URBANISTICA (XXXIV, p. 768; App. III, 11, p. 1037)
Urbanistica antica. - I primi insediamenti stabili di una certa consistenza si costituiscono durante il periodo Neolitico, quando, con l'introduzione dell'agricoltura, si formano comunità sedentarie (probabilmente poco dopo il 10.000 a. C.). Il più antico centro urbano finora conosciuto è Gerico in Giordania: abitato fin dal Mesolitico, presenta, in un Neolitico molto antico (8°-7° millennio a. C.), case a pianta circolare, mura e torre difensiva. Altri importanti insediamenti neolitici sono Çatal Höyük presso Konya nell'Anatolia meridionale, le cui case (alcune con destinazione cultuale) formano un blocco compatto con i tetti a terrazza comunicanti e sono accessibili solo attraverso i tetti; Hacilar (Burdur), con una serie di abitazioni di pianta analoga. In questi centri urbani (provvisti di sistemi difensivi) non si può parlare di vera pianificazione urbanistica.
L'u. del mondo orientale nell'antichità dev'essere ancora in gran parte studiata. In Mesopotamia si può tuttavia osservare che, fin dal fiorire della cultura sumera (che ha origine intorno al 5000 a. C.), la città è dominata dal tempio o dal palazzo.
Si pensi al Tempio Bianco di Uruk (la biblica Erech) di epoca ancora anteriore a quella documentata dalle liste dinastiche; al palazzo di Tell Asmar, costruito in epoca protodinastica e rifatto dopo l'unificazione (24° secolo a. C.) delle città-stato sumere attuata da Sargon di Akkad; alla Ziqqurat (torre a tempio) del dio della Luna a Ur, costruita dopo la caduta dell'impero accadico e il rifiorire della cultura sumera; alla cittadella di Khorsabad con il palazzo del sovrano assiro Sargon II; ai palazzi di Nimrud, residenza imperiale a partire da Assurnasirpal II. Questi grandi edifici hanno talvolta un ordine e una simmetria interni nelle loro piante articolate in numerosi ambienti e cortili; riescono in qualche caso a condizionare i quartieri immediatamente circostanti; mantengono comunque ben distinta la residenza del sovrano e della corte rispetto alla parte destinata ai sudditi (la cosa è particolarmente evidente a Khorsabad); ma dal punto di vista del disegno urbanistico spesso non sono in alcun modo coordinati (un chiaro esempio si ha nei palazzi e templi costruiti da vari sovrani a Nimrud). A maggior ragione sorgono in genere disordinatamente le abitazioni private (per es. a Ur), la cui pianta è spesso condizionata dalla forma irregolare dell'area disponibile. Sembrano inoltre mancare abitualmente servizi pubblici come condutture d'acqua e fogne.
Piani precisi non si riscontrano neanche nell'Anatolia, né durante l'impero hittita (si veda il disordinato assetto dell'acropoli di Ḫattuša), né dopo la sua caduta in seguito all'invasione dei Frigi intorno al 1200 a. Cristo. Il primo caso in cui si può parlare di un piano urbanistico, per quanto riguarda l'area dell'Asia minore e sudoccidentale, è forse attestato a Babilonia, dove si spostò il centro del potere della zona mesopotamica in seguito alla caduta di Ninive (612 a. C.) e al conseguente crollo dell'impero assiro. Un passo di Erodoto (I, 180), che visitò la città, parla di vie diritte, parallele e perpendicolari al fiume; significativa inoltre la Strada delle Processioni, lungo la quale si allineavano Esagila con Ziqqurat e tempio di Marduk, palazzo di Nabucodonosor, tempio di Istar.
Tracce antichissime di planimetria regolare si trovano testimoniate invece in India: nel Sind, sulla riva destra dell'Indo, fra la metà del 3° e la metà del 2° millennio a. C. ebbe un lungo periodo di sviluppo Mohenjo-Daro, dotata - fin dalle prime fasi di vita - di tracciato stradale a scacchiera, con orientamento Nord-Sud ed Est-Ovest delle vie principali, fogne e collettori sotto il livello stradale, edifici pubblici e cerimoniali sull'acropoli. Caratteristiche del tutto analoghe si riscontrano ad Harappa, nella media valle dell'Indo.
Una regolarità nell'impostazione planimetrica è riconoscibile anche in Egitto. Specialmente per le fasi più antiche, la documentazione non è certo abbondante, se si prescinde dall'architettura monumentale, con tradízione di stretta simmetria; tuttavia nelle capanne di Merimde (nord-ovest del delta), in fase predinastica, si nota già un allineamento; le città sepolcrali disposte intorno alle piramidi dell'Antico Regno, che presentano allineamenti regolari, fanno pensare che vi fosse una pianificazione anche per le città dei vivi; anche il geroglifico arcaico per "città" sembra alludere a strade che s'incrociano ad angolo retto. Nel Medio Regno presenta una pianta quadrangolare con planimetria regolare il villaggio di Kahun presso el-Lahun, costruito sotto Sesostris II durante l'erezione della piramide, con una parte destinata agli alti funzionari che soprintendevano ai lavori, una destinata agli operai. La documentazione più rilevante è offerta da Tell el-‛Amārnah, città abitata fra il 1369 e il 1354 a. C.: il centro monumentale, con palazzi governatoriali e templi, e i palazzi con cortili dei ricchi sono disposti in maniera regolare, mentre le abitazioni della piccola borghesia e del proletariato sembrano disporsi senza ordine; ma a E della città lungo il fiume vi sono i resti di un quartiere proletario in cui, in un vasto recinto quadrato, le abitazioni ripetute in serie sono allineate con estremo rigore. Sempre nel Nuovo Regno, un complesso simile, ma con allineamenti meno rigidi, è conosciuto per es. a Deir-el-Medineh.
