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Toscana

di Giancarlo Savino, Pier Vincenzo Mengaldo - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Toscana (Tuscia)

Giancarlo Savino
Pier Vincenzo Mengaldo

Registrare, col proposito di una completa rassegna, tutti gli echi prodotti nell'opera di D. dalla memoria della terra in cui egli nacque e consumò le esperienze fondamentali della sua vita, è quasi impossibile (si veda tuttavia nell'Appendice la trattazione sulla vita e le opere di Dante). Il ricordo esplicito probabilmente più ricco che altri di una connotazione sentimentale, e per giunta presente in un trattato teorico anziché in un testo di poesia, è quello di VE I VI 3. Dopo l'amara rievocazione dell'amore per Firenze e dell'esilio che ne è immeritamente derivato (Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste), pur nel dichiarato contrasto fra la sensazione per cui in terris amoenior locus quam Florentia non existat, e il giudizio fondato sull'esperienza di scrittori autorevoli che gli fa intendere come esistano magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam Tusciam et Florentiam, riemerge, nel susseguente corollario unde sumus oriundus et civis, un non celato senso di dignità e di fierezza per i luoghi della propria nascita e cittadinanza (D. ricorda la sua origine toscana anche in Pd XXII 117).

Nella Commedia la T. è nominata esplicitamente quattro volte, di cui la prima in If XXIV 122 come la regione dalla quale è precipitato nella bolgia dei ladri Vanni Fucci. Nella descrizione che il pistoiese fa della sua provenienza è stato visto un anticipo " della figurazione bestiarizzata della Toscana che occupa la prima parte del XIV del Purgatorio " (Mattalia). In effetti, la rappresentazione che per le parole di Guido del Duca (Pg XIV 28-66) viene fatta della vallata dell'Arno, il fiumicel che per mezza Toscana si spazia (cfr. v. 16), si avvale di stringenti parallelismi animaleschi (i porci per gli abitanti del Casentino, i botoli per quelli di Arezzo, i lupi per i Fiorentini, le volpi per i Pisani), cosicché il quadro della T., pennellato in termini di trasfigurazione morale e simbolica, reca uno dei più perentori giudizi danteschi sui guasti dell'ordinamento comunale del suo tempo e costituisce, per gli aspetti drammatici della narrazione e per l'intensità emblematica del tessuto verbale, uno dei passi, tra quelli che nel poema sono caratterizzati dall'imprecazione e dalla profezia, di più consistente partecipazione ed espressività.

Le altre menzioni, infine, ricorrono per i due senesi Provenzano Salvani, della cui fama Toscana sonò tutta (Pg XI 110) e Sapia che, congedandosi da D., gli chiede, se mai calchi la terra di Toscana (XIII 149), di rimetterla in buona fama presso i suoi parenti, assicurandoli della sua salvazione. Il limite nord-occidentale della T., che D. mette fra le dextri regiones (VE I X 7, v. anche § 9), è individuato in Pd IX 90 nel fiume Magra (v.), il quale parte lo Genovese dal Toscano; uno dei suoi monti è il Falterona, in Cv IV XI 8. In Ep I 1 è ricordata la carica del cardinale Niccolò da Prato quale legato e paciaro in Tuscia Romaniola et Marchia Tervisina et partibus circum adiacentibus; in VII 11 Enrico VII è spronato a non dimenticare e trascurare la T., la cui tyrannis in dilationis fiducia confortatur (§ 15); dalla T. sono datate le epistole IV e VII (cfr. anche II 5, VIII 1, IX 1, X 1); v. anche TOSCO.

Nel quadro storico della T. ai tempi di D. è rappresentato il consolidarsi della supremazia che Firenze aveva progressivamente affermato sulle altre città della regione. Se conflitti locali tra Pisa e Lucca, tra Firenze e Fiesole, tra Siena e Arezzo, erano avvenuti fin dall'epoca della contessa Matilde, il rafforzamento delle singole autonomie comunali favorì un processo di frantumazione della T. in tante città-stato che indipendentemente dai loro precedenti istituzionali filoguelfi o filoghibellini riuscirono a conservare non solo una cospicua libertà di fatto nei confronti delle supreme autorità del Papato e dell'Impero, ma anche caratteri peculiari di organizzazione politica.

