Tradizione
La parola tradizione deriva dal latino traditio. Nel diritto successorio romano, traditio indica la trasmissione di un bene, mobile o immobile, dalla mano di un soggetto che lo dà alla mano di un soggetto che lo riceve. In questo senso, ad esempio, il testamento può essere considerato una forma di traditio, in quanto esprime la volontà di trasmettere qualcosa (materiale o immateriale) da un soggetto a un altro. Un'altra istituzione del diritto romano connessa alla tradizione è il deposito, ossia la presa in consegna di una cosa (in genere mobile) la cui proprietà non viene trasmessa in modo definitivo, ma dalla quale nasce l'obbligo della cura da parte di chi la riceve in consegna o in affidamento, affinché essa mantenga nel tempo la sua integrità e possa essere riconsegnata successivamente al legittimo proprietario ovvero ai suoi eredi (v. Assman, 1997).
Dal campo giuridico il concetto ha in seguito visto estendere la propria portata fino a comprendere ogni forma di trasmissione di valori, norme, credenze, stili, atteggiamenti e comportamenti, che avviene tra individui o gruppi che normalmente appartengono a generazioni successive. Cicerone parla di tradizione come consegna, mentre per Quintiliano il termine equivale a "insegnamento" e Tacito definisce la tradizione come "narrazione". La tradizione indica quindi qualcosa che passa di mano in mano nel corso del tempo e nel passaggio mantiene almeno un certo grado di invarianza. Il richiamo all'origine giuridica del concetto è utile per un duplice motivo. Da un lato sottolinea il carattere più o meno esplicitamente normativo di ogni tradizione, dall'altro lato evidenzia il carattere quasi contrattuale del rapporto che si mette in atto attraverso la tradizione, e consente così di evitare di considerare quest'ultima, come peraltro frequentemente accade, come un fenomeno 'naturale' o comunque come un vincolo che prescinde dalla volontà dei soggetti coinvolti.
L'idea di tradizione da un lato è apparentata, ma da un altro lato si contrappone all'idea di moda. È apparentata perché anche la moda, come la tradizione, indica qualcosa che si diffonde per trasmissione e, passando di mano in mano, si replica e riproduce. Per altri versi, invece, la moda è la negazione dell'idea di tradizione, in quanto indica tutto ciò che è soggetto a un flusso incessante di mutamento. Una moda che non cambia non è una moda, mentre la tradizione non è tale se non conserva almeno un nucleo minimo che non varia nel tempo. Le mode, inoltre, si trasmettono di norma orizzontalmente e non verticalmente di generazione in generazione e, più che trasmettersi, si diffondono per il fatto che dipendono dalla volontà di chi le recepisce piuttosto che di chi le trasmette.
Strettamente connesso al concetto di tradizione, tanto da essere spesso usato come suo sinonimo, è invece quello di memoria sociale, nel senso che le tradizioni fanno parte della memoria sociale ed anzi ne costituiscono la componente più espressamente normativa. L'uso moderno del concetto di tradizione è caratterizzato da un'ambivalenza fondamentale. Nella cultura moderna, infatti, l'idea di tradizione è caricata di connotazioni di natura ideologica sia negative che positive, che ora la condannano come peso di cui liberarsi, ora la esaltano come patrimonio da conservare gelosamente. Il concetto di tradizione nasce in concomitanza ed è strettamente associato al concetto illuministico di progresso, e in questo contesto compare con una connotazione prevalentemente negativa. Le forze della tradizione sono infatti quelle che resistono e si oppongono all'avanzata del progresso, sono alleate della conservazione e contribuiscono a mantenere gli esseri umani in uno stato di oscurità che li rende vittime della superstizione. Nell'ambito del pensiero filosofico e scientifico dell'epoca dell'illuminismo la tradizione era incarnata dal pensiero aristotelico, il quale aveva mostrato tutta la sua fragilità di fronte alle sfide della scienza che da Bacone e Galileo in poi aveva imboccato la strada del metodo sperimentale. Agli occhi degli illuministi la tradizione in quanto tale risultava indissolubilmente legata al vecchio ordine sostenuto dalla Chiesa, dall'aristocrazia e dai ceti al loro servizio. Solo l'uso della ragione avrebbe permesso all'umanità di liberarsi dai vincoli mentali e materiali che ne ostacolavano lo sviluppo e ne sanzionavano la servitù. Nella sua avanzata verso l'emancipazione, la ragione non avrebbe potuto che travolgere le tradizioni e liberare così l'umanità dall'ignoranza, dall'errore, dalla superstizione che il loro culto comportava. Il compito della ragione, come sottolinea Bernard de Fontenelle (1688), consiste nel liberare l'umanità dal culto della tradizione.
L'equiparazione fra tradizione e superstizione che, in forma più o meno accentuata, è comune al pensiero illuminista, viene invece esplicitamente ribaltata nella reazione antilluministica e antirazionalistica della cultura romantica. A questa rivalutazione della tradizione contribuiscono in modo decisivo due elementi che, pur tra loro collegati, devono essere tenuti distinti: da un lato il pensiero conservatore, che aspira a ripristinare l'ordine sociale e morale infranto dalla Rivoluzione francese; dall'altro lato l'affermarsi sulla scena della storia dell'idea di nazione intesa come soggetto collettivo. Il pensiero conservatore si sviluppa pressoché contemporaneamente tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, sia pure con varietà d'accenti, in tutta Europa; tra le idee di un Edmund Burke in Inghilterra, di un Joseph de Maistre in Francia oppure di uno Justus Möser in Germania vi è senza dubbio un'affinità non casuale, anche se in Burke prevale un orientamento liberale, mentre de Maistre e Möser sono esponenti di una cultura con forti componenti autoritarie. Comune a questi, e ad altri, pensatori è una tendenza decisamente controrivoluzionaria; essi avversano soprattutto l'idea che sulla base della ragione astratta e di un'idea altrettanto astratta di diritto naturale si possa costruire un ordine sociale stabile. Le società, lungi dall'essere plasmabili dalla volontà umana in base a un piano razionale, sono il risultato della sedimentazione di tradizioni che la storia ha depositato nel corso del tempo. Non si possono stabilire leggi astratte di validità universale, in quanto le tradizioni sono sempre storicamente specifiche e ogni società rappresenta un organismo particolare plasmato dalle proprie tradizioni. La reazione conservatrice si richiama a un passato remoto da rivivere nostalgicamente e da esaltare, nel quale affondano le radici, le tradizioni che ora si tratta di far rinascere una volta passata l'ondata della barbarie rivoluzionaria (v. Mannheim, 1927).