A Creta si sviluppa nel corso dell'età del Bronzo la cultura detta "minoica". I celebri palazzi di Cnosso e Festo sono articolati intorno a grandi cortili rettangolari; ma attorno alle dimore dei re si raccolgono villaggi con vie strette e tortuose (Vasilikì, Mallia, Palekastro, Gurnià); la tendenza va accentuandosi nel periodo della decadenza della cultura minoica. Dagli anni intorno al 1500 a. C., la cultura minoica influisce anche sul continente greco; ma qui, specie dopo il 1400, nell'ambito della civiltà micenea (di cui Micene, appunto, e Tirinto sono fra i centri principali), le città vengono dotate di mura ciclopiche e porte colossali: cosa che a Creta non era in uso. I palazzi, in posizione dominante sull'acropoli, hanno appartamenti con propylon, cortile e megaron in successione assiale (cosa anch'essa sconosciuta a Creta: si pensa quindi a una tradizione locale della Grecia continentale). I palazzi e le case signorili sono anche dotati di fognature e accessibili con un sistema di strade organico. Al di fuori di questi edifici principali non c'è simmetria negli abitati: lo si osserva (come a Creta) con particolare evidenza nei piccoli villaggi.
Nei secc. 11°-6° a. C. (le testimonianze archeologiche per questo periodo sono tutt'altro che esaurienti; la principale fonte letteraria è Omero, il quale tuttavia talvolta arcaizza di proposito e si rifà alla città micenea, talvolta rispecchia invece la situazione ormai modificata della sua età) sembra verificarsi in Grecia un graduale cambiamento nella fisionomia della città: dalla città aristocratica di tipo miceneo si passa a nuove strutture più adatte a una società che si evolve verso forme oligarchiche e poi tiranniche. Con la partecipazione di un numero crescente di cittadini alla vita politica, aumenta in particolare l'importanza dell'agorà: già nella città cretese di Latò (8° secolo) e a Thera questa è un importante luogo di adunanza e di culto. La formazione del concetto architettonico di agorà tuttavia è abbastanza lenta e faticosa, e avviene ancora nell'ambito di un'urbanistica casuale, senza piani d'insieme. Ad Atene si ha dal 6° secolo, nell'ambito della tirannide, un'embrionale sistemazione dell'agorà, con la creazione di edifici d'interesse pubblico, fontane, canalizzazioni, ecc.; tuttavia l'aspetto d'insieme rimane disordinato, con vie tortuose, case non allineate.
Mentre le città della Grecia continentale sembrano stentare a darsi un ordinamento urbanistico preciso, la situazione appare diversa nelle colonie. Fra le città più importanti dell'Asia minore costiera, si considerino Mileto e Smirne, colonie ioniche fondate probabilmente già dal 1000 (della precedente colonizzazione di età micenea non si può ricostruire quasi nulla). Sembra che a Mileto vi fossero vie ortogonali già in età arcaica; in ogni caso, nella sua colonia Olbia un'u. regolare è attestata con sicurezza prima della fine del 6° secolo a. Cristo. Smirne, ricostruita dopo un incendio all'inizio del 7°, ebbe un assetto regolare, con la proprietà privata sottoposta a norme rigorose. In Italia meridionale e in Sicilia si hanno prove sicure di una rigorosa suddivisione ortogonale a Posidonia (almeno dalla fine del 6° secolo), a Metaponto (prima della fine del 6°; qui si ha la prova di una ripartizione precisa anche per il territorio agricolo, la cui impostazione va datata probabilmente al momento stesso della fondazione della città: inizio del 7°), ad Agrigento (seconda metà del 6°), sull'acropoli di Selinunte (fine 6°-inizio 5° secolo; qui hanno notevole rilievo i due assi Nord-Sud ed Est-Ovest che s'incrociano). Sull'esempio delle colonie della Magna Grecia, l'u. a scacchiera, in varia misura, si diffonde anche in Campania interna e in Etruria: a Pompei, a Capua (con tracce di ripartizione regolare anche nel territorio), a Veio (con incrocio di due assi ortogonali nell'abitato arcaico), a Marzabotto (qui forse l'influsso più diretto è quello delle città marinare dell'Adriatico come Spina). Il sistema d'incrocio assiale si trova sia in ambiente d'influsso greco (Selinunte) sia in Etruria; non si può quindi sostenere con sicurezza (come invece si credeva) che questo schema fosse specifico del mondo etrusco-italico.
Fra la fine del 6° e la fine del 5° secolo a. C., l'u. regolare si diffonde in misura notevole, e non solo nelle colonie, ma anche in alcune città della Grecia continentale. Il reticolato è di solito molto rigoroso; è frequente la disposizione "per strigas" (su assi viari longitudinali, si attestano col lato breve isolati di forma rettangolare piuttosto allungata). Fra gli esempi principali Mileto nella sua ricostruzione del 474 o 466 (qui tuttavia gl'isolati sono di forma più tendente al quadrato), la ricostruzione del Pireo, Olinto, Rodi. Il piano regolatore è formulato non solo per le necessità relative al momento della fondazione, ma anche in previsione di futuri sviluppi; piazze e monumenti pubblici s'inseriscono nel tessuto urbano senza alterarne i ritmi; le abitazioni private sono omogenee per forma e per stile; s'identificano funzioni diversificate nell'ambito della struttura cittadina. Queste caratteristiche nel loro complesso sono pienamente giustificabili in una società come quella delle città greche del 5° secolo, basata, dopo la caduta delle tirannidi e le guerre persiane, su costituzioni democratiche. Nella diffusione di questo tipo di u. ha una parte rilevante Ippodamo di Mileto, nato probabilmente al principio del secolo. Non è da escludersi abbia lavorato da giovane al piano di ricostruzione di Mileto stessa; gli si attribuiscono inoltre la ricostruzione del Pireo, la fondazione di Turii e di Rodi. Difficile dire fino a che punto egli abbia innovato, fino a che punto egli abbia raccolto una tradizione ormai radicata, almeno in alcuni ambienti, come quella della disposizione ortogonale. Probabilmente il suo apporto più significativo sta nell'essersi ispirato a criteri sociologici: l'identificazione di diverse funzioni in diversi settori della città, l'equilibrio fra edilizia pubblica e privata (ce ne informa Aristotele, Pol., II, 1267 b seg.). Dal punto di vista tecnico, sembra abbia tenuto in particolar conto l'esposizione al sole e ai venti (Esichio, Fozio lo definiscono μετωρολόγος).
