TOSCANA (A. T., 24-25-26 bis)
Regione storica e naturale dell'Italia centrale, corrispondente, secondo la divisione augustea dell'Italia, alla parte principale dell'antica Etruria col qual nome si designò il paese abitato dagli Etruschi. L'ampiezza della regione variò nel tempo e raggiunse la massima estensione nel secolo III d. C., durante il quale i suoi confini andarono dalla Magra al Tevere comprendendo quindi larga parte dell'Umbria. L'espansione dei Liguri a nord-ovest ne restrinse i limiti, che furono poi riportati alla Magra. L'unita amministrativa della regione venne spezzata nel 367 con la distinzione che si fece tra l'Italia annonaria e quella suburbicaria, divise dalla linea Arno-Esino, onde si ebbe un'Etruria annonaria a nord dell'Arno e una suburbicaria a sud. Ulteriori modificazioni subì dopo le invasioni barbariche, fra le quali la più notevole quella imposta dai Longobardi che, con la costituzione del ducato di Spoleto e del Patrimonio di S. Pietro, tolsero all'Etruria, o Tuscia come si cominciò a designarla le parti dell'Umbria e del Lazio che le si consideravano aggregate. Al nome di Tuscia si andò poi sostituendo sino dal sec. X quello di Toscana, il quale ebbe un valore politico con la formazione del marchesato di Toscana, che ebbe vita sino alla fine del sec. XII. Perduto ogni significato politico o amministrativo con l'affermarsi dei liberi Comuni, la Toscana conservò il suo valore storico e geografico consacrato dalla letteratura e solo nel 1569 riacquistò anche valore politico col riconoscimento del titolo di granduca di Toscana fatto da Pio V a favore di Cosimo I duca di Firenze e Siena. L'estensione del granducato, con gli accrescimenti subiti posteriormente, variò considerevolmente con l'aggregazione del principato di Piombino e dello stato di Lucca, di quello di Massa e altri minori sino alla unificazione del regno; ma salvo alcune modificazioni territoriali avvenute nella Lunigiana si può dire che il compartimento toscano nell'assetto amministrativo del regno unificato corrispondesse al territorio del granducato quale era alla data dell'annessione. Variazioni ulteriori ebbe a subire più recentemente per il distacco avvenuto dalla provincia di Firenze del territorio dell'ex-circondario di Rocca S. Casciano, cioè della parte maggiore della Toscana transappennina o "Romagna toscana" e dell'aggregazione dell'isola di Capraia già lasciata per ragioni storiche alla provincia di Genova. Considerando la Toscana nei suoi limiti attuali e cioè in quelli delle 9 provincie che la compongono, diremo che la regione si estende sul Tirreno da un punto a meno di 3 km. a levante della foce della Magra sino alla foce del Chiarone, 22 km. a SE. di Orbetello. Nell'interno il confine è segnato dalle alture displuviali che chiudono a ponente il bacino della Magra sino al M. Gottero e quindi dalla cresta appenninica sino all'Alpe della Luna, racchiudendo anche una parte di territorî transappenninici per una estensione complessiva di kmq. 750. Più oltre la linea di confine segue un tracciato puramente convenzionale imposto da ragioni storiche piuttosto che da ragioni geografiche, che lascia alla Toscana la valle superiore del Tevere sino a 3 km. a valle di Sansepolcro. Appartengono altresì alla Toscana le isole del Tirreno che ne fronteggiano il litorale, costituenti l'Arcipelago Toscano, delle quali isole l'Elba è la maggiore.
L'area totale della Toscana, entro i limiti che abbiamo descritti, si ragguaglia a kmq. 22.943 dei quali 289,5 kmq. appartengono alle sette isole principali dell'Arcipelago.
Rilievo. - La Toscana è essenzialmente una regione collinosa e montana in cui la parte piana rappresentata quasi esclusivamente da alcuni tratti della valle dell'Arno e da limitate zone costiere, costituisce una piccola frazione dell'area totale. Appartiene alla Toscana il versante meridionale dell'Appennino Tosco-Emiliano e Tosco-Marchigiano e anche con ambedue i versanti per i tratti che vanno dal Corno alle Scale al M. della Scoperta; dalla Futa alla Falterona; dal M. dei Tre Vescovi alla Bocca Trabaria. Rimandiamo ad appennino per tutto quanto riguarda la direzione di questi tratti montani, costituiti, non già da una sola catena displuviale, ma da tratti varî di catene parallele, fra loro collegate da sbarre normali alla direzione comune che dànno origine a conche e bacini originariamente lacustri. L'Appennino costituisce una barriera abbastanza uniforme che, con le sue vette nel tratto più settentrionale, si mantiene sui 1800-2000 m. (M. Prado, massima altitudine 2064 m.) per scendere oltre il Corno alle Scale (m. 1945) ad altitudini generalmente inferiori ai 1500 m. (Falterona 1654 m.) offrendo valichi elevati oltre i 1200 metri nel primo tratto (Foce delle Radici, 1528 metri; Passo del Cerreto, 1261 m.; l'Abetone, 1388 m.), e generalmente inferiore ai 1000 m. nel tratto successivo (la Futa, 903 m.; Colla di Casaglia, 922 m.; Muraglione di S. Godenzo, 907 m.; Passo dei Mandrioli, 1183 m.; Passo di Viamaggio, 988 m.). Oltre alla catena principale displuviale, i principali tratti delle catene secondarie che ricoprono il suolo toscano sono rappresentati dalle Pizzorne, dai Monti del Chianti, dalla catena del M. Morello e del M. Giovi che chiudono a nord il bacino di Firenze; dalla catena del Pratomagno che, staccandosi dalla Falterona, divide il bacino superiore dell'Arno (Casentino) dal Valdarno disopra. Rappresentano rilievi montani distinti dall'Appennino vero e proprio, e complessivamente designati con la denominazione di Anti-Appennino, la Catena delle Alpi Apuane, le alture che a sud dell'Arno costituiscono l'altipiano toscano, quelli di origine prevalentemente vulcanica, ai quali per la presenza considerevole di depositi metallici fu dato dal geologo P. Savi il nome di Catena Metallifera (Colline metallifere secondo una forma che viene oggi da alcuni preferita), della quale la principale sommità è costituita dal cono trachitico del M. Amiata (1734 m.), e le isolate montuosità costiere quali il promontorio di Piombino, i Monti dell'Uccellina, l'Arengario, cui si possono altresì riattaccare quelle delle antistanti isole.
Coste e isole. - Le coste della Toscana, entro i limiti che abbiamo indicati, si sviluppano per circa 300 km.; sono nella loro generalità basse e sabbiose. Tale carattere mantengono nel tratto più settentrionale dalla foce della Magra a quella del Calambrone poco a nord di Livorno in cui hanno sbocco nel Tirreno, con i minori corsi d'acqua scendenti dal versante occidentale delle Alpi Apuane, il Serchio e l'Arno, determinando con i loro detriti la formazione di quelle spiagge che hanno formato la fortuna delle numerose stazioni balneari le quali, a cominciare da Viareggio, la ricoprono quasi ininterrottamente. A sud di Livorno sino alla foce del fiume presso Vada per uno sviluppo di 20 km. la costa si presenta invece alta, importuosa, dominata da alture che arrivano sino a 590 m. Più oltre ritorna bassa e sottile sin presso Porto Baratti, l'antico porto etrusco di Populonia, dove le alluvioni della Cornia hanno finito col saldare al continente il Promontorio di Piombino dominato dal M. Massoncello (m. 286). Il promontorio chiude a nord l'ampia falcatura del golfo di Follonica, che prende il nome dall'abitato di recente sviluppo che sorge nel suo punto mediano, mentre la Punta Ala (o della Troia) lo chiude a sud. Tra detta punta e la Bocca d'Ombrone, per 39 km. di sviluppo, si apre la vasta costa bassa e selvosa di Castiglion della Pescaia e di S. Rocco che fronteggia l'agro grossetano in via di progressiva bonifica e sistemazione. Dalla Bocca d'Ombrone alla punta su cui sorge il piccolo abitato di Talamone la costa è dominata dalla breve e selvosa catena dei M. dell'Uccellina; poi ritorna bassa e sabbiosa nel Golfo di Talamone in cui immette l'Albegna, dalla foce della quale si stacca un cordone, detto il Tombolo della Giannella, che chiude ad ovest lo stagno o meglio la laguna di Orbetello, chiusa alla sua volta ad est dal Tombolo di Feniglia, onde l'Argentario rimane così saldato alla terra ferma. L'ultimo tratto della costa toscana dal punto di distacco del tombolo della Feniglia, là dove sorgeva l'antica Cosa, ritorna nei suoi 13 km. di sviluppo con i caratteri uniformi e malarici della Maremma.
L'Arcipelago Toscano che fronteggia la costa del Tirreno, considerato da taluni come il residuo di un'area continentale sommersa, è costituito da 7 isole principali e da qualche minore isolotto, scoglio o emergenza rocciosa o sabbiosa. L'area complessiva delle 7 isole principali si ragguaglia a kmq. 289,5, dei quali i 4/5 sono rappresentati dall'isola d'Elba (kmq. 223,5). Il rimanente spetta alla Gorgona (kmq. 2,23), alla Capraia (19,5), alla Pianosa (10,2), al Giglio (21,2), a Montecristo (10,4) e Giannutri (2,3): per tali isole si rimanda alle voci relative.
Clima. - La Toscana, affacciandosi per un'ampiezza rettilinea di 220 km. sul Tirreno, da cui dista nel suo punto più interno 160 km., difesa dai venti freddi del nord dalla cerchia appenninica, gode di un clima prevalentemente marittimo, sensibilmente più mite di quello goduto dalle regioni transappenniniche contermini. Notevole influenza nel variarne i caratteri locali esercita il rilievo, non solo per il diverso comportarsi della temperatura secondo l'altitudine, ma anche per l'azione che al rilievo stesso spetta nel favorire o limitare la benefica azione marina o nell'opporre un ostacolo alle fredde correnti nordiche. Per quanto riguarda il regime normale dei venti può ritenersi che esso sia in rapporto con la pressione barometrica dominante nell'inverno sul Tirreno. Tale depressione determina venti caldi di sud-est e di sud-ovest in contrasto con i venti freddi promnienti dalla valle del Po soggetta ad alte pressioni invernali. Il contrasto tra queste due opposte azioni e la maggiore o minore difesa che esercitano i rilievi cagionano gli squilibrî diurni e le differenze climatiche locali. Come appare dalla tabella, in cui sono riportati gli elementi principali del clima per alcune delle stazioni più caratteristiche della Toscana, la media annua della temperatura oscilla tra i 12 e i 15 gradi e le differenze sono principalmente dovute all'altitudine delle stazioni; alquanto più diverse le medie stagionali e quelle dei mesi estremi (gennaio e luglio), onde Firenze, ad es., ha una media in gennaio di circa 2°,5 più bassa e una media di luglio di un grado più alta di quella di Pisa. Tali differenze si accentuano paragonando la temperatura della Toscana con quella della Pianura Emiliana. Così la media del gennaio a Bologna, ad es., è più bassa di circa tre gradi di quella di Firenze, e le differenze diventano assai maggiori se si tiene conto non delle medie ma dei valori estremi. L'altitudine, come è naturale, influisce grandemente a modificare queste condizioni di cose, onde sulle pendici dell'Appennino si hanno stazioni climatiche estive di gradevole soggiorno. La media estiva di Vallombrosa, a 1000 m. di altitudine, presenta valori inferiori di 7 gradi a quella di Firenze.
Se per quanto riguarda la temperatura le condizioni della Toscana sono pressoché uniformi, a parte gli effetti dell'altitudine e la scarsa influenza che vi ha la diversa continentalità, per quanto riguarda invece le precipitazioni le differenze sono assai più sensibili, influendo sul loro andamento oltre all'altitudine anche l'esposizione. Così, mentre a Firenze la quantità annua di pioggia è di 863 mm. e a Grosseto di 690, a Castelnuovo di Garfagnana sale a 1773 e a Camaldoli a 1814. Le piogge cadono prevalentemente in autunno e in inverno; sono scarse invece nell'estate, specialmente lungo la zona litoranea della Maremma dove una prolungata siccità viene talvolta a compromettere i raccolti.
La caduta delle nevi si ragguaglia, nella regione pianeggiante collinare, a tre giorni all'anno (meno di ⅓ della media della pianura del Po). Abbastanza frequenti i temporali estivi accompagnati da grandine. La malaria, che un tempo dominava non solo nella Maremma, ma anche in alcune plaghe interne, scomparsa ormai definitivamente in queste ultime dopo la loro sistemazione idraulica, va gradatamente scomparendo anche nella zona maremmana col progredire delle opere di bonifica.
Idrografia. - Per circa un terzo della sua totale estensione la Toscana appartiene al bacino dell'Arno. L'Arno nasce sul versante meridionale della Falterona, solca la valle del Casentino, penetra nel piano di Arezzo ove diverge dalla sua direzione primitiva, che lo portava a congiungersi con la Chiana e a farne un affluente del Tevere, poi piega verso NO. e quindi più decisamente ad ovest per mettere foce nel Tirreno a 12 km. da Pisa. Suoi principali affluenti da destra la Sieve, il Bisenzio, l'Ombrone Pistoiese; da sinistra la Greve, la Pesa, l'Elsa, l'Era. Rimandando alla voce arno per maggiori particolari, ricorderemo qui come la bonifica del lago di Bientina, con la costruzione di un canale sottopassante l'alveo dell'Arno in botte, immettendone direttamente le acque nel Tirreno, è venuta a sottrargli artificialmente il bacino imbrifero del detto lago. Ma oltre che dall'Arno l'idrografia interna della Toscana è rappresentata da altri fiumi quasi tutti appartenenti al versante del Tirreno. Tale la Magra, la cui valle esce fuori dei limiti della regione solo per un breve tratto del suo corso inferiore; mentre rientrano totalmente nella Toscana il bacino del Serchio che mette foce a 12 km. a N. dell'Arno, e a S. di questo la Cecina, la Cornia, la Pecora, la Bruna, l'Albegna, laddove solo parzialmente vi rientra la Fiora. Restano compresi negli attuali limiti amministrativi della Toscana le testate di alcune valli transappenniniche, appartenenti perciò al versante adriatico, e cioè del Reno Tosco-Emiliano, per un'area complessiva di 6500 km. e così pure quella del Tevere (10.000 kmq.). La struttura orografica della Toscana, ove hanno sì larga parte le conche chiuse, originò nel passato la formazione di bacini lacustri dell'esistenza dei quali si hanno sicure testimonianze. Tali il Casentino, il Mugello, la Garfagnana, il piano di Firenze. Il loro prosciugamento può ritenersi avvenuto in tempi relativamente recenti, anteriori tuttavia a qualsiasi ricordo storico. Alcuni espandimenti lacustri furono prosciugati o sono tuttora in corso di prosciugamento per opera dell'uomo, tali quello di Bientina, di Fucecchio e il lago di Castiglion della Pescaia, il Piano del Lago presso Siena. Pochi e di scarsa importanza gli specchi lacustri che tuttora rimangono: i laghi di Chiusi e di Montepulciano, residuo, col più vasto Trasimeno, dell'ampio bacino che occupò già la Val di Chiana; il laghetto di Massaciuccoli sulla costa della Versilia e il cosiddetto stagno di Orbetello ormai, con l'apertura delle dighe che lo racchiudono, convertito in una vera e propria laguna.
Regioni naturali e storiche. - La particolare conformazione orografica della Toscana ha potuto determinare facilmente il suo frazionamento in numerose regioni naturali, frazionamento che le condizioni demografiche e le vicende storiche hanno valso a rafforzare. Per la maggior parte queste regioni corrispondono a valli o tratti di valli idrografiche delle quali alcune ebbero e conservano un nome particolare, altre lo derivano da quello dei fiumi che le solcano. Fra le prime sono da considerare le già ricordate valli del Casentino, corrispondente al tronco superiore del bacino dell'Arno; del Mugello, che designa la valle superiore della Sieve; della Garfagnana ossia la valle superiore del Serchio; la Lunigiana o valle della Magra. Prendono il nome dal fiume stesso che le solca la valle media e inferiore dell'Arno o Valdarno, come si usa designarlo tanto nell'uso comune come in quello letterario, diviso dal piano di Firenze in Superiore o "di sopra" e Inferiore o "di sotto"; la Valdichiana, corrispondente alla regione già palustre che si estende a sud di Arezzo tra l'Arno e il Tevere, attraversata dal canale omonimo e dal breve corso del fiume Chiani; la Val di Sieve che designa la sezione inferiore del bacino della Sieve; la Val di Nievole; la Val di Pesa e quelle dell'Elsa e dell'Era, cui corrispondono i bacini degli omonimi affluenti dell'Arno, ecc. Derivano da conformazione e struttura orografica la breve regione del Chianti corrispondente alla zona collinosa celebrata per i suoi prodotti viticoli, che separa il bacino della Greve (Arno) da quello dell'Ombrone; la regione Apuana attraversata dalla omonima catena montana; la Catena metallifera già ricordata culminante col M. Amiata. Nella zona costiera a nord dell'Arno prende il nome di Versilia il tratto a nord di Viareggio che ha il suo centro nella piccola città di Pietrasanta, mentre tutta la regione marittima a sud dell'Arno e per una profondità che raggiunge anche i 50 km., prende il nome di Maremma, distinta in Maremma pisana sino al Promontorio di Piombino e Maremma grossetana a sud del medesimo.
Popolazione. - La popolazione della Toscana, presente alla data del 21 aprile 1931, risultò di 2.892.364 abitanti. Nella tabella unita sono riportati i dati parziali per le singole provincie. Riserbandoci di esaminare particolarmente l'attuale popolazione della regione nella sua composizione e distribuzione, accenneremo qui alle vicende che essa ebbe a subire nel tempo. Che la Toscana avesse una popolazione numerosa sino dall'età etrusca e sotto la dominazione romana lo attestano, oltre i ricordi storici, i resti cospicui di città e paesi distrutti e le vestigia che ne conservano taluni degli abitati tuttora esistenti. Ci mancano tuttavia gli elementi per valutarne la consistenza numerica. La generale decadenza che sotto ogni aspetto subì l'Italia nei primi secoli del Medioevo dovette certamente farsi sentire anche in Toscana per quanto riguarda la sua demografia. Il sorgere dei liberi comuni e l'attività commerciale industriale e agricola che s'inizia nel secolo XII ne promosse poi lo sviluppo, onde sorsero nuovi centri abitati e si svilupparono le città. Parziali computi per alcune di esse permettono di seguirne il graduale incremento; ma una valutazione generale per tutto quello che costituì l'antico stato fiorentino si ebbe dopo l'avvento del principato mediceo, nel 1531, estesa un secolo più tardi anche allo stato senese. Dai dati offerti si può dedurre che la popolazione totale della Toscana fosse verso il sec. XVII, di 850.000 ab. Da allora l'accrescimento della popolazione fu costante, onde alla data dell'unificazione del regno la Toscana, nei suoi limiti attuali, aveva raggiunto i 2 milioni di ab. L'aumento verificatosi nel settantennio 1861-1931 fu quindi di circa un milione di unità, pari al 50%, che risponde presso a poco al medio incremento della popolazione del regno. Tale incremento si deve attribuire per la Toscana soltanto allo sviluppo vegetativo della popolazione per l'eccedenza dei nati sui morti giacché in minima parte hanno contribuito a modificarlo i movimenti migratorî. La natalità, che nel quadriennio 1911-14 aveva presentato una media annua di circa il 28%, di poco inferiore alla media del regno, subendo come la media stessa un lento movimento decrescente, discese nel 1935 a 17,7‰; mentre la mortalità dal quoziente di 16‰ per il quadriennio 1911-14 discese alla sua volta a 12,2‰. L'eccedenza dei nati in questi ultimi anni si ragguaglia quindi a 5,5‰, poco superiore alla metà di quella del regno. L'emigrazione assai poco ha contribuito, come si è detto, a modificare il flusso naturale della popolazione anche per il suo carattere comune di temporaneità. Più antica e caratteristica l'emigrazione transoceanica dalle due provincie di Lucca e di Massa e Carrara, che nel periodo dal 1876 al 1890 aveva oscillato tra 5000 e 10.000 emigranti all'anno. Per le altre provincie toscane si può dire che l'emigrazione cominciasse ad affermarsi negli ultimi anni del secolo scorso, portandosi da 2000 unità nel 1890 a 40.000 nel 1913, quasi totalmente con carattere temporaneo e diretta verso paesi europei. Dopo la guerra mondiale l'emigrazione toscana come quella di tutto il regno si ridusse notevolmente, sia per le limitazioni imposte dagli Stati Uniti, sia per lo sviluppo che ebbero in Italia le opere pubbliche, le bonifiche, l'attività economica in genere. Nel 1911 i Toscani espatriati ascendevano a 35.584 pari a 1,3% della popolazione totale, proporzione inferiore a quella di tutte le altre regioni del regno, esclusa la Sardegna. Degli assenti, 20.713 si trovavano in stati europei, 8773 negli Stati Uniti dell'America Settentrionale 1408 in Argentina; 1386 nel Brasile, 2017 in altri paesi americani e 506 in altre parti del mondo. Per 781 mancavano le informazioni.
Come appare dal prospetto sopra riportato, la popolazione, risultata presente al censimento del 1931, fu di 2.892.364 ab. e di 2.910.410 quella residente, cioè esclusi i presenti occasionalmente e considerati invece i temporaneamente assenti. Di questi ultimi (in complesso 95.464) 83.835 si trovavano in altri comuni del regno e 11.629 erano all'estero o nelle colonie, ma senza altre indicazioni. Proporzionalmente la percentuale dei temporaneamente assenti è inferiore alla media del regno (3,7) e per quanto riguarda quelli all'estero (0,4%) la metà della media del regno. Nel 1935 l'emigrazione toscana ragguagliò complessivamente 8782 espatriati (dei quali 4052 lavoratori) contro 6805 rimpatriati (dei quali 4050 lavoratori). Riguardo al luogo di destinazione 2244 lavoratori espatriati si diressero per paesi continentali e 820 per paesi transoceanici. Dei lavoratori rimpatriati 3509 provennero da paesi continentali e 541 da paesi transoceanici.
La popolazione toscana per circa 2/3 (68,7%) vive aggruppata nei centri e solo 1/3 (31%) vive sparsa nelle campagne. La percentuale della popolazione accentrata, che era di 55,2 nel 1901, tende come si vede ad elevarsi; tuttavia si mantiene sempre inferiore alla media del regno (78,5%).
Il numero dei centri abitati ascende a 2300, dei quali 436 con popolazione inferiore a 100 ab., 1605 con abitanti da 100 a 1000; popolazione suburbana costituente spesso dei centri minori ovvero sparsa per la campagna, che talvolta (come è il caso di Arezzo) supera la popolazione del centro urbano. L' importanza delle città toscane non è d'altronde da mettersi in rapporto con la loro popolazione, cui il limitato sviluppo industriale e la natura stessa delle industrie esercitate non consentì che solo in pochi casi (Piombino) il recente formarsi di cospicui centri e dove, come si è veduto, la popolazione sparsa raggiunge una percentuale considerevole; ma nel più dei casi dipende dal pregio dei loro monumenti, delle loro istituzioni civili, dei loro ricordi storici, per quasi tutte, considerevoli.
Di gran lunga inferiore al numero dei centri è quello dei comuni in cui le 9 provincie toscane si suddividono e che ascende a 276. Tenuto conto dell'area totale della regione l'area media dei comuni risulta di 105 kmq. e la popolazione di 10.480 ab., valori notevolmente superiori a quelli medî dei comuni del regno. La densità media della popolazione della Toscana è di 126 ab. per kmq., lievemente inferiore alla media del regno (133). La provincia di Firenze con la densità di 216 raggiunge il più elevato valore; quella di Grosseto con 39 ab. il più basso e uno dei più bassi del regno, superiore solo a quelli delle provincie di Sassari e di Nuoro. Il comune di Campagnatico (Grosseto), esteso 164 kmq. con 17 ab. per kmq., è quello che presenta la densità minima di tutta la regione. In generale si può dire che la popolazione si addensa particolarmente nella valle dell'Arno e in quella del Serchio nonché nella zona litoranea della regione apuana, mentre si rarefà nella Maremma, in alcune parti dell'altipiano toscano e nelle regioni montane dell'Appennino e delle Alpi Apuane. L'esame della carta qui di contro riportata, fornisce del resto una chiara visione del modo in cui si distribuisce la densità della popolazione nella Toscana. Considerando la suddivisione in zone altimetriche agrarie si rileva come circa i 2/3 della popolazione toscana (63,5%) vivono nelle zone di collina e l'altro terzo è ripartito nelle zone di montagna (21,3%) e in quella di pianura (15,2%). Come avviene del resto nella totalità del regno, la quasi totalità della popolazione (96,7%) vive in famiglia e solo il 3,3% in convivenze (comunità religiose, collegi, ecc.). Il numero medio dei componenti le famiglie è di 4,5; quello delle convivenze di 26,9.
Circa le abitazioni si ha che, su 100 abitazioni, 94,7 sono effettivamente abitate. Il numero medio di stanze per abitazione è di 4,4 e la media degli abitanti per stanza è di 1,1, ciò che in confronto della totalità del regno mostra una maggiore larghezza e comodo di vita. Riguardo ai caratteri morali e culturali della popolazione toscana dobbiamo dire che assai meno elevata vi è la delinquenza per quanto riguarda gli omicidî, le lesioni personali, le rapine e le estorsioni, mentre si avvicinano alla media i furti, le frodi e le truffe e superano la media stessa le contravvenzioni, ciò che mostra nella popolazione una tendenza a sottrarsi alle disposizioni di legge che regolano il consorzio civile. Non sufficientemente diffusa, come si potrebbe ritenere, è l'istruzione elementare, e l'analfabetismo, sebbene in via di rapida diminuzione, vi raggiunge medie abbastanza elevate (18%), ciò si deve alle particolari condizioni di vita delle popolazioni agricole di montagna residenti spesso in casali distanti da centri ove funzionano scuole.