Contemporaneamente al pensiero conservatore, e talvolta in connessione con esso, si sviluppano le correnti del romanticismo che, reagendo al razionalismo settecentesco, sottolineano le componenti non razionali dell'agire umano sia nella loro dimensione individuale, sia in quella collettiva. Ogni popolo è portatore di uno 'spirito' particolare (Volksgeist) che emerge da un oscuro substrato nel quale sono appunto racchiuse e conservate le tradizioni. Il richiamo alla tradizione - che, come vedremo, potrà anche essere immaginaria - serve in questo caso a creare o a rafforzare un'identità collettiva, vale a dire l'identità nazionale.
La storia del concetto che abbiamo appena tratteggiata, nonché l'uso che di esso viene fatto nel linguaggio comune, ne evidenziano la forte connotazione ideologica. Una tradizione è invariabilmente qualcosa che suscita atteggiamenti contrapposti: o la si esalta con favore, oppure da essa ci si scosta con intenti di rottura e di opposizione. Ci si può chiedere se il concetto possa essere ripulito dalle scorie ideologiche che lo rivestono e utilizzato nell'analisi e nel linguaggio scientifici con un significato preciso, per designare una categoria di fenomeni delimitata in modo sufficientemente chiaro. Di fatto, le accentuazioni valutative che caratterizzano il concetto nel linguaggio comune ricompaiono anche nella letteratura antropologica e sociologica, dove esso appare frequentemente e quasi sempre nella forma della dicotomia tradizionale/moderno, per designare sia tipi di comportamento sia tipi di società. In antropologia culturale il concetto di tradizione viene usato frequentemente quasi come sinonimo di cultura e, infatti, una delle caratteristiche che definiscono la cultura è quella di essere trasmessa di generazione in generazione. Trasmissione tuttavia non vuol dire necessariamente replica e riproduzione. Per un antropologo come Malinowski (v., 1922), ad esempio, le tradizioni debbono sempre essere viste in relazione alla funzione che svolgono nel presente; gli stessi miti altro non sarebbero che rielaborazioni del passato in vista del presente. In Italia si designa col termine 'storia delle tradizioni popolari' lo studio del folklore e, in genere, della cultura delle classi popolari con particolare riferimento alle società contadine, alle loro pratiche rituali, alle feste, alle fiabe, ai giochi, alle credenze e ai proverbi.
Anche in sociologia il termine tradizione viene usato il più delle volte nella sua accezione generica di insieme dei comportamenti, atteggiamenti e credenze che vengono tramandati nel tempo da generazione a generazione. Nella prospettiva della teoria dell'azione, ci possiamo chiedere che caratteristiche debba mostrare un agire sociale per poter essere designato come agire tradizionale. In prima approssimazione, possiamo assumere che l'agire è tradizionale se l'attore adotta un modello applicato in passato da almeno una generazione precedente e trasmessogli attraverso un processo di socializzazione e apprendimento. Detto altrimenti, un modello di comportamento tradizionale contiene una serie di prescrizioni: in primo luogo, come riconoscere i tratti che rendono tipica una situazione di azione; in secondo luogo, come selezionare dal repertorio dei comportamenti appresi quello o quelli adeguati alla situazione specifica; in terzo luogo, come tradurre queste operazioni in azione concreta. Perché un modello di comportamento possa essere definito tradizionale è necessario quindi che esso, oltre a essere trasmesso da una generazione all'altra, contenga un aspetto cognitivo (definizione e riconoscimento della situazione) e un aspetto normativo (applicazione del comportamento appropriato). Anche definito in questi termini, però, il concetto di tradizione resta troppo generico; i tratti indicati sono senza dubbio necessari, ma non sufficienti. Esso non si scosta dal concetto antropologico di cultura, che abbiamo prima richiamato, in quanto escluderebbe solo quello che una generazione aggiunge di 'nuovo' al patrimonio esistente di credenze, saperi, abilità, oggetti, ecc. di cui una società dispone, senza che questo 'nuovo' sia necessariamente destinato ad essere trasmesso alle generazioni successive e quindi a diventare esso stesso tradizione. Anche in società come quelle occidentali moderne, dove da un paio di secoli le innovazioni si succedono a ritmi sempre più accelerati, il 'nuovo' costituisce una porzione relativamente ridotta dell'intero patrimonio culturale. Se ciò non fosse, vorrebbe dire che ogni generazione sarebbe costretta a partire ogni volta da zero, a rifare le esperienze di tutte le generazioni precedenti e quindi a restare a uno stadio sostanzialmente primitivo. Invece, nel corso del processo di socializzazione l'essere umano percorre a tappe accelerate l'intero processo di evoluzione della specie, e apprende una parte cospicua della cultura della società nella quale è nato. Si tratta del parallelismo tra filogenesi (evoluzione della specie) e ontogenesi (evoluzione individuale). Il passato continua a rivivere nel presente in un processo incessante di trasmissione e apprendimento che garantisce la continuità nel tempo della società (e della sua cultura) nonostante il continuo avvicendarsi dei suoi membri.