Se la pianta a reticolato ha nel 5° secolo larga diffusione, la sua prevalenza tuttavia, almeno nella Grecia continentale, non è assoluta. Fra gli esempi più illustri c'è Atene, dove la ricostruzione successiva all'invasione persiana avviene in quella maniera disordinata che caratterizza tutta la vita urbanistica della città. L'agorà, qui come altrove, non ha per es. ancora una composizione organica e pianificata a priori, ma è circondata di edifici civili e religiosi che si aggiungono man mano.
Dopo il 5° secolo la pianta a reticolato, con prevalenza del sistema "per strigas", accentua la sua diffusione. A Priene (rifondata sulle pendici del monte Micale alla metà del 4° sec., non lontano dalla primitiva sede minacciata dalle piene del Meandro), lo schema ippodameo, normalmente più idoneo per insediamenti in pianura, è adattato a un notevole dislivello con la creazione di quattro terrazze. Lo schema ippodameo adattato in pendio si ritrova peraltro anche a Solunto in Sicilia. A Mantinea in Arcadia si ha uno schema circolare piuttosto anomalo. Nel 4° secolo si registrano alcune prese di posizione teoriche sul tema della città da parte dei maggiori pensatori greci. Platone è ancora legato a concezioni aristocratiche, connesse con visioni teologiche e con un'economia intesa in senso strettamente agricolo (raccomanda per es. che la città sia lontana dal mare); Aristotele, più vicino alle esigenze di una società democratica, non rinnega invece le concezioni urbanistiche più moderne (nella Politica, come accennato, ci sono preziose notizie su Ippodamo), e propone addirittura di sdoppiare l'agorà: un'agorà per le discussioni politiche, una riservata ai traffici e alle attività economiche.
In età ellenistica, il determinarsi di nuove condizioni politiche, economiche e sociali, l'affermazione di nuove aree di produzione, la floridezza dei commerci e dell'artigianato danno luogo fra l'altro alla fondazione di nuove città, al rifacimento di città preesistenti. Alcuni elementi del tessuto urbano mutano d'importanza rispetto alle epoche precedenti: le acropoli perdono rilevanza, i santuari si distaccano dai centri culturali e commerciali, le agorài accentuano il loro carattere commerciale e s'inseriscono più organicamente nell'assetto urbano. La pianificazione delle città è sottoposta a precise regolamentazioni.
Molte città presentano schemi a incroci regolari di tipo ippodameo, ravvivati talvolta da soluzioni monumentali come le vie colonnate di derivazione seleucide: Alessandria, Tolemaide, Antiochia, Laodicea, Apamea; città carovaniere come Gerasa, Dura Europos e (sia pure con quartieri progettati in diversi momenti e quindi alquanto disassati fra loro) Palmira; altre presentano vie colonnate monumentali in un'urbanistica non completamente regolare: Perge, Side; altre ancora sono articolate su pendii in cui si ricavano serie di terrazze con effetto scenografico: innanzitutto Pergamo e, sul suo esempio, Kremna, Termessos, Sagalassos. Delo, una delle città più antiche dell'ellenismo, porto principale dell'Egeo, manca di piano regolatore, e mostra uno sviluppo casuale.
Diversa la situazione nell'ambiente etrusco-italico e a Roma. Si è già detto che non vi sono prove precise per un'origine etrusco-italica del sistema assiale. Altre teorie, come quella di un'u. etrusco-italica ortogonale derivata da credenze astronomiche e da esigenze cultuali (templum celeste, cioè il cielo visto come un cerchio quadripartito da due assi; templum augurale) si sono dimostrate infondate a un'analisi più attenta. Infondata sembra la teoria di una Roma quadrata: essa si è sviluppata senza piano regolatore, come Atene.
Roma tuttavia ebbe un ruolo importante nel diffondere, nelle aree geografiche man mano sottomesse, un'u. regolare: anche se non un solo tipo di u. regolare (questa varietà è già evidente nella Cisalpina, prima area "provinciale" dove i Romani abbiano fatto esperienza di organizzazione spaziale). Un primo tipo è derivato dallo schema ippodameo, con reticolo di rettangoli: lo si trova applicato a Norba (l'esempio più antico: 4° secolo a. C.), ad Alba Fucens (colonia nel 303 a. C.) malgrado i dislivelli; a Cosa (colonia nel 273 a. C.). Un secondo tipo, con incrocio di assi centrali, è largamente diffuso: Ostia (l'esempio più antico: ultimi decenni del 4° secolo), Minturno, Pirgi (colonia romana sul precedente centro etrusco), Rimini (colonia nel 268 a. C.: con Rimini ha inizio l'u. romana regolare nell'Italia del Nord), Lucca (colonia nel 180 o 177); nelle province in età imperiale, Caerwent, Gloucester, Treviri, Autun, Emona, Timgad, ecc. Lo schema del castrum militare romano sembra influenzato dalla pianta ippodamea: gl'isolati rettangolari destinati agli alloggiamenti si allineano col lato corto sulle vie principali del sistema, che sono due parallele fra loro (via Principalis e via Quintana): esempio in età repubblicana, la serie di accampamenti intorno a Numanzia; in età imperiale, Carnuntum, Lambaesis, ecc. La pianta del castrum influenza a sua volta la formazione di un terzo tipo di u. "regolare" romana: la pianta è assiale ma l'incrocio degli assi fondamentali non è più al centro del sistema. Il reticolato è costituito talvolta da isolati quadrati o a rettangolo molto largo tendente al quadrato (per es., rispettivamente, a Torino e ad Aosta, colonie augustee), talvolta da isolati di forma rettangolare allungata (per es. a Cartagine, in cui il tracciato urbano che si è potuto ricostruire è probabilmente quello della colonna augustea, o a Zara).