Come nella totalità del regno la religione professata dalla grandissima maggioranza della popolazione è la cattolica romana. Vi si contano inoltre 6445 evangelici, 5293 israeliti e 391 greci scismatici: 2033 censiti dichiararono di non professare alcuna religione.
Condizioni economiche. - La Toscana è soprattutto un paese agricolo. Le condizioni naturali di clima e di suolo favoriscono le coltivazioni di svariate piante erbacee e arbustive fornendo prodotti, quali l'olio e il vino, particolarmente pregiati sui mercati italiani e internazionali. L'agricoltura toscana, celebrata sino dall'antichità, decaduta nell'età barbarica e poco curata dai liberi comuni, progredì sotto il principato mediceo e specialmente negli ultimi due secoli contribuendovi in modo notevole la Reale accademia dei Georgofili, istituita appunto col fine di sviluppare scientificamente e praticamente le condizioni economiche della regione e particolarmente l'agricoltura. Della totale estensione della regione si calcola che il 94,4% sia costituito dalla superficie agraria e forestale, il 3, 1% sia occupato dalle strade e dalle acque; l'1,3% dai fabbricati e loro adiacenze e l'1,2% da terreni assolutamente improduttivi, quali si riscontrano in alcune plaghe appenniniche o delle Alpi Apuane. Non tutta l'area rappresentata dalla superficie agraria e forestale è da ritenersi coltivata, né eguali sono le condizioni dei terreni posti a coltura. Se per una notevole parte questi sono sottoposti a una coltura intensiva, dove la varietà delle colture conferisce loro l'aspetto ridente di un vero giardino, come avviene per la valle dell'Arno e del Serchio e per la zona litoranea a nord di questo, un'altra parte, sia per naturale sterilità di suolo, sia per non ancora compiuta sistemazione idraulica e non bene affermata opera dell'uomo, presenta ancora delle plaghe semi-incolte. Le opere di bonifica idraulica, iniziate appena sotto i Medici, riprese con maggior fervore sotto i Lorenesi, continuate non sempre con notevole profitto dall'Italia unificata, ebbero dal governo nazionale fascista un impulso ben altrimenti potente con l'applicazione di un vasto piano di bonifica integrale che ha impresso alla rigenerazione della Maremma un ritmo accelerato. Rimandando alle voci bientina; chiana; fucecchio; maremma; versilia, per quanto riguarda le opere di bonifica idraulica compiute o tuttora in corso nella Toscana, ricorderemo che un'altra impresa di bonifica agraria è stata iniziata con profitto con le cosiddette bonifiche di monte dalle quali la sterile regione delle crete senesi attende anch'essa la sua rigenerazione. La proprietà terriera è notevolmente ripartita. Si contano in Toscana 254.144 aziende agricole delle quali 115.480 sono condotte da proprietarî, 21.642 sono date in affitto, 106.695 a colonia mezzadra e 16.327 a regime misto. Tenendo conto dell'estensione territoriale prevale la colonia mezzadra. Questa forma infatti raggiunge la percentuale del 50%, mentre i terreni condotti dai proprietarî rappresentano il 43%, quelli in affitto il 3% e quelli a regime misto il 4%. Questi rapporti variano se si considera la diversa giacitura altimetrica. La ripartizione secondo tale giacitura della superficie territoriale della Toscana (ha. 1.957.130) darebbe il 30% di territorî di montagna, il 60% di territorî di collina e il 10% di territorî di pianura. Nei territori di collina, che rappresentano quindi la grande maggioranza, la colonia mezzadra è in proporzione del 57% mentre in pianura è solo del 38% e in montagna del 50%. La coltivazione agricola più largamente praticata è quella del frumento cui si adattano anche territorî montani sino ai 1500 metri. La media estensione dell'area coltivata ascende a 350.000 ha. e la produzione media oscilla sui milioni di quintali (5,5 milioni nel 1935) ciò che rappresenta il 7% della media produzione del regno. Abbastanza diffusa è la coltivazione del mais con una produzione media di 1.000.000 quintali (821.000 q. nel 1935); mentre di limitata importanza rimangono le produzioni degli altri cereali inferiori, segale e avena. Il riso, che sino dalla seconda metà del secolo XVI si cominciò a coltivare nelle adiacenze del lago di Massaciuccoli, è ancora oggetto di limitata coltivazione nelle risaie che occupano un'estensione di 250 ha. e dànno un prodotto di 8000 q. Sono oggetto di coltivazione più o meno diffusa le leguminose da granella; le colture orticole in generale (fagioli) e in limitata misura il lino e la canapa. Fra le piante arbustive grande importanza, più che per la quantità per la qualità del prodotto, hanno la vite e l'olivo. La vite, coltivata generalmente insieme al frumento e ad altre piante erbacee e solo in poche regioni (Elba, Lucchesia) oggetto di coltivazione specializzata, si trova più o meno in tutta la regione sino a un'altitudine di 500-600 m. Il vino prodotto annualmente si ragguaglia in media a circa 5 milioni di quintali (4996 mila nel 1935), circa 1/10 della produzione del regno. Particolarmente pregiati sono i tipi Chianti (v.), Rufina (Val di Sieve), Montepulciano. L'olivo trovò le condizioni ambientali favorevoli tanto per quanto riguarda la natura del suolo, quanto per il clima. Un credito speciale gode l'olio di Lucca, centro di una notevole industria olearia che attende anche alla raffinazione di olî di altre regioni italiane. La produzione ascende a 200.000 quintali (105.000 q. nel 1935). La coltivazione del gelso e l'allevamento del baco da seta, la cui diffusione risale al sec. XVI, è oggetto di particolare cura in varie parti della valle dell'Arno, del Senese e della Lucchesia. La produzione dei bozzoli fu, nel 1935, di 445.000 quintali, solo 1/25 della produzione totale del regno. I boschi e le foreste hanno in Toscana uno sviluppo superiore a quello delle altre regioni italiane. Bisogna tuttavia tener conto che una parte notevole è rappresentata dai castagneti (Pratomagno, Alpi Apuane, M. Amiata) e dai cedui e dalle boscaglie di cui si ricoprono le zone elevate della Maremma. Celebrate le vaste e folte abetine di Vallombrosa, di Camaldoli e dell'adiacente Foresta Casentinese, dell'Abetone, tutte di proprietà demaniale. Anche in Toscana, come altrove, l'opera inconsulta di devastazione, che si accentuò nella seconda metà del sec. XVIII dopo abolite le restrizioni già imposte dalla legislazione toscana al taglio dei boschi, la diffusione delle colture e più recentemente i bisogni impellenti dalla guerra, determinarono una distruzione del patrimonio forestale, onde vaste distese di pendici montane, già ammantate da folta vegetazione forestale, si ridussero nude e brulle; ma già si avvertono i benefici effetti di un vasto lavoro di rimboschimento che il governo fascista ha intrapreso negli ultimi anni e condotto con energia. L'allevamento del bestiame non ha, per le diverse condizioni topografiche e climatiche, l'importanza che presentano le regioni dell'Italia settentrionale. I pascoli naturali sono ristretti alle zone montane e alla Maremma; più estesi gli erbai e i prati artificiali; ma scarsa la produzione dei foraggi (10 milioni di quintali) in relazione alla quale sta l'allevamento. Il numero dei bovini (424.000) che si allevano rappresenta appena il 6% del patrimonio zootecnico del regno; più numerosi gli ovini (995.000) che ne rappresentano il 10%, il cui allevamento dà luogo a un notevole movimento di transumanza tra le zone appenniniche e la Maremma e le regioni di piano in genere. Notevolmente diffuso, favorito anche dal sistema prevalente di conduttura di fondi, l'allevamento del pollame e ora anche quello dei conigli. La pesca che fu praticata largamente nell'antichità, decaduta nel Medioevo, riprese a praticarsi con maggiore interesse nel Rinascimento più ancora che per la pesca marittima per quella d'acqua dolce, onde si favori l'impianto di peschiere e la sistemazione di bacini lacustri a questo fine (Laghi di Fucecchio e di Castiglione della Pescaia).
Non vale a darci un criterio sicuro dell'importanza che spetta alla Toscana per quanto riguarda l'attività industriale, lo sviluppo preso dagl'impianti di energia elettrica, sia per la deficienza che la regione presenta nel suo regime idrografico, sia per la natura stessa delle lavorazioni industriali che vi si praticano e che non richiedono grande consumo di energia meccanica. Alla fine del 1935 si contavano nella regione solo 65 centrali di cui 46 idroelettriche e 19 termoelettriche. Le centrali idroelettriche, che utilizzano quasi esclusivamente le acque del Serchio, hanno una potenza installata di 107.762 kW; quelle termoelettriche, che utilizzano la lignite del Valdarno o il calore naturale dei soffioni boraciferi di Larderello, hanno una potenza di 108.410 kW. Complessivamente la potenza installata rappresenta solo il 4% di quella di tutto il regno e rispetto all'area e al numero degli abitanti ne ragguaglia solo 1/3 della produzione unitaria.
La Toscana, che vanta tradizioni gloriosissime nel campo industriale, vide dopo il Rinascimento tali tradizioni sempre più indebolirsi e decadere e solo dopo l'unificazione del regno e specialmente negli ultimi decenni affermarsi nuovamente con notevoli progressi. Nel 1921, della popolazione toscana di età superiore ai 10 anni solo il 31% (pari cioè alla media del regno) era dedito all'industria.
Per quanto riguarda l'industria mineraria, abbiamo già accennato alla varietà e sotto alcuni aspetti alla ricchezza dei depositi minerarî che si trovano nella regione. Le miniere di ferro dell'isola d'Elba, con una produzione annua di 350.000 tonn. (362.500 nel 1933), rappresentano i 9/10 della produzione del regno. Abbondante prodotto dànno le miniere di piriti di rame e di ferro della Maremma (Ravi, Gavorrano, Montieri) e particolarmente ricche sono le miniere di mercurio del M. Amiata che, insieme a quella d'Idria, conferirono all'Italia un primato fra i paesi d'Europa; notevolmente decadute negli ultimi anni per la difficoltà del collocamento del prodotto, varie miniere amiatine dovettero essere chiuse, e la produzione si ridusse nel 1933 a 300 tonn. Sono da ricordarsi altresì le miniere di ferro manganesifero dell'Argentario e quelle di magnesite presso Castiglioncello. Possono considerarsi ormai esaurite le miniere di rame di Montecatini in Val di Cecina e quella di piombo argentifero del Bottino presso Seravezza che ebbero, nel passato, grande importanza. Una considerevole importanza economica presentano i soffioni boraciferi di Larderello (v.). Indipendentemente dall'estrazione dell'acido borico, che costituisce un vero monopolio alla Toscana, i soffioni di Larderello da alcuni anni a questa parte sono utilizzati anche come sorgente naturale di calore per azionare, come si è accennato, delle centrali termoelettriche. Depositi considerevoli di lignite si trovano in Toscana, particolarmente nel Valdarno (Castelnuovo dei Sabbioni) e in Maremma (Roccastrada, Gavorrano, Scansano); ma i loro prodotti sono di limitato rendimento termico. La produzione della lignite, che nell'anteguerra superava le 400.000 tonn., triplicata durante la guerra, è ritornata con breve aumento alla misura antebellica (mezzo milione di tonn. nel 1935).
Altra ricchezza mineraria in Toscana è costituita dalle saline di Volterra, che dànno annualmente circa 90.000 tonn. Ma di tutte le risorse minerarie che la Toscana offre, la più considerevole, sia per il valore del prodotto, sia per la mano d'opera che impiega nella escavazione e nella sua lavorazione, è il marmo che principalmente si escava nelle Alpi Apuane e per il quale Carrara (v.) si può considerare il centro. La produzione del marmo estratto ragguagliò nel quinquennio che precedette la guerra mondiale circa 370.000 tonn. Fortemente ridotta nel periodo bellico, era in notevole ripresa dopo il 1920 allorché la crisi economica generale ne ridusse ancora la produzione che, nel 1935, fu calcolata di 33.000 tonn. per un valore di 70,5 milioni.
L'industria siderurgica, quasi nulla sino a pochi decennî addietro, incominciò a prendere un notevole sviluppo con l'istituzione, fatta pochi anni prima della guerra, di grandiosi stabilimenti a Piombino, divenuto uno dei principali centri siderurgici del regno, e così anche a Portoferraio, per la riduzione del minerale elbano e per la produzione della ghisa e dell'acciaio. Similmente sono sorti a Livorno e sull'Appennino Pistoiese stabilimenti per la lavorazione del rame, senza contare le numerose ferriere, fonderie e officine varie, per la costruzione di strumenti agricoli, materiale ferroviario, ecc. Degni di speciale ricordo sono il grande cantiere Orlando, per la costruzione di navi da guerra e di commercio, istituito a Livorno sino dal 1865 e l'officina Galileo di Firenze che attende alla costruzione di strumenti di precisione. Le industrie tessili e manifatturiere godono in Toscana di nobili tradizioni, specialmente per quanto riguarda la tessitura della seta e della lana; grandemente decaduta la prima, è ancora assai fiorente la seconda che vanta in Prato uno dei più notevoli centri lanieri del regno. Gloriose tradizioni la Toscana vanta ancora per l'industria delle ceramiche, onde la manifattura di porcellane di Doccia, fondata dal marchese Ginori sino dal 1740, conserva immutata la sua fama secolare, mentre per le vetrerie hanno meritata rinomanza le fabbriche di Pisa (specchi) e di Empoli.
Un'industria domestica antica e largamente diffusa in varie provincie della Toscana, per quanto oggi notevolmente decaduta, è quella delle trecce e dei cappelli di paglia che ha il suo centro principale nel paese di Signa presso Firenze.
Comunicazioni. - La rete stradale della Toscana, sia per quanto riguarda le vie ordinarie sia per quello che si riferisce alle ferrovie, è sufficientemente estesa per le zone di pianura e di collina, tranne che nella provincia di Grosseto, dove una vasta zona, quale non si riscontra in altre regioni del regno, è tagliata fuori da ogni comunicazione ferroviaria. La Toscana fu tra i primi stati italiani che iniziarono la costruzione di ferrovie a scopo commerciale. La linea che direttamente congiunge Firenze a Livorno, la capitale del granducato al suo principale porto marittimo, concessa nel 1841 e aperta all'esercizio per varî tratti consecutivamente, fu ultimata nel 1848. Alla data dell'unificazione del regno si contavano nel granducato 320 km. di ferrovie. All'inizio del sec. XX esse erano salite a 1250 km. e la rete comprendeva l'arditissima linea transappenninica della Porretta. Nei decennî successivi il progresso fu più lento, e si limitò a piccoli tronchi d'interesse locale. Ma un'opera veramente di carattere nazionale, anzi internazionale, costituì la costruzione della direttissima Firenze-Bologna che, abbreviando notevolmente il percorso, congiunge direttamente Roma con Milano e con Berlino per il valico del Brennero. Iniziata nel 1913, essa fu ultimata e aperta all'esercizio nell'ottobre del 1934. La rete ferroviaria della Toscana alla fine del 1935 si estendeva per 1539 km.; cui corrisponde una densità di 67 km. per ogni 1000 kmq., notevolmente inferiore a quella media del regno (74 km.).
Quanto alla viabilità ordinaria, la sua rete, considerando le sole strade statali, si estende per 1406 km. Sviluppatasi sulle tracce di antiche vie romane, curata nell'età comunale e sotto il principato mediceo, ebbe nuovo e maggiore impulso nella seconda metà del secolo XVIII allorché si aprirono le grandi arterie transappenniniche, che sostituirono le vecchie mulattiere per i valichi della Futa, del Giogo, della Cisa e di quello più ardito ed elevato dell'Abetone. Dopo l'unificazione del regno si conseguirono ulteriori progressi, intensificati in seguito allo sviluppo preso dall'automobilismo e alle cure del governo nazionale fascista che particolarmente si è interessato al miglioramento della viabilità. Fra i miglioramenti introdotti nelle comunicazioni interne si ricorda la costruzione dell'autostrada Firenze-Mare, aperta nel 1933. I servizî automobilistici (299 linee di una lunghezza complessiva di 9831 km.) integrano quelli ferroviarî ancora deficienti e vanno prendendo uno sviluppo sempre maggiore. Per le comunicazioni marittime, si può dire che nel porto di Livorno, ormai divenuto uno dei porti di maggior traffico del regno, si concentri quasi tutta l'attività marinara della regione. Nel 1935 il suo movimento registrò 3880 approdi per una stazza netta di 3.860.000 tonn., inferiore solo a quelli di Genova, Napoli, Venezia e Trieste. Oltre Livorno presentano una qualche importanza, limitata però al traffico locale, gli scali di Portoferraio, Viareggio, Marina di Carrara (esportazione del marmo), Piombino (traffico con l'Elba) e Porto S. Stefano.
Bibl.: La bibliografia della Toscana è ricchissima. Un prezioso catalogo ne offrì ai primi del secolo scorso Domenico Moreni con la sua Bibliogr. storica ragionata del Gran Ducato pubblicata nel 1805 (voll. 2), e a quella si rimanda per le opere anteriori a quella data, limitandoci qui a ricordare le pregevolissime Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali e gli antichi monumenti di essa di Giov. Targioni Tozzetti (2a ed., Firenze 1798, voll. 12) che trovano il loro complemento, per quanto riguarda la regione amiatina e maremmana, nei Viaggi per la Toscana del professor Giuseppe Santi, Pisa 1798. - Fra le pubblicazioni posteriori citiamo per primo, come opera fondamentale, il Dizionario geografico, storico e fisico della Toscana di Emanuele Repetti (voll. 5 e un supplemento, Firenze 1833-46) che, ad un secolo di distanza, conserva invariato il suo pregio e al quale si ricorre anche oggi con profitto. Fra le opere generali di data più recente, oltre alle parti riguardanti la Toscana della Corografia d'Italia di A. Zuccagni Orlandini, di La Terra di G. Marinelli e altre minori, il volume Monti e poggi toscani, collezione di scritti varî di G. Dainelli, C. De Stefani, A. Mochi, Att. Mori, G. Stefanini, e altri, Firenze 1908; G. Dainelli, Carta delle piogge della regione toscana (memorie geografiche di G. Dainelli), Firenze 1908; id., L'aumento della popolazione toscana nel sec. XIX, ivi 1912; id., La distribuzione della popolazione in Toscana, ivi 1917; B. Lotti, Descrizione geologica della Toscana, in Memorie descrittive della carta geologica d'Italia, XIII, Roma 1910; E. Hutton, The Valley of Arno, Boston 1926; Att. Mori, Toscana, vol. VIII della collezione La patria, Torino 1927; B. Petrocchi, L'agricoltura nella provincia di Firenze, 1927; M. Zucchini e G. Pontecorvo, Le condizioni dell'economia rurale nell'Appennino toscano, pubblicazione della R. Acc. dei georgofili, Firenze 1932; Istituto centrale di statistica del regno d'Italia, Catasto agrario (un fascicolo per ogni singola provincia), Roma 1933, 1936. Si vedano altresì le speciali bibliografie alle voci amiata; apuane; arno; casentino; garfagnana; lunigiana; mugello, nonché quelle delle varie città della regione.
Cartografia: La prima carta della Toscana, fondata su regolari operazioni geometriche, è quella, alla scala di 1:200.000, pubblicata nel 1830 dal padre G. Inghirami. Posteriore di un ventennio è la carta alla scala di 1:86.400 pubblicata nel 1851 dall'Istituto geografico militare di Vienna, in continuazione dell'analoga Carta del Lombardo Veneto e dei ducati di Parma e di Modena. Dopo l'unificazione del regno si estesero anche alla Toscana le nuove operazioni trigonometriche e topografiche per la costruzione della Carta fondamentale d'Italia alla scala di 1:100.000. Le levate originali per il territorio toscano sono tutte alla scala di 1:25.000 salvo per la regione maremmana e parte della provincia di Arezzo che sono alla scala di 1:50.000.
Preistoria.
Alla schiera degli studiosi toscani che sul principio della seconda metà dell'800 iniziò le ricerche sulla preistoria della regione - di essa facevano parte Igino Cocchi, Antonio D'Achiardi, Carlo Regnoli, Giuseppe Foresi - spetta di avere aperto la via a quell'attività paletnologica che doveva portare alle più interessanti scoperte.
È merito di Igino Cocchi la prima notizia del cranio umano fossile dell'Olmo, rinvenuto nel 1863 presso Arezzo nei lavori per la ferrovia Firenze-Roma, e che tanto scalpore di critica destò intorno a sé, mentre la presenza dell'uomo preistorico in Toscana veniva dagli altri segnalata con trovamenti sporadici di armi e utensili litici, che con quelli di bronzo attestavano delle antiche civiltà della pietra e dei metalli.
Stazioni all'aperto venivano segnalate in diversi punti del territorio toscano (Campolungo nel Mugello, S. Casciano de' Bagni nel Senese, Chiocciola nel Valdarno), mentre le grotte aprivano i loro segreti sulle Alpi Apuane (grotta dell'Onda, del Tamaccio, ecc.), nel Grossetano (grotta di Golino presso Talamone, grotta degli Ugazzi presso Monte Argentario), nel Livornese (Buca delle Fate, Caverne di S. Gorgonio nell'Isola di Gorgona), nel Lucchese (la Buca Tana di Maggiano).
Numerosi altri studiosi si andarono aggiungendo ai primi, e tutti recarono per un cinquantennio il loro valido contributo di ricerche e di scoperte, che nel 1913 si sentì il bisogno di coordinare con un nuovo e uniforme indirizzo nel Comitato per le ricerche di paleontologia umana, sorto in Firenze allo scopo di rendere possibile l'intensificazione delle esplorazioni e degli scavi e affrontare la soluzione dei problemi della preistoria italiana: ad esso hanno collaborato e collaborano Aldobrandino Mochi, Elio Modigliani, Antonio Minto, G. Alberto Blanc, Nello Puccioni, Renato Biasutti.
Quantunque, data la vastità del territorio toscano, ci sia ancora molto da fare nel campo degli studî preistorici, tuttavia allo stato delle conoscenze è possibile formarsi un'idea abbastanza precisa del come si svolsero i diversi gradi delle civiltà primitive.
La Toscana ebbe anch'essa la sua età della pietra; ma, a differenza di quello che si è verificato, per esempio, nell'Umbria, scarsissimi e quasi nulli furono i rinvenimenti del Paleolitico inferiore (tipi di Chelles e di Saint-Acheul), mentre abbondano invece quelli del Paleolitico medio e soprattutto del Paleolitico superiore. Maggiori furono ancora per l'età neolitica ed eneolitica e per la prima età del ferro.
La civiltà del bronzo costituì fino a qualche anno fa una grande e inesplicabile lacuna: se non che i trovamenti effettuati nelle grotte del Monte di Cetona (Siena) hanno messo in luce, con i resti di un vasto abitato trogloditico, le prove più imponenti di quella civiltà del bronzo di carattere indigeno, che sporadicamente era già apparsa in diverse regioni d'Italia.
Uno scavo regolare e sistematico, condotto per conto della R. Soprintendenza alle antichità dell'Etruria, ha fatto recuperare una quantità enorme di materiale della più alta importanza, che è entrato a far parte del Museo preistorico dell'Italia centrale in Perugia. Esso è soprattutto costituito da asce, spade e pugnali di bronzo, da oggetti d'osso e di corno, e da resti di ceramiche eseguite a mano recanti impressi graffiti di diverso genere.
Il rinvenimento altresì di resti umani in ottimo stato di conservazione ha permesso uno studio sicuro e completo sui caratteri antropologici di quegli antichi abitatori dell'Etruria, il cui rito inumatorio ne fa ascrivere le origini alla grande razza mediterranea.
L'iniziale penetrazione della civiltà dei metalli in Toscana è attestata da trovamenti di tombe che contengono associati oggetti di selce e di rame, come quelle di Battifolle presso Cortona e di Monte Bradoni presso Volterra.
Ma soprattutto importanti furono le scoperte relative alla prima età del ferro, o villanoviana, che segna il passaggio dalle civiltà inferiori e più antiche a quella superiore degli Etruschi. Sono da ricordare fra questi rinvenimenti quelli di Vetulonia (Grosseto), la necropoli arcaica di Populonia, il sepolcreto di Poggio della Guerruccia a Volterra, quello di Poggio Renzo a Chiusi (v. etruschi).
Le ricerche paletnologiche in Toscana fanno capo oggi all'Istituto italiano di paletnologia umana, sorto in Firenze da quel primo Comitato per le ricerche di paletnologia che abbiamo ricordato. I risultati della sua attività son resi noti nell'Archivio per la antropologia e la etnologia.
Bibl.: G. A. Colini, Materiali neolitici ed eneolitici del Lazio e della Toscana, in Bull. paletn. it., XXV (1899); A. Mochi, L'industria litica della grotta di Golino nei monti dell'Uccellina (Talamone, prov. di Grosseto), in Arch. antr. e etn., XLI (1915), fasc. 1-2; id., Nuove osservazioni sul cranio fossile dell'Olmo, ibid., LX-LXI (1930-31); A. Minto-N. Puccioni, La Buca Tana di Maggiano nel comune di Lucca, in Bull. paletn. it., XL (1914); N. Puccioni, Esplorazione sistematica della Buca del Tasso, in Arch. antr. e etn., LII (1922), fasc. 1-4; id., Gli eneolitici di Maggiano, ibid., 1914; id., Le stazioni all'aperto della Chiocciola (Valdarno superiore), ibid., XLIV e LI; A. Minto, Avanzi di suppellettili funebri appartenenti a tombe eneol. scoperte a Punta degli Stretti (Monte Argentario), in Bull. paletn. it., XXXVIII (1912), nn. 9-12; id., Suppellettili di una tomba eneol. scoperta a Pitigliano (Grosseto), ibid., 1914; C. De Stefani, La grotta di Equi nelle Alpi Apuane, ibid., XLIII (1923); L. Pernier, Deposito di bronzi trovati presso Pariana in prov. di Massa-Carrara, ibid., XLV (1925); D. Levi, Saggi di scavo nelle grotte delle Tane a Massa Marittima, in Studi etruschi, V (1931); U. Calzoni, L'abitato preistorico di Belvedere sulla montagna di Cetona, in Not. scavi, 1933, ecc.
Storia.