Il concetto di tradizione, tuttavia, non può coprire l'intero lascito del passato. Un concetto così esteso sarebbe assai poco utilizzabile. La parte di gran lunga prevalente del lascito del passato si è infatti trasformata in abitudini, intendendo per abitudine un modello di comportamento (nel quale sono presenti componenti cognitive e normative) che non richiede un processo riflessivo di elaborazione per essere trasformato in azione. Le abitudini non sono istinti, in quanto sono composte da informazioni apprese culturalmente e non trasmesse per via genetica; tuttavia esse hanno in comune con gli istinti il fatto di poter essere attivate inconsapevolmente senza la mediazione del pensiero riflessivo e tanto meno di processi di decisione. Se ogni azione dovesse essere il risultato di decisioni, vivere richiederebbe un enorme dispendio di tempo ed energie. Grazie alle abitudini acquisite, invece, possiamo concentrare le limitate risorse temporali, fisiche e mentali di cui disponiamo al fine di svolgere un numero limitato di compiti e di risolvere un numero limitato di problemi. Come sostiene Michael Young (v., 1988, pp. 75-128), le abitudini rappresentano l'elemento ricorsivo della vita sociale: esse ritornano automaticamente senza che sia necessario richiamarle consapevolmente. Anche se sfumato, il confine tra tradizioni e abitudini non deve essere ignorato, come spesso accade nella letteratura sociologica. L'idea di prossimità, se non di equivalenza, tra agire tradizionale ed agire abitudinario è presente anche in Max Weber. Nella illustrazione della sua tipologia dell'agire sociale Weber (v., 1922; tr. it., p. 22) sostiene che un agire è tradizionale quando è "determinato da un'abitudine acquisita". Questa determinazione viene ulteriormente specificata da Weber nel modo seguente: "Il comportamento rigorosamente tradizionale - al pari della pura imitazione passiva - sta precisamente al limite, e spesso al di là di ciò che si può definire, in generale, un agire orientato 'in base al senso'. Infatti esso è assai sovente una specie di oscura reazione a stimoli abitudinari. La massa di tutto l'agire quotidiano acquisito si avvicina a questo tipo, il quale si inserisce come caso limite nella sistematica delle forme di comportamento, ma anche, dato che il legame con l'abitudine può essere mantenuto consapevolmente in grado e senso diverso, viene ad accostarsi in questo caso al tipo dell'agire razionale rispetto al valore" (ibid.; tr. it., p. 22). Weber sembra quindi indicare come tradizionale solo l'agire determinato dall'abitudine; ogni agire che varchi la soglia dell'abitudine (e che sia mediato da qualche forma di consapevolezza) perderebbe le caratteristiche della tradizione e sarebbe quindi da considerare come "razionale rispetto al valore". In altri passi della sua opera, in particolare nella sociologia giuridica, Weber tuttavia si scosta da questa equiparazione tra agire tradizionale ed agire abitudinario. Ad esempio, trattando del passaggio dal costume (Sitte), inteso come abitudine inveterata che non richiede per essere seguita nessun senso del dovere, alla convenzione, vista come obbligo giuridico assunto consapevolmente, Weber sottolinea come in questo caso si tratti di un passaggio che comporta la formazione di una tradizione. Se egli quindi avverte l'esigenza di tracciare un confine tra abitudine e tradizione, tuttavia tale confine resta fluido, i due fenomeni sfumano l'uno nell'altro e anche sul piano concettuale la distinzione non appare netta. Lo stesso Shils (v., 1981), al quale dobbiamo la più approfondita analisi sociologica della tradizione e che rimprovera a Weber di aver dissolto la categoria dell'agire tradizionale nel vago concetto di 'abitual acts', opera con un concetto di tradizione che non consente una netta distinzione con l'abitudine. Per Shils (v., 1981, p. 12) "tradizione è tutto quanto è trasmesso o passato di mano dal passato al presente, [...] il grado di deliberazione razionale che dà luogo alla creazione, all'elaborazione e alla ricezione non ha nulla a che fare con il fatto che si tratti o meno di una tradizione".
A nostro avviso, invece, per fare in modo che il concetto di tradizione risulti utile sul piano dell'analisi è necessario operare una netta distinzione con quanto viene normalmente rubricato sotto il concetto di abitudine. Una proposta potrebbe essere quella di escludere dal concetto di tradizione tutto quanto, sia nel repertorio comportamentale dell'individuo sia nel patrimonio culturale della società, è dato per scontato e quindi non presuppone una qualche forma di consapevolezza individuale e collettiva; tutto ciò, in altre parole, che viene trasmesso di generazione in generazione senza che ci si interroghi sul suo contenuto in termini di valore, come avviene appunto nel caso delle abitudini. Si potrebbe dire che si tratta della parte invisibile della cultura, la parte che abbiamo senza sapere di averla. Non è certo un caso che il linguaggio comune collochi questa parte della cultura nell'ambito dei fenomeni 'naturali'. Ad esempio, se due esseri umani che si conoscono si salutano quando si incontrano, non diciamo che 'seguono la tradizione di salutarsi', ma riteniamo che 'salutarsi', date le circostanze, sia un comportamento 'naturale'. Abbiamo già notato che le abitudini sono in qualche modo apparentate agli istinti, e non è da escludere che tratti che si formano come abitudini si consolidino in seguito nel corso di molte generazioni sotto forma di informazioni genetiche.
Se si esclude dall'ambito semantico del concetto di tradizione tutto quanto è rubricabile come abitudine, allora la tradizione è definibile come quella parte della cultura che viene trasmessa intenzionalmente e consapevolmente di generazione in generazione. Molti tratti culturali si estinguono col tempo senza che nessuno se ne accorga: muoiono, se così si può dire, di morte naturale, e la loro scomparsa non suscita né attenzione né rimpianto. Essi non servono più come strumenti per agire, e possono al massimo venire conservati e archiviati nel caso in cui un giorno qualcuno dovesse ricordarsi di loro e utilizzarli di nuovo. Molti elementi del sapere tecnico delle passate generazioni, ad esempio, vanno irrimediabilmente perduti, a meno che non costituiscano le premesse di sviluppi e innovazioni successivi, in cui vengono incorporati. Come gli individui, anche le società sono dotate della capacità di dimenticare, ed è bene che sia così, perché senza oblio non vi sarebbe neppure memoria.