Ciò che in ogni caso caratterizza l'u. di età romana è la serie di servizi (acquedotti, fogne, impianti termali) che, se non introdotta o inventata dai Romani stessi, è tuttavia da essi enormemente sviluppata.
È singolare che nella capitale non si sia mai avuta una pianificazione globale; in età imperiale si continua ad avere una moltiplicazione di opere a carattere monumentale. Nello spazio lasciato libero dai monumenti trova posto senza troppo ordine un'edilizia abitativa, in cui sono testimoniate sia dimore signorili, sia case d'affitto talora particolarmente alte (anche 4-5 piani). Vedi tav. f. t.
Bibl.: H.W. Fairman, Town planning in the Pharaonic Egypt, in Town planning Revue, XX (1949), p. 33 segg.; H. Frankfort, Town planning in ancient Mesopotamia, ibid., XXI (1950), p. 58 segg.; R.W. Hutchinson, Prehistoric town planning: Crete, ibid., p. 199 segg.; id., Prehistoric town planning in and around the Aegean, ibid., XXIII (1952-53), p. 261 segg.; XXIV (1953-54), p. 5 segg.; R. Martin, Recherches sur l'agora grecque (Bibl. Ec. Franc. Ath. Rome, 174), Parigi 1951; id., L'urbanisme dans la Grèce antique, ivi 1956 (19742); F. Castagnoli, Ippodamo da Mileto e l'urbanistica a pianta ortogonale, Roma 1956 (trad. ingl. Cambridge, Mass., 1971); A. Giuliano, Urbanistica delle città greche (Uomo e mito, 49), Milano 1966; A. Boëthius, sub v. urbanistica, in Enc. Arte Antica, VII (1966), p. 1062 segg.; P. Lamp, City and planning in the ancient Near East, Londra s.a. (1971?); G.A. Mansuelli, Urbanistica e architettura della Cisalpina romana fino al III sec. e.n. (Coll. Latomus, 111), Bruxelles 1971; id., Architettura e città, Bologna 1973.
Il processo di urbanizzazione. - Lo sviluppo dell'u., nei recenti decenni, riflette, sia negli orientamenti teorici, sia nelle realizzazioni, il carattere impetuoso e travolgente dell'accelerato processo di urbanizzazione nell'epoca contemporanea, e i grandi problemi che ne derivano, a livello mondiale, continentale, nazionale e locale.
Notevolmente più rapido dell'allarmante ritmo di aumento della popolazione totale sulla Terra (si prevede che dai 4 miliardi di persone attualmente viventi si giungerà a oltre 6,5 miliardi intorno al 2000), il recente trend della popolazione urbana, ove si mantenesse in futuro, porterebbe dal valore attuale di circa 1,5 miliardi fino a raggiungere un valore superiore a 3 miliardi per la fine del secolo.
Nel complesso fenomeno dello sviluppo urbano, l'andamento demografico naturale si somma, evidentemente, con la persistente migrazione dalle aree rurali a quelle urbane. L'importanza del ruolo giocato dall'una e dall'altra componente (incremento naturale e urbanizzazione propriamente detta) è globalmente pari.
La distinzione tra ambito urbano e ambito rurale, e quindi la determinazione ufficiale dell'entità della popolazione urbana obbedisce a regole diverse in diversi paesi; in particolare è diversa la soglia minima di popolazione richiesta perché un insediamento sia considerato "città". Esistono oggi nel mondo quasi 4000 città sopra i 50.000 abitanti; circa 2000 sopra i 100.000 (sono circa 900 le città comprese tra i 100.000 e i 200.000). A mano a mano che aumenta la quota di popolazione urbana sul totale, aumenta, e più velocemente ancora, la popolazione residente nelle città di maggiore dimensione. Ciò non significa che più grande è una città più rapido tenda a essere il suo sviluppo; anzi, nel quadro mondiale complessivo, le città sopra i 5 milioni aumentano con un tasso di circa il 2,5% annuo, contro il 3,3% per quelle tra i 100.000 e i 200.000. Il fatto è che, da un punto di vista contabile, le classi di maggior dimensione si arricchiscono di anno in anno di sempre nuovi acquisti, ossia di città che hanno superato il tetto della categoria inferiore.
Le città con più di 1 milione di abitanti non erano più di 71 nel 1950. Oggi, che sono 181, esse ospitano circa un terzo della popolazione urbana mondiale. Si può congetturare che, considerato il costante aumento sia del loro numero sia della loro dimensione, verso il 2000 ci potrebbe vivere quasi un miliardo di persone. Questi dati quantitativi globali, che certo sono insufficienti a identificare gli aspetti strutturali e qualitativi del fenomeno, sono del pari insufficienti a rivelare le importanti differenze nelle situazioni e nelle tendenze, tra regione e regione, tra popolazione e popolazione. Una prima fondamentale distinzione può essere tracciata tra i paesi economicamente sviluppati e quelli sottosviluppati. La distinzione consente di evidenziare, per confronto, l'eccezionale dinamica delle tendenze prevalenti in questi ultimi. Per quanto concerne i fenomeni naturali, nelle regioni sottosviluppate i tassi di natalità sono circa doppi rispetto a quelle sviluppate. Anche i tassi di mortalità sono più elevati, ma le differenze sono assai più modeste e tendono ad attenuarsi con il tempo. Pertanto, tra il 1950 e il 1975, mentre la popolazione è aumentata di circa un terzo nelle regioni sviluppate, essa è aumentata di circa tre quarti in quelle sottosviluppate. Le prospettive future indicano, da oggi al 2000, un aumento di un quinto nelle regioni sviluppate, e ancora una volta di tre quarti in quelle sottosviluppate.