Per la storia antica, v. etruschi: Storia; etruria. Il nome Tuscia donde Tuscania e Toscana, noto ai Romani accanto a quello di Etruria, diventa ufficiale con l'ordinamento dioclezianeo, quando, unita l'Umbria all'Etruria, la nuova circoscrizione ebbe il nome di Tuscia et Umbria.
Medioevo. - La Tuscia nel sec. V seguiva la sorte disgraziata delle altre parti d'Italia. Venne devastata prima dagli Alamanni, fu poi sotto il dominio di Odoacre e degli Ostrogoti. Né passò molto tempo che gli Ostrogoti furono combattuti dai Bizantini per un ventennio di guerra (535-553). Essa fu fra le più disastrose che afflissero l'Italia e in particolar modo la Tuscia.
Durante il dominio longobardo (568-774) la Tuscia continuò ad avere un'unità, e formò un ducato, che ebbe centro principale a Lucca. La città assurse in quel periodo a importanza preminente su tutte le altre città della regione, forse perché più numerosi vi erano stati gli stanziamenti longobardi. Lucca continuò a essere il centro principale della Toscana anche sotto il successivo dominio dei Franchi (774), i quali istituirono la contea di Lucca. Il primo conte fu Bonifacio (812-823), venuto in Tuscia al seguito di Carlomagno; è il capostipite della famiglia comitale, che resse in Toscana per un secolo e mezzo, e che in alcuni momenti fu arbitra della corona del regno d'Italia. Bonifacio II, suo figlio (823-839), ebbe il titolo di prefetto della Corsica. Secondo la tradizione, il castello della cittadina di Bonifacio fu edificato da lui. Egli osò nell'828 con una flottiglia attaccare i Saraceni fin sulle loro coste dell'Africa, e vincerli nei pressi di Utica. È notevole come sotto i conti di Lucca si stringessero quei legami che già i Longobardi avevano annodato con la Corsica e la Sardegna: le grandi isole italiane erano attirate nell'orbita della Toscana. Questa funzione di difesa contro i Saraceni valse perché il conte di Lucca Adalberto I (845-898) fosse insignito del titolo di marchese di Toscana. A meta del sec. XI il marchesato di Toscana passa alla potente famiglia degli Attoni (v.), grandi feudatarî che aggiunsero nel 1052 il marchesato di Toscana agli aviti dominî di Canossa, di Modena, Reggio e Mantova. A questa famiglia appartenne la famosa contessa Matilde (morta nel 1118). I tempi della contessa Matilde furono quelli fortunosi delle lotte fra impero e papato, a cui Matilde prese parte, animata dalla fede, dalla grandiosità della causa, e sotto il fascino di grandi personaggi come Gregorio VII e Anselmo d'Aosta. La Toscana fu teatro anch'essa delle lotte, che vi ebbero particolare ripercussione.
Un nuovo attore partecipa ora alla lotta: il popolo delle città. Si ribella contro i vescovi simoniaci, combatte per la purità della fede, si fa avanti tra i contendenti, si libera del peso feudale, strappa concessioni, tratta in pubblico parlamento gli affari comuni, e li difende. Sorgono così le prime autonomie comunali. E se Pisa, Pistoia, Lucca avevano avuto concessioni dall'imperatore, che impersona le forze ghibelline, Firenze ne ebbe dalla contessa Matilde, animatrice delle forze guelfe. Il ghibellinismo degli uni e il guelfismo degli altri è in rapporto agl'interessi che piegano o verso l'impero o verso il papato. Questi avvenimenti politici del sec. XI si accompagnano in Toscana ad altri economici: la valle dell'Arno era fino al sec. X coperta in gran parte di paludi, su cui emergevano di tratto in tratto radure o isole, meschinamente lavorate da servi della gleba. Il territorio lucchese era disgraziato per continui allagamenti del Serchio; le maremme senese e volterrana erano interamente deserte. Un vescovo, Giovanni, che alla fine del sec. IX si era recato a visitare la maremma, descriveva le chiese in rovina, e chiamava la Toscana terra pestilenziale. Nel sec. XI una grande trasformazione economico-sociale avviene nella Toscana. Lotte feudali, ribellioni e fughe di servi, usurpazioni e perdite di terreni si risolsero spesso in concessioni e nuovi contratti agrarî. Per ricostruire una ricchezza perduta e per impedire che quel che era stato dato precariamente fosse perduto per sempre, erano concesse a semplici lavoratori terre "ad roncandum, ad estirpandum, ad prosciugandum". L'enfiteusi e il livello spezzano il latifondo, creano la piccola proprietà, stimolano al lavoro, a nuove e intense colture. Il podere e la mezzadria, coefficienti della fortuna del popolo toscano, hanno primi e lontani addentellati in quella trasformazione agraria e sociale; la quale si accompagna al contemporaneo sviluppo industriale e mercantile delle città, come Pisa, Lucca, Pistoia, Siena, Firenze e Arezzo, che avevano conservato tradizioni di tecnicismo industriale, e che ripresero dopo il sec. XI questa specifica funzione dell'attività, non mai spenta, delle città italiane. In questo sprigionarsi di vigorie nuove su vecchi ceppi di antiche città toscane arde uno spirito di attività e di lotta, che è vita e che è morte sul campo in cui le città si contendono il primato. Dal secolo XI al XII primeggiano Lucca e Pisa e si combattono; Pisa, la vittoriosa nel Tirreno, la città dei mercanti crociati, prevale; la Toscana in gran parte e tutto il Valdarno gravita sul suo porto. Ma nel Tirreno potente rivale è Genova, e a Genova si alleano con trattati di commercio le città toscane guelfe, nemiche di Pisa. La lotta commerciale diventa guerra navale; e alla Meloria Pisa è disfatta (1284) e la sua potenza declina rapidamente.
È l'ora di Firenze. A essa cede Pistoia a patti; a essa si abbassa Arezzo vinta a Campaldino (1289). S'inizia la sua egemonia regionale. Parve, nella prima metà del Trecento, che Uguccione della Faggiuola, signore di Lucca e di Pisa, vittorioso dei Fiorentini (1315) e poi Castruccio Castracane, anch'egli signore di Lucca e di Pisa, e anch'egli vittorioso dei Fiorentini (1325), fossero per compiere, con una grande signoria nella Toscana, l'opera unificatrice della regione, ma la signoria finì con la morte di quei signori. Firenze riprese allora con maggior fortuna la sua espansione: nel 1406, con la conquista di Pisa, aveva già sotto il suo dominio quasi tutta la Toscana. Lucca e Siena conservavano la loro indipendenza: poi Siena cadrà; Lucca sopravviverà, chiusa nel suo piccolo guscio.
I secoli XI-XIV furono per l'Italia, e per la Toscana in particolar modo, quelli in cui sopra la trama comune romano-cristiano-germanica si tessé l'italianità. Roma tornò nel sentimento, nel culto del diritto romano e nella realtà della vita del comune italiano. Pisa che, come notammo, è per ordine di tempo il primo più importante centro della Toscana comunale, vanta la gloria di avere conservato, quasi sacra reliquia, il volume più antico delle Pandette, e di avere, mercé queste, promosso lo studio del diritto romano. La romanità è per il cittadino del comune toscano il titolo più puro di nobiltà. In quei secoli la Toscana, e in particolar modo Firenze, va innanzi a tutte le altre regioni in questa prima formazione spirituale d'italianità. A Firenze fiorisce il nuovo volgare, che nel sec. XIII acquista valore di strumento d'opera d'arte, e si diffonde per tutta l'Italia, e prevale su tutti i dialetti, come lingua letteraria nazionale. Toscana è la patria dei grandi italiani del Trecento, i padri della nazione italiana. Alle sorgenti della storia moderna d'Italia si trova Dante: egli sentì potentemente l'unità storica e morale dell'Italia. Con il sec. XV, con il Rinascimento la funzione storica della Toscana e di Firenze in particolar modo si spiega in campo più vasto; essa dà un apporto tra i più possenti al Rinascimento, che è quanto dire alla civiltà dell'Europa moderna, che dal Rinascimento italiano trae tanta parte delle sue origini e delle sue forze.
Firenze piegò tardi verso la signoria. Quando tale regime aveva fortuna e potenza nell'Italia settentrionale, Firenze alla seconda metà del Trecento esperimentava le forme più democratiche comunali, ed esauriva il suo sforzo di concessioni delle più ampie libertà comunali nel triennio 1378-1382, di governo delle arti minori. Prevalse nel 1382 il forte governo oligarchico, che per mezzo secolo resse la repubblica, e riuscì a conservare la minacciata indipendenza e l'egemonia nella Toscana. Nel 1430 l'oligarchia è costretta a cedere il potere alla signoria dei Medici. Ebbero costoro forze d'ingegno politico e grandi uomini di stato. Per un secolo la signoria medicea si resse conservando le forme comunali, ma accentrando in sé tutti i poteri dello stato. In quel periodo, dal 1430 al 1530, per due volte fu ricostituito il regime repubblicano (1494-1512 e 1527-1530), ma esso non riuscì ad affermarsi, soprattutto per colpa di quei repubblicani, che in fondo miravano alla restaurazione di forme oligarchiche nell'interesse personale e municipale, con sacrificio cioè della regione a vantaggio della città dominante. Dopo il famoso assedio di Firenze del 1530, Carlo V restaurava il governo mediceo con Alessandro de' Medici.
Principato mediceo. - L'assedio del 1530 segna dunque, con la fine della repubblica, l'inizio del principato mediceo in Toscana, principato che nasceva si per un accordo tra il papa Clemente VII e l'imperatore Carlo V e quindi per l'azione di forze esterne; ma rispondeva anche a una necessità storica. La repubblica fiorentina lentamente era riuscita ad assoggettare la maggior parte della regione toscana; ma la città dominante non aveva saputo o potuto dare unità politica allo stato che s'era formato. Le tendenze separatiste, residuo del vecchio spirito comunale, non si erano mai spente, e la repubblica ne aveva fatto dura prova proprio durante la crisi dell'assedio, perché alcune delle città soggette, invece di porgerle aiuto, le si erano ribellate. Né unità politica, né unità morale. L'affermarsi di una larvata signoria medicea nel secolo precedente all'assedio e la vana ricerca di una miglior forma di governo erano il sintomo manifesto di una crisi di regime, destinata a produrre un radicale mutamento costituzionale.
Questo mutamento cominciò con Alessandro de' Medici, che un diploma di Carlo V nominava signore della repubblica fiorentina. Il titolo mirava a salvare le forme, mentre la repubblica cittadina si veniva trasformando in principato toscano. Ad una ad una caddero le antiche magistrature comunali, delle quali scomparve anche il nome. Con la costituzione del 1532, Alessandro, ora "duca di Firenze", assumendo l'autorità già spettante al gonfaloniere di giustizia, si circondò di quattro consiglieri scelti nel Senato dei Quarantotto, emanazione alla sua volta del Consiglio dei Dugento, costituito di persone fedeli ai Medici. Governo tirannico, fu detto, che tendeva a farsi amica la plebe e a perseguitare i sospetti e i nemici, allo scopo di consolidarsi nel potere. Ma se anche c'era un fondo di verità nelle accuse, certo è che Alessandro, con le riforme operate, gettò i primi fondamenti dello stato regionale. Né la morte, che lo colse inaspettata sotto il pugnale del cugino Lorenzino, valse a fermare il processo unificativo, che veniva continuato e condotto alla perfezione da Cosimo I, succeduto ad Alessandro nel 1537.
Cosimo, proclamato "capo e primario del governo della città di Firenze e suo dominio" dal Senato dei Quarantotto, avrebbe dovuto continuare la finzione della sopravvivenza del regime repubblicano mediante la formazione di un governo misto con una rappresentanza del ceto nobiliare. Ma la condotta dei fuorusciti, che tentarono, armata mano, di assalire Firenze, condusse a un accentramento di poteri, che fece naufragare la speranza di un governo temperato e ridusse a semplici comparse gli stessi organi costituzionali creati da Alessandro.
Il principato, che oramai si poteva considerare stabilito di fatto, territorialmente continuava a dominare lo stato fiorentino quale lo aveva formato e lasciato la caduta repubblica, alla quale non erano bastate né le forze né il tempo per estendere i confini a tutta la regione toscana. La politica di espansione di Cosimo I riuscì in gran parte a raggiungere l'intento, soprattutto con la guerra di Siena (1554-1555), che portò all'annessione del territorio dell'antica é irriducibile rivale di Firenze. La sola repubblica di Lucca continuò a conservare la sua autonomia e poté sottrarsi al principato mediceo, sebbene Cosimo non avesse mancato di guadagnarla a sé durante la congiura di Francesco Burlamacchi (1546).
Le conquiste territoriali furono accompagnate e seguite da riforme politiche, amministrative, giudiziarie, finanziarie, che conferirono assetto omogeneo al principato toscano, il quale, se anche conservò un apparente separazione tra "stato vecchio" (fiorentino) e "stato nuovo" (senese), effettivamente ebbe carattere di stato unitario e consacrazione solenne con l'elevazione a granducato per opera di Pio V (1569). Se non vi fossero state le opposizioni della Francia e della Spagna, dello stato toscano avrebbe fatto parte anche l'isola di Corsica, offerta a Cosimo I insieme col titolo regio (1567).
Il principato di Francesco I, figlio primogenito di Cosimo (1574-1587), trascorse scialbo e senza onore, anche per lo scandalo suscitato dagli amori del granduca con Bianca Cappello, da lui poi sposata e portata sul trono. Piccole riforme che sostanzialmente lasciarono immutata la struttura dello stato; qualche lodevole impresa, che fu peraltro continuazione d'iniziative paterne, come quella dell'ampliamento della città e del porto di Livorno, destinati a diventare il grande emporio marittimo del granducato.
Morto senza discendenza, Francesco lasciava il trono al fratello minore Ferdinando I (1587-1609) che abbandonava la porpora cardinalizia per le cure dello stato. Si ebbe sotto il figlio cadetto di Cosimo I una ripresa della politica paterna. Alla raggiunta e consolidata unità statale conveniva che seguisse l'indipendenza dalla soggezione straniera, che gravava sul granducato quasi come espiazione delle sue origini. Esso era nato col patrocinio dell'impero, si era ingrandito con l'aiuto e col riconoscimento della Spagna, e della Spagna doveva accettare la pesante protezione. Ferdinando I tentò di svincolarsene con una politica favorevole alla Francia, alla quale lo spingevano anche rapporti familiari per il suo matrimonio con Cristina di Lorena, contratto sotto gli auspici di Caterina de' Medici. Al mutamento non era stato estraneo pure un sentimento di gelosia per le crescenti fortune del ducato sabaudo ligio alla Spagna, che si era impadronito del marchesato di Saluzzo. Questo egli sperò di ottenere per compra dalla Francia, quando la Francia ne fosse tornata in possesso.
Rivalità con i duchi di Savoia e ardente desiderio d'ingrandimenti territoriali (significativa a tal proposito l'occupazione del castello d'If in un'isola dominante il porto di Marsiglia, che portò a un allentamento, se non a una rottura, del legame di sudditanza alla Spagna) condussero il granducato di Toscana, vissuto fino allora modestamente chiuso in sé stesso, a inserirsi nella politica europea. Ferdinando I ebbe molta parte nella conversione di Enrico IV, e nel riconoscimento di lui a re di Francia, cui seguì il matrimonio dello stesso Enrico con Maria, figlia del precedente granduca. Vero è che grandi vantaggi non trasse Ferdinando da questa politica, perché, tra l'altro, il trattato di Lione gli tolse la speranza di ottenere il marchesato di Saluzzo, che fu lasciato ai Savoia.
La rinunzia, per l'opposizione di forze ostili, ai bramati ingrandimenti territoriali fu sprone per il terzo granduca a cercare qualche gloria nelle imprese marinare, servendosi dei Cavalieri dell'Ordine di S. Stefano fondato da Cosimo I. Iniziò anche, ma non poté portare a compimento, una spedizione nel Brasile per un tentativo di colonizzazione.
All'interno si venne operando, per merito di Ferdinando I, una maggior fusione e concordia di rapporti tra sovrano e sudditi, e scomparvero tante odiosità suscitate dalla politica necessariamente dura e dispostica dei primi due granduchi. E fu merito anche di Ferdinando l'aver dato incremento all'agricoltura con larghe bonifiche nella Valdichiana nella maremma senese, nel Pisano.
Gli undici anni di principato di Cosimo II, primogenito di Ferdinando I, asceso al trono a diciannove anni e morto a trentuno (1610-1621), trascorsero senza notevole importanza. Continuatore della politica di equilibrio tra Francia e Spagna, non ebbe però del padre l'ingegno, l'autorità e l'energia; e la Spagna fece valere i suoi diritti per i patti della capitolazione di Siena, obbligando la Toscana a fornire un contingente di truppe per la difesa di Vienna. L'Ordine di S. Stefano, in compenso, fece, sotto Cosimo II, le ultime prove nella lotta contro i Turchi, chiudendo il ciclo dei suoi fasti militari.
Ferdinando II, figlio di Cosimo II (1621-1670), non aveva che dieci anni quando il padre morì, cosicché per un settennio la Toscana fu governata da un consiglio di reggenza, nel quale ebbero parte principale due donne, la nonna del piccolo granduca, Maria Cristina, e la madre Maria Maddalena. Governo debole e, sotto certi aspetti, come per i provvedimenti in materia economica, dannoso. A un atto di debolezza si dovette anche la rinunzia al ducato di Urbino, appartenente alla figlia dell'ultimo duca Vittoria della Rovere, promessa sposa di Ferdinando II. Le condizioni non migliorarono quando egli raggiunse l'età maggiore perché, per lungo tempo, continuò a tollerare che le tutrici si occupassero degli affari dello stato. Peste e guerra accrebbero le difficoltà. Dalla guerra Ferdinando II cercò di tenersi lontano; ma non poté evitare di fornire i soliti aiuti alla Spagna in occasione del conflitto per la successione del Monferrato. Durante il quarto periodo della guerra dei Trent'anni, prese anche l'iniziativa della formazione di una lega degli stati italiani, ma non riuscì a portarla a conclusione. Costretto a intervenire nella guerra di Castro, anche a difesa del cognato Odoardo Farnese, e alleatosi con Venezia e con Modena, sostenne della guerra il peso maggiore senza ottenerne alcun beneficio diretto. A questi risultati negativi di politica estera corrispose una fiacca politica interna, alla quale contribuivano, oltre la scarsa capacità ed energia del principe, anche i danni causati dal morbo, che colpì la Toscana a pari delle altre regioni d'Italia, e le spese militari.
Il granducato mediceo declinava sempre più, mentre, di generazione in generazione, si aggravava la decadenza fisica della dinastia. Il figlio di Ferdinando II, Cosimo III (1671-1723), angustiato dalle sventure domestiche per l'infausto matrimonio con Margherita d'Orléans e amareggiato poi dal pensiero della mancanza della successione, lasciò che le sorti dello stato andassero alla deriva. Uomo per giunta senza volontà e di un pietismo religioso spinto fino alla superstizione, peggiorò le condizioni del paese all'interno; e, mentre nei congressi internazionali si discuteva della successione medicea, egli rimase assente, o volle che i suoi rappresentanti vi sedessero in veste di spettatori. Così quando, prevedendo la fine della dinastia dopo la morte dell'unico figlio superstite Giangastone, credette di poter disporre liberamente dello stato, prima con un disegno di restaurazione repubblicana, poi chiamando al trono la sorella Anna Maria, vedova dell'elettore palatino del Reno, ebbe la dolorosa delusione di veder assegnato il granducato, col trattato di Londra del 1718, a don Carlo di Spagna, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese.
Giangastone (1723-1737) succedeva perciò al padre come un usufruttuario, che sa di non poter disporre dei beni in suo possesso; Carlo di Spagna mandava a presidiare con le sue truppe il paese. Tuttavia, l'ultimo granduca mediceo, nonostante la triste fama che ne rimase per la vita dissoluta, diede qualche segno di rinnovamento soprattutto nella politica interna; rinnovamento nel quale non era estraneo il nuovo clima storico del primo Settecento italiano. E ne derivò qualche vantaggio all'economia pubblica: anticipazione significativa del movimento riformatore, che avrà il suo completo sviluppo per opera di altri nella seconda metà del secolo.
La pace che seguì alla guerra di successione polacca riservò al granducato di Toscana un destino diverso da quello che gli era stato stabilito col trattato di Londra. Fu assegnato a Francesco Stefano, duca di Lorena, in compenso del suo stato ceduto a Stanislao Leszczyński. Il 9 luglio 1737, Giangastone moriva e il principe di Caron, in nome di Francesco Stefano di Lorena, prendeva possesso del granducato.
Principato lorenese. - La nuova dinastia poneva la Toscana in condizioni di maggior sudditanza a una potenza straniera. Francesco Stefano di Lorena aveva sposato da poco Maria Teresa, figlia dell'imperatore Carlo VI e, in forza della prammatica sanzione, suo erede. Si era cioè costituito un legame con la casa d'Austria a tutto danno dell'indipendenza del granducato, anche nel caso che fosse stata rispettata la disposizione dello stesso Carlo VI, che vietava d'incorporare la Toscana ai suoi stati ereditarî e riservava la successione alla linea collaterale. Così il granducato, che era stato pressoché assente dalla politica europea sotto gli ultimi sovrani medicei, si trovò ridotto a satellite dell'Austria.
Il primo granduca lorenese faceva il suo ingresso nella capitale toscana ai primi del 1739 avendo a fianco la moglie; visitava poi le maggiori città e ripartiva dopo breve soggiorno, lasciando a governare un consiglio di reggenza presieduto dal conte Emanuele di Richecourt.
Gl'inconvenienti già accennati della dinastia straniera furono largamente compensati dall'azione rinnovatrice esercitata in tutti i campi della politica interna. Gli effetti si avvertirono durante il governo della reggenza; furono anche più manifesti quando, alla morte di Francesco Stefano (1765), che fin dal 1745 era diventato imperatore, successe al trono toscano il suo secondogenito Pietro Leopoldo (1765-1790). Furono restaurate le finanze e fu ridotto il debito pubblico: una politica economica con indirizzo liberista migliorò notevolmente le condizioni del paese, soprattutto mediante provvedimenti intesi a rompere o allentare i vincoli posti alla proprietà, a sopprimere privilegi feudali. Pietro Leopoldo riprese e continuò con maggiore slancio le riforme avviate: curò le bonifiche e il ripopolamento di territorî malsani, aprì vie di comunicazione, favorì l'agricoltura con la formazione della piccola proprietà. Non meno importanti le riforme amministrative, che mirarono a rispettare le autonomie locali, temperate però dalla vigilanza di un organo centrale; e le riforme giudiziarie col riordinamento della magistratura giudicante e la soppressione di vecchi sistemi inquisitorî. E non vanno dimenticate le riforme ecclesiastiche, che portarono a qualche conflitto con la Chiesa, anche perché ispirate dal vescovo di Pistoia Scipione de' Ricci, fattosi promotore di un movimento giansenista, che ebbe larghe ripercussioni in Toscana e fu condannato dal papa.
Opera vasta, profonda, illuminata, della quale tuttavia molto merito va attribuito alla nuova classe dirigente che si era venuta formando fin dagli ultimi tempi del principato mediceo. Uomini che, con lo studio e con i viaggi, avevano intravisto orizzonti nuovi, e applicando le teorie apprese a problemi pratici, avevano secondato e talvolta promossa l'azione riformatrice del governo. Ond'è che questa deve essere riguardata non come effetto esclusivo di un impulso venuto di fuori, ma come effetto anche di uno spirito nuovo maturato all'interno.
Nel 1790, per la morte dell'imperatore Giuseppe II, Pietro Leopoldo veniva assunto al trono imperiale e cedeva il granducato di Toscana al figlio secondogenito Ferdinando (III come granduca), confermandone l'indipendenza dall'Impero. Un breve periodo di reggenza seguito tra la partenza di Pietro Leopoldo e l'insediamento di Ferdinando III offrì buona occasione agli scontenti del nuovo ordine di Lose per suscitare subbugli, che portarono alla soppressione o modificazione di una parte delle leggi leopoldine in materia ecclesiastica e in materia economica. Il granduca, assunto al trono, invece di opporsi alle pretese degli scontenti, parve piuttosto incline a secondarle. Ma intanto eventi molto più gravi si venivano preparando per la Toscana.
Gli eserciti della rivoluzione invadevano l'Italia. L'inerme granduca cercò salvezza in una dichiarazione di neutralità, che non soddisfece né gl'invasori né le potenze coalizzate d'Europa. La Toscana fu occupata dalle armi francesi una prima volta nel marzo 1799, costringendo Ferdinando III a partire. Sgombrata poche settimane dopo, seguirono tumulti reazionarî specialmente nelle campagne, finché gli Austriaci non vennero a ristabilire l'ordine e a rimettere il granduca sul trono. Occupata di nuovo nel 1800, per il trattato di Lunéville tra Napoleone I e l'imperatore d'Austria, fu assegnata a Ludovico di Borbone, figlio del duca di Parma, col titolo di re d'Etruria.
Regno effimero durato appena sei anni (1801-1807), che non portò alcuna innovazione e, nell'ultimo periodo, quando cioè per la morte di Ludovico il governo fu assunto dalla moglie come tutrice del minore Carlo Ludovico, cadde in uno stato di marasma, mentre il paese veniva occupato da truppe francesi, spagnole, parmensi.
Col trattato di Fontainebleau del 1807, la Toscana, divisa in tre dipartimenti (dell'Arno, del Mediterraneo, dell'Ombrone) veniva annessa all'impero francese. I Toscani, amareggiati della perdita della loro autonomia e del veder ridotto il loro paese a particella dell'impero napoleonico, ottennero come compenso la piccola soddisfazione di una granduchessa nella persona di Elisa Baciocchi, la quale però non esercitò alcun potere, essendo la Toscana governata da Parigi con un ordinamento politico e amministrativo in tutto conforme all'ordinamento dei dipartimenti francesi. Dal non lungo periodo di dominio straniero la Toscana trasse tuttavia qualche beneficio per notevoli miglioramenti e riforme.