Se da un lato, quindi, vi sono tratti culturali che si estinguono, dall'altro lato però ve ne sono molti altri che vengono conservati, perché la loro eventuale perdita viene avvertita e valutata come irrimediabile. I tratti culturali in questione sono considerati come dotati di valore e l'eventualità della loro estinzione viene percepita come una minaccia. La minaccia della perdita è infatti uno dei fattori che agiscono nel senso di trasformare questi tratti culturali in tradizioni, in quanto determina una serie di azioni intenzionali volte ad assicurare la loro sopravvivenza e ulteriore trasmissione. Alla base di ogni tradizione vi è quindi un'attribuzione di valore a qualche tratto tramandato dal passato. Il linguaggio comune è un rivelatore efficace della presenza o meno di una tradizione. A nessuno, ad esempio, verrebbe in mente di dire che nella scuola vi è la tradizione di insegnare a leggere e scrivere; ciò è infatti considerato un compito 'naturale' della scuola, mentre i metodi dell'insegnamento linguistico possono essere parte di diverse tradizioni pedagogiche e didattiche. Si può invece dire che nei licei italiani vi è una tradizione di insegnamento del latino e, infatti, tutte le volte che qualcuno ne propone un ridimensionamento si verifica una generale mobilitazione in difesa di questa tradizione.
La distinzione tra abitudine e tradizione appare nel modo più chiaro quando ci si pone dal punto di vista di colui che agisce. Il fatto di seguire un'abitudine rappresenta infatti un consistente alleggerimento comportamentale, nel senso che l'agire non richiede un costoso processo decisionale di problem solving. Quanto maggiore è il numero dei 'problemi' che possono essere affrontati ricorrendo ad abitudini, tanto maggiori sono l'attenzione e l'energia che possono essere indirizzate verso i problemi che richiedono un grado elevato di deliberazione. Una tradizione rappresenta invece quasi sempre un appesantimento, una limitazione delle possibilità di azione, ossia un vincolo dotato di un qualche grado di coercitività e al quale non è possibile sottrarsi se non subendo il costo di una sanzione. In altri termini, le abitudini appartengono a quel fondo di sapere, accumulato nelle generazioni, al quale facciamo ricorso senza essere consapevoli del fatto che si tratta di un patrimonio ereditato. La loro efficacia e adeguatezza allo scopo viene quotidianamente verificata senza che si debba prendere atto del fatto che esse sono il risultato di un lungo processo di selezione le cui origini si perdono nel remoto passato. Una tradizione, al contrario, emerge soltanto quando qualcosa diventa oggetto di una attribuzione di valore, e si realizzano azioni consapevoli per tutelare tale valore e assicurarne la trasmissione a futura memoria. Spesso la genesi di una tradizione avviene in un contesto conflittuale che vede i suoi difensori opposti agli 'innovatori'. Anche quando prevalgono questi ultimi, tuttavia, una tradizione non si estingue finché c'è qualcuno disposto a impegnarsi per la sua sopravvivenza.
È utile notare come il confine tra abitudini e tradizioni sia valicabile nelle due direzioni: le abitudini possono diventare tradizioni e viceversa. Il primo caso si ha quando la trasmissione di un determinato tratto culturale non viene più assunta come automatica e 'naturale', quando cioè qualcuno nota che la sua sopravvivenza è minacciata e si dimostra disposto a fare qualcosa per contrastare questo pericolo. È allora che ci si rende conto dell'esistenza di una tradizione. Ciò che prima appariva invisibile o veniva dato per scontato diventa ora visibile e assunto come oggetto di agire intenzionale. I costumi, ad esempio, non appartengono all'ambito della tradizione fintanto che vengono seguiti senza attriti dalla totalità di una popolazione o di un gruppo, ma ne divengono parte quando la loro persistenza non risulta più evidente e si richiedono azioni consapevoli per garantirne la sopravvivenza. Una tradizione quindi non è semplicemente qualcosa che viene trasmesso di generazione in generazione, ma qualcosa che richiede una cura particolare pena la sua estinzione.
Anche le tradizioni, peraltro, possono trasformarsi in abitudini. I processi di assimilazione di una popolazione di immigrati, ad esempio, mostrano entrambi i passaggi: già la seconda generazione abbandona alcune abitudini della cultura d'origine (che spesso diventano oggetto di difesa e di culto da parte della prima generazione) e ad adottare i tratti culturali della società di accoglimento non più come tradizioni esterne, ma come normali abitudini. La mancanza di una distinzione analitica tra abitudine e tradizione conduce spesso a contraddizioni concettuali. Lo stesso Shils (v., 1981, p. 197) parla della tradizione come di 'passato definito e scontato' (settledness of the past) che viene assunto come 'dato naturale', ma nello stesso tempo ritiene che la tradizione sia spesso localizzata in uno spazio conflittuale. Essa si muoverebbe quindi lungo un continuum da un massimo di consenso ad un massimo di conflitto. Tuttavia tra abitudine e tradizione non vi è una differenza quantitativa ma qualitativa, e la differenza consiste nel fatto che nei confronti delle abitudini e delle tradizioni gli esseri umani agiscono e reagiscono in modi diversi. In questo senso, più che di tradizione sarebbe più rigoroso parlare di agire orientato alla tradizione, ossia di un agire che assume consapevolmente un modello di comportamento tramandato dal passato in quanto gli attribuisce un valore.
La distinzione tra abitudine e tradizione fa riferimento a modi diversi di orientamento delle azioni umane e risulta quindi da un approccio prevalentemente microsociologico. La dicotomia tradizionale/moderno, ovvero tradizionale/razionale, tende invece a emergere nell'ambito di un approccio macrosociologico, quando si confrontano tra loro società diverse nel tempo e/o nello spazio. La dicotomia tradizionale/moderno che, come abbiamo notato in precedenza, si afferma nel solco del pensiero illuministico, è centrale nelle opere di molti classici della sociologia (ad esempio, Tönnies e Durkheim) ed è entrata a far parte del sapere sociologico soprattutto per merito di Max Weber. Per questo autore il processo di razionalizzazione si configura come passaggio da forme tradizionali di organizzazione sociale a forme moderne. Questo processo ha investito in via prioritaria le società occidentali in una varietà di ambiti, dall'organizzazione familiare alle pratiche educative, dalle credenze religiose agli ordinamenti giuridici, dalle strutture del potere politico alle attività economiche, dalle forme del conoscere alle espressioni artistiche. In ognuno di questi ambiti, tradizionale e moderno si contrappongono e si escludono reciprocamente; l'affermazione di una delle due polarità non può che realizzarsi a scapito dell'altra, l'avanzata del processo di modernizzazione e di razionalizzazione comporta inevitabilmente l'arretramento della tradizione. Chi si fa portavoce delle istanze di progresso tende a negare il valore della tradizione, mentre chi si aggrappa alla tradizione tende ad assumere un atteggiamento ostile verso la modernità. Per Max Weber il processo di razionalizzazione rappresenta una tendenza irreversibile, in quanto le tradizioni non sarebbero in grado di opporsi al potere dissolvente della razionalità strumentale. Weber era tuttavia consapevole della natura problematica del processo, l'esito del quale, per quanto irreversibile, non era affatto scontato poiché diversi potevano essere i punti di partenza (i tipi di società tradizionali) e di arrivo (i tipi di società moderne).
