Totalitarismo
di Karl D. Bracher
Totalitarismo
sommario: 1. Definizioni e controversie. 2. Sviluppo e ‛autointerpretazione' del totalitarismo. 3. Possibilità di applicazione. 4. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Definizioni e controversie
Sul terreno politico, come su quello scientifico, il concetto di totalitarismo viene elaborato dopo la prima guerra mondiale. Già in precedenza i termini ‛totalitario' e ‛totale' erano stati occasionalmente usati per indicare, rispettivamente, il rafforzarsi del dominio politico e l'estendersi di un conflitto armato; oggi si parla di totalitarismo soprattutto in riferimento ai tre sistemi dittatoriali di dominio del periodo fra le due guerre mondiali: il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, lo stalinismo in Russia. Le pur grandi differenze esistenti in particolare fra i sistemi autoritario-nazionalistici e il comunismo vengono così sussunte sotto un concetto generale che vuol caratterizzare la forma moderna estrema della dittatura: in ciò appunto è da ravvisare il tratto essenziale, e la problematica, del totalitarismo sia come concetto che come realtà.
Poiché il concetto di totalitarismo nasce, negli anni venti e trenta del nostro secolo, in connessione con una forma e uno stadio particolari della dittatura moderna, il suo uso si modifica con la fine dei regimi fascista e nazista. Ma esso viene sempre più rimesso in discussione soprattutto a partire dalla morte di Stalin (1953), con il conseguente processo di trasformazione dei sistemi comunisti. È ancora (o era) lecito e ragionevole paragonare i passati regimi fascisti con i sistemi comunisti in evoluzione?
L'acuirsi di dubbi e controversie circa la possibilità di comparare o addirittura equiparare regimi così marcatamente contrapposti deriva, non da ultimo, dalla scala di valori adottata e dall'uso polemico del concetto di totalitarismo. Difatti, sono stati in prevalenza i sostenitori d'una concezione liberale della democrazia a definire, ricorrendo al concetto di totalitarismo, la differenza fondamentale fra le democrazie occidentali e le dittature moderne, sia di destra che di sinistra: non la natura della loro ideologia, bensì la loro aspirazione totalitaria appariva come il criterio principale di distinzione.
I problemi della definizione concettuale si sono fatti ancora più complessi per l'intreccio che, dopo il 1945, è venuto a crearsi fra le teorie del totalitarismo - e la loro critica - e i conflitti della ‛guerra fredda'. Gran parte delle opere più rilevanti sul totalitarismo appare infatti all'ombra della contrapposizione globale fra Est e Ovest, con la drastica suddivisione, su scala mondiale, tra regimi liberal-democratici e regimi comunistico-dittatoriali. Nessuna meraviglia, quindi, che molti degli studiosi contemporanei considerino la nozione di totalitarismo come maneggevole strumento di polemica ideologica piuttosto che come utile mezzo di analisi politica.
Ora, è bensì vero che il peculiare rilievo politico del concetto esige cautela critica, come d'altra parte non si può dimenticare l'effettiva sussistenza di profonde diversità tra fascismo, nazismo e, in particolare, comunismo; ma non meno vero è che, proprio nelle sue forme estreme e più coerenti, la dittatura moderna costituisce un oggetto - e oltremodo importante - suscettibile di analisi comparativa. La ricerca di caratteristiche comuni a quei regimi, e d'una teoria generale intesa a spiegarne la struttura e la prassi, ha fornito una quantità d'indicazioni e interpretazioni significative, potenziando la capacità di individuare affinità e differenze. Ne consegue, plausibilmente, il tentativo di differenziare i tipi o le versioni del totalitarismo e non già il completo ripudio del concetto.
È significativo che, da sempre, il rifiuto di un concetto generale di totalitarismo sia venuto da parte comunista e sia stato accompagnato dal tentativo inverso d'applicare un concetto il più possibile allargato di fascismo a Stati non comunisti e società ‛capitalistiche', a onta della loro disparatissima natura.
Da simili controversie, di marca chiaramente politicoideologica e propagandistica, nettamente si distacca il dibattito ‛scientificamente' fondato sul totalitarismo. Esso prende le mosse anzitutto dalla questione se e per quali aspetti la struttura e il funzionamento di regimi ‛totalitari' differiscano essenzialmente dalle dittature ‛classiche', sin dal tempo di Platone e Aristotele note sotto il nome di ‛dispotismo' e ‛tirannide'. Ora, la maggior parte delle definizioni del totalitarismo si fonda sul fatto che le dittature contemporanee sono orientate verso il modello d'una completa centralizzazione e di un'uniforme regolamentazione di tutti i settori della vita politica, sociale e intellettuale. Questa tendenza oltrepassa di gran lunga le forme precedenti di dominio assolutistico o autocratico e le loro possibilità in materia di controllo politico, sociale e tecnologico dei sudditi.
In tal senso il totalitarismo è realmente un fenomeno del nostro secolo: le sue possibilità sono radicalmente diverse da quelle di cui disponevano i vecchi regimi dittatoriali. La sua condizione primaria e affatto essenziale è costituita dall'industrialismo moderno e dalla tecnologia nell'‛era delle masse'; la mobilitazione delle masse è la vera base e legittimazione del dominio totale. L'attuale livello di perfezione in fatto di organizzazione, comunicazione, propaganda, dischiude la possibilità e offre gli strumenti per quel controllo capillare, quella mobilitazione totale, quell'‛allineamento' (Gleichschaltung) - frutto o di costrizione terroristica o di seduzione persuasiva - della vita e del pensiero di tutti i cittadini, di cui finora la storia non ha visto l'eguale (v. propaganda).
In quanto sistema politico, il totalitarismo è l'effetto immediato delle crisi che costituiscono il retaggio della prima guerra mondiale. Lo sviluppo tanto del fascismo e del nazismo quanto del comunismo è strettamente connesso con le conseguenze politiche e socioeconomiche della guerra, oltre che con le sfide ideologiche da essa generate o inasprite. Al tempo stesso, i regimi tendenzialmente totalitari si sono nettamente distaccati dalle vecchie dittature e dai vecchi assolutismi, soprattutto per il rapporto profondamente ambivalente che intrattengono con la democrazia moderna. È questo un tratto essenziale di tutti i movimenti totalitari (e del loro dominio): essi rifiutano bensì il sistema pluralistico della democrazia rappresentativa, ma al contempo si presentano come una forma superiore di dominio popolare, una forma ‛democratica' di consenso e coesione del popolo.
Senza l'idea democratica della sovranità popolare e la sua concreta realizzazione nello Stato moderno, il totalitarismo non è dunque né pensabile né realizzabile. Resta imprescindibile, infatti, la pretesa del totalitarismo a legittimarsi tramite acclamazioni plebiscitarie: una pretesa ovviamente pseudodemocratica, giacché, a differenza di quanto avviene nella democrazia reale, di altro non si tratta se non della manipolazione dell'assenso al dominio d'un ‛capo' o d'un partito unico, che dal canto loro pretendono d'incarnare totalmente la volontà generale nello Stato e nella società. Per differenti che siano le loro condizioni storiche, il loro quadro sociale e nazionale, le loro mete e posizioni ideologiche, i vari movimenti totalitari hanno indubbiamente tutti rilevanti tratti in comune, che si rivelano non appena si considerino i metodi e la prassi del dominio, la tecnica di governo, la manipolazione e l'oppressione. I tentativi finora compiuti per individuare il denominatore comune dei sistemi totalitari hanno portato, di là d'ogni controversia, a una serie di risultati che ne chiariscono in modo decisivo l'indole e il funzionamento.