Dopo l'invasione della Francia da parte degli eserciti collegati nel 1814, la Toscana fu tenuta per alcuni mesi dalle truppe napoletane di Gioacchino Murat. Decisa la reintegrazione di Ferdinando III nei suoi stati, con la convenzione di Parma, il granduca, nel settembre di quello stesso anno, tornava sul trono.
Far corrispondere il confine politico dello stato toscano al confine geografico della regione era stato proposito non completamente attuato del primo granduca; i successori non se ne erano più dato pensiero. Fu il Congresso di Vienna a deciderlo, pur differendone in parte l'esecuzione. Immediatamente il granducato ottenne lo Stato dei presidî già appartenente al regno di Napoli, parte dell'isola d'Elba e il principato di Piombino con le sue dipendenze (feudi imperiali di Vernio, Montauto e Monte S. Maria). Alla morte di Maria Luisa, moglie di Napoleone I, sarebbe stato annesso alla Toscana anche il ducato di Lucca.
La restaurazione significò anche per la Toscana un ritorno al passato. Ma se si considera che le riforme introdotte nel paese in più di mezzo secolo di governo lorenese erano state in gran parte anticipazione del programma napoleonico, ben poco c'era da restaurare. Si tornò bensì agli ordinamenti politici preesistenti all'occupazione francese; ma nel resto tutto rimase immutato. E molte delle innovaziopi del regime napoleonico furono conservate, come il codice di commercio, il sistema ipotecario, la pubblicità dei giudizî, lo stato civile. In materia ecclesiastica si tornò alla legislazione leopoldina; furono soltanto ripristinate le corporazioni religiose. Non si trattò insomma come in altri stati italiani d'un balzo all'indietro, fuorché nell'autonomia municipale, essendosi stabilito che le nomine dei gonfalonieri e della metà dei priori fossero fatte dal sovrano. Ma si ebbe d'altra parte la formazione del nuovo catasto, cui attese un'apposita commissione diretta da Giovanni Inghirami, il quale intraprese per questo scopo la triangolazione di tutto il territorio del granducato. E si possono aggiungere altre minori iniziative a favore della pubblica beneficenza, dell'istruzione, delle belle arti. Da ciò, per riflesso, un orientamento tutto speciale dello spirito pubblico, che in Toscana fu scarsamente sensibile alle sobillazioni delle sette e dei partiti avversi ai regimi restaurati.
Le società massoniche e carbonare non attecchirono e, se anche riuscirono a fare pochi proseliti, non diedero alcun pensiero alla polizia. Così le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte del 1820-21 passarono in Toscana pressoché inosservate. Che nuovi destini maturassero per l'Italia, dai quali non poteva restare assente il granducato, si avvertiva vagamente; ma i soli a presentirne e cercarne le vie, furono uomini della classe colta, che debbono considerarsi continuatori del ceto dirigente che, sotto i primi lorenesi, aveva preparato e attuato il movimento riformatore.
Nel 1824 a Ferdinando III succedeva il figlio Leopoldo II, uomo mite che, ispirandosi all'esempio paterno, mirò a cattivarsi la benevolenza dei sudditi con alleviamenti fiscali e con l'impresa del bonificamento del Grossetano, una delle maggiori benemerenze del suo principato. Tollerante e sicuro del lealismo del suo popolo, non negò ospitalità ai profughi politici degli altri stati italiani, tra le proteste del re di Napoli e dell'imperatore d'Austria. In questo ambiente tranquillo e quasi sotto la protezione del sovrano, cominciò a svolgere l'opera sua un cenacolo di intellettuali che, rivolgendo la loro attenzione a problemi sociali ed economici dapprima sotto la veste di studiosi, poi facendosi promotori di riforme, prepararono il rinnovamento civile e politico della Toscana.
Si raccolsero attorno a G. P. Vieusseux, un cittadino ligure di origine svizzera, che aveva aperto nel 1819 un gabinetto di lettura a Firenze e aveva poi intrapresa la pubblicazione d'una rivista, L'Antologia, di sensi e intenti schiettamente italiani, chiamandovi a collaborare i migliori scrittori senza prevenzione d'idee e di partito. Al periodico destinato alle classi intellettuali, altri ne seguirono di carattere popolare: il Giornale agrario, la Guida dell'educatore, le Letture di famiglia. Dalla propaganda scritta si passò all'azione diretta e furono fondati asili infantili, scuole popolari, casse di risparmio e anche un istituto agrario. Piccolo nucleo di uomini appartenenti specialmente alla nobiltà e alle professioni liberali, i quali costituiranno poi il partito moderato toscano: tra essi, Gino Capponi, Cosimo Ridolfi, Raffaello Lambruschini, Bettino Ricasoli, Vincenzo Salvagnoli. All'Austria sospettosa e vigilante non sfuggì il carattere di quel movimento e, nel 1833, impose al granduca la soppressione dell'Antologia. Ciò tuttavia non impedì che qualche anno dopo, lo stesso granduca si facesse promotore del primo e del terzo congresso degli scienziati italiani, tenuti a Pisa e a Firenze nel 1839 e nel 1841, dove, se anche - com' è naturale - non apertamente confessato, era implicito il proposito di un'affermazione d'italianità.
Nel 1847, il granducato raggiungeva i suoi confini naturali con l'annessione del ducato di Lucca assegnatogli dal Congresso di Vienna. Ma ciò avvenne non senza qualche sacrificio, perché si dovettero cedere ai ducati di Modena e di Parma, Fivizzano, Pontremoli, Bagnone.
Tutta l'Italia intanto era in fermento per le riforme politiche, e la Toscana ne fu presa anch'essa. Le concessioni del papa e del re di Sardegna indussero il granduca a fare altrettanto: libertà di stampa, guardia civica, e infine lo statuto. Fu l'ora di fortuna del partito moderato, che non invano aveva lavorato per preparare il paese. Instaurato il regime costituzionale, assunse la carica di presidente del consiglio dei ministri Cosimo Ridolfi. Scoppiata nel 1848 la guerra contro l'Austria, milizie volontarie e regolari toscane vi parteciparono; né fu senza gloria, poiché il battaglione universitario toscano si coprì di gloria nel fatto d'arme di Curtatone e Montanara.
I rovesci militari della prima guerra d'indipendenza ebbero ripercussioni gravi all'interno del granducato. A un breve ministero Capponi seguì, per il prevalere della fazione demagogica, un ministero Guerrazzi-Montanelli, che avrebbe voluto imporre a Leopoldo II una costituente nazionale da convocare a Roma. Dopo qualche indecisione, il granduca preferì andarsene, e si recò prima a Siena, poi a Porto S. Stefano, infine a Gaeta. Dopo la fuga di Leopoldo II, gli avvenimenti precipitarono. A un triumvirato Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni succedeva la dittatura del solo Guerrazzi, che scontentò tutte le classi cittadine e provocò un movimento di reazione con la conseguente caduta del dittatore. Così, preceduto da un corpo di truppe austriache, il granduca tornava nei suoi stati (28 luglio 1850).
Il decennio 1849-59 rappresentò il rinnegamento della politica del ventennio precedente. Mentre Leopoldo II veniva perdendo agli occhi dei sudditi il carattere di sovrano tollerante, benevolo e, in molte circostanze, anche sollecito dell'indipendenza del suo stato da inframmettenze straniere, l'azione dei partiti antidinastici che aveva avuto fino allora scarsa efficacia, cominciò a trovare terreno adatto. I proseliti di Mazzini crebbero di numero; si costituirono associazioni mazziniane a Firenze e a Livorno. L'attentato politico, sconosciuto in Toscana, fece le prime prove, e uno dei colpiti, sia pure senza conseguenze cruente, fu lo stesso presidente del consiglio dei ministri Giovanni Baldasseroni.
Perdettero ogni fiducia nel sovrano anche i liberali moderati, ai quali fu tolta la possibilità di continuare la loro opera di bene. E non potendo manifestare altrimenti la loro voce di protesta intrapresero, nel 1857, la pubblicazione di una Biblioteca civile dell'italiano, iniziatasi con l'"Apologia delle leggi di giurisdizione di Pietro Leopoldo" e chiusasi, alla vigilia della rivoluzione, con "Toscana e Austria", che volle essere un atto di accusa contro la rassegnata resa del governo granducale alle sopraffazioni austriache. Intanto, cominciava ad operare anche la Società nazionale del Lafarina col suo programma unitario monarchico a favore della dinastia sabauda. Di essa fu principale animatore il marchese Ferdinando Bartolommei che, con la passiva tolleranza del governo, prese l'iniziativa di reclutare giovani toscani come volontarî per la prossima guerra contro l'Austria.
Così l'ultima risolutiva fase del risorgimento politico italiano trovava la Toscana, divisa di tendenze, ma unita nel considerare il governo granducale impari alla situazione e in contrasto col sentimento e con le aspirazioni del paese. Il rifiuto di aderire all'alleanza col Piemonte e a partecipare all'ormai sicura guerra contro l'Austria destò un senso di mortificazione e di rivolta nello stesso esercito, che tra il 24 e il 26 aprile 1859, diede non dubbî segni d'indisciplina. Un pronunciamento militare minacciava, anche più seriamente dell'azione dei partiti politici, le sorti della dinastia lorenese.
Il 27 aprile, nonostante gl'inutili tentativi dei moderati, il granduca si rifiutò di condiscendere alla volontà del popolo e dell'esercito: né gli valse all'ultima ora l'accettare anche l'umiliazione di abdicare a favore del figlio. Troppo tardi. Fu costretto a partire con tutta la famiglia, forse con la segreta speranza del ritorno, come dieci anni prima; ma gli avvenimenti che seguirono mutarono la speranza in delusione. Quel giorno segnò, con la fine della dinastia lorenese, la fine del granducato di Toscana.
Un governo provvisorio presieduto da Ubaldino Peruzzi offrì al re di Sardegna Vittorio Emanuele II la dittatura, che non fu accettata per motivi di carattere internazionale; fu invece accettato un protettorato per il periodo della guerra con la nomina di un commissario straordinario nella persona di Carlo Boncompagni, già ministro piemontese a Firenze. A capo del nuovo ministero fu posto Bettino Ricasoli che, da quel momento, con ferrea volontà ed energia, condusse la Toscana verso l'unione al Piemonte per il compimento del programma unitario nazionale, sventando anche il disegno di Napoleone III per la formazione di un regno dell'Italia centrale da assegnare al cugino Girolamo Napoleone.
Il 15 marzo 1860 il popolo della Toscana votava con plebiscito l'unione al regno sardo; e il voto fu accolto da Vittorio Emanuele II, auspicio e impulso all'unificazione politica di tutta la penisola, che doveva diventare fatto compiuto un anno dopo con la proclamazione del regno d'Italia, di cui Firenze fu capitale per il quinquennio 1865-1870.
Bibl.: Storie generali: F. Inghirami, Storia della Toscana, Firenze 1841-43, voll. 7; A. Desjardins, Négociations diplomatiques entre la France et la Toscane, Parigi 1859-76, voll. 6 (1311-1610); F. Schillmann, Florenz u. die Kultur Toskanas, Vienna 1929; trad. franc., Parigi 1931.
Medioevo. - Storie generali: L. Pignotti, Storia della Toscana sino al principato, Firenze 1821, voll. 5; F. Schneider, Die Reichsverwaltung in Toscana (568-1268), I, Roma 1914.
Storie particolari: Periodo barbarico: J. Jung, Zur Landeskunde Tusciens, in Beiträge zur alten Gesch. u. griech.-römischen Alterthumskunde, 1905 (topografia della Toscana fino al sec. XII); C. Della Rena e I. Camici, Della serie degli antichi duchi e marchesi di Toscana, Firenze 1764-71; A. Falce, Documenti inediti dei duchi e marchesi di Tuscia (sec. VII-XII), in Arch. stor. ital., LXXXV (1927); LXXXVI (1928), con bibl.; id., Contributo alla diplomatica dei duchi e march. di Tuscia, ibid., LXXXIII (1925); id., La formazione della Marca di Tuscia (secoli VIII-IX), Firenze 1930; id., Il marchese Ugo di Toscana, ivi 1923; id., Bonifacio di Canossa, padre di Matilde, Reggio E., 1926-27, voll. 2; E. Dupréel, Histoire critique de Godefroid le Barbu, Bruxelles 1904; A. Overmann, Gräfin Mathlde von Tuscien, Innsbruck 1895; N. Duff, Matilda of Tuscany, Londra 1909; L. Tondelli, Matilda di Canossa, 2a ed., Reggio E. 1925; N. Grimaldi, La contessa Matilde e la sua stirpe feudale, Firenze 1928; A. Cerlini, I "boni homines" nei domini matildici, in Miscell. Rangoni, Reggio E. 1911; H. Hirsch, Die Urkunden d. Markgrafen Konrad von Tuscien, in Mitteil. d. Inst. f. Österr. Gesch. Forsch., XXXVII (1916).
Periodo comunale e delle signorie. - Oltre alla bibl. delle diverse città toscane e di Firenze in particolare, anche: L. Chiappelli, La formazione storica del comune cittadino in Italia, in Arch. stor. ital., LXXXIV-LXXXVIII (1926-30); G. Mengozzi, Il comune rurale nel territorio lombardo-tosco, in Studi Senesi, XXXI (1915); P. Vaccari, L'affrancazione dei servi della gleba nell'Emilia e nella Toscana, Bologna 1926; R. Davidsohn, Origine del consolato, in Arch. stor. ital., 1892; id., Über die Entstehung d. Konsulats in Toscana, in Hist. Vierteljahr., 1900; E. Sestan, Ricerche intorno ai primi podestà toscani, in Arch. stor. ital., LXXXII (1924); A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante, 1265-1321, Roma-Genova 1901-1903, voll. 4; S. Terlizzi, Documenti su le relazioni tra Carlo I d'Angiò e la Toscana, I, Firenze 1914; G. Volpe, Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300, in Studi storici, XI (1902); P. Silva, Giacomo II d'Aragona e la Toscana (1307-1309), in Arch. stor. ital., LXXI (1913); F. Baldasseroni, Relazioni tra Firenze, la Chiesa e Carlo IV (1353-55), ibid., s. 5a, XXXVI (1906); F. Landogna, La politica dei Visconti in Toscana, Milano 1928; A. Rossi, La guerra in Toscana nell'anno 1447-48, Firenze 1903; G. Müller, Documenti sulle relazioni delle città toscane con l'Oriente cristiano e coi Turchi, ivi 1879; G. Sarfatti, Le artiglierie toscane dei secoli XIV e XV, in Atti della Soc. Colombaria, 1934; R. Palmarocchi, La politica italiana di Lorenzo de' Medici, Firenze 1933; A. Anzilotti, La crisi costituzionale della repubblica fiorentina, ivi 1912; C. Roth, L'ultima repubblica fiorentina, ivi 1929; A. Valori, La difesa della repubblica fiorentina, ivi 1929; P. Falletti Fossati, L'assedio di Firenze, Palermo 1883.
Ducato e granducato. - Storie generali: A. v. Reumont, Gesch. Toscana's seit dem Ende florentinische Freistaatest, Gotha 1876-77, voll. 2.
Periodo mediceo. - Storie generali: R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della Casa Medici, Firenze 1771; G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, ivi 1925, voll. 3 (anche per i personaggi di Casa Medici prima del principato).
Storie particolari: L. A. Ferrari, Cosimo de' Medici duca di Firenze, Bologna 1882; V. Maffei, Dal titolo di duca di Firenze e Siena a granduca di Toscana, Firenze 1905; A. Anzilotti, La costituzione interna dello stato fiorentino sotto il duca Cosimo I de' Medici, ivi 1910; L. Carcereri, Cosimo I granduca, Verona 1926-29, voll. 3; L. v. Ranke, Filippo Strozzi u. Cosimo de' Medici, in Hist.-biogr. studien, Lipsia 1877; L. Staffetti, La congiura del Fiesco e la corte di Toscana, in Atti della Società lig. di st. patria, XXIII (1891); G. E. Saltini, Bianca Cappello e Francesco II, in Rassegna naz., 1898-1900; P. Usimbardi, Istoria del granduca Ferdinando I, a cura di E. Saltini, in Arch. stor. ital., s. 4a, VI (1880); U. Uzielli, Cenni storici delle imprese scientifiche, marittime e coloniali di Ferdinando I, Firenze 1901; G. Imbert, La vita fiorentina nel Seicento secondo memorie sincrone (1644-1670), ivi 1906 (2a ed., ma senza append. bibl. e col titolo Seicento fiorentino, Milano 1930); P. Paoli, Notes sur les relations littéraires entre la France et la Toscane au temps du granduc Cosme III, in Mélanges de philol. et d'histoire... offerts à H. Hauvette, Parigi 1933.
Per il trapasso dei Medici ai Lorena: L. Grottanelli, Gli ultimi principi della Casa De' Medici e la fine del granducato di Toscana, Pistoia 1897; L. Bruni, Il progetto di restaurare la repubblica fiorentina all'estinzione della Casa Medici, in Rivista abruzzese, 1897; E. Robiony, Gli ultimi dei Medici e la successione al granducato di Toscana, Firenze 1905; G. Conti, Firenze dai Medici ai Lorena, ivi 1909.
Periodo lorenese. - Storie generali: A. Zobi, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848, Firenze 1850-52, voll. 5; id., Memorie economico-politiche, ossia dei danni arrecati dall'Austria alla Toscana dal 1737 al 1859, ivi 1860, voll. 2; G. Conti, Firenze dopo i Medici: Francesco di Lorena, Pietro Leopoldo, inizio del regno di Ferdinando III, ivi 1902; id., Firenze vecchia, 1799-1859, ivi 1899 (2a ed., 1928).
Storie particolari per il primo periodo lorenese: M. Eandi, Diodato Emanuele di Richecourt ministro lorenese in Toscana, Mondovì 1920; H. Büchi, Finanzpolitik Toskanas im Zeitalter der Aufklärung (1737-1790), Berlino 1915; N. Rodolico, Stato e Chiesa in Toscana durante la Reggenza lorenese, Firenze 1910; H. Büchi, Ein Menschenalter Reformen der Toten Hand in Toskana (1751-1790), ivi 1912; C. Wolfsgruber, Franz I., Kaiser v. Österreich., I, Der Kronprinz von Toscana, 1768-1784, Vienna 1899; A. Reumont, Società e corte di Firenze sotto il regno di Francesco II e Leopoldo I di Lorena, Firenze 1877; J. Zimmermann, Das Verfassungsprojekt des Grossherzogs Peter Leopold von Toscana, Heidelberg 1901; G. A. Venturi, Leopoldo I, Scipione dei Ricci e la corte romana, in Arch. stor. ital., s. 5a, VIII (1891); N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci, Firenze 1920; F. Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo I, ivi 1885; N. Rodolico, Le condizioni materiali della Toscana prima delle riforme lorenesi, in Atti della R. Accademia dei Georgofili, 1908; A. Anzilotti, L'economia toscana e l'origine del movimento riformatore, in Arch. stor. ital., LXXIII (1915); id., Le riforme in Toscana nella seconda metà del sec. XVIII, in Annali delle università toscane, Pisa 1924, e riprod. in Movimenti e contrasti per l'unità italiana, a cura di L. Russo, Bari 1930; A. Reumont, Federico Manfredini e la politica toscana dei primi anni di Ferdinando III, in Arch. stor. ital., 1877; G. Fabbroni, Contributo alla storia della economia politica in Toscana, Firenze 1897.
Periodo francese. - Il regno d'Etruria: E. A. Brigidi, Giacobini e realisti o il "Viva Maria". Storia del 1799 in Toscana, Siena 1882; C. A. Lumini, La reazione in Toscana nel 1799, Cosenza 1791; G. Lumbroso, I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII, Firenze 1932; G. Conti, La Toscana e la rivoluzione francese, ivi 1924; P. F. Covoni, Il regno d'Etruria, Parigi 1896; id., Documents sur le Royaume d'Étrurie (1801-1807), ivi 1900; G. Drei, Il regno d'Etruria, Modena 1935.
Periodo della Restaurazione fino alla rivoluzione del 1859. - P. Pieri, La Restaurazione in Toscana, Pisa 1922; L. Grottanelli, I moti politici in Toscana nella prima metà del sec. XIX, Prato 1902; G. Marcotti, Cronache segrete della polizia toscana (1814-1815), Firenze 1898; A. Baretta, Le società segrete in Toscana nel primo decennio della Restaurazione, Torino 1812; G. Baldasseroni, Leopoldo II granduca di Toscana e i suoi tempi, Firenze 1871; I. Grassi, Il primo periodo della Giovine Italia nel granducato di Toscana, in Rivista storica del Risorgimento ital., 1897; E. Michel, F. D. Guerrazzi e le cospirazioni politiche in Toscana (1830-35), Roma-Milano 1904; P. Prunas, L'Antologia di G. P. Vieusseux, ivi 1906; M. Tabarrini, G. Capponi, i suoi tempi, i suoi studi, i suoi amici, Firenze 1879; G. Gentile, G. Capponi e la coltura toscana del sec. XIX, ivi 1922; A. Panella, Gli studi storici in Toscana nel sec. XIX, Bologna 1916; F. Baldasseroni, Il Rinnovamento civile in Toscana, Firenze 1931; G. Calamari, L. Galeotti e il moderatismo toscano, Modena 1935; E. Porcelli, L'agitazione liberale toscana studiata sulle filze segrete del Buon Governo (1844-46), Palermo 1919; M. Gioli Bartolommei, Il Risorg. toscano e l'azione popolare, Firenze 1905; E. Gamerra, L'eloquenza in Toscana fra il 1847-49, Roma 1914; T. Gaudioso, Il giornalismo letterario in Toscana dal 1848 al 1859, Firenze 1922; F. Martini, Il Quarantotto in Toscana, ivi 1918; G. Scavone, Il movimento unitario repubblicano in Toscana nel '48-'49, Catania 1918; A. Foà, La politica interna del govenro provvisorio toscano (18 febb.-13 aprile 1849), in Arch. stor. ital., LXXVII (1919); L. G. Cambray-Bigny, Ricordi sulla Commissione governativa toscana del 1849, Firenze 1853; A. Gennarelli, Epistolario politico toscano ed atti diversi per servire... alla storia della restaurazione granducale, ivi 1863 (v. anche i volumi dello stesso autore, Le sventure italiane, ecc., ivi 1862 e Atti e documenti da servire... ai volumi delle Sventure... e dell'Epistolario ecc., ivi 1863); P. Bologna, G. Bologna, la riforma penale e il concordato del 1851, ivi 1898; C. Bettanini, Il concordato in Toscana (1851), Milano 1933; C. Cannarozzi, La rivoluzione toscana e l'azione del Comitato della Bibl. civile dell'italiano, Pistoia 1936; La Toscana alla fine del granducato, Firenze 1909.
Dal 27 aprile all'annessione. - E. Rubieri, Storia intima della Toscana ecc., Prato 1861; Atti e memorie del governo della Toscana dal 27 aprile 1859, Firenze 1860-62, voll. 6; E. Poggi, Memorie storiche del governo della Toscana, Pisa 1867, voll. 3; R. Della Torre, L'evoluzione del sentimento nazionale in Toscana dal 27 aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma-Milano 1916.
Studî su argomenti particolari. - Storia militare: N. Giorgetti, Le armi toscane e le occupazioni straniere in Toscana (1537-1860), Città di Castello 1916, voll. 3; J. Ferretti, L'organizzazione militare toscana durante il governo di Alessandro e Cosimo I, in Riv. stor. archivi toscani, 1929-30; F. di Sardagna, Notizie storiche sull'esercito granducale della Toscana del 1848 al 1849, in Riv. milit. ital., 1905; G. Nerucci, Ricordi stor. del batt. universit. toscano alla guerra del 1848, Prato 1891; C. Manfroni, La marina militare del granducato mediceo, Roma 1905; G. Guarnieri, Storia della marina stefaniana, Livorno 1935; A. Corsini, Il servizio sanitario nella marina toscana, in Annali di medicina navale e coloniale, 1927. - Statistica: A. Zuccagni Orlandini, Ricerche statistiche sul granducato di Toscana, Firenze 1848-54; voll. 5. - Contabilità: Rigobon, La contabilità di stato nella Rep. fiorent. e nel Granducato di Toscana, Firenze 1892. - Numismatica: I. Orsini, Storia delle monete dei granduchi di Toscana, ivi 1856; A. Galeotti, Le monete del Granducato di Toscana, Livorno 1930. - Ordini religiosi: F. Sisto da Pisa, Storia dei cappuccini toscani (1532-1691), I, Firenze 1906; A. Tognocchi de Terrinca, Hist. chronologica prov. Etrusco-minoriticae ab anno 1541 ad 1680, Firenze 1935.
Arte.
Ben scarsi sono in Toscana i monumenti, giunti fino a noi, dell'architettura paleocristiana e alto-medievale. Quando il battistero fiorentino si debba assegnare all'XI anziché al sec. V, rimane da ricordare soltanto - ma ai confini del Lazio - il duomo di Chiusi, la cui nave mediana conserva ancora schietti caratteri basilicali; mentre più tardi anche i maestri comacini, adoperando nella pieve di Arliano (sec. VIII) i loro modi costruttivi, di lontana derivazione ravennate, si attengono alla tradizione icnografica paleocristiana. Ma la scarsità dei monumenti rimastici anche per il sec. IX, e limitati quasi soltanto ad alcune cripte abbaziali (da Sant'Antimo e da S. Salvatore al Monte Amiata, a San Baronto e a San Salvatore in Agna) non consentono conclusioni adeguate. Né più abbondanti sono i documenti coevi della scultura, che molto probabilmente fu esercitata nella regione pur nei tempi paleocristiani, senza che sia possibile stabilire quali degli scarsi sarcofagi non pagani, di stile romano o orientale, esistenti a Pisa, a Firenze e altrove, siano stati eseguiti sul luogo, come furono i capitelli del duomo di Chiusi, di classiche forme, ma sormontati da rozzi pulvini; mentre la celebre lamina di Agilulfo (sec. VI-VII) del Museo Nazionale di Firenze ci rivela un'interpretazione più decadente che barbarica degli elementi tradizionali, classici. Ma poi i saggi della scultura dei secoli VIII e IX, che nella resa sommaria di elementi classici e bizantini rivelano uno scadimento degli estremi modi ravennati - ma nella preferenza per lo stiacciato possono anche indicare un influsso barbarico - tardano ad apparire in Toscana, qualora non siano andati perduti esempî più antichi del ciborio di San Vincenzo (del museo di Cortona) che è dei primi anni del sec. IX, o di quello di Sovana, anche più tardo, nonché degli stipiti e dei capitelli di Sant'Antimo, e dei numerosi frammenti murati in qualche fabbrica o custoditi in questo o quel museo, e in maggior copia nell'Aretino e nel Senese.