All'impostazione weberiana si sono ispirati gli studiosi della modernizzazione, i quali tuttavia hanno adottato nella maggior parte dei casi dei modelli di descrizione e di spiegazione unilineari, che postulano l'esistenza di caratteristiche tipiche comuni a tutte, o quasi, le società tradizionali. In questa prospettiva, si possono chiamare tradizionali le società che presentano almeno alcune di queste caratteristiche: predominio dell'agricoltura di sussistenza; scarso orientamento della produzione al mercato; scarsa differenziazione delle occupazioni; assenza di una tecnologia su basi scientifiche; uso prevalente di energie umane e animali; grado elevato di analfabetismo della popolazione; predominanza dei criteri ascrittivi nell'accesso alle professioni nonché alle posizioni di dominio e di prestigio; consenso generalizzato su un corpo di credenze tramandato; centralità delle credenze magico-religiose; accettazione generalizzata delle gerarchie sociali consolidate; deferenza diffusa verso l'autorità; scarsa propensione all'innovazione e al mutamento sociale. Anche il modello parsonsiano delle 'variabili modello' (pattern variables) ricalca una concezione dicotomica, dove la tradizione è rappresentata da un insieme di polarità che si contrappongono a un secondo insieme che caratterizza invece la modernità: particolarismo verso universalismo, diffusione verso specificità, affettività verso neutralità affettiva, ascrizione verso acquisizione. Nelle società tradizionali dominerebbero le relazioni particolaristiche, diffuse, cariche affettivamente e fondate su criteri ascrittivi che derivano dalla nascita.
Impostazioni di questo tipo sono alla base anche di importanti ricerche empiriche sui processi di modernizzazione delle società tradizionali, come quella condotta negli anni cinquanta da Daniel Lerner in alcuni paesi del Medio Oriente (v. Lerner, 1958) e che porta il titolo significativo di The passing of traditional society. Secondo il modello di Lerner la società tradizionale entra in crisi quando sono all'opera uno dopo l'altro quattro processi fondamentali: il processo di urbanizzazione e quello di alfabetizzazione, l'accesso ai mezzi di informazione e, in genere, alla cultura di massa i quali, a loro volta, provocano l'attivazione della partecipazione politica e sociale. Il modello di Lerner appare tuttavia più normativo che descrittivo. L'esperienza dei paesi in via di sviluppo mostra infatti come ritmo e sequenza dei processi di mutamento possano variare notevolmente nel tempo e nello spazio. Come rileva Bendix (v., 1970), la transizione può avvenire mediante processi di lungo periodo, nei quali certi attributi della modernità non si realizzano mai compiutamente e certi tratti tradizionali non scompaiono mai del tutto. L'unilinearità del modello di Lerner appare appena attenuata in altre teorie della modernizzazione. Nel modello proposto da Clark Kerr e altri (v., 1960), ad esempio, la logica dell'industrialismo appare inarrestabile, come se le società nelle quali la produzione industriale tende a diventare dominante dovessero alla fine venirsi tutte ad assomigliare. L'errore consiste nello scambiare un modello tipico ideale (utile, ma di limitata portata descrittiva) per un'adeguata rappresentazione del processo reale di cambiamento, rischiando così di ipostatizzare, come peraltro fece anche Marx, che tutte le società debbano seguire lo stesso percorso di quelle che le hanno precedute. Gerschenkron (v., 1962), ad esempio, criticando i modelli unilineari, ha messo in luce come il processo di industrializzazione abbia prodotto effetti diversi nei paesi new comers e late comers, non solo per la diversità dei punti di partenza, ma anche perché i fattori che hanno agito nei casi di industrializzazione precoce possono essere sostituiti da altri fattori nel caso dei paesi che si sono affacciati in ritardo sulla scena dell'economia moderna. Un modello non unilineare di stampo weberiano è anche quello proposto da Eisenstadt (v., 1973), che parla esplicitamente di forme 'multiple' di tradizione e di modernità. Alla luce di queste considerazioni, tradizione e modernità non si escludono reciprocamente. Non è necessario assumere che laddove regna la tradizione sia bloccata la strada verso la modernità: i casi dello sviluppo del Giappone e dell'intero Sudest asiatico ne sono un esempio evidente. Una società, così come un singolo individuo o gruppo, possono essere contemporaneamente tradizionali e moderni; tradizione e modernità possono quindi apparire in diverse combinazioni, sia di complementarità sia di opposizione.
Non è neppure necessario porre sullo stesso piano tradizionalismo e conservatorismo. Poiché la tradizione consiste in un'attivazione selettiva di valori tramandati dal passato, può essere richiamata sia al fine di consentire l'assunzione del nuovo, per aprire la strada all'innovazione, sia per opporvisi. Spesso il nuovo deve rivestire i panni della tradizione per poter essere accettato, e non è raro che gli stessi movimenti rivoluzionari facciano appello a qualche tradizione antica, accusando gli attuali detentori del potere di averla abbandonata o tradita. Dall'epoca della Riforma e dell'illuminismo, nella tradizione culturale dell'Occidente all'idea stessa di cambiamento viene attribuito un valore positivo. Possiamo dire che anche l'idea di modernità ha costruito una propria tradizione.