Basilare in tutti i regimi totalitari è la pretesa d'un partito e d'una ideologia al controllo esclusivo. È impedita l'attività di partiti e gruppi politici rivali, così come conculcata è la fondamentale esigenza della libertà individuale, dei diritti dei singoli e della loro tutela. Per questa ragione, malgrado la sua legittimazione pseudodemocratica, il totalitarismo è un nemico del movimento democratico per i diritti umani e civili, sia che lo ripudi esplicitamente (come nel fascismo e nel nazismo), sia che lo contraffaccia manipolandolo (come nel comunismo di stampo leninista e, soprattutto, stalinista). I veli ideologici d'un totalitarismo che si presenti come ‛democratico' - quelli cioè che differenziano il totalitarismo di sinistra da quello di destra agli occhi dei difensori del primo e dei critici di una teoria generale del totalitarismo - cadono di fronte a una chiara distinzione fra totalitarismo e democrazia: la dittatura del partito unico e la soppressione, sostenuta nell'ideologia e nella dottrina, dei diritti dell'uomo dimostrano che i principî democratici di tolleranza, di libero sviluppo della persona, di autonomia dei vari ambiti della vita e della cultura altro non sono per i sistemi totalitari se non una contradictio in adiecto.
A queste osservazioni si potrà obiettare che i principî dell'ordinamento totalitario, quali la dittatura di un ‛capo' ovvero la dittatura del proletariato, sarebbero giustificati dal perseguimento, reale o illusorio, d'una finalità ideologica, cioè d'una forma superiore e definitiva di ‛libertà' per tutti. Una siffatta giustificazione dei mezzi della dittatura con i grandi fini perseguiti appartiene all'armamentario classico dell'apologetica totalitaria, e non rende certo, per i singoli individui concreti che la subiscono, l'oppressione meno gravosa solo perché l'avvolge nella magniloquenza reboante d'una dittatura popolare mascherata da democrazia di massa. Le conseguenze effettive restano pur sempre l'abolizione delle libertà personali e la negazione d'ogni attività politico-sociale fuori dei confini segnati dal regime, mentre la meta finale - per lo più utopistica - che dovrebbe giustificare l'oppressione viene forzosamente innalzata a unico metro del pensare, dell'agire, e del soffrire. Tanto gli individui quanto i gruppi devono essere integrati in un sistema chiuso, in cui tutto è vincolato, un sistema che incarna o prepara il futuro ordinamento dello Stato e della società. I cittadini devono dunque essere trasformati in ‛uomini nuovi', il cui consenso, il cui entusiasmo, e anzi il cui dinamismo rivoluzionario sono spronati da una fede ideologicamente condizionata nella propria missione; s'instilla il dovere di credere nella superiorità della propria nazione, o classe o razza, e nel suo diritto al dominio, che va imposto con ogni mezzo sia all'interno (dittatura del partito, del capo), sia all'esterno (espansionismo, dominio mondiale).
Il monopolio totale del dominio e del controllo sullo Stato e sulla società da parte del partito, del gruppo dirigente o del capo è poi fatto oggetto di una sanzione e di un'esaltazione pseudoreligiose, oltre che pseudodemocratiche. Insignite dell'attributo dell'infallibilità, le supreme istanze del sistema totalitario pretendono un culto osannante da parte delle ‛masse', che a tale scopo sono organizzate, indottrinate, mobilitate e, con grandiose parate e dimostrazioni effettuate secondo un elaborato rituale e una scenografia teatrale, portate a un delirio inebriante di omaggio di massa. Il fine di tutto questo è il consenso totale, manipolato con mezzi sociopsicologici fino al soggiogamento estatico, quale fu programmato in tutti i particolan, per esempio, da un entusiasta del melodramma e della scenografia come Adolf Hitler. Questo dogma del consenso totale, espresso nel principio ‟il capo (il partito) ha sempre ragione", pretende, sostenendo la piena identità di guida e popolo, di risolvere in modo definitivo l'eterno problema di ogni dominio.
La nostra elaborazione, in chiave ‛tipico-ideale', di una definizione generale di totalitarismo ad altro non mira, naturalmente, che a fornire un quadro di riferimento per l'analisi concreta dei fenomeni empirici; il che, del resto, può dirsi di tutti i concetti e schemi delle scienze sociali e politiche. L'applicabilità alla realtà e il valore euristico di simili concetti generali si palesano con la massima evidenza allorché si misura la loro utilità ai fini dell'accertamento - nei sistemi totalitari - sia di affinità che di differenze.
A questo proposito si presentano tre importanti interrogativi: a) come pervengono al potere i regimi totalitari? b) che interpretazione danno di se medesimi? c) come appare la loro evoluzione, confrontata con quella di dittature di transizione o di sviluppo, di natura non totalitaria?
La ‛conquista legale' del potere, di stampo fascista-nazista si presenta del tutto diversa dalla ‛rivoluzione' comunista. Ma a un'analisi più rigorosa questa differenza, di natura prevalentemente concettuale, sbiadisce di fronte a un dato di fatto: in tutti i casi di conquista totalitaria del potere, ha avuto la parte decisiva la tecnica putschista del colpo di Stato, e ciò è vero dei colpi di mano apertamente violenti della Rivoluzione di ottobre, come anche della strategia, più o meno camuffata e legalizzata, di terrorismo e di ‛allineamento' (Gleichschaltung) messa in opera dal nazismo o (più diluita nel tempo) dal fascismo. Più che nella realtà stessa e nelle sue conseguenze, le distinzioni risiedono nel tipo di ideologizzazione mistificante e legalizzante; ben più rilevanti sono le affinità, nel quadro d'una sociologia realistica della conquista del potere che non si lasci stordire dalle nubi d'incenso del mito rivoluzionario. Una prospettiva del genere si adatta ai ribaltamenti politici verificatisi nel nostro secolo più della tradizionale ‛sociologia della rivoluzione', con la sua idea della natura di sinistra, necessariamente ‛progressista', della rivoluzione, in antitesi alla natura ‛controrivoluzionaria' della conquista fascista del potere.
Diversamente dall'‛auto-interpretazione' del sistema comunista, almeno in certi periodi fascismo e nazismo hanno riconosciuto e adoperato il totalitarismo come meta generale e quadro di riferimento per le aspirazioni e lo sviluppo del proprio sistema di dominio. Che l'ideologia comunista non abbia fatto lo stesso uso della terminologia totalitaria per fondare e giustificare la sua pretesa al dominio esclusivo, è un fatto in cui si può ravvisare una differenza: quella fra totalitarismo come fine (fascismo) e totalitarismo come mezzo (comunismo); ma nella dura realtà la distinzione non può che suonare accademica; quale oggetto del totalitarismo, il cittadino è trattato con pari durezza dall'uno e dall'altro sistema: il fine resta infatti irraggiungibile, mentre la dittatura permane immutata. Mezzi e fine diventano una cosa sola, e il presente totalitario non può essere riscattato da un futuro non totalitario. Che la realtà sia questa risulta con assoluta chiarezza dalla trasformazione, ad opera di Stalin, della pretesa ‛direzione collettiva' del partito, propria del comunismo leninista, in un regime personale associato al culto della personalità. L'autocrazia staliniana durò per oltre trent'anni, cioè più a lungo dei regimi mussoliniano e hitleriano; si rendono quindi responsabili di una minimizzazione antistorica dello stalinismo quei critici del concetto di totalitarismo che vogliono oggi discolpare il comunismo, adducendo che, diversamente dal fascismo, esso non si sarebbe mai concepito, né comportato, come un totalitarismo.