Per quanto riguarda le migrazioni dalla campagna alla città, esse si manifestano tuttora praticamente in tutti i paesi; tuttavia, mentre nelle regioni sviluppate questo movimento risulta in un declino assoluto della popolazione rurale, attualmente di circa l'i % all'anno, contro un aumento della popolazione urbana dell'1,7% all'anno, nell'insieme delle regioni sottosviluppate aumentano entrambe: quella rurale con un tasso positivo dell'1,7%, e quella urbana con un tasso del 4,1%. Il grado di urbanizzazione (ossia il rapporto tra popolazione urbana e popolazione totale) vale oggi più di due terzi nei paesi sviluppati, ancora circa un quarto nei sottosviluppati. Forti differenze esistono all'interno dei due grandi blocchi. (Il grado di urbanizzazione è superiore al 70% nell'America del Nord e in Oceania; del 67% in Europa, esclusa URSS; del 60% in Unione Sovietica come nel complesso dell'America latina; del 31% nell'Asia orientale; del 23% nell'Asia meridionale; del 24% in Africa). Verso il 2000 il rapporto diverrà di quattro quinti nei paesi sviluppati, e supererà i due quinti nei sottosviluppati. Ciò significa che alla popolazione urbana dei primi si aggiungerà un contingente di 324 milioni di abitanti, mentre quella dei secondi s'incrementerà di 1221 milioni.
Le città sopra il milione di abitanti, che nel 1950 erano 48 nei paesi sviluppati e 23 in quelli sottosviluppati, sono oggi praticamente in ugual numero negli uni e negli altri (91 e 90, rispettivamente). Le città sopra i 5 milioni di abitanti manifestano un moderato aumento nei paesi sviluppati, e il ritmo di tale aumento è in netto declino; mentre nei paesi sottosviluppati si espandono a tassi assai elevati (intorno al 5%), con l'eccezione dell'India e della Cina, ove si registrano valori intermedi (intorno al 3,5 e al 2,3 rispettivamente).
L'urbanizzazione nei paesi economicamente avanzati. - Alla base del fenomeno di urbanizzazione e dei modi caratteristici nei quali si manifesta ai nostri giorni, vi è una logica fondamentale, che si esprime, ovviamente, in maniera diversa in paesi caratterizzati da diversi livelli economici, condizioni sociali, sistemi politici. Che la città contemporanea costituisca essenzialmente uno strumento per incentivare l'efficienza dell'organizzazione produttiva sociale appare con particolare evidenza soprattutto nel quadro delle società industriali o post-industriali. La concentrazione urbana assicura alle attività generatrici di beni e di servizi importanti economie di scala (i vantaggi di un grosso volume di produzione concentrato in pochi impianti) ed esterne (i vantaggi della contiguità tra attività tra loro complementari) consentendo di portare la divisione del lavoro fino al massimo grado di specializzazione.
Durante il periodo storico e nei paesi interessati dall'industrializzazione, il principio agisce eminentemente sulle attività manifatturiere, le quali infatti s'insediano e si espandono nelle città, e vi attirano grandi masse di popolazione. Sviluppandosi l'economia, cresce rapidamente la richiesta di prodotti industriali, mentre quella delle derrate agricole rimane sensibilmente rigida; al tempo stesso la produttività degli addetti, anche in agricoltura, aumenta con il diffondersi di nuove tecniche, e tutto ciò stimola il progressivo spostamento dei lavoratori dalla campagna ai centri urbani.
In uno stadio più avanzato, e in epoca più recente, mentre permangono e anzi si rafforzano le condizioni dell'esodo rurale (aumento di produttività per addetto; rigidezza della domanda di alimenti rispetto all'aumento del reddito), nel settore industriale le innovazioni tecnico-organizzative (automazione) portano all'attenuazione della domanda di manodopera, e i progressi nei sistemi di trasporto e di stoccaggio rendono sempre meno vantaggiosa, per gli opifici, la localizzazione nel centro urbano. La città si caratterizza allora come il luogo d'elezione per la crescente espansione delle attività terziarie, ossia commerciali e di servizio, private e pubbliche. La possibilità di specializzazione e quindi la varietà dell'assortimento di queste attività cresce con l'aumentare della dimensione urbana.
Uno speciale raggruppamento di attività terziarie, classificate talvolta come il "settore quaternario", comprendenti l'alta direzione nel settore finanziario (banche, assicurazioni, top management industriale e commerciale), le sedi redazionali dei mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, televisione), i quartieri generali delle organizzazioni politiche e sindacali, scientifiche e culturali, non si sviluppa pienamente se non nell'ambito delle massime agglomerazioni urbane, superiori alla soglía di 3 ÷ 5 milioni di abitanti.
Metropoli e megalopoli. - La gigantesca espansione demografica, e ancor più topografica dell'insediamento urbano, fino a oltre la soglia di dieci milioni dl abitanti, su superficie di migliaia di km2, segna la trasformazione dell'agglomerato urbano in metropoli, un tipo d'insediamento caratteristicamente contemporaneo, non solo dimensionalmente, ma anche strutturalmente (e funzionalmente) diverso dalla città tradizionale. La formazione e la vita della metropoli sono strettamente dipendenti dall'utilizzazione dei moderni mezzi di trasporto personale (soprattutto l'automobile) e di conservazione dei generi alimentari (frigoriferi, congelatori). Questi strumenti tecnologici consentono alla popolaziome di stabilire la propria residenza anche a grande distanza dal luogo di lavoro dei membrí attivi e dal centro di acquisti della famiglia. Diventa in tal modo possibile lo sviluppo di immensi sobborghi, essenzialmente residenziali, generalmente a densità bassa e decrescente nel dilagare verso la campagna circostante, ben oltre i confini della città originaria. Il nucleo tradizionale, compatto, agisce sempre più come polo di attrazione e di sviluppo per le funzioni attive di massimo rango urbano. Queste trovano sede tipicamente in edifici per uffici (o in preesistenti edifici adattati a tale utilizzazione), raggiungendo elevatissime concentrazioni, grazie soprattutto all'impiego di speciali tecnologie costruttive, tipologie edilizie moderne (grattacieli) e mezzi di spostamento (sistemi di ascensori, ferrovie metropolitane) di grande portata. A questo stadio la struttura urbana perde i connotati tradizionali di aggregato fisico relativamente compatto di edifici, visibilmente distinguibile dalla campagna circostante. Essa rimane ancora riconoscibile come sistema organizzativo funzionale unitario, la cui integrità operativa è assicurata da un quotidiano ingente flusso e riflusso di popolazione (movimenti pendolari), dalla periferia al centro e viceversa, in coincidenza con l'orario lavorativo, oltre che dallo scambio di comunicazioni per via elettrica ed elettronica.