Se la contrapposizione a livello macrosociologico fra tradizione e modernità presta il fianco alle critiche alle quali abbiamo accennato, lo stesso non vale per la contrapposizione tradizione/innovazione, poiché essa non implica un confronto tra società nella loro globalità, ma invita ad operare su scala ridotta, prendendo in esame di volta in volta singoli tratti o ambiti circoscritti. L'innovazione si definisce come 'modo nuovo' di fare qualcosa, contrapposto a un 'modo tradizionale'. Innovare vuol dire uscire dai binari della tradizione, fare qualcosa che risulta imprevedibile sulla semplice base dell'estrapolazione delle tendenze che si sono verificate nel passato. L'innovazione presuppone la tradizione: un'azione, un artefatto, un'idea sono innovativi sempre e soltanto in relazione a qualcosa di tradizionale; senza tradizione non vi sarebbe neppure innovazione. Il rapporto tradizione/innovazione appare ancora più stretto se si pensa che un'innovazione di successo è tale se è in grado di trasformarsi in tradizione. Un'innovazione che non si riproduce, infatti, non viene imitata e non si trasmette, ed è quindi destinata a scomparire senza lasciare traccia. La coppia concettuale tradizione/innovazione si applica a una grande varietà di ambiti diversi. In ambito religioso, possiamo dire che è innovativo ogni movimento che si pone esplicitamente in contrapposizione con qualche credenza o pratica religiosa istituzionalizzata; ogni forma di ortodossia religiosa è tale in quanto si contrappone all'eterodossia e viceversa: i due termini si implicano reciprocamente. È noto, ad esempio, che Max Weber assegna alla profezia, intesa come espressione di un movimento carismatico di rottura di una credenza consolidata, una funzione innovativa di tipo rivoluzionario in campo religioso. Egli ricorda che la formula: "Sta scritto, ma io vi dico...", è quasi sempre alla base di ogni movimento religioso di tipo profetico che innova rispetto alla tradizione. Le tradizioni religiose possono riguardare sia i testi sacri, nei quali sono fissati i fondamenti di una fede (vedi, ad esempio, le controversie intorno ai 'testi apocrifi'), sia, soprattutto, la loro interpretazione; le varie scuole vediche, talmudiche, coraniche, bibliche, ecc., altro non sono che diverse tradizioni interpretative dei testi sacri delle maggiori religioni mondiali. Le Chiese sviluppano di norma un corpo di funzionari specializzati nella corretta interpretazione delle scritture. Essi da un lato sono i custodi della tradizione, ma nello stesso tempo costituiscono anche un'agenzia legittima e autorizzata a introdurre, attraverso l'interpretazione, quelle innovazioni che consentono di adattare le credenze tradizionali alle mutevoli condizioni del contesto socio-culturale. Una tradizione che si dimostri incapace di un certo grado di elasticità interpretativa e che quindi escluda possibilità di innovazione rischia di cristallizzarsi in forme rigide, incapaci di far fronte alle sfide provenienti dall'ambiente. Il passato, infatti, vive nella tradizione, ma per essere accettato e fatto proprio da schiere successive di generazioni deve venire riformulato e ricostruito selettivamente in un processo continuo di adattamento. Un'istituzione come la Chiesa cattolica, che può vantare un'esistenza ininterrotta di quasi due millenni, non avrebbe potuto sopravvivere se non avesse saputo adattare la propria tradizione religiosa a tempi, luoghi e popoli diversi. Questi fenomeni tuttavia non riguardano solo il campo religioso. Vi è un nesso evidente tra il binomio movimento/istituzione e il binomio innovazione/tradizione. Il processo che Weber indica come trasformazione del carisma in pratica quotidiana riguarda sia i movimenti religiosi che i movimenti politici, e si manifesta come consolidamento dell'innovazione in pratiche che diventano tradizionali. Il passaggio dallo stato fluido dei movimenti a quello consolidato delle istituzioni, che è un aspetto del più generale processo di formazione delle tradizioni, è uno dei temi centrali della sociologia dall'epoca dei classici in poi (v. Alberoni, 1977).
Il rapporto innovazione/tradizione si ripropone in modo particolarmente evidente nell'ambito dell'economia. Come ha ben messo in luce Schumpeter (v., 1912), ogni innovazione rappresenta una "distruzione creatrice", nel senso che introduce nuove combinazioni (nuovi prodotti, nuove tecniche, nuove forme organizzative, nuove vie di approvvigionamento, nuovi mercati di sbocco) tali da rendere rapidamente obsolete quelle tradizionali. Il mercato si incarica di selezionare le innovazioni destinate a sopravvivere almeno fino al momento in cui non saranno soppiantate da un'ondata di innovazioni successive. La figura centrale nella dinamica dello sviluppo è quella dell'imprenditore, il quale è animato da una propensione all'innovazione particolarmente accentuata. Si tratta di una figura che, come sostiene Sombart (v., 1916), tende a emergere, almeno nelle fasi iniziali dello sviluppo dell'economia capitalistica moderna, dai gruppi sociali che vivono al margine della società (in particolare, eretici, ebrei, stranieri) i quali, proprio per questa loro posizione, sono meno condizionati dai vincoli della tradizione. Il rapporto innovazione/tradizione appare particolarmente problematico nel campo della scienza. Come abbiamo già avuto modo di notare, sottolineando le coordinate ideologiche del concetto di tradizione, se nella prospettiva del pensiero illuminista la scienza è la massima espressione del potere della ragione e il prodotto del processo di razionalizzazione, tra scienza e tradizione non può che esservi un rapporto di ostilità. La scienza, nel suo progredire, svelerebbe il carattere magico o comunque infondato delle credenze tradizionali, dissolverebbe il velo di ignoranza che avvolge la realtà e ne impedisce l'esatta apprensione. Non vi è dubbio che, in linea di principio, gli scienziati non possono accettare come valida nessuna proposizione sulla base dell'autorità della tradizione, se non se ne è vagliata la consistenza logica e il fondamento empirico. Tuttavia, col ridimensionamento della pretesa che la scienza possa svelare ogni segreto e spiegare adeguatamente ogni fenomeno, non solo si è attenuato il rapporto di ostilità tra scienza e tradizione, ma si è anche riconosciuto che la scienza stessa, così come si è sviluppata in Occidente negli ultimi quattro secoli, è frutto di una tradizione. Non solo la tradizione del pensiero scientifico è uno dei tratti che definiscono l'essenza della cultura delle società occidentali, ma la scienza stessa si fonda su una tradizione che stabilisce le regole del metodo scientifico. Vi è tuttavia un'ulteriore ragione che spiega, nel caso della scienza, il nesso tra innovazione e tradizione. Nella misura in cui il processo di acquisizione delle conoscenze in un determinato ambito disciplinare risulta cumulativo, cioè quando ogni nuova acquisizione poggia sulle precedenti e le presuppone, l'innovazione, lungi dal contrapporsi alla tradizione, si innesta sul suo tronco. Di certo non in tutte le fasi del loro sviluppo e non in tutte le scienze nello stesso modo il procedere delle conoscenze avviene in modo lineare e cumulativo. Nelle fasi che Thomas Kuhn (v., 1962) chiama delle "rivoluzioni scientifiche" - tipico il caso della "rivoluzione copernicana" - l'innovazione avviene mediante rottura del paradigma scientifico tradizionalmente adottato da una data comunità scientifica; nelle fasi della "scienza normale", invece, il progredire delle conoscenze avviene in modo cumulativo nel solco del paradigma. Il concetto di paradigma, così come utilizzato da Kuhn, può tranquillamente essere equiparato a quello di tradizione scientifica. Vi sono discipline, inoltre, e fra queste tutte le scienze sociali, nelle quali solo raramente si verifica che un paradigma sia adottato come dominante dall'intera comunità scientifica. In questi casi si assiste alla presenza di una pluralità di paradigmi, ovvero di tradizioni, tra loro in concorrenza, e solo all'interno di ciascuno di essi è possibile parlare di cumulatività, anche se si tratta comunque di una cumulatività assai limitata. Dove la cumulatività è scarsa non è infrequente che, in assenza di una tradizione consolidata, generazioni successive riscoprano ciò che era già stato scoperto precedentemente, ma la cui memoria non era giunta fino a loro.