Il problema capitale è il terzo, quello cioè della valutazione - in base alla loro evoluzione, durata e funzione - delle affinità e differenze fra i sistemi totalitari. Anche a questo proposito, è la considerazione concreta delle strutture di dominio, e non la valutazione delle ideologie, con le ben note cospicue differenze sussistenti fra dottrine di destra e di sinistra, che fornisce criteri significativi. In primo luogo va chiarito una volta per tutte che non solo il comunismo sovietico, alla cui evoluzione poststaliniana si appellano i critici della teoria del totalitarismo, ma anche il fascismo e il nazismo (che pure hanno avuto una durata assai minore) presentano stadi diversi nell'evoluzione della loro forma di dominio. Mentre fascismo e nazismo soggiacquero entrambi a una fine improvvisa in seguito alla sconfitta militare e alla morte violenta dei loro capi, il regime staliniano appare come solo uno stadio, certo fondamentale, di un processo più lungo; dopo la morte di Stalin il regime personale si ritrasforma in regime monopartitico. Se da allora non si possa più parlare di totalitarismo, è materia di disputa, come lo è l'importanza da attribuire - nel totalitarismo - al ruolo del capo. Questo tema è particolarmente dibattuto anche nelle recenti versioni della teoria del totalitarismo, che prendono in considerazione anche la Cina di Mao Tse-tung (v. Schapiro, 1972; v. Tucker, 1965).
In realtà, il peso delle relazioni ‛partito-capo-popolo' rimane decisivo nel sistema totalitario anche quando il culto del capo perda temporaneamente (o anche per lunghi penodi?) importanza a favore di una ‛direzione collettiva' oligarchica. Non è in questione il ruolo centrale del capo - con la sua immagine carismatica ‛plebiscitaria' e pseudoreligiosa - nell'ascesa dei totalitarismi sinora noti; d'altra parte, l'indebolirsi di questa componente non cancella il totalitarismo più di quanto non cancelli il carattere rigorosamente antiliberale ed esclusivistico della dittatura.
Ciò posto, la definizione e l'uso del concetto di totalitarismo non poggiano quindi soltanto sulla valutazione dei rapporti fra partito e capo, ma altresì, e in misura essenziale, su questioni di periodizzazione storica. Si può parlare di un periodo circoscritto della storia del totalitarismo, dall'ascesa di Mussolini al potere alla morte di Stalin, in cui la figura del capo totalitario e il relativo tipo di dominio, legato alla situazione del primo dopoguerra e alla vita del capo medesimo, hanno un ruolo di primo piano. Altri interpreti sottolineano il presunto carattere fascista del totalitarismo e lo identificano strettamente con un'‛era del fascismo' fra le due guerre (v. Nolte, 1963), ovvero estendono tale carattere a tutte le tendenze ‛fasciste' e a tutte le dittature di destra fino ai nostri giorni. In un senso ancora più vasto, il totalitarismo viene definito come una tendenza inerente addirittura a tutti gli Stati contemporanei, in quanto perseguono una gestione efficientistica (management) delle crisi socioeconomiche e lo sviluppo efficientistico del paese tramite una monopolizzazione politica e ideologica del potere, poco importa se in nome di mete capitalistiche o socialistiche.
In effetti, è possibile ricondurre la politica totalitaria a un insieme di tratti caratteristici. Sono soprattutto quattro i fattori che improntano la struttura sociale e politica, come pure la giustificazione ideologica, d'un sistema totalitario.
1. Un'ideologia ufficiale, che si pretende onnicomprensiva ed esclusiva e poggia in parte sul rifiuto dei valori tradizionali e sull'esecrazione del passato, in parte sull'evocazione di attese millenaristiche nei confronti del futuro.
2. Un movimento di massa centralizzato, politicamente monolitico, livellato, che si presenta come il portatore d'una politicizzazione e integrazione il più possibile totali dei cittadini e d'un superamento della società divisa in classi: meta da raggiungere o attraverso il monopolio politico d'una classe, con l'esclusione delle altre, o con l'assorbimento di tutti i gruppi nella conclamata ‛comunità nazionale'. In realtà, il movimento totalitario è e resta rigidamente e gerarchicamente organizzato sotto una guida rigorosamente autoritaria, in quanto partito di Stato e unico titolare del potere politico.
3. Di particolare importanza appare il pieno controllo di tutti i principali mezzi di comunicazione e di coercizione. Sotto questo aspetto emerge con particolare nettezza la differenza rispetto alle forme precedenti di dittatura, con le loro più modeste possibilità tecniche di ‛allineamento' e d'intimidazione. Ma emerge altresì, in modo evidentissimo, l'affinità degli strumenti e procedimenti adoperati da tutti i sistemi totalitari nel coordinare l'informazione, nell'orientare l'opinione pubblica e nell'imporre a ogni costo l'obbedienza totale. Non la ‛qualità' ideologica dei vari regimi, bensì la loro capacità in materia d'indottrinamento e di oppressione offre i criteri per una valutazione comparativa del loro carattere totalitario.
4. Un ruolo fondamentale è svolto, infine, dal controllo che la burocrazia esercita sull'economia e sui rapporti sociali attraverso il dirigismo statale, la socializzazione o la statizzazione. Certo, una teoria articolata del totalitarismo si manterrà lontana dalla drastica tesi secondo cui il totalitarismo sarebbe una forma di ordinamento e di governo monolitico, immune da conflitti: un sistema del genere è invero una finzione cui non corrisponde alcuna realtà politica e sociale storicamente ed empiricamente riscontrabile. Resta tuttavia chiara e netta la differenza rispetto alle vecchie forme di dittatura. Le caratteristiche nuove sono: l'ideologia enunciata in termini assoluti, esclusivi; il terrore legalizzato e giustificato con promesse chiliastiche; il controllo capillare d'ogni sfera politica e sociale attraverso l'oppressione e la minaccia, la paura e la costrizione; la creazione di ‛uomini nuovi' per il nuovo e perfetto ordinamento totalitario; la negazione d'ogni conflitto avvenire e, conseguentemente, la repressione d'ogni opposizione a favore dell'unità ideologico-politica e dell'efficienza tecnicofunzionale; infine, quale fondamento e giustificazione di questa estinzione d'una brutalità inaudita della libertà individuale, l'equazione, tanto basilare quanto fittizia, fra governo oligarchico-dittatoriale e interessi della ‛totalità', della ‛comunità nazionale' o della classe operaia e contadina: un postulato, questo, del tutto irrazionale, che smentisce in particolare la pretesa marxista a una fondazione scientifico-razionale del dominio e mette ancora una volta in evidenza la legittimità di una comparazione tra dittature ‛di sinistra' e tirannidi - di orientamento marcatamente irrazionalistico - ‛di destra'.