Il particolare tipo di sviluppo che alcune tra le massime metropoli mondiali hanno sperimentato recentemente ha indotto alcuni studiosi (J. Gottmann, C. Doxiadis) a introdurre il concetto di "megalopoli". Si tratta, in sostanza, di un sistema polinucleare di aree metropolitane contigue e intensamente collegate tra loro a mezzo di una fitta maglia di comunicazioni e di trasporto. La dimensione demografica di una megalopoli è superiore ai 25 milioni di abitanti. Nonostante la presenza di aree libere interstiziali non edificate, la densità media è superiore a 250 ab./km2. Si possono identificare oggi (1979) sei megalopoli in atto: quella del Nord-Est degli Stati Uniti (Boston-New York-Washington); quella dei Grandi Laghi (Montréal-Toronto-Detroit-Chicago); quella giapponese (Tōkyō-Ōsaka); quella di Londra-Liverpool; quella dell'Europa Nord-occidentale (Amsterdam-Anversa-Bruxelles-Colonia); e quella incentrata sulla città di Shang hai. Altri tre sistemi intermetropolitani appaiono attualmente a uno stadio avanzato di trasformazione in megalopoli: il complesso Rio de Janeiro-São Paulo; la conurbazione basata sul triangolo industriale italiano (Milano-Torino-Genova, con ramificazioni sia in direzione di Firenze-Pisa, sia in direzione di MarsigliaAvignone); e quella californiana, centrata su Los Angeles, ed estesa da San Francisco fino al di là del confine Stati Uniti-Messico.
Nell'esperienza di tutti i paesi avanzati la grande città (più ancora la metropoli e la megalopoli) costituisce (qualunque sia il regime politico vigente) un elemento insostituibile di progresso economico e sociale. La concentrazione di un enorme volume di popolazione entro un bacino relativamente circoscritto offre alle aziende, pubbliche e private, la più vasta e la più varia disponibilità di manodopera e di capacità specialistiche, un ampio mercato immediatamente accessibile per la distribuzione dei più disparati manufatti e servizi; al tempo stesso offre agli abitanti le più svariate opportunità di scelta del posto di lavoro e di avanzamento di carriera, d'istruzione, di soccorso e cura, di svago, di partecipazione sociopolitica, di stile di vita e di abitudini. L'ambiente metropolitano, per la densità dei flussi di comunicazione che lo caratterizzano, offre l'indispensabile supporto alle attività basate sullo scambio d'informazioni, sui messaggi, sulle transazioni, sulle innovazioni. Per queste attività, essenziali alla società contemporanea nel suo più avanzato grado di evoluzione, la vicinanza spaziale (e l'immediata accessibilità), che consente e incentiva l'incontro tra persone fisiche, costituisce un requisito di crescente importanza; malgrado e parallelamente all'incessante diffusione di sempre più potenti e sofisticati dispositivi elettronici di comunicazione istantanea a grandissima distanza.
Finché si resta all'interno di questa logica, è ben difficile negare i vantaggi dell'urbanizzazione, qualunque sia il tipo di organizzazione sociopolitica a cui ci si riferisca. In tutte le società che hanno di mira l'efficienza economica vi sono fondati motivi per la concentrazione di larghe masse di popolazione in un numero ridotto di città. In epoca assai recente, tuttavia, sembra che questo tipo di sviluppo abbia raggiunto i propri limiti. Per la prima volta, dopo decenni di crescita apparentemente inarrestabile, il ritmo di aumento di numerose grandi città nei paesi industrialmente avanzati ha subìto un sensibile rallentamento. Non poche metropoli sono oggi in fase di regresso demografico, sia negli stati settentrionali e orientali dell'America del Nord, sia nell'Europa occidentale.
L'urbanizzazione nel Terzo Mondo. - L'analisi del processo di urbanizzazione, nei paesi del Terzo Mondo, così come si è venuta configurando nei recenti decenni, mostra che l'esperienza dei paesi sviluppati non è né generalizzabile né ripetibile. Il fenomeno è anzitutto caratteristico per l'epoca del tutto recente e per l'andamento rapidamente espansivo del suo manifestarsi. La popolazione urbana complessiva dei paesi sottosviluppati ha raggiunto e superato quella complessiva dei paesi progrediti praticamente in un balzo solo, dal 1950 al 1975 (periodo in cui è passata da 256 milioni a 775 milioni: un aumento del 200%). Mentre in molti dei primi la tendenza è verso la stabilizzazione (nel Nord-Europa l'incremento della popolazione urbana è dell'1,7% all'anno) in molti dei secondi la popolazione urbana tende a raddoppiarsi nel giro di 15 - 17 anni. Questo velocissimo accrescimento si è verificato e continua a verificarsi in contesti nazionali in cui la popolazione rurale non decresce: anzi, in volume assoluto, aumenta più della popolazione urbana (al rilevantissimo progresso igienico che ha fatto crollare il tasso di mortalità, non corrisponde alcun sensibile decremento del tasso di natalità). Non vi è stato alcun aumento significativo della produttività agricola per ettaro, e gran parte delle terre coltivabili è già coltivata (per es., oltre l'83% in Asia). Non se ne trae quindi alcun surplus di capitale, che possa incentivare lo sviluppo industriale, né di derrate alimentari che possa rifornire una popolazione non rurale.
