sistemazioni delle mura imperiali lungo il Celio e il restauro del teatro di Pompeo. I laterizi con il bollo di T. sono spesso gli unici o i più chiari segni dei lavori di sistemazione ai complessi monumentali voluti dal sovrano e rappresentano una cosciente ripresa della grande tradizione dell'industria laterizia romana.Iconografia ufficiale.- In assenza di immagini monetali sulle emissioni ufficiali, legate al fatto che T. coniò sempre moneta con l'effigie imperiale e, al più, con il suo monogramma o nome per esteso, il solo documento su cui si può contare per recuperare la fisionomia del sovrano è rappresentato dal medaglione aureo trasformato in fibula a disco rinvenuto in una tomba di Morro d'Alba (prov. Ancona; Roma, Mus. Naz. Romano, Medagliere, Coll. Gnecchi): si tratta di un multiplo da tre solidi, celebrativo della vittoria su Odoacre del 493, forse un donativo destinato a raggiungere soprattutto rappresentanti del mondo goto (Arslan, 1989). Il sovrano vi è rappresentato armato, con la mano destra alzata nel gesto della adlocutio e, nella sinistra, la Vittoria che sormonta il globo terracqueo. Il capo, caratterizzato da una singolare pettinatura, è ancora privo di qualsiasi insegna di regalità.Il ritratto inciso sull'ametista di un anello-sigillo, conservato in coll. privata americana, contraddistinto dal monogramma di T. e inizialmente attribuito all'Amalo, è stato riferito in seguito a Teodorico II, re dei Visigoti fino al 466, anche se tuttora non manca chi è propenso a riconoscervi T. (Pasi, 1989). Non si dispone di altre immagini del sovrano goto posteriori al riconoscimento ufficiale della legittimità del suo dominio delegato da parte di Anastasio nel 497-498: si ignora quindi che riflesso ebbe sull'iconografia ufficiale l'invio da Costantinopoli della vestis regia e degli ornamenta palatii che Odoacre aveva a suo tempo restituito alla capitale d'Oriente dopo la deposizione di Romolo Augustolo.Sono solo le fonti letterarie a menzionare altre opere andate perdute o fatte sparire nel corso dell'epurazione bizantina che accompagnò la riconquista giustinianea alla conclusione della guerra greco-gota. Giordane (De origine actibusque Getarum, LVII) informa per es. che l'imperatore Zenone fece eseguire e disporre davanti al colonnato del palazzo imperiale di Costantinopoli una statua equestre di T. in occasione del trionfo che gli decretò intorno al 476, quando lo adottò come suo figlio per arma e lo nominò patricius e magister militum praesentalis. Procopio di Cesarea (De bello Gothico, I, 24; III, 20) racconta che statue di T. erette a Roma vennero fatte abbattere da Rusticiana per vendicare la morte del padre Simmaco e del marito Boezio e che un ritratto musivo del re decorava un muro prospiciente la 'piazza' di Napoli.Agnello di Ravenna (Liber, 94) riferisce di un'altra statua equestre di T., con scudo e lancia, esistente davanti al palazzo ravennate: all'epoca era ritenuta eseguita da Zenone l'Isaurico per sé, ma secondo la fonte T. l'aveva fatta passare per sua e Carlo Magno l'aveva poi trafugata e portata ad Aquisgrana. Sempre Agnello (Liber, 94) riferisce di un ritratto equestre di T., a mosaico, nell'aula absidata del palatium pavese e di altri due in quello di Ravenna: uno, raffigurante il re a cavallo, armato, tra Roma e Ravenna, ornava l'ingresso del palazzo; un altro il triclinio a mare.Un altro ciclo musivo comprendente la rappresentazione di T. si sviluppava lungo le pareti di S. Apollinare Nuovo, ma il mosaico fu pesantemente modificato dai rifacimenti operati dal vescovo Agnello intorno al 561, quando la chiesa palatina ariana fu riconciliata al culto cattolico e furono eliminate tutte le figure che potevano richiamare alla memoria il passato regime. Il mosaico doveva rappresentare, in origine, il palatium ravennate, da cui sarebbe partito, verso Cristo in trono, T. con un corteo di dignitari goti acclamanti. Agnello cancellò tali figure, inserendo al loro posto, negli intercolumni dei portici, dei velaria annodati; della stesura originaria restano le mani ancora visibili sulle colonne del porticato e il profilo delle teste sporgenti al di sopra dei tendaggi. Anche il frontone del palatium, dove si pensa esistesse una riproduzione del ritratto del re tra Roma e Ravenna, risulta modificato all'epoca di Agnello, come pure l'arcata centrale, ora totalmente a fondo oro, che avrebbe avuto in origine un trono vuoto. Si ritiene anche che il c.d. Giustiniano, sulla controfacciata della chiesa, non sia che un ritratto teodoriciano, trasformato in ritratto imperiale da Agnello, grazie all'aggiunta del diadema con i pendilia e della clamide purpurea.Dalle fonti sembra ricavarsi una preferenza per la rappresentazione di T. come re guerriero (Deichmann, 1969); nel programma iconografico dei mosaici inoltre, come nella organizzazione degli spazi palatini ravennati, sono state rilevate numerose e consapevoli allusioni a Costantinopoli; il ritratto equestre di T. tra Roma e Ravenna, in particolare, si sarebbe ispirato alla rappresentazione di un adventus imperiale come quello della tela di Bamberga (Diözesanmus.; sec. 10°-11°) con il basileus tra due figure femminili (Frugoni, 1983), rappresentazione che a sua volta si richiamerebbe a una iconografia di Costantino, il fondatore dell'impero cristiano, al quale T. sembra essersi voluto riallacciare.
Bibliografia:
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