Nei secoli XII e XIII, alla politica mediterranea di Pisa i cui interessi, ambiziosi per impegno e per estensione geografica, emergono dall'adesione alle crociate, dai conflitti marittimi contro i Saraceni alle Baleari e dall'ingerenza negli affari della Sardegna, fa riscontro, sulla terraferma, la cospicua attività bancaria di Siena esercitata con successo a un livello di relazioni internazionali, presso la curia pontificia e le corti di Francia e d'Inghilterra. Alla politica pisana, tutta proiettata sul mare, Lucca può opporsi solo con una sottile opera di collusione con Genova, il cui frutto non si vedrà subito, ma sarà decisivo per le sorti di Pisa sconfitta nella battaglia della Meloria (1284); da parte sua Firenze riesce ad arrestare l'espansione territoriale senese in Valdelsa, e propizia il disegnarsi, più netto di quanto si possa spiegare risalendo alla formazione politica delle singole città, di quella scacchiera di comuni toscani in cui Firenze e Lucca figurano alleate contro Pisa e contro Pistoia.

Per quanto riguarda più da vicino Firenze, il sec. XIII registra, insieme con l'acquisto di una posizione di primato, una profonda trasformazione sociale. Alla gestione dell'autonomia comunale partecipa sempre più vistosamente e con sempre maggiori responsabilità pubbliche, accanto alla vecchia aristocrazia, il cosiddetto popolo (da intendersi non in senso stretto, ma come l'espressione di un'agiata borghesia). Questo rinnovamento sociale, la cui influenza non tarda ad avvertirsi nella vita delle altre città ormai sempre più ridotte a operare nell'orbita di Firenze, è, in fondo, assai più caratterizzante della T. del tempo che non l'aspetto più appariscente e pittoresco della rivalità fra Chiesa e Impero e degli avvenimenti, famosi e oscuri, che a questa generale opposizione d'interessi e d'interventi si fanno comunemente risalire. Se Montaperti (1260) e Benevento (1266), col successo effimero del ghibellinismo e definitivo del guelfismo, restano episodi cospicui per la storia d'Italia e soprattutto per quella della T., è altrettanto vero che essi non modificarono minimamente l'equilibrio delle città toscane e che Firenze, pur istituzionalmente guelfa, conservò intatta anche dopo Montaperti, in regime ghibellino, la sua posizione egemonica in Toscana. La politica di Firenze e delle altre città va considerata, dunque, non tanto alla stregua di quella, di portata più vasta, della Chiesa e dell'Impero, quanto come prodotto di fazioni interne che prevalsero non per effetto di una differenziazione ideologica nei confronti delle parti avversarie, ma solo per aver saputo sposare la causa di chi, dal conflitto per certi aspetti estraneo alla vita di quella città, riuscì vincitore.

Il primato di Firenze si manifesta nettissimo su una base territoriale tra la fine del sec. XIII e il primo decennio del XIV dopo la decadenza di pisa (1284) e la sconfitta di Pistoia (1306) e, più tardi, con la conquista di Prato (1351) e di Arezzo (1384), come pure su una linea finanziaria, col deperimento della già intensa attività dei banchieri senesi. Ma soprattutto si afferma decisamente, con echi di risonanza vasta e durevole, nella cultura e nell'arte, per quella civiltà letteraria in cui D. ha gran parte e grazie alla quale, essendo ancora tanto lontani i tempi dell'unità nazionale in senso politico, la T. già si riconosce investita di una custodia o responsabilità linguistica unitaria procurata soprattutto dai lemmi capitali della Commedia, del Canzoniere e del Decameron. V. anche TOSCANO.