Quello che vale per le scienze sociali vale a maggior ragione per le arti e la letteratura. Si tratta di campi dove l'esistenza di una pluralità di tradizioni che si succedono nel tempo, oppure che sono compresenti nello stesso tempo, è la regola. In questi campi il concetto di tradizione si sovrappone, fino a coincidere, con il concetto di stile. Le trattazioni di storia dell'arte e della letteratura sono in genere organizzate mediante periodizzazioni che coincidono con le fasi in cui un determinato stile è risultato dominante. Si parla di uno stile romanico, gotico, rinascimentale, barocco, romantico e via di seguito, e si identificano gli snodi e le fasi di transizione tra uno stile e l'altro. Le fasi di transizione vedono ovviamente l'affermarsi di innovazioni che rompono con una vecchia tradizione e ne creano una nuova. Nella storia della musica, ad esempio, l'opera di Mozart occupa una posizione strategica nella transizione tra la tradizione della musica tardo-barocca prodotta ed ascoltata nelle corti aristocratiche e la tradizione romantica, che troverà sostegno nel pubblico borghese delle sale da concerto. Con l'avvento della modernità è ben difficile stabilire quale tradizione o stile artistico o letterario risulti storicamente dominante. La presenza di un fascio di tradizioni, tra loro apparentate oppure contrapposte, sembra essere diventata la regola in moltissimi campi. Le tradizioni e gli stili tendono a essere di durata più breve che in passato, e ciò genera il fenomeno tipicamente moderno delle avanguardie. Queste sono costituite da gruppi che si presentano sulla scena annunciando la morte di una tradizione e l'avvento di un nuovo stile di cui essi si fanno i portatori. Ciò che ha preceduto la loro comparsa appare irrimediabilmente superato, sorpassato, invecchiato, non più adeguato ai tempi correnti. La marcia del nuovo deve essere aperta eliminando dalla sua strada i detriti del passato; il nuovo appare come la negazione del passato, il culto della novità richiede la dissacrazione delle tradizioni. L'idea di avanguardia è strettamente connessa all'idea di mutamento. Solo se c'è mutamento, infatti, è possibile pensare all'esistenza di individui o gruppi che lo anticipano e di altri che, invece, lo seguono con un certo ritardo. Esempio tipico, e forse estremo, di questa tendenza 'avanguardista' è stato senza dubbio il movimento futurista italiano con la sua dichiarazione di guerra alle mentalità, ai gusti, agli stili, in breve, alle tradizioni tramandate dal passato.
Nel caso delle manifestazioni artistiche e letterarie è spesso difficile dire se si tratta di una vera innovazione che rompe una tradizione e ne crea una nuova, oppure se si tratta di una semplice moda. Ancorché innovativa, una moda culturale non rappresenta il superamento di una tradizione, ma semplicemente di un'altra moda, senza dar luogo alla creazione di una nuova tradizione.
Sappiamo che l'identità degli individui è ancorata al loro passato o, meglio, al modo con cui le esperienze trascorse vengono riattivate nel presente in vista del raggiungimento di mete collocate nel futuro. Senza la memoria gli esseri umani non sarebbero in grado di riconoscersi, di dire chi sono, poiché non sarebbero in grado di scorgere la persistenza al di là delle metamorfosi che il loro corpo e la loro mente hanno subito nel tempo. Anche le collettività, per esistere come entità riconoscibili a se stesse e agli altri, hanno bisogno di memoria; le tradizioni formano il contenuto della memoria collettiva. Anzi, si può dire che una collettività si forma e acquista consapevolezza della propria esistenza quando i suoi membri riconoscono di avere delle tradizioni in comune. Poiché ogni società deve assicurare la propria identità nel tempo, i suoi membri devono sviluppare un senso di appartenenza che non comprende solo coloro che vivono in quel determinato momento, ma anche le generazioni passate e future. Una società non è quindi un fenomeno sincronico, non può esistere se non ha una durata. Ciò vale per qualsiasi gruppo che aspiri ad una certa permanenza nel tempo (da un club sportivo, a un'università o a un corpo militare), ma vale soprattutto, grosso modo dal XIX secolo in poi, per quel particolare tipo di collettività costituito dalle società nazionali. Nella formazione degli Stati nazionali si possono dare sostanzialmente due casi: la nazione è vista come un'entità che precede la formazione dello Stato nazionale, oppure, nel caso contrario, è lo Stato, nella sua forma di Stato dinastico e assoluto, a precedere la formazione della nazione. Nel primo caso, le collettività in questione sono poste di fronte all'esigenza di legittimare la loro pretesa di darsi una dimensione statuale e fanno quindi appello alle radici storiche, alla cultura, alla lingua, alle comuni origini, in breve alle tradizioni ritenute fondanti dell'identità nazionale, per rivendicare un 'nuovo' Stato. È il caso, per intenderci, di 'nazioni' come l'Italia o la Germania, che hanno raggiunto l'unità nazionale solo tardi e in modo parziale. Nel secondo caso lo Stato, nel passaggio dal principio dinastico alla sovranità popolare, tende ad assicurare la lealtà dei cittadini rafforzando la loro identità nazionale. È il caso, ad esempio, della Francia o della Spagna. In entrambi i casi, si tratta di promuovere la credenza nella continuità e identità con il passato nazionale, di celebrare gli eroi nazionali, di commemorare i grandi eventi della storia nazionale e, in particolare, quelli che ne segnano la fondazione, come le rivoluzioni o le lotte per l'indipendenza da qualche dominio straniero.