2. Sviluppo e ‛autointerpretazione' del totalitarismo
I problemi interpretativi e le controversie sull'uso che del concetto di totalitarismo fanno storici, studiosi di scienze sociali e filosofi riflettono l'origine e le fasi del totalitarismo moderno. Certe concezioni dello Stato totale e del dominio totalitario sono fin dall'inizio basilari in riferimento alla ‛autocomprensione' del fascismo e del nazismo; la loro estensione ai sistemi comunisti, secondo l'analogia fra dittature di destra e di sinistra, urta invece contro problemi terminologici. Considerato storicamente, dalla Rivoluzione francese in poi, il termine emerge solo di rado e sempre connesso all'idea di volonté générale (Rousseau), di mobilitazione generale, di levée en masse, di guerra totale (Robespierre, Ludendorff, Goebbels); d'altro canto, teorici dello Stato tedeschi, quali A. Müller e Hegel, attribuiscono all'idea di Stato una ‛totalità', cioè un carattere di globalità e di imperatività rispetto all'individuo e ai gruppi sociali. L'idea di rovesciamento o rivoluzione totale, infine, si riscontra anche in Marx e Lassalle.
Queste idee vaghe e generiche trovarono un primo sistematico assetto terminologico in Italia. Dapprima usati dai critici liberali del fascismo come G. Amendola (1923), i termini ‛totalitario' e ‛totalitarietà' intesero poi descrivere un fenomeno radicalmente nuovo, indicare il postulato d'una totale unità di teoria e prassi, pensiero e azione, organizzazione coatta e completo consenso sia nello Stato sia nella società. È in tal senso che Mussolini ha applicato l'idea di totalitarismo allo Stato fascista, come per esempio nella celebre formula contenuta nel discorso del 28 ottobre 1925: ‟Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato". Questa formula significava qualcosa di più di un mero statalismo di tipo assolutistico e autoritario. Essa rivela il suo autentico contenuto se messa in relazione con altre formulazioni fondamentali, in cui i capi fascisti proclamarono la loro ‛feroce volontà totalitaria' e il programma decisamente totalitario della loro ‛rivoluzione'. Con ‛totale' e ‛totalitario', in questo primo lessico fascista, s'intende soprattutto uno stile politico fatto di violenza e culto della violenza, di decisioni e imposizioni fulminee (decisionismo), di mancanza di scrupoli nell'azione, di pretese radicali e d'intolleranza dichiaratamente ostile ai compromessi.
In tutto questo emerge già chiaramente il duplice, ambivalente carattere del totalitarismo, quale più tardi si paleserà anche nella sua evoluzione fuori dell'Italia: in primo luogo, il potere pieno e assoluto, capillarmente organizzato, consolidato, imposto; ma poi, spesso in apparente contraddizione, un dinamismo politico - basato sulla decisione dittatoriale e sull'azione permanente - quale emanazione e conferma del controllo illimitato del potere. Nel programma della politica totalitaria sono presenti entrambi gli aspetti: da un lato quello totalitario-statalistico, rappresentato dal ministro e ideologo di Mussolini, filosofo di tradizione hegeliana, G. Gentile; dall'altro quello totalitario-attivistico, che si concreta in una politica dinamico-imperialistica e distruttivo-terroristica, e alla fine (particolarmente nel nazionalsocialismo) in una politica radicalmente razzistica di conquista e sterminio.
Anche il nazionalsocialismo tedesco, pur nelle diverse condizioni nazionali, mostra un'analoga combinazione di assolutismo statalistico e estremismo rivoluzionario. Tuttavia, mentre il regime hitleriano realizzò una dittatura oltremodo consequenziaria nei suoi effetti, l'uso retorico e la formulazione filosofica dell'idea di totalitarismo restò in larga misura appannaggio dei fascisti italiani. Sulle prime si ebbe in Germania piuttosto un'elaborazione del versante statalistico-istituzionale del totalitarismo; dal 1933 in poi, sotto l'influsso della rivoluzione e della dittatura hitleriane, si accentuò maggiormente il suo aspetto dinamico-estremistico, rivoluzionario. Il ruolo direttivo del partito inteso come ‛movimento' dinamico e la continuità d'una rivoluzione permanente e mai conclusa vanno annoverati fra i tratti essenziali della concezione totalitaria, che si distacca nettamente non solo dalla concezione tradizionale della struttura del partito e dello Stato, ma altresi da quella della dittatura burocratica o borghese.
Si aggiunga ora che già negli anni venti osservatori e studiosi intrapresero, sulla base appunto del concetto di totalitarismo, una comparazione della dittatura fascista e di quella comunista. Non è affatto vero, quindi, che tale comparazione sia un mero frutto della guerra fredda, come pretendono gli odierni avversari della teoria del totalitarismo. Si dovrebbe distinguere anzitutto fra l'uso ‛negativo' del termine, segnatamente da parte di scrittori e studiosi liberali, e l'uso affatto ‛positivo', anzi talvolta enfatico, da parte di movimenti e regimi politici, che si atteggiano a totalitari, come - con voluta ostentazione - il fascismo italiano e, con accenti diversi, in specie nel primo periodo del Terzo Reich, il nazionalsocialismo: mentre Hitler preferiva personalmente la qualifica ‛autoritario', più degna del Führer, il propagandista Goebbels o zelanti costituzionalisti come C. Schmitt erano piuttosto propensi all'enfatica versione italiana. Nello stesso volger di tempo, teorici e propagandisti comunisti cercano di ridurre il fenomeno del totalitarismo alla contrapposizione tra sistemi cosiddetti rivoluzionari e sistemi cosiddetti controrivoluzionari, identificando con semplicistica faziosità i primi con il campo socialista e i secondi con quello fascista.
Dalla parte opposta, la teoria fascista del totalitarismo non riconosce per lo più, naturalmente, l'Unione Sovietica come uno Stato totalitario, ma vi scorge una dittatura di classe, diametralmente contrapposta all'idea fascista di unità e di una società senza classi.
A differenza che nell'Italia prefascista, l'idea dello Stato totale era stata oggetto in Germania di un'ampia elaborazione, ancor prima che, con la conquista del potere da parte dei nazisti, fosse applicata alla dittatura hitleriana. Oltre ai propagandisti politici, anche stimati costituzionalisti e teorici dello Stato, quali C. Schmitt ed E. Forsthoff, procacciarono all'idea di totalitarismo una vasta diffusione e un alone di rispettabilità anche al di fuori della cerchia nazista. Essi scorgevano nel totalitarismo la logica conclusione, antiliberale e antipluralistica, della democrazia parlamentare di Weimar, squassata da continue crisi. Negli anni decisivi 1932-1933, la vecchia concezione - di natura prevalentemente apolitica e burocratico-antidemocratica - d'un forte Stato monocratico venne applicata alla nuova irrompente realtà del regime hitleriano. Ma, proprio per la sua origine esterna, questa versione ‛quasi-amministrativa' della teoria del totalitarismo non produsse altro che una fugace inflazione di scritti encomiastici, e non assurse mai, a differenza da quanto avvenne nel fascismo, al rango di dottrina ufficiale. Taluni sostenitori - conservatori - dell'assolutismo statale di derivazione hegeliana furono anzi sospettati di contrapporre, con intenti reazionari, il concetto di totalitarismo al dinamismo rivoluzionario e razzistico del nazismo.