Bibl. - Un panorama storico più ricco e minuto della T. nei tempi di D. può essere ricomposto col sussidio delle voci relative alle singole città che figurano nella presente Enciclopedia, alle quali si rimanda anche per il pertinente corredo bibliografico; in particolare cfr. Arezzo; Arno; Casentino; Firenze; Lucca; Lunigiana; Pisa; Pistoia; Prato; Siena; Valdichiana. È inoltre indispensabile il ricorso ai cronisti toscani trecenteschi e, tra le opere moderne, almeno alla monumentale Storia di Firenze del Davidshon. Come rapido profilo vanno citati la voce T. dell'Enc. Ital. redatta, per la parte che riguarda il Medioevo, da N. Ronolico, e soprattutto il perspicuo lucidissimo contributo (verso il quale è debitore anche il presente ragguaglio) di E. Sestan, T.: quadro storico. Millenaria civiltà urbana, in Tuttitalia, Toscana, I, Firenze 1964, 17-23. Si veda poi in particolare: A. Ferreto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la T. e la Lunigiana ai tempi di D., 1265-1321, Roma-Genova 1901-1903, voll. 4; G. Volpe, Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300, in " Studi Storici " XI (1902).

Lingua. - Le parlate delle principali città toscane sono esaminate, e condannate, in VE I XIII 1-4. Colpisce il fatto che D. non riconosca affatto alla T. una posizione di privilegio nei confronti del volgare illustre, anzi usi verso quei dialetti municipali parole particolarmente sprezzanti (i Toscani, arrogandosi il vanto del volgare illustre, sono propter amentiam suam infroniti, § 1, e fere omnes Tusci sono in suo turpiloquio... obtusi, § 3). E sarà precisamente questo atteggiamento a provocare in T. e specie a Firenze, nel '500 e oltre, le più forti polemiche verso il trattato dantesco (v. tipicamente il Dialogo della lingua attribuito a Machiavelli), fino a farne disconoscere la paternità.

In questa valutazione, che dissocia completamente il volgare illustre dei maggiori poeti della regione dalla sua base idiomatica, gioca certo il particolare punto di vista stilistico assunto da D., cioè quella lirica ‛ tragica ' in cui gli elementi toscani venivano depurati e raffinati dal perpetuo confronto con la lingua provenzaleggiante e sicilianeggiante della tradizione lirica. Ma, come al solito, la motivazione prevalente sarà di ordine letterario e culturale. La chiave è infatti offerta dall'inizio del capitolo, in cui si dice che nella folle pretesa dei Toscani di rappresentare il volgare illustre non solum plebe〈i>a dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guictonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta si rimari vacaverit, non curalia, sed municipalia tantum invenientur (§ 1).

A questi ‛ famosi viri ' incapaci di sollevarsi sopra un livello linguistico municipale - chiosa giustamente il Marigo: " non famosi maestri di eloquenza (" doctores illustres ") come i migliori poeti siciliani, ma uomini ragguardevoli (viros) per condizione sociale, con larga rinomanza per cultura ed operosità letteraria " - sono più avanti contrapposti quei pochi Toscani che hanno sperimentato cosa sia un volgare eccellente (nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, § 3), cioè il Cavalcanti, Lapo Gianni, D. stesso e Cino da Pistoia, nominalmente indicati. E si osservi che mentre per gli altri dialetti D. si limita a contrapporre l'anonima parlata municipale o regionale alla lingua illustre dei poeti d'arte locali, questa è l'unica volta in cui chiama in causa poeti rinomati (uno per ogni città toscana più importante), a suo avviso incapaci di attingere il volgare illustre.

Si tratta dunque di un episodio della polemica senza esclusione di colpi della nuova scuola stilnovistica contro i rappresentanti delle vecchie tendenze poetiche, e in particolare contro il maggiore di essi, Guittone (v.), il cui avvio è probabilmente il sonetto cavalcantiano Da più a uno face un solegismo, e che D. porterà fin dentro la Commedia, nei canti XXIV e XXVI del Purgatorio. La scelta stessa delle città i cui volgari municipali egli intende in aliquo depompare (§ 2) obbedisce chiaramente, più che a un criterio d'importanza politica, a uno di rilievo culturale, come rivela appunto l'indicazione rappresentativa di un ‛ famosus vir ' per ognuna di esse. E per i singoli giudizi danteschi sui dialetti toscani v. AREZZO; Firenze; Lucca; Pisa; Siena.

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