Ricchissima, al contrario, anche in Toscana, la documentazione dell'arte romanica, che ad alcune città e più al contado, dà un carattere duraturo.
Nell'architettura, Firenze offre una mirabile selezione e rielaborazione di vari elementi, con preponderanza dei paleocristiani, in San Miniato al Monte, nel Battistero, in Santi Apostoli; e nei due primi presenta il tipico rivestimento marmoreo dicromico a motivi geometrici, di gusto orientale, che è imitato fino nella pieve di Empoli. Ma nel contado permangono invece i modi lombardi, e presto vi arrivano quelli pisano-lucchesi. Ché Pisa, amalgamando felicemente influssi diversi, ma più specialmente lombardi e orientali, crea - per opera dei suoi maggiori architetti Buscheto e Rainaldo - uno stile che potremmo dire più pittorico del fiorentino, dandone modelli mirabili nel duomo, nel battistero, nel campanile, in San Paolo a Ripa d'Arno; modelli presto imitati nel contado ed oltre, fino nel duomo di Pistoia e in quello di Prato; mentre a Lucca maestranze pisane e locali sembrano arricchire il modello pisano, come in San Michele; ma il comasco Guidetto, più che di pisani, fa uso di modi lombardi in San Martino.
Gl'influssi pisani e lucchesi si amalgamano con la distanza, fino nel duomo e nel battistero di Volterra e nel duomo di Massa Marittima; ma nel Senese tali influssi sono come sopraffatti da rimanenze o da nuovi apporti lombardi: così a Sant'Antimo (dove si nota anche una diretta intromissione di elementi romanici francesi) e a San Quirico d'Orcia; mentre nell'Aretino il tipo appare con caratteri più nordici come nella pieve d'Arezzo (però con gallerie pisano-lucchesi), e più rustici, specialmente nel Casentino, donde il tipo passa nel Mugello, finché si ritrova nel duomo di Fiesole.
Oltre che i religiosi, ci rimangono di questo periodo gli edifici civili, sia pur manomessi in più tempi, e anche formanti complessi suggestivi come a Siena, Volterra, San Gimignano, Sovana: palazzi del popolo con loggia terrena e salone al primo piano (a Cortona e Massa Marittima), palazzi del podestà muniti come fortilizî (a Firenze, Prato, ecc.), fonti pubbliche (a San Gimignano e Siena) e case civili. Queste, specialmente di due tipi: la casa-torre, altissima, leggiera, gaia, con una specie d'incastellatura pietrigna che permette poi molte e grandi aperture (a Pisa, San Gimignano, Volterra); e palazzotto basso, massiccio, tetro, con poche aperture, e quasi sempre centrato o affiancato da una torre (a Lucca, Firenze, Siena, Cortona). E finalmente, nel contado, rocche e castelli, troppo però manomessi col tempo. E a Prato una fortezza di stile pugliese.
Anche la scultura fiorisce ora vigorosamente in Toscana, e rivela generali caratteri lombardi, modificati da tradizioni e modi locali, e più da influssi bizantini e da classici ritorni. Non solo le maestranze lucchesi e pisane risentono della scuola emiliano-lombarda; ma scultori lombardi, almeno di educazione, operano fino nella Toscana meridionale: Guglielmo e Bonamico a Pisa, Biduino a Lucca, Gruamonte e Guido da Como a Pistoia, Giroldo da Como a Massa Marittima, Marchionne ad Arezzo. A Pisa, Bonamico risente della plastica in bronzo oltremontana; lombardi e lombardizzanti affinano a modi bizantini il loro plasticismo settentrionale; mentre reminiscenze - o persistenze - classiche appaiono non solo, e largamente, nella scultura decorativa, ma anche in qualche monumento figurato quali, a Lucca, il fonte di San Frediano e il gruppo di San Martino col povero, nella facciata del duomo. Si avvicina ormai Nicola Pisano, che formatosi forse sugli scultori pugliesi classicheggianti e conscio della plastica francese del principio del secolo - e dall'arte ogivale derivò le architetture dei pulpiti di Pisa e di Siena - prende intenzionalmente dalla scultura romana, di cui aveva esempî cospicui nel Camposanto, schemi compositivi equilibrati e solenni, e tipi nobili e maestosi, cui dà una severità più bizantina che classica, anche se poi a Siena si fa più mosso e più drammatico.
Intanto nella pittura, se pur tardò ad avere scuole sue proprie, o almeno maestranze con caratteri ben definiti, la Toscana, sullo scorcio dell'epoca romanica, finì col conquistare un primato sulle altre regioni d'Italia.
Così, se per il sec. XII ci sono rimasti soltanto alcuni pochi crocifissi, anche firmati da maestri dei quali niente si sa, e che rivelano chiari influssi bizantini, già fino dal principio del sec. XIII si vanno formando scuole locali, ben differenziate, che sul comune fondo bizantino cercano nuovi modi di espressione. Pisa vanta Giunta, operante anche ad Assisi, bizantineggiante con certa sua drammaticità dolorosa, che esprime un sentimento originale; Lucca ha i Berlinghieri, pure bizantineggianti, ma con una loro tipica malinconia; Arezzo, Margaritone, che del bizantinismo della sua formazione ha perduto però ogni raffinatezza. Firenze tarda ad avere una scuola sua propria; anzi dapprima sembra accogliere, fin nel contado, maestranze specialmente lucchesi; ma presto, favorite dalla vasta opera dei musaici del battistero, per la quale si fa subito appello a musaicisti forestieri, si vanno formando maestranze locali, donde escono ignoti pittori, che sul comune linguaggio bizantineggiante si distinguono nettamente per un accento che è già fiorentino. Finché Cimabue, pur formatosi sulla tradizione romanico-bizantina, anzi riassumendola originalmente, le aggiunge un senso di grandiosità e di maestà, e un sentimento più appassionato e più drammatico. A Siena, Guido - dove le sue opere non sono ridipinte - si rivela bizantineggiante; mentre poi Duccio, pur derivando da quanto ha di più classico il bizantinismo, se ne distacca per una maggiore umanità nello spirito, e, nella forma, per una grazia che gli fa accogliere poi movenze goticheggianti.
Tra le arti minori, la scultura decorativa - come la figurativa - rivela naturalmente generali apporti e influssi lombardi, che specialmente nel contado decadono in forme rozze e quasi brutali; ma fino dal sec. XI offre - e in particolar modo a Firenze e a Pisa - ritorni classici in capitelli, fregi e cornici, e più nella esuberante decorazione di colonne, stipiti, architravi (duomo e battistero di Pisa, duomo di Lucca, ecc.), di transenne, di plutei, di pulpiti a specchi musaicati o intarsiati, e cornici e rosoni intagliati e traforati (a Pisa, Lucca, Pistoia, Firenze, Siena, Volterra): nella quale tipica decorazione, rivelano, fuso gustosamente col gusto classico, un gusto orientale-bizantino tanto l'accentuato colorismo plastico degl'intagli marmorei, quanto e più il policromismo dei musaici e delle tarsie. Le altre forme delle arti minori non sembrano aver avuto in Toscana - se troppo poco non è giunto fino a noi - una fioritura molto rigogliosa. La miniatura sembra fosse coltivata quasi soltanto nelle abbazie senesi e nel Pisano; la tessitura quasi esclusivamente a Lucca, famosa per i suoi "diaspri" di derivazione siculo-araba; il bronzo fuso e il rame sbalzato un po' dovunque si fondano campane e si foggino croci astili e calici (ma gli esempî rimasti sono ben scarsi); l'oreficeria più particolarmente a Siena, ma già con tendenze goticheggianti.
I modi costruttivi dell'architettura ogivale, detta gotica, furono importati anche in Toscana dai cisterciensi francesi, che nella prima metà del secolo XIII fabbricarono nel Senese l'abbazia di San Galgano, e nel Fiorentino quella di San Salvatore a Settimo.
Onde sullo scorcio del secolo si cominciarono a usare, anche dalle maestranze locali, piloni, ogive, archi acuti, contrafforti, pinnacoli; ma generalmente nel contado, e specialmente in Firenze, le persistenze e resistenze romaniche furono tenacissime.
Pisa diede squisiti saggi ogivali nel Camposanto e in Santa Maria della Spina; e Siena sfoggiò nella facciata del duomo un goticismo che pur conserva un equilibrio tutto italiano. Ma Siena stessa, nel duomo, conservò tanto gli archi a pieno centro quanto il paramento dicromico a bande alternate; Lucca, nell'interno di San Martino, mantenne gli archi romanici, anche se in quelli delle gallerie s'iscrissero trifore ogivali, e adottò pilastri semplici e schietti alla fiorentina; Firenze - che vanta ora architetti quali Arnolfo, Giotto, Francesco Talenti - se anche adoperò arditamente i nuovi modi in Santa Maria Novella e, non senza alterazioni, in Santa Croce, di gotica snellezza, nel duomo e nel campanile, oltre un certo gusto di massa, conservò all'esterno il paramento marmoreo di tipo romanico; e ad Arezzo il duomo sorse compatto e massiccio. Più ancora nell'architettura civile massa e severità romaniche rimasero quasi inalterate, anche se nelle nude muraglie si aprirono leggiadre bifore, trifore, polifore: specialmente a Pisa e a Siena. Ma a Firenze le logge della Signoria, di Orsanmichele, del Bigallo, di San Matteo, ebbero arcate a pieno centro anche se la decorazione delle tre prime fu goticizzante.
Le agili torri, che svettano nel cielo di su Palazzo Vecchio a Firenze e di sul Palazzo Pubblico di Siena, provano come i nuovi modi ispirassero e permettessero anche agli architetti toscani audacie costruttive, sempre però concepite con raro senso di misura.
Nella scultura due scuole derivano da Nicola Pisano; la pisano-senese e la fiorentina. Creò la prima Giovanni Pisano, che, distaccandosi nettamente dal padre Nicola, fece sue, originalmente, le forme della scultura gotica francese, esagerandone la tendenza al movimento e all'affollamento, e animandole d'una passione, d'una drammaticità, d'una violenza, che pur si placano alcune volte in squisite pause di grazia. Mentre a Pisa la scuola di Giovanni languiva per opera di oscuri seguaci - e più tardi si abbandonava a un certo eclettismo con Nino Pisano, più raffinato, aggraziato, francesizzante - a Siena Giovanni formava una scuola attivissima, e operante anche nella Maremma, nell'Aretino, a Firenze; e rappresentata peculiarmente da Tino di Camaino, più fiacco e statico e riposato del maestro. La scuola fiorentina mosse invece da Arnolfo, più fedele allo spirito classicheggiante di Nicola - anche se, come il maestro, accolse modi ogivali nelle architetture destinate a inquadrare le sculture - e pur a lui affine nelle forme squadrate e severe; ma più di lui romano e quasi diremmo etrusco. Onde nei seguaci di Arnolfo una nobiltà un po' patetica, che ritroviamo presto in Andrea da Pontedera, detto Pisano per la formazione artistica, ma che a Firenze si modifica al contatto dello stile severamente grandioso e profondamente umano di Giotto, pur accogliendo dal goticismo pisano-senese linee più mosse e sinuose, ma come fermate in un ritmo pacato. Poi, mentre il figlio Nino aderisce piuttosto alla scuola pisana, gli scolari di Andrea ne continuano i modi nella decorazione del campanile. Ma si va formando frattanto una nuova maniera, eclettica, essenzialmente decorativa, derivante da Andrea, da Tino, da Nino (che assai hanno operato in Firenze) e rappresentata egregiamente da Andrea Orcagna, il quale però, come scultore, si fa sulla stessa sua formazione pittorica: fiorentino-senese. Finché si vanno preparando le nuove maestranze, dedite in particolar modo alla decorazione delle porte del duomo, e ivi già preannunzianti il Rinascimento. Da queste maestranze uscirà Donatello.
La pittura toscana del Trecento è rappresentata ormai da due sole scuole, che vanno assorbendo le altre e dominano in quasi tutta l'Italia: la fiorentina e la senese. Della fiorentina è riformatore Giotto, che gli stessi contemporanei riconoscono innovatore, per quanto si sia formato su Cimabue e forse sul Cavallini, e celebrano imitatore della natura, anche se Giotto non la imita, ma la ricrea con la potenza dello stile, fatto di classica nobiltà e di umanità eroica. Rimane nell'arte sua una monumentalità ancora romanica; ma sono cosa nuova la semplicità dei mezzi di espressione, ridotti al puro essenziale, il gusto plastico, il senso spaziale. Della senese è promotore Simone Martini, derivato dal bizantinismo classicheggiante di Duccio e dal linearismo e dal cromatismo gotico-francese, ma così originalmente da formare poi a sua volta la scuola di Avignone. Tra le due tendenze sta Ambrogio Lorenzetti, che pur rimanendo intimamente senese (la sua prima derivazione è dal fratello Pietro, formatosi su Duccio e su Giovanni Pisano) per la tendenza decorativa, la forma carezzata e il colore ricco, prende poi da Giotto il senso della monumentalità, della plasticità, della spazialità e di quell'umanità che, di severa, si fa in lui dolce e malinconica. Ambrogio influisce a sua volta sugl'immediati scolari di Giotto; meno però su Taddeo Gaddi e sul cosiddetto Giottino; più su Bernardo Daddi. Ma mentre a Siena maestri minori continuano poveramente i modi di Simone, a Firenze si accentua l'eclettismo fiorentino-senese tanto con gli Orcagna (Andrea e Nardo di Cione) quanto e più con Andrea da Firenze, e poi con Agnolo Gaddi e Spinello Aretino, narratori superficiali e decorativi; mentre Giovanni da Milano, pur rifoggiandosi sui giotteschi, conserva assai dei modi lombardi, e Antonio Veneziano, nonostante la sua origine settentrionale e le sue tendenze narrative, appare più vicino al maestro che non molti fiorentini. Questi, coi senesi, dominano ormai a Pisa, dove Francesco Traini rappresenta troppo modestamente la decaduta scuola locale. Anche l'ignoto pittore del celebre Trionfo della morte è forse un senese che ha subito influssi fiorentini, o viceversa.
Pur le arti minori fioriscono ora in Toscana pel fiorire stesso delle maggiori. Mentre la scultura decorativa segue le sorti della monumentale, e specialmente a Firenze già accenna al Rinascimento, a Siena hanno particolare rigoglio le arti del legname, del ferro - battiferro senesi operano anche nel Fiorentino - e più ancora nell'oreficeria, che vanta forse l'invenzione dello smalto traslucido e conta orefici quali Lando di Pietro e Ugolino di Vieri; mentre nella miniatura si prova anche Simone Martini, e la scuola gareggia con quella bolognese.
A Firenze si cerca di rivaleggiare con Siena nell'oreficeria e nel ricamo: sono di orafi fiorentini almeno il paliotto dell'altare di Sant'Iacopo nel duomo di Pistoia e la parte anteriore del dossale di San Giovanni per il battistero di Firenze; e le botteghe dei ricamatori lavorano anche per la Francia e per la Spagna; mentre solo sullo scorcio del secolo Firenze conta una scuola di miniatori: quella del Convento degli Angioli, ma del tutto seneseggiante.
Intanto la ceramica è largamente prodotta a Siena - sia pure a imitazione di Orvieto - e in qualche copia a Firenze; l'arte del vetraio - anche se il materiale viene da Venezia - è coltivata nell'una e nell'altra città; e Siena inizia i musaici pavimentarî del suo duomo; mentre Firenze si affianca a Lucca nella fabbrica di stoffe di lusso.
Nel Quattrocento, durante la signoria medicea, Firenze conquista un primato artistico che si estende anche oltre i confini della Toscana.
Nell'architettura, Filippo Brunelleschi, uomo dei nuovi tempi e schietto rappresentante dell'individualismo umanistico, movendo dalla tradizione romanica (ma per lui il battistero era romano) e studiando a Roma gli avanzi dell'architettura classica, si libera quasi dal goticismo, mal rispondente anche al suo temperamento di toscano, e crea uno stile personalissimo, dove la linea domina la massa, e la prospettiva regola la proporzione e l'equilibrio delle parti; dove tutto è ordine e misura; dove il giuoco pacato della pietra serena delle membrature architettoniche (e decorative a un tempo), sullo scialbo delle nude vòlte e pareti, raggiunge una perfetta armonia.
A Firenze lo seguono un po' tutti; ma più direttamente derivano da lui Andrea Cavalcanti operante a Pescia, e Michelozzo, che lo imita senza forse comprenderlo intimamente, ma che comunque nel palazzo mediceo (anche se conobbe i piani del Brunelleschi per il palazzo Pitti) diede un modello che ebbe in Firenze felici sviluppi, e nel cortile di esso creò un capolavoro imitatissimo. Ma dopo la metà del secolo, mentre i continuatori del Brunelleschi ne compivano le fabbriche non senza qualche infedeltà e qualche arbitrio, mentre Giuliano da Maiano importava fino a Napoli i modi brunelleschiani, e Benedetto suo fratello vi rimaneva fedele almeno nel palazzo Strozzi, che sembra un ingrandimento di quello mediceo, si andava formando, e poi a poco a poco accentuando, tra gli architetti fiorentini, che pur movevano dal Brunelleschi e ne continuavano lo stile, una tendenza che potremmo dire precinquecentesca (ma il Brunelleschi aveva già anticipato il Cinquecento nella rotonda di Santa Maria degli Angioli); una tendenza, cioè, a maggiore arditezza di linee, a più imponente grandiosità di masse, e anche a più ricca e sfoggiata decorazione delle stesse membrature architettoniche; una tendenza che è rappresentata particolarmente dal Cronaca, da Giuliano da Sangallo, e da Antonio da Sangallo il Vecchio. Dai primi due deriva il pistoiese Ventura Vitoni; anche lui dunque nella corrente brunelleschiana, cui sullo scorcio del secolo si va unendo, se non confondendo, la corrente albertiana.
Leon Battista Alberti, teorico e non praticante dell'architettura, pur facendo suoi gli stessi principî del Brunelleschi (che segue genialmente nella manomessa cappella Rucellai) e pur mirando a eguale misura e simile armonia, fa veramente rivivere più sapientemente e più razionalmente i modi e i canoni classici; anzi, particolarmente fuori di Firenze, si fa neoromano e sembra sentire la massa a scapito della linea; e a Firenze, nel palazzo Rucellai, tutto misura e armonia, resuscita nei capitelli dei pilastri, che ne scandiscono ritmicamente la facciata, quella successione degli stili, che sarà uno dei motivi fondamentali dell'architettura del Cinquecento. Però Bernardo Rossellino, che questo palazzo fabbrica per lui e lo imita fedelmente in quello di Pio II a Pienza, nelle dimore dei Piccolomini a Siena, si riaccosta anche a Michelozzo, e di conseguenza al Brunelleschi. Ormai anche Siena, dopo un periodo di transizione rappresentato da Sano di Pietro nella loggia di San Paolo, accoglieva architetti fiorentini quali Bernardo Rossellino e Giuliano da Maiano; e i suoi architetti, compreso Antonio Federighi, ne seguivano la maniera; e il maggiore di loro, Francesco di Giorgio Martini, pur abbandonandosi a uno slancio già cinquecentesco, almeno nella Madonna del Calcinaio, sotto Cortona, si rifaceva - sia pur di lontano - alla tradizione brunelleschiana, cui appare più fedele il suo seguace Giacomo Cozzarelli, nell'Osservanza di Siena. Intanto in Lucca si atteneva nobilmente alla maniera fiorentina anche Matteo Civitali. Sicché, concludendo, si può affermare che durante il Quattrocento, in tutta, o quasi, la Toscana, predomina l'architettura fiorentina; e con lei predomina il Brunelleschi.
Nella scultura toscana, il predominio di Donatello è forse meno assoluto. Mentre transizionisti come Nicolò Lamberti col figlio Piero, Bernardo Ciuffagni e Nanni di Bartolo indugiano a staccarsi dall'attenuato goticismo fiorentino per accostarsi - almeno gli ultimi due - a Donatello della primissima maniera, e Nanni di Banco trova in un classicismo a freddo una certa nobile imponenza; mentre il Brunelleschi, nel saggio per il concorso della porta del Battistero, continua la tradizione gotico-giottesca di Andrea da Pontedera, pur rinnovandola più in virtù della sua possente personalità che degl'imprestiti classici; e mentre Lorenzo Ghiberti continua per i primi decennî del secolo nei modi di Andrea, pur dando loro un ritmo più pieno - e solo più tardi giungerà mirabilmente, nel bassorilievo, alla resa spaziale e alla visione pittorica - Donatello, dopo un breve periodo di tormento fra tendenze naturalistiche e rimanenze goticheggianti, riesce finalmente a liberarsi d'ogni ricordo e residuo del passato, e con spirito classico, che domina e nobilita l'osservazione veristica, crea i suoi eroi sicuri e sereni, i suoi putti tripudianti paganamente; ma tornato da Padova, appare come pervaso da un sentimento drammatico, quasi romantico, tutto tormento e passione, espresso pittoricamente, anzi qualche volta diremmo impressionisticamente. Molti, anzi i più degli scultori fiorentini seguono Donatello; ma di lui imitano soltanto le parvenze esteriori; e limitatamente a questo o a quel periodo dell'arte sua. Così, da Michelozzo a Bertoldo, per nominare i più importanti dei seguaci diretti. Altri lo seguono conservando la propria personalità, come fanno, ad esempio, Luca della Robbia e Bernardo Rossellino. Il primo, quasi di una generazione più giovane, dopo aver subito gl'influssi del Ghiberti, deve forse a Iacopo della Quercia il senso plastico, ma certo a Donatello quel sentimento di sicurezza serena - anche se qualche volta tramutata in soavissima malinconia - che hanno i suoi fanciulli, i suoi angeli, le sue Madonne, creati con una spontaneità, una naturalezza che hanno del miracolo. Il Rossellino - inventore, col monumento a Leonardo Bruni in Santa Croce, del tipo di tomba che avrà fortuna anche fuor di Toscana - deve almeno a Donatello d'essersi liberato d'ogni goticismo, anche se poi si distacca da lui, subordinando - come architetto - la parte plastica alla parte architettonica. Anche Desiderio da Settignano, pur essendo tanto vicino a Donatello che molte opere già attribuite a questi gli sono state restituite, conserva il suo carattere, singolarissimo per acuta sottigliezza di spirito e aggraziata delicatezza di forma; mentre Agostino di Duccio, poco operante in Toscana, pur movendo da Donatello, ne interpreta liberamente la maniera, con un senso quasi musicale della linea. Da Donatello, ma attraverso a Desiderio, derivano anche Antonio Rossellino e Mino da Fiesole. Da Donatello derivano in un certo senso pure gli orafi-bronzisti, come Antonio Pollaiolo e Andrea Verrocchio: Antonio, però, inquieto e nervoso; più riposato e pacato Andrea, quando specialmente adoperava il marmo; l'uno e l'altro - si noti - anche pittori. Intanto Andrea della Robbia, e più ancora Giovanni, si distaccavano dal grande Luca; Benedetto da Maiano muoveva da Antonio Rossellino nella ricerca di una maggiore ampiezza e più nutrita consistenza di forme, preludenti al Cinquecento, e che da lui passano nel lucchese Matteo Civitali.
Quasi nullo fu in Toscana l'influsso del senese Iacopo della Quercia, che preludendo a Michelangelo, sembra isolarsi da tutti i suoi contemporanei per spirito classico, più romano che ellenistico, e per forma plastica, possente nella voluta semplicità. Gli si accostarono alcuni senesi, quali Giovanni Turini e Antonio Federighi, ma come timidamente; altri, quali il Vecchietta, si rivolsero invece a Donatello; e attraverso al Vecchietta - o anche direttamente - lo sentirono Neroccio di Bartolommeo e più Francesco di Giorgio Martini, così fiorentino da esserne state attribuite le opere al Verrocchio e allo stesso Leonardo. Per le altre regioni non v'è quasi nome da fare; forse, per la Versilia, quello dei modestissimi Riccomanni.
Nella pittura, la scuola fiorentina del Quattrocento presto predomina anche oltre Toscana; mentre la senese si cristallizza, pur contribuendo alla formazione dell'umbra; e le altre cessano quasi di esistere. A Firenze, nei primi decennî del secolo, prosperavano ancora botteghe di praticoni, come quella dei Bicci, che, perseverando nel gusto trecentesco, hanno perciò molta fortuna specialmente nel contado. Il senese Lorenzo Monaco rappresentava allora con grande originalità l'ultima corrente gotica, cui si collega la cosiddetta arte gotica internazionale con Gentile da Fabriano, che lavorò in Toscana, e con Masolino da Panicale. Questi finì per subire l'influsso del suo aiuto - più che discepolo - Masaccio, che nella breve, prodigiosa sua vita, rompendo ogni e qualunque legame col goticismo e riattaccandosi alla più pura e schietta tradizione giottesca, questa rinnova anche con applicare genialmente alla pittura le conquiste prospettiche del Brunelleschi e quelle plastiche di Donatello: onde la composizione ritornata agli elementi essenziali, i tipi di una umanità sovrumana, lo spazio reso prospetticamente, il chiaroscuro possente per plasticità e - novità grande - compenetrato dal colore.