D'altra parte è innegabile che, per struttura e politica, il Terzo Reich abbia corrisposto come nessun altro sistema dittatoriale all'idea che il totalitarismo si fa dell'organizzazione, della concentrazione del potere e del monolitismo ideologico. È bensì vero che la sua struttura esteriore era caratterizzata da un apparente dualismo di partito e Stato, di pseudolegale continuità del sistema giuridico e costituzionale e di organizzazione rivoluzionaria coercitivo-terroristica; ma questo dual State, come E. Fraenkel (v., 1941) l'ha chiamato, poggiava su calcoli tattici, e la confusione di competenze che ne risultava fra organi del partito e organi dello Stato finiva col servire all'onnipotenza del Führer, che dominava quale supremus arbiter sul ‛caos orchestrato'.
Monolitico e pluralistico a un tempo, sommerso a tutti i livelli della vita politica e sociale da un'inflazione del Führerprinzip, il sistema dittatoriale del Terzo Reich può fare un'impressione sconcertante; in realtà, dietro e al di sopra della struttura statale esterna, esso è caratterizzato in misura crescente dallo smantellamento del tradizionale sistema statale e giuridico e dall'edificazione di apparati - costitutivamente impregnati di ideologia - di dominio e di sterminio. Tale ascesa e sviluppo del cosiddetto SS-Staat si accelera e si consolida durante la guerra. La politica, allora elaborata e perfezionata, di mobilitazione e di espansione, di persecuzione e liquidazione d'interi popoli e razze, di condotta d'una guerra dichiaratamente ‛totale' voleva essere una politica totalitaria quant'è possibile, anche se a dispregio d'ogni morale e d'ogni logica e a spese d'ogni politica razionale e realistica, come nell'orrendo quanto assurdo massacro di cinque-sei milioni di Ebrei.
L'esperienza insegna che, nella forma estrema sopra illustrata, la politica totalitaria non produce, sul terreno della programmazione e dell'efficienza, risultati in cui traspaia un ordine monolitico; essa consiste invece, essenzialmente, in un meccanismo di decisioni e conflitti arbitrari, soggetti all'unico controllo d'una guida che dal canto suo è sottratta al controllo. Pur non corrispondendo quindi alla realtà, l'idea dell'ordinamento monolitico del Führersystem totalitario ebbe nondimeno una sua consistenza, nel senso che la trasformazione e riorganizzazione rivoluzionaria dello Stato e della società dipendevano dalla volontà del solo Führer. Anche se oggi abbiamo conoscenze assai maggiori e più particolareggiate sullo stato di caos e, talvolta, d'improvvisazione che regnava nel Terzo Reich, il miglior punto d'attacco per un'analisi del nazismo è pur sempre dato dalla natura fondamentalmente totalitaria delle sue mete e del suo orientamento, dalla sua spinta all'organizzazione e alla mobilitazione totali, considerate come base del dominio.
L'altra questione, ancor più aspramente dibattuta, è se un'analoga valutazione della struttura di dominio e dei principi di governo possa valere anche per un'analisi critica del sistema stalinista. La teoria comunista non si è mai servita della terminologia del totalitarismo per spiegare o legittimare l'effettivo dominio del dittatore o la presunta dittatura del proletariato. Si è affermato, invece, che tale dittatura incarna una forma più perfetta e autentica di democrazia. Senonché, una simile asserzione non costituisce affatto una confutazione del carattere totalitario d'un movimento politico o del corrispondente sistema di dominio; perfino Hitler ebbe ad asserire, per qualche tempo, che, in confronto con le plutocrazie parlamentari dell'Occidente, il nuovo Terzo Reich, sotto un Führer plebiscitariamente legittimato e sostenuto dal consenso del 99% del popolo, rappresentava una forma di dominio assai più democratica, anzi totalmente democratica; un'interpretazione, questa, che doveva poi offrire lo spunto per la concettualizzazione di una democrazia totalitaria intesa come il frutto di un processo di degenerazione e ideologizzazione della moderna democrazia di massa che risale alla Rivoluzione francese (v. Talmon, 1952).
In effetti, il totalitarismo si distingue dai precedenti tipi di dittatura per la sua capacità di adoperare, manipolandole, formule e finzioni democratiche: esso sfrutta cioè tutte le possibilità offerte oggi dalla tecnologia e dai mass media per procacciarsi, con la coercizione o con l'insidia, il consenso delle masse, e quindi assoggettarle. Ci si dovrebbe guardare dal fraintendere questo fondamento pseudodemocratico dei sistemi totalitari, scambiandolo per una realtà democratica effettiva, come è avvenuto e ancor oggi avviene quando si formulano giudizi sui regimi comunisti, con la loro pretesa a una piena democraticità riguardo sia alla struttura che alla legittimazione. È questo un fraintendimento che ha gravi conseguenze nel traviamento, nell'illusione e nella disillusione d'intellettuali e politici sinceramente democratici.
In fondo, nessuna delle due principali quanto controverse interpretazioni del totalitarismo pseudodemocratico coglie nel segno: non quella conservatrice, allorché concepisce semplicisticamente il totalitarismo quale conseguenza della democrazia; né quella apologetica, dei sistemi comunisti come di quelli fascisti e affini, allorché esalta proprio la ‛democraticità' di plebisciti e acclamazioni, della mobilitazione politica e della partecipazione - in realtà manipolata - di tutti i cittadini. Che la cricca dominante o il ‛capo' cerchino di legittimare la loro dittatura, appellandosi all'appoggio delle masse o all'identificazione con ‛il' popolo o con ‛la' classe, non dimostra in verità la democraticità del regime, ma è appunto il contrassegno della forma specifica che la dittatura di massa assume in un'epoca di democrazia.
Da queste precisazioni e controversie risulta che l'idea di totalitarismo non comporta solo un problema di definizione del concetto, o di una sua applicazione restrittiva o estensiva. La sua portata in quanto modello o strumento teorico delle scienze storiche e sociali dipende essenzialmente, piuttosto, dalla risposta che si dà all'interrogativo se, dopo la critica recente della teoria del totalitarismo e dopo la scomparsa o trasformazione dei sistemi politici in discussione, la sua applicazione debba esser limitata a quei regimi che si autoproclamano totalitari o ravvisano nel totalitarismo la propria meta; ovvero se, quale strumento di analisi critica e di studio comparativo, possa essere estesa anche a quei sistemi di dominio che fanno ricorso a un diverso lessico e a dogmi ideologici diametralmente opposti; in quest'ultimo caso, naturalmente, si baderà soltanto alle effettive modalità di esercizio del dominio, alla reale o auspicata onnipresenza dell'oppressione dittatoriale, quali che possano essere i mascheramenti o le autovalutazioni dei sistemi in questione.
Nel primo caso (applicazione limitata a quei regimi che si autoproclamano totalitari), l'idea di totalitarismo non sarebbe di fatto nulla di più che un bizzarro, presuntuosamente amplificato esemplare di filosofia del potere, sul genere della teoria nietzschiana del Superuomo. Un simile modo di concepire il totalitarismo si attaglierebbe alle ‛autostilizzazioni' e al superomismo caratteristico della teatralità tipica del fascismo mussoliniano, ma non ha che scarso valore per la decifrazione e la spiegazione dell'effettivo funzionamento d'un sistema fascista, e ancor meno del regime hitleriano.