Diversamente da quanto è avvenuto nei paesi occidentali, dove l'industrializzazione ha preceduto nel tempo l'urbanizzazione, l'industrializzazione è assente o in forte ritardo (verso la fine degli anni Cinquanta in Venezuela la popolazione urbana era del 47%, gli attivi nell'industria il 9% del totale degli attivi; in Malaysia e in Corea i dati corrispondenti erano 20% contro 7%). E i rapporti politico-economici internazionali sono in generale sfavorevoli al suo affermarsi, salvo che in forme di sfruttamento neocoloniale, localmente inadeguate, e controproducenti sotto l'aspetto dello sviluppo dell'occupazione, dell'assorbimento di capitale, della disponibilità di tecnologie. L'aflusso inarrestabile verso la città significa soprattutto la fuga dalla campagna di enormi masse di popolazione prive di mezzi di sussistenza, di addestramento, di accesso al lavoro, verso le poche zone del paese dove ci sono comunque più scuole, più medici, più assistenza, e in generale più possibilità di sopravvivenza, ma dove sono enormemente carenti le possibilità d'impiego nel contesto di qualsivoglia efficiente struttura economica. Si manifesta così in modo impressionante il sorgere di enormi insediamenti marginali, fatti di tuguri e di baracche, inframmezzati da viottoli in terra battuta e da scoli a cielo aperto, in cui già oggi vive tra un terzo e due terzi della popolazione nelle grandi città del Terzo Mondo. I diversi paesi usano termini diversi per indicare queste immense periferie miserabili, e spesso illegali. Sono gecekondular in Turchia, callampas in Chile, ranchos in Venezuela, favelas in Brasile, barriadas in Perù, ishish in Medio Oriente, bustees in India, gourbevilles in Tunisia. I termini di uso internazionale sono bidonvilles e shanty towns.
Le baracche costituiscono il 90% delle abitazioni di Addis Abeba, il 61% in Accra, il 33% a Nairobi; il 67% a Calcutta (due milioni di persone), il 46% a Città di Messico, il 42% a Caracas, il 40% a Lima. Si stima che la rapidità di sviluppo demografico delle shanty towns sia doppia della rapidità dello sviluppo urbano regolare. Circa la metà della popolazione delle baracche manca di impianti igienici, acqua corrente, eletiricità. Più di metà delle famiglie vive in una sola stanza; la coabitazione è diffusissima, le condizioni sanitarie indescrivibili; il livello di vita rasenta la soglia della sussistenza.
Si manifesta, al tempo stesso, il sorgere e il dilatarsi del cosiddetto settore informale dell'economia locale, che qualche autore chiama anche l'"economia del bazar". Si tratta di occupazioni precarie, saltuarie, servili, svolte ai limiti e oltre i limiti della legalità. Anzitutto una miriade di venditori di ogni sorta di cibi e di oggetti. E poi spazzini e pulitori, facchini e messaggeri, lustrascarpe, guardiani e portieri, rammendatori, lavandai e riparatori di suppellettili, procacciatori d'affari e mezzani. C'è gente che sopravvive spingendo il carretto a mano o il rickshaw, o frugando tra la spazzatura; e, ovviamente, prostituendosi, elemosinando o rubando.
Politiche urbane. - Dallo schematico confronto tra paesi economicamente avanzati e paesi sottosviluppati non deve trarsi la frettolosa conclusione che il processo di urbanizzazione tuttora in corso in entrambi rappresenti per i primi un progresso da incoraggiare comunque e per i secondi un danno da evitare a qualunque costo. Vantaggi e svantaggi contrapposti sono riconoscibili nell'una e nell'altra situazione. È fuor di dubbio che il ruolo positivo delle città nello sforzo di affrancamento di molti paesi dalla schiavitù dell'arretratezza è insostituibile. Ed è, per contro, notorio ed evidente che anche per i paesi più ricchi e più potenti la crescita della città, vantaggiosa o meno sul piano produttivistico, è comunque fonte di gravi preoccupazioni soprattutto sul piano sociale; ed è associata a tutta una serie di problemi di settore che saranno esaminati (insieme con qualche strategia adottata per affrontarli) nel seguito di questa voce.
Ciò che risulta chiaro, a ogni modo, è l'enorme importanza dell'urbanizzazione, e la sua incidenza, negativa e positiva, sulle sorti economiche sociali e politiche delle popolazioni, sicché è difficile pensare che il fenomeno nel suo insieme venga lasciato a sé stesso, e abbandonato interamente a quelle che si definiscono talvolta le tendenze spontanee. In effetti, sulla scorta dell'esperienza, praticamente tutti i paesi (alcuni però solo recentemente) hanno abbandonato l'idea che lo sviluppo urbano possa essere integralmente affidato alle forze del mercato. Occorre però tener presente, in proposito, la grande varietà di atteggiamenti politici prevalenti nei diversi paesi, circa l'opportunità e la legittimità dell'intervento pubblico in questa o in quella componente (o fase) del processo insediativo (ovvero nell'insieme del processo) e quindi la non eguale rilevanza delle iniziative pubbliche rispetto a quelle del settore privato. Gradatamente si passa dal criterio del laissez-faire (ormai abbandonato dovunque) a quello della regolamentazione normativa, a quello dell'orientamento e della direttiva, a quello delle incentivazioni (e disincentivazioni) attraverso strumenti finanziari creditizi e fiscali, via via fino all'intervento pubblico diretto sulla totalità o sulla massima parte del settore edilizio e infrastrutturale.