La funzione di rafforzamento e di custodia dell'identità nazionale è spesso assolta dal ceto intellettuale e, in particolar modo, da quella frazione di esso che è quotidianamente a contatto con le nuove generazioni e alla quale è assegnato il compito di insegnare la storia nazionale. Per questa ragione gli insegnanti della scuola primaria e secondaria sono stati visti, fino alla seconda guerra mondiale, che ha segnato in Europa l'inizio della decadenza degli Stati nazionali, come i sacerdoti della 'religione nazionale'.
Ancora diverso è il caso di popolazioni la cui identità ha un fondamento etnico o religioso, o una combinazione dei due elementi, ma che da sempre o per lunghi periodi hanno vissuto senza un'organizzazione statuale e in condizioni di forte dispersione geografica. Gli esempi più tipici in proposito sono quelli degli Ebrei, degli Armeni e dei Curdi. In questi casi, la possibilità di mantenere un'identità collettiva dipende esclusivamente dalla capacità di mantenere vive e di tramandare le tradizioni nelle quali l'identità stessa trova il proprio fondamento.
L'esigenza di concepire la storia come storia nazionale e di interpretarla dal punto di vista della nazione non sempre si concilia con i criteri della storiografia che aspira allo status di scienza. Il punto di vista nazionale, così come ogni altro punto di vista unilaterale, risulta spesso deformante, e la storia che ne deriva rischia di creare una tradizione originaria immaginaria al servizio delle esigenze del presente. Detto altrimenti, per riprendere le tesi esposte in un importante lavoro di Hobsbawm, molte tradizioni che pretendono antiche origini sono piuttosto recenti e talvolta del tutto inventate. "Per tradizione inventata - scrive Hobsbawm (v. Hobsbawm e Ranger, 1983; tr. it., p. 1) - si intende una serie di pratiche, normalmente governate da regole esplicite o accettate tacitamente e di natura simbolica o rituale, che cercano di inculcare certi valori e norme di comportamento attraverso meccanismi di ripetizione che automaticamente implicano continuità col passato". Hobsbawm offre una ricca casistica di tradizioni popolari, costumi, inni, feste, cerimonie che sono stati 'inventati' in genere nel corso del XIX secolo sotto l'esigenza di suscitare un forte sentimento di appartenenza nazionale. Ciò vale anche quando si tratta di rafforzare un sentimento di appartenenza localistica: ad esempio, non tutti i palii, che si susseguono in genere nei mesi estivi in molte città italiane, hanno effettivamente un'origine antica. Il bisogno di identificare le proprie radici, reali o immaginarie, è primordiale in qualsiasi collettività e tende a diventare decisivo quando la collettività stessa avverte una minaccia alla propria identità. Una comunità colpita da una calamità, una comunità di immigrati in terra straniera, una società che rischia di soccombere nel conflitto con un vicino potente e aggressivo, una cultura soggetta all'influenza di una cultura esterna tendenzialmente dominante, sono tutti casi in cui l'identità di una collettività è esposta a una sfida e la sopravvivenza della collettività stessa dipende dalle sue capacità di risposta a tale sfida. Una risposta efficace comporta invariabilmente il richiamo alle tradizioni e la loro difesa come elementi costitutivi dell'identità. Quando i gruppi umani vivevano in uno stato di forte isolamento gli uni dagli altri, attenuato soltanto da sporadiche visite di mercanti e di missionari o da incursioni di militari, era difficile che un gruppo sociale si sentisse fortemente minacciato nella sua identità e, del resto, è proprio l'isolamento che spiega il grado estremo di differenziazione delle culture sparse sulla superficie della terra. La riduzione del grado di isolamento delle diverse culture che avviene per effetto dell'espansione europea a partire dal XVI secolo, l'intensificarsi dei traffici e dei contatti ha senza dubbio sottoposto a tensione le tradizioni locali. I movimenti nazionalistici del XIX e della prima metà del XX secolo possono infatti essere spiegati, almeno in parte, come reazioni alla diffusione della cultura industriale e alla sua tendenza ad uniformare stili e modi di vita, cancellando antiche tradizioni. Verso la fine del XX secolo, la ripresa di movimenti a base etnico-religiosa in varie parti del mondo è spesso interpretata come reazione alle sfide che il processo di globalizzazione esercita nei confronti delle culture e delle tradizioni locali. Di fatto, il processo di globalizzazione messo in moto dalle nuove tecnologie della comunicazione informatica non solo crea dei nessi di interdipendenza su scala planetaria, ma diffonde anche gli stessi modelli culturali della civiltà occidentale in tutto il mondo e mette quindi in discussione i confini tra le varie culture e tradizioni. Le reazioni delle culture autoctone vedono di nuovo in primo piano frazioni delle élites intellettuali e religiose che fanno di tutto per innalzare delle barriere alla penetrazione della modernità occidentale. La nascita o la ripresa di vari fondamentalismi, e in particolare del fondamentalismo islamico, è interpretabile in questa chiave di lettura, che vari autori indicano col termine di neotradiziona~lismo (v. Scamuzzi, 1998). (v. anche Cultura; Identità personale e collettiva; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Memoria; Moda; Modernità; Modernizzazione; Socializzazione).
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