Nel secondo caso, invece, sarà indubbiamente indispensabile elaborare ulteriormente la vecchia teoria del totalitarismo, in modo da renderla capace d'offrire il suo contributo all'analisi e all'interpretazione della dittatura moderna, postdemocratica, anche nelle forme assunte dopo la fine di Mussolini, di Hitler e di Stalin. Tale contributo potrebbe consistere, e non sarebbe cosa da poco, nel far sì che il dominio dittatoriale sia indagato nelle sue strutture reali e negli effetti di queste ultime sulla libertà e il benessere degli uomini, prescindendo dalle classificazioni ideologiche ('fascista' o ‛socialista') e dalle autovalutazioni ('progressista', ‛democratico' o ‛rivoluzionario', ‛di destra' o ‛di sinistra').
3. Possibilità di applicazione
Poiché, quale modello critico, serve allo studio comparativo e all'analisi della dittatura moderna, l'idea di totalitarismo non può esser pienamente afferrata e definita mediante una semplice ricognizione filologica degli usi e delle accezioni del termine. Ma anche gli sforzi miranti a una tipologia che comprenda gli elementi precipui dei sistemi considerati come totalitari naufragano in massima parte contro le differenze e contraddizioni che si rilevano fra l'analisi storica e quella sistematica. Su ciò appunto verte la principale obiezione mossa alla ben nota e influente, ma altrettanto criticata, teoria del totalitarismo elaborata da C. J. Friedrich e Z. K. Brzezinski (v., 19662) negli anni cinquanta. In tale teoria appaiono invero contestabili la rigidezza della tipologia e, in particolare, la sopravvalutazione delle dichiarate aspirazioni totalitarie del fascismo rispetto all'effettiva realtà della tutt'altro che monolitica dittatura mussoliniana.
In seguito, particolareggiate analisi empiriche dei nessi stabiliti nella teoria di Friedrich e Brzezinski hanno messo in luce varie discrepanze di fatto, e hanno messo in guardia contro un'equiparazione eccessivamente astratta di realtà eterogenee a favore dello schema assiomatico d'una sindrome totalitaria esattamente definita. È lampante che fenomeni complessi quali sono, per struttura e funzionamento, le dittature contemporanee, non possono essere ricondotti a poche variabili. Migliori possibilità offre una sinossi dei vari approcci tipologici, associata alle recenti acquisizioni delle indagini comparate sulla democrazia e la dittatura. A questo riguardo è ancora d'indiscutibile utilità tutta una serie di tentativi che risalgono agli anni quaranta e cinquanta, quali, ad esempio, le prime opere di S. Neumann, F. L. Neumann e H. Arendt, e, fra quelli apparsi nei decenni successivi, soprattutto i contributi di R. C. Tucker e L. Schapiro.
Si può constatare che le deformazioni ideologiche e di parte sono, in questi storici e politologi, assai minori che in molti lavori, oggi di moda ma di corto respiro, dei critici che respingono in blocco la teoria del totalitarismo. Tra costoro, gli uni gettano via il bambino insieme con l'acqua sporca, sostituendo un anticomunismo indifferenziato con la riesumazione d'una teoria del fascismo e del capitalismo ancor più indifferenziata e di maniera - teoria che viene applicata anche alla democrazia parlamentare -, mentre chiudono volentieri gli occhi sulla realtà dittatoriale dei sistemi ‛socialisti', che vengono anzi sottratti all'analisi critica come non comparabili con le forme ‛borghesi' di dittatura. Gli altri insistono su una distinzione d'indole ideologica, fondata su criteri filosofici e di storia delle idee (per es. E. Nolte, che estende assai la portata della sua teoria fenomenologica del fascismo); o, come nel caso di H. J. Spiro, si elabora un'ampia critica (il cui bersaglio è soprattutto il modello di Friedrich) dal punto di vista politico-costituzionale e sociologico, critica che, come altri attacchi ‛puristici' all'impostazione generalizzante del modello del totalitarismo, misconosce però i meriti storiografici acquisiti da quel modello nel delucidare gli aspetti originali della dittatura contemporanea sia come dominio politico che come organizzazione sociale.
A chi intenda unificare e approfondire le ricerche finora compiute si dischiude un vasto campo di studio. Si tratta di definire i tratti caratteristici e le variabili che l'analisi comparativa deve prendere in esame, tenendo conto che bisogna occuparsi di sistemi con disparatissime premesse storiche e intellettuali, economiche e sociali. L'ulteriore elaborazione, e correzione, della teoria del totalitarismo non può certo tralasciare gli elementi contingenti della politica quotidiana; essa non segue uno schema deduttivo, politicamente e ideologicamente determinato, ma procede come una teoria autenticamente empirica, che controlla e rettifica incessantemente i propri criteri in base alla scrupolosa indagine della realtà. Se si vuol tentare d'abbozzare una tipologia comprensiva, si dovranno considerare i diversi piani della comparazione e disegnare un quadro ben più complesso e meno vistosamente unitario di quello costituito dalla classica equiparazione di fascismo e comunismo, la quale, tanto nei suoi aspetti più grossolani quanto in quelli più calzanti, appartiene a una temperie storico-politica ben determinata.
Il tentativo, a nostro avviso possibile e scientificamente auspicabile, di conciliare teoria sociale ed effettualità storica richiede che una teoria funzionale-strumentale del totalitarismo sia salvata tanto da troppo furiosi avversari quanto da sostenitori acritici, gli uni come gli altri eccessivamente attenti all'utilità politica. Ciò significa anzitutto che oggi non è più possibile una definizione concisa, troppo compendiosa, del totalitarismo, una definizione che abbracci, senza bisogno di qualificazioni ulteriori, i casi classici: l'Italia fascista, il regime hitleriano e lo stalinismo. Si tratterà piuttosto di rendere più elastico l'uso del concetto, estendendolo anche ad altre forme, sia pure rudimentali, di politica totalitaria, alla loro preistoria e ai loro effetti postumi, sino a comprendere tutte le possibili gradazioni di totalitarismo. Grazie a tale maggiore elasticità si potranno enucleare tratti totalitari ‛tipici' che, almeno parzialmente, sono senz'altro riscontrabili in altri sistemi, soprattutto in dittature ancora convenzionali o semidittature di transizione, per esempio in America Latina, nei Balcani, e nella Cina di Mao Tse-tung.
La caratteristica precipua resta, in tutti i casi, la posizione eccezionale del capo. Se la sua ascesa è, naturalmente, legata alle condizioni generali d'indole politica, economica, culturale, che rendono possibile, favoriscono o addirittura promuovono un regime dittatoriale, d'altra parte la natura effettiva, la forza e il prestigio di un sistema totalitario all'interno e all'esterno appaiono certo inseparabili dalla figura e dalle capacità del capo, senza il quale sono anzi del tutto impensabili. E infatti fu in verità già Lenin, e non Stalin, a definire per primo il ruolo del capo totalitario e quindi la struttura dell'Unione Sovietica quale sistema totalitario: che si avverta ancor oggi la necessità della sua glorificazione pseudoreligiosa ne dimostra l'importanza nel sistema e nell'ideologia del comunismo, almeno sinché, in contrasto con la dottrina marxista, tale sistema e tale ideologia si presentano, anche in versioni del socialismo e del comunismo diverse da quella ufficiale del ‛marxismo-leninismo' sovietico, sotto una forma esclusiva e totalitario-dogmatica.