I grandi pittori fiorentini che succedettero a Masaccio, piuttosto che della sua visione chiaroscurale e del colore, s'interessano dei problemi spaziali e plastici. La forma, più che il colore, è sentita dalla scuola fiorentina. Così fa Paolo Uccello che, fanatico della prospettiva, si compiace di una specie di plasticismo volumetrico, geometricamente congelato, e policromato a tarsia; così fa Andrea del Castagno il quale, drammatico e rude, accentua la tendenza plastica, spingendo il rilievo pittorico alle conseguenze estreme. Né l'Angelico, tutto assorto nei suoi sogni di Paradiso, ignorò le nuove conquiste dell'arte; sicuro costruttore di forme, abile tessitore di armonie cromatiche, finisce con fare, di alcune di quelle conquiste, tesoro: anzi in qualche sfondo di paese intende il colore del tutto modernamente. Da lui derivano tanto il Gozzoli, festoso sceneggiatore di cortei e piacevole illustratore di sacre leggende, quasi fossero novelle; quanto Fra Filippo Lippi, che sulle orme di Masaccio raggiunge una certa monumentalità negli affreschi narrativi, mentre al suo discepolo Pesellino la brevità della vita impedì di superare il maestro. Frattanto Masaccio influiva su due artisti non fiorentini, ma a Firenze operanti: Domenico Veneziano, e Piero della Francesca del Borgo a San Sepolcro: paese, in arte, più senese che fiorentino. Domenico è vago di tonalità chiare, svarianti armoniosamente come gemme nella diffusa luce solare; Piero, guardando a Masaccio, facendo sua la visione prospettica di Paolo Uccello e sviluppando la conquista luministica del Veneziano, rende perfetta la prospettiva spaziale, attua quella aerea, intuisce - se pure non l'applica a pieno - la tonalità nel colorito, immerge in un'atmosfera trasparente e luminosa le cose e le creature; queste di una severa vigoria, d'una sovrumanità, che lo rivelano, anche nello spirito, il più diretto continuatore di Masaccio.
Per le ricerche cromatiche e luministiche deriva da Domenico Veneziano Alesso Baldovinetti, scolaro di Andrea del Castagno: riassuntore, quindi - sulla metà del Quattrocento - delle varie tendenze della scuola florentina. Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio, quali bronzisti, prediligono - anche se in diversa misura - forme incisive, nervose, scattanti, come fuse o martellate nel metallo e rifinite col bulino. E Domenico Ghirlandaio, sicuro del proprio perfettissimo mestiere e contento del suo natural talento, narra e descrive gioiosamente sacre storie, sceneggiandole con piacevole disinvoltura nella Firenze del suo tempo, e rendendole vive e vissute con l'anacronistica presenza dei contemporanei, che egli ritratta con evidenza e naturalezza prodigiose.
A sé, come chiuso in un suo mondo incantato, sta il Botticelli, che, scolaro del Lippi e attratto un momento dal Pollaiolo e dal Verrocchio, si crea uno stile personalissimo per acuta e inquieta sottigliezza di spiriti, e nelle forme linearismo musicale e cromatismo prezioso. Ma di quanti gli si accostano - ché la sua maniera ha grande fortuna anche nelle arti minori - soltanto Filippino Lippi e Piero di Cosimo, fantastici e bizzarri, gli si avvicinano per certa affinità non solo formale, ma anche spirituale. Intanto però la scuola fiorentina esce dal superbo isolamento in cui aveva fiorito, e comincia a subire influssi forestieri: superficiali e accidentali quelli dell'arte fiamminga, più sentiti e continui - e serviranno alla formazione della pittura del Cinquecento - quelli chiaroscurali e cromatici di Luca Signorelli e del Perugino, operanti, non fiorentini, in Firenze.
Cortonese, Luca, e rappresentante - insieme con l'aretino Bartolommeo della Gatta - la scuola di Piero della Francesca; ma in lui l'impassibile grandiosità del maestro si fa tutta impeto e passione, dramma e tragedia, mentre per eccesso di vigoria plastica il chiaroscuro assorbe il colore.
Mentre la scuola fiorentina si rinnova, la scuola senese, al contrario, seguitava chiusa in sé stessa, rimanendo, almeno intimamente, fedele al goticismo di Simone Martini, col Sassetta e con Giovanni di Paolo; e soltanto Domenico di Bartolo assorbe qualche po' del naturalismo fiorentino.
Anche più tardi Matteo di Giovanni, Benvenuto di Giovanni, Neroccio nelle loro deliziose creazioni rimangono quasi estranei alle grandi conquiste pittoriche del Quattrocento. Solo Francesco di Giorgio Martini, poiché vive molto fuori di Siena, si accorge delle novità, e vi partecipa.
Nelle arti minori, o almeno in quelle più indipendenti dall'architettura, il rinnovamento è, naturalmente, più lento, ma non meno profondo. Nella decorazione architettonica, diretta dai costruttori innovatori e anche eseguita dai massimi artisti, i residui goticheggianti sono ben presto sostituiti dai motivi classicheggianti; onde, specialmente nei saggi fiorentini, genialità d'invenzione, eleganza di forma, squisitezza di esecuzione; ma anche una perfetta misura, e una assoluta dipendenza dall'architettura. Nell'arte del legname, almeno a Firenze, dominano e operano gli architetti, tra i quali Giuliano da Maiano e i Del Tasso chiamati anche a Perugia; da ciò accoglienza sollecita delle nuove forme rinascimentali e ancora piena quanto armonica subordinazione all'architettura. A Siena invece, dove tale arte è esercitata da artigiani, che continuano nobilmente la tradizione locale come Domenico dei cori, si osserva una permanenza di goticismo; ma sullo scorcio del secolo Antonio Barili prelude già a certe esuberanze cinquecentesche. Anche nell'arte del ferro, che continua ad esser vanto dell'artigianato senese, indugiano le tendenze goticheggianti. Mentre, a Firenze, il Caparra aderisce ai modi dei novatori; e lo stesso avviene per l'oreficeria; ché gli orafi puri, cioè gli artigiani, tanto a Firenze quanto a Siena, quasi a fatica abbandonano elementi architettonici e decorativi di gusto ogivale; mentre i grandi scultori, dal Brunelleschi e dal Ghiberti al Pollaiolo e al Verrocchio, vi indulgono solo eccezionalmente; mentre la medaglia è trattata ugualmente dagli scultori, come il Pollaiolo e Bertoldo. Nella miniatura Firenze ha finalmente una scuola, anzi più scuole, che possono ormai gareggiare con le altre d'Italia. Ma quando poi Gherardo e Monte di Giovanni, insieme con Attavante, cercano di gareggiare con la pittura, la miniatura perde il suo peculiare carattere ornamentale, e quasi d'un tratto cessa di esistere. A Siena, invece, sono i pittori che si fanno miniatori, come Sano di Pietro e Giovanni di Paolo, rimanendo più fedeli alla tradizione, finché almeno non subiscono gl'influssi di miniatori forestieri, chiamati a decorare i celebri messali del duomo. Firenze intanto, è tra le prime a distinguersi nell'incisione, e vanta un maestro di grande talento e bravura in Antonio del Pollaiolo; mentre nell'incisione di carattere illustrativo - in legno e in rame - ignoti praticanti, dei quali almeno i più e i migliori subiscono gl'influssi del Botticelli, fanno vignette deliziosamente gustose. E riprende anche, per un impulso del Magnifico Lorenzo de' Medici, l'incisione in pietre dure e preziose; produce stoffe sempre più ricercate e ricami superbi in concorrenza con Siena (ma a Firenze operano anche ricamatori forestieri); continua a fabbricare ceramiche che di dozzinali si fanno sempre più artistiche, e ad istoriare magistralmente vetrate, sui disegni dei massimi pittori; anche questo in gara con Siena, che vanta ora una bella schiera di maestri di commesso, intenti a proseguire quella meraviglia che è il pavimento del duomo.
Col Cinquecento Firenze deve ormai cedere a Roma, dove i suoi artisti vengono chiamati come nei secoli precedenti; ma ora vi si stabiliscono a lungo e definitivamente, a cominciare da Michelangelo; e mentre vi contribuiscono a formare una maniera che si può dire ormai decisamente romana, questa poi importano in patria.
Ciò avviene particolarmente in architettura, nella quale, anche in Toscana, comincia a prevalere il gusto di Roma. Michelangelo, se pur muove dal Cronaca e da Antonio da Sangallo il Vecchio e non dimentica il Brunelleschi in certi suoi spartimenti architettonici e nel contrasto della pietra con lo scialbo, nella Sacrestia Nuova e nella Libreria di San Lorenzo fa superba prova di quelle forme robuste, nella loro schietta e severa nudità, che il suo genio ha concepito nell'Urbe. Intanto si domandano a Raffaello i piani del palazzo Pandolfini, che offre così un saggio perfetto del gusto romano (come poi allo Scamozzi si chiederanno disegni per il palazzo Nonfinito); e Mariotto Folfi, proprio in Piazza della Signoria, innalza la bramantesca e raffaellesca facciata del palazzetto Uguccioni; mentre già Antonio da Sangallo il Vecchio, più che sessantenne, si era rinnovato completamente sull'esempio di Bramante, fabbricando con solenne grandiosità il San Biagio di Montepulciano.
Anche Bartolommeo Ammannati e Giorgio Vasari, formatisi sugli ultimi quattrocenteschi fiorentini, si rinnovano a Roma, operandovi egregiamente, e il primo crea con romana monumentalità il cortile del palazzo Pitti (che pur armonizza mirabilmente con la facciata brunelleschiana), anche se in altri palazzi privati si attiene a quella fiorentinissima misura, di cui dà un saggio prodigioso nel Ponte a Santa Trinita; il Vasari innalza la fabbrica degli Uffizî, con classico colonnato a trabeazione. In confronto, gli architetti rimasti in patria sono più tradizionalisti, pur destreggiandosi abilmente fra vecchio e nuovo: Giovan Battista del Tasso, Santi di Tito, Giovanni Antonio Dosio, che pero nella cappella Niccolini in Santa Croce fa sfoggio di una ricchezza ignota a Firenze; mentre Baccio d'Agnolo, che pur crea nel palazzo Taddei un tipo di dimora civile ancora semplice e schietta, tradizionale, si sbizzarrisce invece nel palazzo Bartolini a dare un saggio geniale del gusto novissimo; e Bernardo Buontalenti prelude piacevolmente al Barocco nella facciata di Santa Trinita. Nel resto di Toscana gli architetti fiorentini, e specialmente l'Ammannati, il Vasari, Giuliano di Baccio d'Agnolo, importano i modi cinquecenteschi; mentre gli architetti locali preferiscono piuttosto quelli tradizionali, come ad esempio, in Lucca, Francesco Marti. Ma a Siena, Baldassarre Peruzzi, fattosi fin da giovane romano, nel poco che v'è di suo o che gli è attribuito, si rivela del tutto un novatore. Nel contado poco si costruisce di nuovo durante il Cinquecento, fatta eccezione per le ville, che ormai, rallegrandola e arricchendola, mutano d'assai la fisionomia della campagna toscana.
E se alcune conservano ancora l'aspetto di fortilizî, come le medicee di Artimino e dell'Ambrogiana murate dal Buontalenti, le più cominciano ad avere aspetto amichevole, e si allietano di giardini, che si distendono spesso a terrazze, adattate abilmente e piacevolmente ai dislivelli naturali. E per citare solo gli esempî più famosi, il Tribolo crea il capriccioso complesso del giardino di Castello, prima d'iniziare quello più vasto di Boboli, dove la natura è ancora più corretta o forzata entro linee architettoniche; e il Buontalenti fa meraviglie nel distrutto parco di Pratolino. E sulle colline senesi ride "Belcaro" di Baldassarre Peruzzi.
Anche nella scultura avviene un mutamento notevolissimo per il diffondersi e preponderare sempre più della cultura classica, e per la scoperta di nuovi marmi antichi. Onde già sullo scorcio del Quattrocento una maggior tendenza ad imitare - più che a ispirarsene liberamente - i modelli classici; un nuovo concetto di bellezza ideale, che finisce con inaridire la geniale spontaneità dei pittori e scultori toscani; e un certo gusto per una decorazione troppo esuberante e preziosa, quale l'ama in Firenze Benedetto da Rovezzano, e più tardi, a Siena, Lorenzo Marrina e ad Arezzo Simone Mosca. Anche Michelangelo, che giovanissimo frequenta, come una scuola, il giardino mediceo di San Marco - ricco di antichi marmi - comincia con esperienze volutamente classicheggianti; ma esauritele rapidamente, si rifà piuttosto a Iacopo della Quercia, dopo che a Donatello; e si forma quel suo stile inconfondibile per concezione eroica, sovrumana, per architettura poderosa, per plasticità possente. Chi si prova a imitarlo, da Raffaello da Montelupo e da Raffaello da Montorsoli a Vincenzo de Rossi, è perduto. Fortunatamente alcuni si salvanno perché già oramai formatisi nella tradizione, come Baccio da Montelupo; o perché tendono al pittorico, come Giovan Francesco Rustici, che si dice aiutato da Leonardo. Intanto, di contro al michelangiolismo e al classicismo di pura imitazione - non meno sterile, e rappresentato particolarmente da Baccio Bandinelli - si forma il cosiddetto sansovinismo (da Andrea Sansovino) che alla tradizionale sottigliezza fiorentina unisce la grazia ellenistica. Muove dal sansovinismo Iacopo Sansovino, creato di Andrea, ma presto espatriato; ne profitta Niccolò Tribolo, con Pierino da Vinci e Silvio Cosini; se ne giova Bartolommeo Ammannati, quando riesce a dimenticare Michelangelo e Bandinelli; ne deriva anche un geniale eclettico come il Giambologna coi suoi seguaci Pietro Francavilla, Pietro Tacca e Giovanni Caccini, che sullo scorcio del Cinquecento già accenna gustosamente al Barocco. E può dirsi si ricolleghi a questa tendenza sansovinesca anche Benvenuto Cellini, che compie il miracolo di dare al Perseo le dimensioni della statuaria e la raffinatezza del gioiello. Nel resto della Toscana, o si ricorre all'opera dei fiorentini, o ci si accontenta di artisti modestissimi, come dei Lorenzi a Pisa o degli Stagi in Versilia. A Siena, dopo il Marrina, decadenza assoluta.
Nella pittura Leonardo, Michelangelo, Raffaello formano il nuovo gusto del Cinquecento; ma Leonardo lascia presto la patria e poco vi ritorna; sì che quel suo magico sfumato ha scarso fascino sulla scuola fiorentina, ancora fedele alla tradizione disegnativa, quando se ne eccettuino Ridolfo del Ghirlandaio per qualche ritratto, e Filippino con Piero di Cosimo, specialmente per qualche tavoletta d'invenzione.
Michelangelo ben poco di pittura opera in Firenze; ma poi da Roma travolge i meglio dotati, come il Bugiardini. E Raffaello completa a Firenze la propria formazione artistica e subito influisce sulla scuola locale; ma si stabilisce poi a Roma. Per buona fortuna dal michelangiolismo - che di buoni, e in Roma, produsse soltanto Daniele da Volterra - per l'innato buon senso e per il salutare, anche se assai superficiale, influsso di Leonardo, si salvarono fra Bartolomeo, che specialmente dopo il soggiorno veneziano infonde nella scuola fiorentina un certo gusto per il colore, e Andrea del Sarto, la cui maniera corretta, spontanea e piacevole mancò soltanto assai di vigoria. Da lui derivano i più geniali pittori del Cinquecento toscano: il Pontormo e il Rosso, quegli disegnatore prodigioso nella ricerca di una linea nervosa, mossa, "ghiribizzosa", e coloritore bizzarro; il Rosso, audace costruttore di forme squadrate, manovratore di luci fantastiche. Intanto a Siena la scuola si risvegliava dal secolare torpore specialmente per virtù del Sodoma, fattosi, di piemontese, quasi toscano attraverso a Leonardo e al Signorelli, al Perugino e a Raffaello; tra i cinquecenteschi senesi merita soltanto ricordo Domenico Beccafumi, eclettico geniale, per una sua originale visione luministica che lo ravvicina al Rosso Fiorentino. Ma sulla metà del secolo anche i pittori toscani guardano a Roma dove dominano Raffaello e Michelangelo; e là studiano e operano; là s'imbevono di quel manierismo - disperato tentativo di fondere le divergenti tendenze di quei due grandi - che tutti accomuna nella pittura monumentale e da cavalletto, da Giorgio Vasari a Cecchino Salviati, da Agnolo Bronzino ad Alessandro Allori.
A Siena il manierismo si fa sdolcinato e smanceroso nei più; d'una rigidezza monumentale nel Peruzzi, diventato romano. Ma i fiorentini. quando abbiano ad eseguire decorazioni pittoriche come il Vasari e il Salviati, o ritratti come il Bronzino, rivelano genialità e abilità sorprendenti. Soltanto sullo scorcio del secolo reagiscono al manierismo Santi di Tito e Bernardino Poccetti: mediocre artista ma buon maestro l'uno, perché riporta la scuola al gusto del primo Cinquecento; piacevole decoratore l'altro, con storie inscenate in vasti e luminosi paesi rievocati dal vero, o con gustose grottesche, che hanno molta fortuna. Intanto a Siena Ventura Salimbeni, pur reagendo al manierismo, inizia la pittura del Seicento.
Anche nelle arti decorative la Toscana va perdendo il secolare primato a vantaggio di altre regioni. La scultura ornamentale, dopo i saggi preziosi di Benedetto da Rovezzano, del Marrina e del Mosca, quasi scompare, non tollerata dal nuovo gusto architettonico; lo stucco decorativo ha scarsa fortuna; soltanto il graffito ha, specialmente in Firenze, largo e felice impiego. L'arte del legname vanta ancora maestri ricercati anche altrove, come i fiorentini Baccio d'Agnolo e Giovan Battista del Tasso; e varî buoni artigiani pur senesi, pistoiesi, aretini ancora tradizionalisti; finché il Vasari non trascina tutti nella propria orbita. Il ferro battuto, meno usato, ha ancora degne maestranze a Siena e a Lucca. La medaglia ha buoni cultori a cominciare dal Cellini, ma in piccolo numero, dai fiorentini Poggini al senese Pastorino; mentre la glittica conta ancora nei primi decennî Giovanni delle Corniole e Domenico di Polo con i loro seguaci; e l'oreficeria vede con Benvenuto Cellini formarsi uno stile, che presto s'impone, ma che viene pur presto imbastardito specialmente dai fiamminghi e dai tedeschi operanti anche in Firenze; ma l'oreficeria senese, tradizionalista, è in piena decadenza. L'arte del vetro ha ora nel Marcillac, fattosi di francese aretino, e nel Pastorino senese ottimi maestri; la miniatura conta ancora a Firenze, sorpassatissimi, Boccardino Vecchio e il figlio Francesco, ma è per scomparire del tutto; l'incisione vanta il fiorentino Cristofano Robetta, e meglio ancora il senese Beccafumi, chiaroscurista originalissimo. Fioriscono invece in Firenze, capitale ormai del granducato, l'arazzeria, in virtù della manifattura medicea, impiantata da capi arazzieri fiamminghi ma continuata da paesani; la tessitura di stoffe ricche e preziose, il ricamo, che ora accoglie i motivi del pieno Rinascimento, anche per opera di artigiani forestieri; e la ceramica, che vanta la fabbrica di Cafaggiolo, durata appena un trentennio, ma gareggiante con le più famose d'Italia.
Nel Sei-Settecento l'arte toscana fiorisce quasi soltanto in Firenze, capitale dello stato; mentre nella provincia gli artisti migliori esulano, particolarmente a Roma.
In architettura la scuola fiorentina rimane generalmente fedele alla misura tradizionale, che le vieta audaci novità. Anzi i Medici triplicano palazzo Pitti sui piani del Brunelleschi e i Riccardi raddoppiano il loro palazzo di Via Larga, su quelli di Michelozzo. Le forme semplici e schiette sono generalmente continuate, anche se Matteo Nigetti baroccheggia in qualche facciata di chiesa e, con i suoi continuatori, fa sfoggio di romana magnificenza all'interno del cappellone mediceo di San Lorenzo; anche se Ciro Ferri (educato a Roma) e Pier Francesco Silvani ostentano sontuosità inusitata nella decorazione architettonica dell'Annunziata e della cappella Corsini al Carmine. Nei palazzi privati tutti quanti, anche i più geniali, da Gherardo Silvani e da Ferdinando Ruggeri a Zanobi del Rosso e a Bernardo Fallani, continuano la tradizione fiorentina; e soltanto all'interno di alcune dimore come la medicea (ma specialmente per opera di Pietro da Cortona e di Ciro Ferri, romani) e la riccardiana, si fa sfarzo di stucchi e di dorature. Ma Antonio Ferri e Pier Francesco Silvani fabbricano su Lungarno, per i Corsini, un palazzo principesco romano; mentre Carlo Fontana manda disegni per il palazzo e una villa dei Capponi. Anche in provincia, quando non ci si accontenta dei modesti architetti locali, si chiedono piani per palazzi e per ville, che van contornandosi di parchi sempre più vasti e più varî di piacevoli attrattive, al Fontana e al Fuga, al Bernini e allo Juvara.
La scultura, invece, è in piena decadenza anche a Firenze, donde emigrano i migliori, come Pietro Bernini e Francesco Mochi. Continuano per lungo tempo i modi giambologneschi, e solo Ferdinando Tacca si accosta al Bernini, e Giovan Battista Foggini piuttosto all'Algardi; finché Innocenzo Spinazzi, romano, prelude al gusto neoclassico. Altrove, non un artista da segnalare; tanto che da Siena, per la cappella del Voto, si chiedono sculture ai romani, a cominciare dal Bernini.
Meno langue la pittura, anche se in provincia pure i pittori sciamano via, dal Gentileschi e dal Testa al Batoni. Ma la scuola fiorentina, malgrado un certo eclettismo, rimane ancora fedele alla tradizione disegnativa; e più di quello del Caravaggio, subisce l'influsso del Barocci. Però il Cigoli, che ha lavorato a Roma, dimostra un più vivo gusto di chiaroscuro, e forma Cristoforo Allori, che è il miglior coloritore della scuola; poi da Matteo Rosselli, mediocre artista ma ottimo maestro, derivano tanto il delicatissimo Francesco Furini e il manieratissimo Carlo Dolci, quanto Giovanni da San Giovanni e il Volterrano, decoratori piacevolissimi. Ma fino dai primi decennî del Seicento Pietro da Cortona strasecola i fiorentini con la sua maniera tutta luci e bagliori; poi Luca Giordano li sbalordisce con la sua bravura; finché Sebastiano Ricci il seduce con una grazia squisita di forma e di colore. E i fiorentini, da Alessandro Gherardini e da Camillo Sagrestani a Giovan Domenico Ferretti e a Tommaso Gherardini, si dànno a seguirli. Solo Anton Domenico Gabbiani rimane fedele alla tradizione. Intanto a Siena, dopo un primo periodo baroccesco, s'insinua un caravaggismo di maniera, che dà il miglior frutto in Rutilio Manetti; mentre Pisa vanta Giacinto Gimignani, e Lucca Pietro Paolini. Ma da Siena si chiedono tele a Mattia Preti; e nel duomo di Pisa si raccolgono opere dei più famosi pittori d'Italia.
Poco di nuovo offrono, naturalmente, le arti minori. A lungo perdura nell'artigianato il gusto cinquecentesco; e gli apporti forestieri sono ben scarsi. Così lo stucco è trattato nel principio del Seicento da maestri romani, alla fine del Settecento da lombardi; ma il commesso in marmi e pietre dure rimane vanto dell'opificio mediceo. L'arte del legno si presta facilmente al gusto barocco; ma è in mano di un artigianato anonimo, come quella del ferro; mentre ben scarsi sono gli scultori che si dedicano al bronzetto e alla medaglia. Fiorisce invece l'incisione, non tanto col gruppo dei barocceschi senesi, quanto con quello dei callottiani fiorentini, che può vantare Stefanino della Bella, e che continua, con una bella schiera di vedutisti, fino alla fine del Settecento. Fioriscono anche la tessitura e l'arazzeria: quella esportando sete fiorentine e velluti lucchesi; questa con la copiosa e bella produzione dell'arazzeria medicea, attivissima fino alla reggenza lorenese. E se la maiolica conduce vita grama in fabbriche paesane come quella di Montelupo, già fino dal 1735 il marchese Carlo Ginori produce porcellana finissima nella sua manifattura di Doccia.
Nell'Ottocento si riscontra in Toscana almeno una certa prontezza a seguire i nuovi gusti artistici. Così in architettura, già sullo scorcio del sec. XVIII Gaspare Maria Paoletti armonizzava le tendenze neoclassiche con la tradizione locale; e lo seguivano, attivi per gran parte di Toscana, i fiorentini Giuseppe Cacialli e Pasquale Poccianti e il pratese Giuseppe Vantini; finché il fiorentino Giuseppe Poggi e il senese Giuseppe Partini tornano felicemente alla tradizione toscana. Poi predominano dovunque l'imitazione e, peggio, la contraffazione dei vecchi stili, con prevalenza dei medievali; e ogni originalità e genialità scompaiono. Nella scultura il Canova domina su una schiera di mediocri, finché Lorenzo Bartolini non reagisce, predicando e applicando il ritorno alla grande tradizione del Rinascimento e allo studio del vero. Lo seguono, in diversa misura, e non senza un certo eclettismo, Aristodemo Costoli e Pio Fedi, col lucchese Vincenzo Consani e col livornese Paolo Emilio Demi. Ma Giovanni Duprè e Tito Sarrocchi riportano la scuola a un'accademia, che si vanta verista, ma di un verismo di compromesso, cui reagisce audacemente Adriano Cecioni, seguito dai migliori: Emilio Gallori, Augusto Rivalta, Raffaelo Romanelli, Augusto Passaglia.
Anche nella pittura domina dapprima il neoclassicismo accademico con Pietro Benvenuti e con Luigi Sabatelli; ma a Firenze reagisce il romantico Giuseppe Bezzuoli e a Siena il purista Luigi Mussini. Si va formando però una nuova accademia, storico-romantica, col Bezzuoli stesso, Enrico Pollastrini, Antonio Ciseri, Stefano Ussi, Antonio Puccinelli, Cesare Maccari e Amos Cassioli, non tutti toscani e i più ottimi ritrattisti; finché i "macchiaioli", capeggiati da Giovanni Fattori, Silvestro Lega e Telemaco Signorini, iniziano una nuova scuola, fiorente fino allo scorcio del secolo.