I capi totalitari - Mussolini, Hitler, o anche Franco e Salazar, Lenin, Stalin, Mao e, in misura ancor più decisiva, le figure minori come Castro o il nordcoreano Kim Il Sung - sono oggetto di un esasperato culto personale, che conferisce loro, in quanto fattori storico-politici, un'importanza preponderante rispetto a ogni altro elemento costitutivo della dittatura da essi incarnata. Essi sono, anche e soprattutto, al disopra delle ideologie e dottrine, che a loro piacimento sfruttano, modificano, lasciano cadere, per poi riprenderle, dichiararle immutabili e assolutamente vincolanti, e magari imporle in modo cruento; ciò vale, e in non piccola misura, anche per l'uso che del marxismo fece Stalin. Tutto ciò costituisce una confutazione degli argomenti addotti, con instancabile enfasi, dai critici della teoria del totalitarismo per suffragare la non comparabilità di principio fra sistemi fascisti e comunisti, argomenti basati sostanzialmente sulle radicali differenze in materia ideologica. È invero perfettamente possibile istituire una comparazione tra i capi totalitari: sono essi a costituire l'autentico nucleo del sistema di dominio e della sua realtà politico-sociale e umana, e non già la mera lettera della dottrina, la cui interpretazione e applicazione sono del resto rimesse alla loro discrezione. Si pensi all'abbandono o al rovesciamento, da parte di Hitler, di fondamentali ‛dottrine' del nazionalsocialismo, per esempio nel perseguimento di una politica legalitaria pseudoparlamentare prima del 1933, o nella stipulazione del patto del 1939 con Stalin; o si consideri il comportamento di Stalin nella stipulazione del medesimo patto e nell'introduzione, in contraddizione con l'ideologia, del culto del capo, grottescamente scimmiottato da altri capi comunisti: inequivocabile prova del ruolo dominante e prioritario del capo.
Questo ruolo emerge altresì nel rapporto fra il capo e il partito, del quale vengono parimenti proclamati il dominio e l'infallibilità. Come nel Terzo Reich, così anche nell'Unione Sovietica e nella Cina maoista la compresenza di diversi detentori del potere, definiti tutti onnipotenti, è un tratto caratteristico del sistema, che costituisce la fonte di possibili conflitti, ma ancor più delle ‛epurazioni' - pilotate dal capo -, dei processi spettacolari, delle rivoluzioni culturali, della ‛rivoluzione permanente'. Per mezzo di tali epurazioni, eufemisticamente giustificate, come pure della comprovata tattica del divide et impera, viene edificata, consolidata e tutelata la posizione monopolistica del capo, che è insieme espressione e fulcro del totalitarismo. Anche sotto questo riguardo, colui che ebbe minor successo fu Mussolini, il quale dovette fare i conti con forti cerchie militari, monarchiche e clericali, che alla fine arrivarono addirittura a soverchiare la sua posizione di dittatore. Al contrario, Hitler e Stalin si rivelarono, in pari grado, come virtuosi della strategia totalitaria di governo, capaci come furono di asservire a sé tutti gli altri poteri e autorità, rendendoli strettamente dipendenti dal capo unico; anche il partito unico, formalmente e apparentemente onnipotente, era soggetto al loro arbitrio.
Per indispensabile e fondamentale che possa apparire, per ogni regime totalitario, il sistema monopartitico, esso costituisce dunque, tuttavia, una forma dello Stato autocratico (Führerstaat), dal quale dipende la reale struttura di potere di siffatti sistemi dittatoriali, e ciò, in larga misura, indipendentemente dalla natura, reale o presunta, delle finalità e dottrine dei singoli sistemi. Più chiaramente che in qualsiasi altro contesto, la comune - o comunque suscettibile di comparazione - componente totalitaria si palesa prioritaria rispetto a tutte le distinzioni tra regimi di sinistra e di destra, progressisti o reazionari. Si può concludere che il carattere totalitario, che rende possibile la comparazione, poggia su di una combinazione di potere in cui il capo non solo controlla ampiamente, ma addirittura sostituisce o soverchia partito e ideologia. Pertanto, l'indagine sulla dittatura leninista e su quella staliniana dovrà vertere anche, e in modo più articolato e specifico, sul loro carattere totalitario. Lo stesso vale per la suaccennata interpretazione del totalitarismo, che modifica il modello concettuale, estendendone l'applicazione oltre i casi classici, ormai storici, risalenti agli anni trenta e quaranta: una rielaborazione che appare tanto necessaria quanto complessa.
La definizione del totalitarismo poggiante sul ruolo del capo totalitario, con il suo carisma e la sua legittimazione plebiscitaria, deve prendere in considerazione non solo il controllo e la manipolazione che egli esercita sul partito e sull'ideologia dominanti ma altresì il suo rapporto ‛sovrano' verso lo Stato e il diritto. Caratteristica sia dell'hitlerismo sia dello stalinismo è la coesistenza di atti del tutto arbitrari e d'una continuità amministrativa, che si rivela anche nella facciata giuridica dello Stato costituzionale. Nello Stato dualistico totalitario, ordine e caos, stabilità e rivoluzione vanno di pari passo, sebbene, ovviamente, solo in quanto ciò assicuri una copertura pseudogiuridica all'arbitrio del governo dittatoriale, con l'esclusione quindi di tutte quelle garanzie costituzionali che potrebbero imbrigliare la volontà del capo. La differenza, piuttosto superficiale, che a questo riguardo esiste fra la dittatura hitleriana e quella staliniana consiste - conformemente alle rispettive ideologie e tradizioni nazionali - nel tipo di camuffamento: marcatamente legalitario in Germania e più rivoluzionaristico nella Russia sovietica. Minori successi ottenne a questo riguardo Mussolini, benché sia indubbio che, con la sua linea di compromesso, abbia cercato in definitiva anche lui di seguire la stessa politica: in una società individualistica e critica verso lo Stato, i potenti residui della monarchia, della Chiesa e dell'esercito gli furono avversi e di fatto non consentirono che un totalitarismo dimidiato o men che dimidiato.
Un ulteriore importante criterio di distinzione rispetto alle vecchie forme di dittatura è dato infine dalla misura in cui la vita individuale e privata dei cittadini viene sottoposta a controllo e a una ‛nuova morale' del comportamento collettivo, al primato della ‛totalizzazione' sociale e politica. Il regime esige, in modo del tutto esplicito e dichiarato, la piena politicizzazione di tutte le sfere della vita, e il successo conseguito nell'attuare questa parte del controllo totalitario (che implica tra l'altro una trasvalutazione dei valori) comprova la capacità di realizzare la totale fusione di Stato e società, partito e popolo, individuo e collettività nell'ideale unità totale. Anche qui riveste una parte affatto centrale il capo, onnipresente e insieme irraggiungibile: egli occhieggia dalle pareti e dai manifesti, simboleggiando l'uomo nuovo nell'unità di Stato e partito, individuo e società.
È inoltre su questo terreno che l'ideologia acquisisce la sua funzione più importante: la giustificazione e perfino la glorificazione della violazione ed elusione di leggi e costituzioni vigenti, del diritto e della morale, perpetrate a favore di ‛superiori' ideali nazionali o razziali, sociali o di classe. L'uomo nuovo e la nuova società trovano in tali ideali il loro fondamento ideologico e la loro sanzione assoluta di contro a tutti gli ordinamenti e valori finora vigenti: ciò si verifica, e conviene ribadirlo, perché una ‛totalità' di mezzi e fini s'innalza sulle singole vittime umane, e il terrore e gli innumerevoli e molteplici crimini perpetrati da capi quali Hitler e Stalin vengono sublimati in nome e al servizio appunto di quella ‛totalità' cui si riferisce l'ideologia totalitaria. La trasformazione del delitto in merito, dell'assassinio in atto salvifico, della ferinità in umanità ha il suo esempio estremo nella giustificazione degli stermini di massa compiuti dalle SS di Himmler, ma altresì nelle epurazioni e deportazioni, nei processi farsa e nei lavaggi del cervello tipici dei sistemi comunisti, e va annoverata fra le più sconvolgenti conseguenze della moderna trasvalutazione totalitaria dei valori.
A chi ha voluto scorgerlo, è stato sempre chiaro il ruolo svolto in tutto questo dalla facciata pseudodemocratica. Un regime che si appelli al consenso totale della popolazione e a tale scopo organizzi ‛elezioni' da cui risultino ‛maggioranze' del 99%, in un modo o nell'altro ricorrerà sempre a quella finzione basilare che ha la sua espressione classica nella volonté générale di Rousseau. Nella versione contemporanea del totalitarismo è in gioco la finzione dell'unità totale di capo, partito e popolo, diametralmente contrapposta ai principî del pluralismo democratico e della rappresentanza parlamentare. Anche il principio comunista del ‛centralismo democratico' è una di quelle formule dissimulatorie di copertura, dietro cui si nasconde, appunto, il basilare postulato totalitario di un'unità che annulla l'individuo autonomo. Per sua natura tale unità non può essere che violenta, in quanto si contrappone alla realtà empirica della società, costituita da vari individui e gruppi che aspirano a una rappresentanza politica diversificata e al decentramento del potere. Per questa ragione ai regimi totalitari non può bastare il ricorso alle vecchie tecniche del dominio autocratico, della repressione armata o delle sanzioni religiose, per importanti che possano rivelarsi in determinate situazioni. Solo presentandosi come governo in nome del popolo, la dittatura moderna può attendersi un sostegno più o meno volontario da parte di quelle masse di cui ha bisogno per la mobilitazione totale e per il proprio effettivo funzionamento. A questo scopo servirà lo sfruttamento estensivo dei moderni mezzi di propaganda, concentrati particolarmente sulla glorificazione del capo o dei capi e sulla manipolazione delle qualità carismatiche e pseudoreligiose attribuite a figure esemplari idealizzate.
Tra i presupposti fondamentali della dittatura totalitaria va quindi annoverata la finzione pseudodemocratica secondo la quale, grazie alle adunate di massa e ad altri sistemi di comunicazione emotivamente orchestrati e diretti, l'individuo è direttamente collegato al capo ed è da lui rappresentato, senza che sia affatto necessario (e sarebbe, anzi, oltraggioso per ambo le parti) introdurre istanze intermedie, quali parlamenti, gruppi d'interesse o un sistema pluripartitico. È la finzione basilare della democrazia diretta di massa, attuata in nome della partecipazione diretta e della rappresentanza diretta attraverso un'asserita identità di chi guida e chi è guidato: una finzione rivelatasi costantemente illusoria, e che pure ha trovato sino ai nostri giorni sostenitori e simpatizzanti in gran numero anche nelle democrazie occidentali - soprattutto fra studenti universitari e intellettuali - sotto forma di ‛democrazia assembleare' o di ‛democrazia dei consigli', nonostante le frequenti smentite venute dalla storia moderna (dalla Rivoluzione francese alla Comune di Parigi alla Rivoluzione tedesca di novembre). Proprio la degenerazione della ‛democrazia dei consigli', il suo rapido tramutarsi in dittatura d'un solo partito e d'un solo uomo è la lezione impartita anche dalla Rivoluzione russa del 1917-1918, che dimostra nel contempo quanto sia irrealistico, nell'epoca della complessa e tecnicizzata società di massa, l'appello alla democrazia diretta (con proprie strutture e modalità di legittimazione), appello che conduce invece direttamente alla realtà del sistema totalitario, cui può anzi fornire un fondamento pseudodemocratico.
4. Conclusioni
In una valutazione complessiva, la legittimità, l'adeguatezza e l'utilità del concetto di totalitarismo appaiono del tutto indipendenti dall'uso (e talvolta dall'abuso, legato alla contingenza politica) che se n'è fatto all'epoca della guerra fredda e se ne fa tutt'oggi. Per considerevoli che possano sembrare le differenze tra fascismo, comunismo e altri regimi dittatoriali sul terreno delle finalità ideologiche e della politica sociale, ben più modeste appaiono le differenze concrete tra sistemi di sinistra e sistemi di destra quanto al loro funzionamento effettivo e ai loro aspetti totalitari; appare piuttosto, oggi come ieri, impressionante l'affinità tra metodi e procedimenti fondamentali del dominio, anche se oggi disponiamo di conoscenze analitiche di gran lunga più articolate di quelle dei pionieri degli studi sul totalitarismo.
Certo, i sistemi classici del totalitarismo sembrano appartenere al passato, e la storia non può ripetersi. Ma i presupposti e le componenti basilari del totalitarismo e dei suoi ideali restano presenti e attuali anche nella nostra epoca, caratterizzata da profonde trasformazioni sociali e da movimenti e democrazie di massa continuamente sull'orlo della crisi. Tutto questo costituisce un potenziale che può essere mobilitato e sfruttato da futuri ‛capi', qualora le crisi sociali, il bisogno emotivo di sicurezza e di ordine, l'idealistica aspirazione a una fede politica che, presentandosi come Weltanschauung in sé conchiusa, risolva tutti i problemi, e infine la sete di potere e le tensioni politiche mondiali oltrepassino una certa soglia. Queste spinte potrebbero allora risolversi nella convinzione che sia possibile risolvere i problemi della società moderna solo concentrando tutte le forze in un ‛unico' centro di potere e subordinando ogni cosa, anche la libertà individuale (una soppressione sublimata come ‛sacrificio' morale) alle promesse chiliastiche (Reich millenario, estinzione dello Stato) d'un movimento totalitario e del suo ‛capo' semidivinizzato.
In tal senso l'idea, il modello o la teoria del totalitarismo non sono un fenomeno del passato, che appartenga unicamente all'irripetibile costellazione caratteristica del periodo fra le due guerre. Il totalitarismo è e resta invece a tutt'oggi, e resterà per il prossimo futuro, una conseguenza possibile e un pericolo possibile del processo di modernizzazione; un pericolo che minaccia nazioni e società anche nella seconda metà del secolo, nell'era delle democrazie di massa, delle burocrazie ipertrofiche e delle ideologie pseudoreligiose.
(V. anche comunismo, democrazia, fascismo, nazionalsocialismo, stato).
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