V. tavv. XVII-XXXII.
Bibl.: Oltre alle opere elencate alle voci: arezzo; firenze; italia: Arte; lucca; pisa; siena, v.: Etruria pittrice, Firenze 1791; F. Fontani, Viaggio pittorico della Toscana, ivi 1801; G. E. Saltini, Le arti belle in Toscana da mezzo il sec. XVIII ai dì nostri, ivi 1862; G. Rohault de Fleury, La Toscane au Moyen Âge, Parigi 1874; S. C. Raschdorff, Palast-Architektur von Ober-Italien und Toscana vom XV. bis zum XVII. Jahrh., II, Berlino 1883; H. von Geymüller-C. Stegmann, Die Architektur der Renaissance in Toscana, Monaco 1888 segg.; E. Müntz, Florence et la Toscane, Parigi 1897; W. Kallab, Die toskanische Landschaftsmalerei im XIV. und XV. Jahrh., Vienna 1900; H. Guthmann, Die Landschaftsmalerei d. toskan. Kunst im XIV. Jahrh., Lipsia 1900; V. Marmottan, Les arts en Toscane sous Napoléon, Parigi 1901; B. Khvoshinsky-M. Salmi, I pittori toscani dal sec. XIII al XVI, I e II, Roma 1912-14; B. Patzak, Die Renaissance u. Barockvilla in Italien, I e II: Palast u. Villa in Toscana, Lipsia 1912-13; Harold D. Eberlein, Villas of Florence and Tuscany, Filadelfia-Londra 1922; A. Haupt, Palast-Archit. von Ober-Italien u. Toscana, Berlino 1922; M. Salmi, L'archit. roman. in Toscana, Milano-Roma (1928); id., La scult. rom. in Toscana, Firenze 1928; T. C. I., Toscana, Milano 1934-35.
Dialetti.
Nell'ambito delle parlate toscane, specie se si badi alla fase loro più antica, sono da distinguere la sezione fiorentina o centrale; un gruppo occidentale, che comprende i dialetti di Pisa (e Livorno) e di Lucca, e inoltre quello di Pistoia, il quale però mostra parziali differenze; infine, la sezione senese o meridionale. Non fanno parte del vero e proprio toscano i vernacoli della Versilia, della Garfagnana, della zona dell'Etruria antica al di là dell'ombrone (Scansano, Manciano, ecc.), dell'ex-circondario di Montepulciano, della valle della Chiana e dei contadi aretino e casentinese.
Caratteristica negativa, in cui s'accorda la totalità dei dialetti toscani in opposizione alle rimanenti parlate d'Italia, è la mancanza della metafonesi: ossia in toscano non cambia il timbro della vocale in accento per influsso di fonema vicino, e pertanto non si ha dènte d(i)énti, capéllo capilli, nòtte n(u)ótti, vólpe vulpi, métto métte mitti, conósco conósce conusci, ecc. Quindi avhiene che il toscano, e in ciò è solo o quasi solo, ronpa in dittongo l'e e l'o brevi toniche latine in sillaba aperta a prescindere dalla qualità della vocale finale: piède "pede", viène "venit", piètra "petra", cuòre *"core", suòle "solet", scuòla "schola".
Circoscritte unicamente alla Toscana sono: 1. la pronuncia aspirata o fricativa delle occlusive sorde latine intervocaliche (k, t, p): nel contado di Firenze, p intervocalico è pronunciato fricativo, e a k e t intervocalici risponde un'aspirata velare (ami???o ami???a amih???e, amico -a -che, sta???o sta???a sta???e, stato -a -e); 2. l'alterazione in rb (lb) del nesso latino rv (lv): còrbo "corvu", nèrbo "nervu", serbare "servare", Elba dal ligure "Ilva"; 3. la riduzione alla semivocale j, anzi che a r, del nesso latino rj: aja "area", cuòjo "corju", bujo "burju" (-r- è già grossetano e massese-carrarese). E qui si tratta, per tutti e tre i fenomeni, di predisposizioni orali che furono o dovettero essere proprie degli Etruschi, così che è legittimo ammettere, per la Toscana dialettale, l'azione d'un sostrato etnico etrusco. Il quale avrà operato soprattutto nella zona dove il toscano ci appare oggi più genuino, cioè nel contado di Firenze, nel Mugello, nel Valdarno, nel Chianti e in Valdelsa: cioè nell'estrema area settentrionale-orientale dell'Etruria antica, verso il corso superiore dell'Arno, verso l'Appennino, dove la gente etrusca, secondo ogni verosimiglianza, si raccolse e concentrò perché spinta dalla forza dei Latini irrompenti da sud e da est. In tale area l'aspirazione o gorgia vive più gagliarda che altrove; e ha il suo nido il fenomeno, che continua tendenze fonetiche sinceramente latine, di í ú da ??? ??? + n velare, esemplificabile con tinca, vince, vinto, lingua e punge, punto, unghia, di fronte a tenca, vence, vento, lengua e ponge-pogne, ponto, ongia - ogna di tutta Italia. È da convenire quindi con Cl. Merlo che "il toscano di tipo fiorentino, il toscano quale risuona oggi nella parte estrema settentrionale-orientale di quella che fu l'antica Etruria, altro non è che un bel ramo nato dal felice innesto, sul miglior tronco etrusco, di latino schietto, non turbato da influssi umbri, osci, sabelli". Come ha riconosciuto anche E. G. Parodi, non sono mai troppo discordi, rispetto alla lingua, le varie provincie della Toscana: "ma sempre, dove il fiorentino si dilunga dagli altri dialetti, l'opera sua è opera di gelosa conservazione dell'originario tipo latino".
Dal corso medio dell'Arno, ossia da Firenze, il fenomeno di í ú da ??? ??? davanti n velare si è esteso a Pisa, a Lucca (nei contadi delle quali città è scomparso da poco defonto, e perdura donca, donque), a Siena, e va ora occupando le Masse. Ma in genere è patente che il fiorentino, poich'è il dialetto venuto a prevalere sulla Toscana fin dallo scorcio del sec. XIII, ed è assurto in seguito a lingua letteraria, ha esercitato via via un'azione unificatrice sulle varietà dialettali che più gli erano vicine e affini: dalla lingua letteraria anzi è stato influenzato, inevitabilmente, il dialetto fiorentino medesimo, come risulta, a citare un esempio solo, dall'adozione abbastanza larga ch'esso ha fatto, in quest'ultimo cinquantennio, dei pronomi il quale ecc. e cui in luogo del che invariabile nei casi obliqui e accompagnato da particelle pronominali o da avverbi. In quanto poi il fiorentino "per la virtù sovrana di Dante" s'è accomunato a tutta l'Italia come organo ed espressione di cultura e di civiltà, n'è seguito che la lingua letteraria italiana mostri lingua e unto, non lengua né onto, e famiglia, tigna, mischio, vischio, non fameglia, ecc.; e palesi ben netto il tipo fonetico in genere, e il tipo morfologico e lo stampo sintattico del linguaggio di Firenze. La lingua della cultura italiana serba, da "commodu", "sabbatu", "qabbālāh", Comodo, sabato, cabala, giusta la tendenza fiorentina a scempiar la consonante doppia postonica degli sdruccioli (ma le voci italiane allegate sono anche dei. dialetti occidentali); ha súbito, debito, cenere, camera, semola, conforme, non che al latino, al fiorentino, che mantiene scempia la consonante postonica degli sdruccioli, e in contrasto con gli altri dialetti toscani; resta fedele alla riduzione fiorentina di -ar- atono in -er-, con amerò, ferreria, e simili. Però il fiorentino divenuto lingua nazionale è quello della fase antica e nella forma scritta, ed è stato subito privato, com'era inevitabile, di quanto potesse apparire soverchiamente caratteristico e crudo. Così, la lingua nazionale sta ferma a nuovo, cuore e simili, secondo l'uso del fiorentino antico e men recente, e fastidisce il novo e il core, anche se favoriti dai manzoniani; non ha accolto il c aspirato di amico e simili, il c e g sibilanti di pace e regina, l'abitudine di pronunciar doppia l'iniziale dopo da (da pporre), perché non erano espressi nella scrittura; ha escluso, del tutto o quasi, orrevole e lasciàllo lasciarlo, candelliere, palido, Batista e ufizio, facciàno e simili per la prima plurale, come pretti e angusti fiorentinismi.
Prima del trionfo della civiltà fiorentina, il quale si affermò a cominciare dal 1284, altri centri urbani, specie Lucca e Pisa, erano venuti prevalendo per splendore di vita politica, economica, culturale, in modo da influire anche linguisticamente sulla città ch'è "la terra promessa" del nostro linguaggio. La storia dei predominî letterarî e linguistici, ai quali si sostituì infine il primato di Firenze, non solo ci attesta tutto quel processo di elaborazione nell'uso della lingua, che dové favorire il pronto e quasi impetuoso preponderare e primeggiare dei grandi Toscani, a questi fornendo uno strumento di solida foggia e che aveva già acquistato una funzione e un'importanza; ma anche ci rende conto di fenomeni linguistici che nel fiorentino s'infiltrarono in epoca antica, movendo da ovest e da sud. Dalle parlate occidentali il fiorentino antico ha preso la desinenza -eno di metteno, disseno, ecc., e forse anche quella in -oro di misoro, ecc.; il Libro dei banchieri fiorentini, dell'anno 1211, in lia, prestoa e rekoa presenta l'epitesi in -a che è offerta dal lucchese, henché non dal solo lucchese, ecc. Tuttavia non è sempre dato cogliere o assicurare l'influsso lucchese o pisano, pistoiese o pratese, sul fiorentino, a cagione della sostanziale affinità dei dialetti che si parlano nel corso medio e inferiore dell'Arno. Dai dialetti toscani meridionali, di Siena e Arezzo, è derivata al fiorentino antico la tendenza a ritrarre l'accento nei dittonghi iè uò dalla seconda alla prima vocale (íe úo) e a ridurre íe in í e úo in ú: onde il nome di famiglia fiorentina Cuvicciúli per Cavicciuòli, furi per fuori nella Divina Commedia, e Dio, mio, bue, tratti da Dieo (diei appare nel pratese), mieo (che si ritrova nell'umbro, insieme con miea e miee), buoe (documentato in un Bestiario della Toscana occidentale).
I dialetti delle città di Lucca e di Pisa, ai quali il pistoiese era una volta strettissimamente affine, non hanno ora, rispetto al fiorentino, la posizione appartata che mostravano un tempo. Si ha ragione di credere, e così pensa A. Parducci, che a Lucca il dialetto si sia parlato anche dalle classi più elevate e più colte fin circa la metà del sec. XIX (il 1847 è l'anno dell'annessione alla Toscana): doveva essere un dialetto, specie nei tempi più vicini a noi, scevro più o meno di quei suoni così sorprendenti che oggi si sono ritirati presso talune zone del piano, come sarebbero ss o s sordo da cj o tj (terasso terrazzo carossa carsa, piassa forsa), ss o s sonoro da dj (rasso razzo, orso orzo), z (ossia propriamente s sonoro raddoppiato) da s mediano fra vocali (chieza chiesa, Lucchezi, uzare), -r- in luogo di -rr- (tera, ecc.). E. G. Giannini e I. Vieri dànno come proprî, oggi, appunto della parlata lucchese delle persone del volgo, specialmente nella Pianura, fra altri, questi fenomeni: 1. il dileguo di k intervocalico; 2. lo sdoppiamento di -rr- in -r-; 3. ss, s, sordo o sonoro, per zz, z, sordo o sonoro, del fiorentino: ma anche sulle labbra delle persone colte o di media cultura si può sentire, dopo l, n, r, il s in luogo di z (balso, calsa, alsare, cansone, marso; e, per correzione indebita, polzo, anzioso, penzare, attraverzare, ecc.); 4. z per s sonoro intervocalico (come già nei Bandi lucchesi); 5. scambî tra r e l dinnanzi a consonante (cortello e pòltico, porpa e pelmesso, sverto e belsagliere); 6. la sostituzione di j con l' in fornaglio fornaio, mangiatoglia, ecc. Quanto al pisano, poi, S. Pieri nel 1891 notava come esso, "che qualche secolo fa costituiva, si può dire, un sol tutto col lucchese, di tanto se n'è ormai, per motivi in gran parte storici, allontanato, di quanto s'avvicinò al fiorentino". Tra i vernacoli di Pisa e Livorno le differenze sono lievi (una volta era molto diffuso a Livorno, ma non è ancora scomparso interamente, il vezzo di sostituire s con l davanti a consonante: fialco, lilca, moltra, per fiasco, ecc.; r che passa a l dinnanzi a consonante è fenomeno livornese piuttosto che pisano). Al gruppo toscano occidentale appartiene anche il còrso, segnatamente in una delle sue varietà fondamentali, quella cismontana, che occupa la parte maggiore dell'Isola. Ma la toscanità del còrso, con tratti del pisano dei secoli XIII-XIV, è immessa, non nativa. È o era assai affine alle parlate còrse settentrionali il dialetto dell'isola di Capraia.
I testi, e specie gli antichi, ci affermano comuni ai dialetti cittadini lucchese, pisano e pistoiese (oltre che donca donque; s per z fiorentino; -rr- in -r-, che proviene dalla Liguria; la desinenza -eno di diceno, ecc.): a) nel vocalismo tonico: ditto; induve, unde, uncia; preite, paraula, taula, ecc.; b) nel vocalismo atono: la tendenza ad -ar- (Catarina), ma con prevalenza di -er- nel futuro della prima coniugazione; la tendenza all'e per i (desceplina, uomeni), all'o per u nella protonica (cocína), all'u per o nella postonica dello sdrucciolo (pòpulo); -evile per -evole (bisognevile); c) nel consonantismo: autro per altro, e simili; nosso per nostro, e simili; cendora cenere e cambera, cambora camera; la tendenza a mantenere nge (piangere, spengere); d) nel verbo: dano, stano, áno per dànno, ecc.; stra, dra, sbrigrò per starà, ecc.; la seconda persona dell'imperativo presente della 2a e 3a coniugazione in -e. Testi antichi di Prato offronon uomeni, vipra vipera, autro, l'imperativo concede, facessoro.
Il toscano meridionale o della città di Siena, secondo i dati dell'Atlante linguistico d'Italia e della Svizzera, ha oggi, come il fiorentino e l'italiano letterario, lingua, fungo, e cigli, ecc.; fratelli, peli; ma serba ancora cénare (cendare nel contado) per cenere e pòvaro, ecc., vèndeli "vendili", ecc. Caratterizzeremo quindi il senese considerandone la fase meno recente e badando ai testi antichi. Vanno fra i tratti tipici del dialetto di Siena, vivi o scomparsi o sopravviventi nel contado - oltre a quelli accennati ed esemplificabili con fameglia, fongo, agnegli, animagli (dove la palatilizzazione del l doppio e scempio è propaggine di un fenomeno spiccatamente italiano centro-meridionale), oltre alla salda tendenza a ridurre -er- ad -ar-, che ritroviamo nell'aretino, in tutta l'Umhria, ecc., e alla desinenza -e nella seconda persona dell'imperativo dei verbi in -ere e in -ire-: 1. l'uso di liei, coliei per lei, colei, come nell'umbro: 2. la riduzione a i e u dei dittonghi da e o brevi tonici in sillaba aperta (insime e Orvito, Ambrugio e lugo), che è fenomeno aquilano, di Città di Castello, di Arezzo, delle Marche, della Romagna, ecc.; 3. i fonemi mb e nd da mm e nn: sémbola "semola", bómbaro "vomere", gómbito, rómbice; céndare (antico cénnare), ma sènaro "sedano"; per il raddoppiamento di consonante postonica nello sdrucciolo, ricordo anche zuffilo o ciuffilo "zufolo", goffano "cofano", dubbito, dubbitare, subbito, sabbato; 4. la prima plurale del perfetto e condizionale con la consonante scempia, fumo, andamo, andaremo (Scipione Bargagli, nel suo Turamino, ch'è del 1602, aveva ancora accennamo, apprendemo, sentimo, ecc.; oggi il fenomeno è ristretto alla campagna), mentre i dialetti occidentali e del centro hanno raddoppiato molto presto; 5. la caduta dell'u semiconsonantico in chello, chesto e calche, chiunche, donche per quello, ecc.: già Dante nella Volgare Eloquenza ai Senesi rimproverava onche e chesto; 6. il pronome enclitico ro, lo per loro, sorto dall'assimilazione di lor alla consonante seguente, e oggi scomparso, ma documentato dai testi più antichi fino alla Congrega dei Rozzi e allo Strascino: è pure del castellano antico e in Ristoro d'Arezzo ed era diffuso nel perugino, nell'orvietano, ecc. Testi antichi senesi e aretini (e volterrani) mostrano traccia di u finale (altru, casu, conventu, sucursu), fenomeno che si esemplifica più largamente quando si passa alla zona umbra. Sembrano di tipo grossetano, o senese, i dialetti odierni delle isole d'Elba e del Giglio.
Il chianaiolo, l'aretino e le parlate dell'ex circondario di Montepulciano hanno un sostrato etnico umbro-senone, e mancano dei suoni aspirati. Pertanto giudichiamo tali vernacoli un sottogruppo a sé, che tramezza fra il toscano e l'umbro. Le aspirate mancano pure alla zona dell'Etruria antica di là dall'Ombrone, che fu soggiogata assai presto dai Romani e dalla malaria fu resa deserta. Non etrusco ma umbro si pensa che sia il sostrato del casentinese, dialetto di fiorentinità non antica, se il Casentino entrò a far parte del dominio di Firenze nel 1440. (Non è etrusco nemmeno il fondo della varietà versiliese, che è priva di aspirate. Nella Garfagnana poi gli Etruschi forse non giunsero mai).
Il dialetto propriamente aretino, scrive U. Pasqui, è parlato, nel contado e dentro la città, dal volgo. Ma "va esso limitandosi con grande progresso. Ed ora si conserva in bocca del basso popolo abitante nel vecchio quartiere di Porta Crucifera o Colcitrone; è scomparso in quella parte del contado che più si avvicina al Valdarno e alle Ferrovie; resta tuttora inalterato e più genuino nella regione montuosa tra Arezzo e Anghiari, opposta a quella che l'Arno irriga allorché ha volto a ponente il suo corso". Il carattere più spiccato dell'aretino e del chianaiolo, è l'ä per a latino in accento di bäco, cäso, mäno, ecc.: acutissima spia celtica, ossia propaggine di fenomeno emiliano-romagnolo; qui raccolgo anche pagliäo, calamäo, e così via, per pagliaio ecc., e le forme in -ä in rispondenza del fiorentino -ai nella prima persona singolare del perfetto di prima coniugazione, nella seconda persona singolare del futuro, e nella seconda del presente indicativo di avere, ecc. Altre particolarità, che aduneremo pure dai testi antichi, sono: 1. i fenomeni che si avvertono in lengua vènto "vinto", fongo onto, conseglio fameglia: ma oggi ad Arezzo si sente lingua, fungo, cigli; 2. la riduzione in ú, í (fuco, ensimo) dei dittonghi ascendenti uo ie (certo per via di úo íe, anche se gli esempî con accento ritratto possano oggi mancare), io invece di uo (gliogo luogo, sioni suoni vivono, per esempio, nella zona dell'Olmo e nei villaggi limitrofi), ọ per il dittongo uo (ossia u???; è da notare anche i???), la dittongazione in puóco e cuósa; 3. il solito imperativo in -e: ma oggi Arezzo ha siedi, vèndili, ecc.; 4. il cambiamento di -er- atono in -ar- (ma sirò, sirai, siribbe accanto a saribbe, sirimmo); 5. l'affievolirsi di a di sillaba postonica interna in e (fégheto, sábeto, stòmmeco, mònneca, bálleno "ballano", cávete "cavati)", fenomeno che si diffonde per quasi tutti i dialetti italiani centro-meridionali, ma è anche romagnolo, emiliano, ecc.; 6. i processi assimilatorî, ben noti per la zona marchigiana umbra romanesca, della vocale atona alla tonica (gintile, sintire, agévegli) o alla finale (grandene, utele, senteme "sentimi", annama, debboto "debito", sciubboto "suhito"); 7. la palatilizzazione in bagli, capegli, cancegli, agévegli, ecc.; 8. i fonemi -mb- e -nd- da -mm- e -nn-: cambera, stombeco, cimbece "cimice", séndare "cenere"; e per il raddoppiamento di cononante postonica nello sdrucciolo, si ricordino anche abbaca "abita", abboto "abito", sciubboto, annama -ema, Domenneca, arsenneco, annetra, manneca, scumunneco; 9. la riduzione di re + consmante ad ar- (armette, ardotta, arfucilläre rifocillare, ecc .), la quale costituisce un anello di congiunzione dei dialetti metauropesaresi con il castellano, il chianino, l'umbhro, ecc.; compare anche nel senese dal principio del Trecento in poi, ma manca nelle opere di S. Caterina; 10. il pronome ro per loro: per es., in Ristoro di Arezzo, come nel senese, ecc.
Bibl.: E. G. Parodi, Dialetti toscani, in Romania, XVIII, p. 590 segg.; C. Merlo, Lazio Sannita ed Etruria latina?, in L'Italia dialettale, III, p. 84 segg.; id., Il sostrato etnico e i dialetti italiani, in Studi glottologici, Pisa 1934, p. 12 segg.; id., Lingue e dialetti d'Italia, estr. dal vol. Italia, Parte generale dell'opera Terra e nazioni, Milano 1935, p. 20 seg.; P. Fanfani, Vocabolario dell'uso toscano, Firenze 1863. Sul fiorentino antico e intorno ai suoi rapporti con i rimanenti dialetti toscani e i dialetti centro-meridionali: A. Schiaffini, nell'Introduzione ai Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze 1926; id., Le origini dell'italiano letterario ecc., in L'Italia dialettale, V, p. 133 segg.; id., Influssi dei dialetti centro-meridionali sul toscano e sulla lingua letteraria, ibid., IV, p. 77 segg., e V, p. 1 segg. Per il passaggio dal fiorentino alla lingua nazionale italiana, oltre all'articolo citato su Le origini dell'italiano letterario; F. D'Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la questione della lingua, Napoli 1933, passim; J. Jud, Zum schriftitalienischen Wortschatz in seinem Verhältnis zum Toscanischen und zur Worgeographie der Toscana, in Festschrift L. Gauchat, Aarau 1926, p. 298 segg. Sul fiorentino odierno anche: G. Volpi, Saggio di voci e maniere del parlar fiorentino, Firenze 1932. Sui dialetti occidentali: E. G. Parodi, in Romania, XXV, p. 144 segg.; S. Pieri, nell'Archivio glott. ital., XII, p. 107 segg. (Fonetica del dialetto lucchese, con appendice lessicale), p. 141 segg. (Fonetica del dialetto pisano, con appendice lessicale), p. 161 segg. (Appunti morfologici, concernenti il dialetto lucchese e il pisano); G. Giannini e I. Nieri, Lucchesismi, Livorno 1917; A. Parducci, Il "Diario del viaggio di Spagna" di F. Spada, estr. dal Bollettino storico lucchese, VII, Lucca 1935, p. 10 e seg., G. Malagòli, La letteratura vernacola pisana, con note linguistiche e glossario, Pisa 1916; J. D. Bruner, The Phonology of the Pistojese Dialect, Baltimora 1894; I. Nieri, Vocabolario lucchese, Lucca 1901. Sul senese: L. Hirsch, Laut- und Formenlehre des Dialekts von Siena, in Zeitschrift f. roman. Philologie, IX, p. 513 segg.; X, pp. 56 segg., 411 segg.; C. Battisti, La parlata senese e Santa Caterina, estr. dagli Studi cateriniani, XI, Siena 1935; e v. G. Fatini, Letteratura maremmana delle origini, estr. dal Bullettino senese di storia patria, III-IV, Siena 1933. Sull'aretino: A. Michel, Die Sprache der Composizione del mondo des Ristoro d'Arezzo, Halle a. S. 1905; S. Pieri, Note sul dialetto aretino, Pisa 1886; U. Pasqui, Il dialetto aretino, in U. Viviani, Vocabolario di alcune voci aretine fatto per scherzo da F. Redi, Arezzo 1928, p. 16 segg.; e v. G. I. Ascoli, in Archivio glott. ital., II, p. 443 segg. Sul castellano: B. Bianchi, Il dialetto e la etnografia di Città di Castello, Città di Castello 1888.
Letteratura dialettale.
A quel che si dice della letteratura vernacola fiorentina nei secoli passati nella voce firenze, qui occorre aggiungere che, dopo l'esempio fortunato di Augusto Novelli, si è venuto formando un largo repertorio teatrale fiorentino, al quale hanno contribuito, in varia misura, oltre al Novelli: F. Paolieri, G. Bucciolini, U. Palmarini, G. Forzano, G. Viti Pierazzuoli, B. Carbocci, U. Romagnoli, G. Svetoni, N. Vitali, E. Novelli (Yambo), L. Giachetti, L. Bonelli, A. Setti, D. Guccerelli, E. Sestini, E. Ferrati, G. Mazzuoli, A. Nutini: tutti autori che con le loro commedie e bozzetti rappresentano aspetti e fatti della vita del popolo della città e della campagna di Firenze, in modo soprattutto giocoso; qualcuno di essi anche con forza drammatica, come Yamho; oppure molto concedendo al sentimento familiare e domestico, come la Viti Pierazzuoli e, in particolare, il Carbocci. Il germe del moderno teatro fiorentino si può riconoscere in alcuni giornali umoristici popolari, redatti di preferenza in vernacolo, tra i quali è da ricordare specialmente La Chiacchiera, che si pubblicò in Firenze dal 1860 al 1892.
Numerosi sonetti umoristici e satirici fiorentineschi compose e pubblicò Venturino Camaiti (morto nel 1933); alcuni pochi, argutissimi, ne diede in luce Luigi Bertelli (Vamba); ne hannn pubblicati di vivaci Napoleone Passerini (Fra Garagolo) e Dino Fazzini, che ha anche scritto commedie in collaborazione col Setti. Monologhi e componimenti diversi in prosa e in versi fiorentineschi sono stati scritti da G. Ginanni, R. Benini e S. Volpi. Nella provincia, Prato ci presenta un vernacolista nell'operaio Giuseppe Paolini, il quale ha inteso di volgarizzare in sonetti i Promessi Sposi.
Un gran numero di scrittori e di opere vernacole conta Pisa, la quale ha tenuto fin qui il primato - ora messo in forse dal ricco e, per più rispetti, notevole teatro fiorentino - della letteratura vernacola toscana coi popolarissimi sonetti di Neri Tanfucio (v. fucini, renato) e dei suoi seguaci, non solo pisani. Ricordiamo fra questi: G. D'Angiolo (Beppe dell'Angiolo), don T. Bozzi (Bozzolo Feiti), G. Puccianti (Beppe di Banchi), A. Bellatalla (Mede), A. Birga (Agrib), A. Lazzeroni (Angiolino), E. Bianchini (Nanni Bierocchi) di Santa Maria a Monte, D. Vanni (DinoVarani), N. G. Fiaschi, G. Bani (Ubene Sappigi), G. Mosti, I. Gemignani (Guido Reni) e il volterrano E. Cangini. Sonetti in vernacolo pisano sono stati scritti anche dai pistoiesi V. Vivarelli e V. Gozzoli (Gigi Vizzo Rollio). La sestina è stata trattata da G. Codecasa (Rocco da Pisa), dal D'Angiolo, da L. Giovannini e dal Birga; il monologo in prosa, dal Birga, da U. Carniello, da P. G. Colombi (Ludovico Disperati) e da altri; il poemetto eroicomico e la parodia drmamatica, dal Giovannini; il poemetto epico-lirico in terzine, dal Vanni; la fantasia storicopoetica in sciolti, da D. Sartori; la favola in versi, dal Birga; il teatro, pure dal Birga, dal Bani e da F. Scarlatti.
Accanto a Pisa, per la copiosa fioritura vernacola, è da porre Livorno. Qui, avanti il Fucini, scrissero novelle, poemetti, qualche sonetto, prose di lunarî, dialoghi e scherzi N. Falcini, G. L. Fiori, G. Guarducci e alcuni altri. Più tardi, sull'esempio del Fucini, han trattato a preferenza il sonetto i livornesi U. Ambron (Mago Bruno), F. Frediani (Calambrone), E. Griselli (Egisto Elletrih), V. Matteucci, autore anche di rispetti e favole, G. Fougier (Furegio), A. Davini, F. Canigiani (Bocco), V. Lessi e, degno di nota particolare, D. Targioni-Tozzetti (Cangillo). Parodie e scherzi comici in livornese hanno scritto M. Baffoni e B. Pegolotti.
Anche Lucca ha una sua letteratura vernacola, che risale con qualche componimento al sec. XVII. Per una quarantina d'anni, dal 1835, vi si stampò sotto il nome di Goga un lunario vernacolo come era stato fatto precedentemente a Livorno con i lunarî del Fiori e del Falcini. Misti di lingua e di dialetto sono i popolareschi racconti lucchesi di I. Nieri (morto nel 1920). Schietto vernacolo - sia lucchese propriamente, o del piano o del monte, sia camaiorese, sia garfagnino - usano invece, nel monologo in prosa G. Giannini (Giannin di Monte); nel sonetto di tipo fuciniano, don N. Sorbi (Ciro Banolosi), C. Lucchesi, A. Giannini, G. Custer De Nobili, che ha scritto pure in vernacolo liriche diverse e poemetti narrativi, e A. Michelini di Camaiore; in versi di metro vario, P. Bonini di Castelnuovo di Garfagnana.
Non abbondante ma pregevole la letteratura vernacola senese, che vanta, per la città, i sonetti storici e sociali di E. Felici, e, per la campagna, le vive "fonografie" valdelsane di G. Cepparelli.
Pistoia - prescindendo dalle belle raccolte di fiabe, dovute a Gherardo e a Rodolfo Nerucci e a Verano Magni, che appartengono veramente al folklore - ci dà alcuni sonetti di S. Frosini (Frisino), e, in vernacolo pesciatino, quelli in buon numero di I. Andreucci (Ivone); Grosseto, i sonetti pitiglianesi di A. Becherini ('Ntognu 'Bberni); e Arezzo, i versi in dialetto chianaiolo di R. L. Billi, e i sonetti e strofe in vernacolo cortonese di A. Berti (Tonio Nerbati). Di Massa si ricorda sempre la commedia in dialetto Baltromeo Calzolaro di P. Ferrari, ridotta poi in lingua dallo stesso autore, col titolo Il codicillo dello zio Venanzio. Né manca neppure oggi qualche tentativo di teatro in dialetto massese.
Bibl.: A. Parducci, Sulla letteratura vernacola contemporanea e i dialetti toscani, nel vol. Il popolo toscano, a cura di G. Giannini e A. Parducci, Milano 1926, pp. 259-76, con bibl.; C. Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, ivi 1929, pp. 199-201; F. Polese, Letteratura vernacola livornese, Livorno 1926; G. Malagoli, La letteratura vernacola pisana posteriore al Fucini, Pisa 1916; id., Letter. del Gioco del Ponte, nel n. unico Il gioco del ponte, ivi, giugno 1935; A. Mancini, Sonetti in vernacolo ed epigrammi, in Rassegna naz., 1° aprile 1912; R. Barabesi, Bibl. della prov. di Grosseto, Siena 1930.
Folklore.
Diffusissime sono tuttora le credenze nella magia (v.) e altre, che risalgono alla mentalità primitiva. Influenza magica vene ascritta, si può dire, soltanto alle donne che, con i marinai e i contadini più arretrati, costituiscono anche l'ambiente in cui tali credenze continuano a prosperare. Nel modo di pensare proprio della mentalità primitiva, trovano la loro giustificazione pratiche e credenze specie di carattere magico, quali il levare il cuore a una rondine ancor viva e darlo a inghiottire al bambino cui si vuol dare talento; l'uccidere alla mezzanotte tra il venerdì e il sabato, quando splenda la luna, una colomba dalle penne bianche, strapparle il cuore e conficcarvi spille nere, pronunciando a ogni puntura delle formule al fine di dar tormento d'amore; legare alla zampa d'un rospo, che poi muore, una ciocca di capelli della persana di cui si vuole la morte; o la benedictio ovorum, dovunque praticata. Frequenti anche le credenze nel malocchio, relative ad animali o bambini. Per vedere se questi siano stati stregati, i genitori versano tre gocce d'olio in un piattino colmo d'acqua imposto sulla testa del ragazzo: se le gocce, anziché restar compatte, si slargano a formare piccole stelle, la malia è sicura e per eliminarla si ripete l'operazione - meglio di mercoledì o di sabato - tre, cinque, sette o più volte (sempre un numero dispari) pronunciando la formula: "nel nome di Gesù, di Giuseppe e Maria, se ha il malocchio o altro male, vada via". Le donne incinte non devono portare fili al collo, né cucirsi niente addosso, se no il cordone ombelicale strozzerà il neonato. Alla malia si ricorre generalmente quando la gravidanza sia cattiva; quando alla puerpira sia per mancare il latte, quando le ragazze temono di perdere l'amato. Ma contro la malia, come contro i demonî (anime dei morti, o potenze infernali) si usano anche amuleti, portati al collo o al petto. Essi in parte sono suggeriti da credenze vitalistiche (quadrifogli), in parte consistono invece in medaglie o immagini sacre o benedette (di S. Anna, per la partoriente; di S. Benedetto, per la puerpera). Un ramo d'abete impedisce alle streghe d'entrare in casa. Alla stessa mentalità appartengono la credenza nei lupi mannari, o che la notte dei morti gli spiriti dei defunti tornino a visitare le loro case; e poi tutte le prescrizioni relative ai presagi buoni e cattivi (obviatio: uscendo di casa è di buon augurio incontrare bovi bianchi, cavalli, barrocci a quattro ruote, un uomo, un frate con la barba; farfalle che entrino in casa, se bianche indicano buone nuove, se nere cattive; mentre di malaugurio sono il pipistrello entrato in casa, l'ululare del cane, il canto della civetta, il gatto - specie se nero - che attraversi la strada). Anche nella medicina popolare sopravvivono pratiche magiche: lavandosi il viso nella rugiada il giorno di S. Giovanni, prima che spunti il sole, si è preservati dalle malattie d'occhi per tutto l'anno.
Da siffatte credenze (come anche, per es., da quelle nell'intelligibilità della lingua degli animali, in tesori nascosti sotterra, ecc.) traggono materia in ampia misura le fiabe, che in vario modo le rispecchiano o elaborano in forma più o meno artistica. Delle leggende, parte si riferiscono ad avvenimenti e località reali, parte hanno come contenuto episodî fantastici della vita del Signore o degli apostoli, o di santi o di peccatori convertiti oppure finiti preda del diavolo (Leonzio).
Di rappresentazioni drammatiche sopravvivono: il bruscello (v. anche App.), i contrasti, i testamenti, le zingaresche le befanate e i maggi drammatici. Il contrasto, il testamento, la zingaretta sono ormai ristretti al solo contado lucchese. Tutti e tre sono in stanze di tre settenarî e un quinario (rimanti il secondo verso col terzo, il quarto col primo della stanza seguente) e si assomigliano per l'intreccio e per il carattere dei personaggi; sennonché nella zingaresca (drammatica: forma secondaria della zingaresca lirica, v. canto, VIII, p. 801) la parte principale è sempre sostenuta da una zingara, che con i suoi incantesimi toglie gl'impedimenti al matrimonio degl'innamorati infelici; nel contrasto il motivo comico consiste principalmente in una disputa o in un litigio che termina sempre in un duello o in una scarica di legnate; mentre nel testamento è costituito dalla figura ridicola del dottore (notaio) e dalla parodia dei testamenti o dei contratti nuziali (G. Giannini, Il pop. tosc., pp. 22-23).
Quanto al canto popolare, molto diffusa in tutta la Toscana (la più antica testimonianza risale al 1536) è la canzone epico-lirica di tipo francese, dalla quale si distingue un altro tipo di canzone, pur essa epico-lirica, di metro differente, proprio dell'Italia centrale. M. Barbi ha individuato inoltre una corrente di canti dalle forme più libere proveniente dal Mezzogiorno (ad es., le versioni toscane della Scibilia Nobili).
Grande antichità e popolarità hanno le canzoni enumerative e iterative, delle quali M. Barbi ha per primo individuato il tipo. Lo stesso Barbi, nella sua raccolta inedita, ne possiede gran numero, con notevoli varietà fra loro, raccolte da ogni parte d'Italia.
Dei canti lirici le forme più importanti sono il rispetto (v.) e lo stornello (v. canto, VIII, pp. 802-03). Sui canti religiosi e i canti di questua (befanate e maggi lirici; befanate e maggi religiosi; befanate e maggi drammatici) v. canto, VIII, pp. 802-03; befanata; maggio.
Fra i libri popolari (v. libro: Libri popolari) i Reali di Francia e il Guerino Meschino, di cui confermano la popolarità i nomi di persona, dopo la guerra mondiale hanno ceduto di fronte a ristampe a buon mercato sia di romanzi della letteratura mondiale, dai Promessi Sposi a Guerra e pace, sia semplicemente erotici e dilettevoli.
Delle stampe popolari, la massima parte di quelle che circolavano anche nel sec. XIX è ormai irrimediabilmente distrutta. Le raccolte maggiori che se ne hanno sono quelle della Biblioteca Nazionale di Firenze, della Biblioteca Governativa di Lucca, delle raccolte D'Ancona a Tivoli e Bongi a Lucca.
Tali stampe, ora per la maggior parte fornite dal Salani di Firenze, corrono tuttavia frequenti tra il volgo.
Alla letteratura popolareggiante si ricollega l'improvvisazione (v.).
Fra le usanze meritano particolare menzione: il bruciamento del "ceppo" la sera della vigilia di Natale; il "bruciare il carnevale" "facendo fuochi nelle vie o nei campi o infilzando su di un palo un uomo di paglia e bersagliandolo di fucilate"; il trasporto funebre del Carnevale; il "segare la vecchia" che risale all'uso antico di "sospendere in alto... un fantoccio in forma di monaca o di vecchia, e il giorno di mezza Quaresima salir su due scale... e dividerlo per il mezzo, volendo con ciò significare che metà del periodo quaresimale era passato" (G. Giannini): costumanza da cui deriva l'uso, caro ai ragazzi, di attaccare, il giovedì di mezza quaresima, scale o seghe di carta ai passanti, per dar loro la baia.
Dei vecchi giochi i più importanti sono: quello del calcio (v.) a Firenze giocato da ultimo nel 1739, ma ora riesumato; il palio (v.) di Siena; il gioco del pallone, scomparso da una trentina d'anni; infine quello del ponte di Pisa, giocato l'ultima volta nel 1807, e ora anch'esso riesumato.
Bibl.: G. Giannini e A. Parducci, Il popolo toscano, Milano 1926. V. inoltre: G. Bottiglioni, Etnografia apuana, in L'Italia dialettale, XI (1936), pp. 153-84; G. Galletti, Nel Montamiata, Città di Castello 1913.
Materiale per la religione popolare e le credenze magiche presso: G. B. Corsi, Vita senese, in Archivio per lo studio delle tradiz. pop., IX, p. 105; id., Sena vetus, ibid., IX, p. 521; X, p. 28; id., Usi nuziali senesi, ibid., XIII, pp. 403-15, 473-87; id., Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo senese, ibid., XIV, pp. 84-92, 416-25; G. Bacci, Usi e costumi dei contadini della Valdelsa, ibid., XIV, pp. 93 segg., 218 segg.; XV, p. 48 segg.; ibid., V, p. 134. Su altri aspetti della religione popolare moderna: G. B. Corsi, In chiesa, ibid., XVI, 34-41; G. Nerucci, Storielle popol., ibid., IX, p. 391.
Raccolte di fiabe, leggende e novelle: V. Imbriani, La novellaia fiorentina, Livorno 1877; G. Nerucci, Sessanta novelle montalesi, Firenze 1880. V. inoltre: G. Pitré, Bibliogr. dele tradizioni pop. d'Italia, Torino-Palermo 1894; G. Giannini, Il carnevale nel contado lucchese, in Arch. cit., VII, pp. 302-43; G. B. Corsi, La Mezza Quaresima in Siena e nel Senese, ibid., XX, pp. 145-55; M. Barbi, Maggi della Montagna pistojese, ibid., VII, pp. 97-113.
Canti popolari: del materiale ricchissimo raccolto da M. Barbi è prevista un'edizione critica in 10 volumi. Buona antologia, con ricca bibl.: G. Giannini, Canti pop. toscani, 2a ed., Firenze 1921. Per le canzoni epico-liriche: G. Giannini, Canti pop. della Montagna lucchese, Torino 1889; per rispetti e stornelli, G. Tigri, Canti pop. toscani, 3a ed., Firenze 1869. Sulla poesia popolare: M. Barbi, Poesia pop. pistoiese, Firenze 1895; id., Per la storia della poesia pop. in Italia, negli Studi... dedicati a P. Rajna, Firenze 1911, pp. 87-117; id., Scibilia Nobili, Torino 1929; id., Poesia e musica pop., in Pan, sett. 1934, pp. 41-55; V. Santoli, Nuove questioni di poesia pop., Torino 1930; id., Problemi di poesia popolare, in Annali della Scuola Normale super. di Pisa, 1935, pp. 93-110. Inoltre: G. Nerucci, I nomi e i soprannomi nel Pistoiese, in Arch. cit., II, pp. 441-42; G. Giannini, Blasone popol. lucchese, ibid., XXII, pp. 89-105, 149-66.
Musica popolare.
Da tempo lontano e in alcuni casi forse indeterminabile si svolge in tutta la Toscana o in parte del suo territorio un teatro campagnolo e popolare: il Maggio (v.) e i suoi affini, il Bruscello (v.), e la Zinganetta (v.), che hanno, presso a poco, lo stesso corso se non proprio la stessa musica, e che piacciono anche oggi.
La maggiolata, la commedia in moresca con balli e canto in cui dovettero pure entrare modi popolari, l'egloga pastorale mista di sali contadineschi, la canzonetta polifonica in cui s'inserivano elementi di musica popolare con un trapasso alla musica dotta, son cose assai note di Toscana, come le sacre rappresentazioni, i drammi liturgici, le giostre. L'ars nova fiorentina del Trecento, le melodie del popolo con le commedie madrigalesche, le favole pastorali, contribuirono certo alla formazione dell'opera in musica che gli eruditi fiorentini trassero in vita alla fine del Cinquecento. E prima e dopo il Rinascimento fino ai tempi moderni, in Toscana come dappertutto, musica popolare e musica dotta talora si compenetrarono, quella avvicinandosi alle forme d'arte individuali, specialmente in Toscana, questa sovente attingendo al rivo popolare.
Quanto alla lauda, è noto che essa nacque e prese nutrimento dalla lirica popolare latino-cristiana. F. Ludwig trascrisse due melodie del Duecento, la XIX e la XX del laudario cortonese, e le attribuì senz'altro al genere popolare; laddove F. Liuzzi, tenendo in gran conto, fra l'altro, l'accordo con cui ivi procedono musica e poesia, considera l'intera raccolta opera di artisti, arte nuova "di spirito e forma extraliturgica nonostante l'ispirazione o, a volte, la trasposizione religiosa", arte "originalmente e risolutamente volgare, non appena staccata da qualche antichissima modulazione ancora ambigua tra l'ecclesiastico e il popolare". È noto inoltre quale profusione di melodie popolari e popolaresche si trovi raccolta nelle laudi del Cinque-Seicento, scritte spesso sulla falsariga delle canzoni profane. La reazione cattolica diede un travestimento spirituale al canto popolare sorto per tutt'altro scopo: così La pastorella si leva per tempo si trasforma in Lo fraticello si leva per tempo, La violetta ∣ Ch'in su l'erbetta ne La Maddalena ∣ di doglia piena, e via continuando. D. Alaleona riesumò, fra l'altro, una lauda, Misera me che 'nvan mi doglio et piango, composta sopra una melodia che l'autore "sentì una volta cantare da certe fanciullette, andando fuori a diporto...". Le tre raccolte del Coferari (1675, 1689, 1710) contengono, com'è noto, la trascrizione di circa centoquaranta melodie popolari (v.: musica: La musica popolare).
Delle canzoni narrative la maggior parte è costituita da quelle di tipo francese, e di altre di metro diverso, originario dell'Italia centrale (v. sopra: Folklore). Ma è diffusa anche una canzone di origine meridionale, quella della Scibilia Nobili, della quale M. Barbi e V. Frazzi hanno pubblicato dodici versioni melodiche, di cui cinque hanno un motivo di ballo, tre di ninna-nanna e tre di canzoni. La versione di Borgo a Mozzano (Lucca), di cui si riporta qui la seconda parte, reca tre misure di coda, è spigliata, aperta, con quella voluta parabolica e il ritmo fresco di danza:
Ecco ora la melodia di una canzone narrativa, raccolta nell'Appennino Tosco-Emiliano:
Soprattutto nel Lucchese sono vive le befanate (v.). Ecco una melodia raccolta nel Barghigiano:
Si esaltano le virtù della casa ove c'è un bel mandorlo fiorito, una donna da marito, e della Befana che fu cantata anche al Messia; e se vengono doni, il canto s'ingentilisce nel ringraziamento:
La prima melodia è della seconda metà dell'Ottocento e forse anche anteriore. La seconda, nata dal bisogno di raddolcire l'espressione nel ringraziamento, è venuta a poco a poco quasi a sostituire la prima per tutto il canto della Befana. La si usa ormai senza pensiero, venendo meno al motivo che la fece nascere. È la Befana moderna. Ma questa Befana moderna (di 8 misure) non rappresenta uno sviluppo, un arricchimento formale della precedente (di 8+ 4 misure, con la ripetizione delle parole del verso iniziale, quasi corona, coda, ed efficacissima per quel pomposo riannunziarsi spiegatamente sicuro), bensì un cambiamento dell'espressione, cioè un ingentilimento, come abbiamo detto: e in quell'àmbito di modo maggiore si sente l'ombra del minore (VI grado):
Che la seconda melodia sia strettamente generata dalla prima non si può dubitare: si veda l'anacrusi e la terzina cadenzale dei due esempî.
La Rondinella è, quanto alla musica, il più bel rispetto toscano; lo si trova nel Cortonese, con qualche cambiamento nella poesia, e si canta inoltre nella Toscana settentrionale. Di forma liberissima, vi si notano anomalie di accentuazione, ma si sa che in casi consimili il cantore si attiene sempre allo schema musicale come ritorna altre volte. Ciò si può constatare anche nei cantori di poesia (estemporanei), che cambiano accenti, elidono vocali e perfino sillabe, rabberciando le parole per la rima pur di andare a tempo e stroficamente giusti. Le poesie passando di bocca in bocca, di provincia in provincia si modificano; si scombinano le parole per i proverbî, per le preghiere tutt'al più la rima diventa assonanza, ma l'orecchio deve essere sempre soddisfatto. Dato un canto con una figurazione ritmica e melodica precisa, lo si rispetta ad ogni ritorno non usando mai elementi ternarî dove il procedimento è binario, o viceversa. In altri termini, i cantori popolari abborrono dalle eccezioni e hanno una vera e propria "forma" alla quale si serbano fedeli, sentendo e subendo, più che il significato delle parole, la suggestione musicale.
L'avvenimento crea la musica, e per la disposizione naturale del popolo essa è la sua eco; poi si generalizza colorandosi di altre parole e su queste si trasportano altri avvenimenti più o meno transitorî, come già in antico e nel Medioevo, quando la stessa lirica religiosa accomodava le parole alla musica. Si veda la canzone di Tito Strocchi dei tempi del Risorgimento, le Storie della prima guerra d'Africa, Come ti posso amar, Povero colonnello con tutti i suoi soldati, e' furon trucidati a Dogali e Saati; Io vado in Affrica a vendicar, il sangue misero degl'italian; o Menelicche, le palle son di piombo e non pasticche; O Baldissera, 'un ti fidar di quella gente nera; e altresì la Storia di Beppe (Lucca) e Bada all'armadio se no ti c'entra il frate (Pisa). Contribuivano inoltre le Storie da cinque centesimi di G. Moroni, detto il Niccheri, o "il letterato", di professione cantastorie.
La musica, interessante qui per come cadono le misure, non corrisponde mai alla strofa; si tratta di una stesura tipica, e il senso si trova sempre alla fine, cioè nella morale: Bada all'armadio! Riprendendo la strofa se no ti c'entra il frate, ecc., l'ultima misura deve essere di 4/4 e non di 2/4, come si trova scritta; così sarà eguale alla seconda e le misure di 2/4 e di 4/4 , si alterneranno regolarmente in perfetta simmetria.
Le strade alla fine dell'Ottocento, coi mestieri girovaghi, le voci dei rivenduglioli, i sonatori, i poveri, erano allora assai interessanti dal punto di vista musicale. Quel cavallo bolso che andava in tralice trotterellando per le vie di Pisa, schioccava in terra, alle volte, fra le ire del vetturino, provocando il dileggio dei ragazzi che gli rifacevano il passo barcollante:
Ecco il canto della venditrice di brace (Pisa):
Qui la corona si prolunga assai, come si può constatare in molti canti stradaioli; in essi di solito si prolungano alcune vocali come l'a e l'o, perché queste si odono più lontano là dove cessa la percezione delle altre vocali e consonanti.
Il migliacciaio (questo canto, come quelli che seguono, è di Firenze):
Il cenciaiolo:
La tristezza indolente della melodia dalla voce rotta sull'o dell'annunzio al principio e alla fine, che si anima appena nella terzina con l'appello alle donne, è quanto mai penetrante. È la miseria che va a spasso stracco coi suoi cenci in cerca di altri cenci.
Il ranocchiaio:
Il pentolaio:
Lo spazzacamino:
Il granataio:
Nei canti del popolo toscano, generalmente, la melodia si svolge con semplicità e quasi senza modulazioni, e non interpreta sempre il senso delle parole, né si contenta del limite di poche note, ma sale oltre l'ottava. La frase corta e ritmica che predomina nei canti dei popoli meno progrediti è sostituita dalla frase melodica e cantante, che talora romanzeggia perfino nelle ninne-nanne, sorta anche sotto l'influenza del teatrn d'opera e degli spettacoli in genere non esclusi i Maggi delle campagne. Lo spirito popolare penetra e rimane volentieri nel dominio burlesco, con la dote tutta naturale del popolo toscano, come abbiamo visto nel quadretto del ronzino zoppicante di Pisa. I Toscani cantano molto, anche parlando alternano - e in un certo senso modulano - gli accenti delle parole, rinforzando e decrescendo notevolmente il suono, e hanno voci, in genere, sonore. Quelle dei giovani sono squillanti, ardite, con un colorito tintinnante, chiaro, mentre gli anziani hanno tra loro, come dappertutto, un carattere più uniforme, con un colorito un po' opaco proprio del suono semplice, che è dolce e appare più basso di quello che non sia realmente, ma il loro canto è tutt'altro che vuoto e scarso.
V. anche canto: Canto popolare.
Bibl.: D. Alaleona, Le laudi spirituali italiane nei secoli XVI e XVII e il loro rapporto coi canti profani, in Rivista musicale italiana, fasc. 1, 1909; P. M. Masson, Chants du carnaval Florentin, Parigi 1913; G. Warrack, Folk Songs of the Tuscan Hills, Londra 1914; G. Fara, L'anima musicale d'Italia, Roma 1921; A. Bonaccorsi, Canti toscani, in Comoedia, 15 aprile-15 maggio 1929; M. Barbi, Scibilia nobili, con nota musicale di V. Frazzi, Torino 1929; P. Fortini, Modi e canti della Toscana, Milano 1930; L. Neretti, Fiorita di canti popolari toscani, voll. 2, Firenze 1929-1934; M. Barbi, Poesia e musica popolare, in Pan, sett. 1934, pp. 41-55; F. Liuzzi, La lauda e i primordi della melodia italiana, voll. 2, Roma 1935; A. Bonaccorsi, L'ultimo giorno di carnevale a Bibbiena e la canzone della "Brunetta", in Lares, 1935, fasc. 3; id., La canzone di Tito Strocchi, ibid., 1935, fasc. 4.