Politiche urbane in alcuni paesi sviluppati. - L'impegno pubblico diretto e generalizzato è praticato nei paesi a economia pianificata e a sistema collettivista. In particolare, il controllo e lo sviluppo del sistema urbano nazionale costituisce una componente fondamentale della politica dei governi nei paesi dell'Europa orientale; tanto più essenziale quanto più stretta la connessione tra il processo di urbanizzazione e il processo di rapida industrializzazione tuttora in corso nella maggior parte di questi (tra l'immediato dopoguerra e oggi, il grado di urbanizzazione è passato dal 32% al 52% in Polonia, dal 24% al 52% in Bulgaria, dal 23% al 41% in Romania, dal 40% al 60% in Unione Sovietica). Il segno più chiaro dell'efficacia di questa azione è la capacità di realizzare in gran numero programmi di ricostruzione e di costruzione di città.
L'Unione sovietica vanta in merito un primato internazionale. Continuando la tradizione dell'anteguerra (più di 500 nuove città) e anche sulla scorta dell'esperienza della gigantesca opera di ricostruzione postbellica (Kiev, Stalingrado, oggi Volgograd, Minsk, Khar'kov, Sebastopoli, Smolensk, ecc.), nel territorio sovietico sono state realizzate tra il 1950 e il 1967 più di 460 nuove città, e 1200 nuovi insediamenti di minori dimensioni. Queste realizzazioni si sono dimostrate essenziali nel portare avanti i più diversi aspetti della politica territoriale, quali la valorizzazione di vastissimi territori pressoché inabitati, ricchissimi di risorse non ancora utilizzate, o la razionalizzazione e il decongestionamento delle massime concentrazioni urbane. Tra le più importanti e recenti vanno ricordate Angarsk, Togliatti, Volžhskij, Noril'sk, Sumgait, e le cittadelle scientifiche di Akademogorodok, Dubna, Obninsk, Pushkino.
In tutti i paesi dell'Europa orientale la politica di realizzazione di nuove città ha avuto una notevole applicazione: naturalmente in misura proporzionalmente ridotta rispetto all'Unione Sovietica.
Tra i paesi occidentali spicca tuttora per la continuità dello sforzo e per il non trascurabile successo la Gran Bretagna. La strategia delle nuove città, inizialmente adottata per decentrare residenze e impieghi nell'area di Londra, è stata usata, recentemente, anche per altri scopi territoriali. Delle 32 new towns realizzate (o in corso di realizzazione) fino a oggi, 17 sono state iniziate dopo il 1960. Tra queste, Peterborough, Northhampton e Milton Keynes gravitano su Londra; Redditch e Warrington sono intese a decongestionare Manchester, e la stessa azione dovranno esercitare Runcorn e Skelmersdale rispetto a Liverpool, Livingston rispetto a Glasgow, Telford rispetto a Birmingham; altre infine sono destinate a sollevare dalla stagnazione le aree depresse in Irlanda (Antrim, Ballymena, Londonderry), nel Lancashire, in Scozia (Irvine), nel Galles (Newtown) e così via.
Tra le altre nazioni che hanno utilizzato la strategia delle nuove città negli anni recenti vanno ricordate la Svezia (dopo Vällingby, Hässelby Strand, Farsta sono state realizzate, nella regione di Stoccolma, Skärholmen, Täby, Högdalen, Järva), e la Finlandia (Tapiola). Nei polder olandesi, alle nuove città del primo dopoguerra (Emmeloord) si aggiungono oggi nuovi insediamenti piccoli e grandi: come Lelystad, destinata ad assorbire una quota considerevole dell'incremento di popolazione gravitante su Amsterdam. Israele ha realizzato un notevole numero di città nuove, nel contesto di un piano nazionale unitario, a fini molteplici: valorizzazione dei territori remoti e semidesertici, decongestionamento delle massime conurbazioni, presidio dei territori di frontiera.
In Francia la politica di riequilibrio regionale, concepita e realizzata a scala nazionale, poggia sostanzialmente su di una strategia composita e articolata di sviluppo urbano. In questo contesto va collocata anzitutto la realizzazione delle cinque villes nouvelles nell'immediata periferia di Parigi (Cergy-Pontoise, St. Quentin-en-Yvelines, Èvry, Melun-Sénart, Marne-la-Vallée); quindi il rafforzamento della base economica di 8 città superiori ai 100.000 abitanti, distanti 110 ÷ 120 km dalla capitale (Amiens, Rouen, Caen, Le Mans, Tours, Orléans, Rheims, Troyes); e infine, a distanza molto maggiore, la promozione di 8 grandi città al ruolo di métropoles d'equilibre, ossia di grandi poli decentrati alternativi rispetto a Parigi (Lilla, Strasburgo, Nancy-Metz, Nantes-St. Nazaire, Lione, Bordeaux, Tolosa, Marsiglia).
Molto diverso è il caso degli Stati Uniti d'America. Qui l'evoluzione dalla tradizionale filosofia liberistica alla crescente responsabilizzazione dei pubblici poteri è del tutto recente e tuttora allo stadio iniziale e programmatico. La US Advisory commission on intergovernmental relations, formata di rappresentanti di tutti i livelli di governo raccomandò, nel suo rapporto del 1968, "l'immediata adozione di una politica nazionale per guidare la localizzazione e il carattere della futura urbanizzazione, impegnando i governi federali, statali, e locali, in cooperazione con il settore privato". In seguito, lo stesso Congresso degli Stati Uniti ha riconosciuto che il governo federale, parallelamente alle responsabilità di quelli statali e locali, e al settore privato, deve impegnarsi a formulare una politica nazionale di sviluppo urbano (Urban growth and new communities development act, 1970). Le new communities tuttavia rappresentano fino a oggi un'esperienza non molto significativa, sia perché poco numerose e piuttosto modeste in rapporto alla struttura insediativa del grande paese, sia perché scarsamente collocabili in una strategia pubblica complessiva, e fortemente condizionate dal vincolo di redditività finanziaria che la partecipazione e l'iniziativa privata portano con sé.
Più generalizzata della strategia delle nuove città è la politica di controllo sullo sviluppo delle città esistenti. In quasi tutti i paesi occidentali si è tentato per decenni di moderare l'ulteriore accrescimento delle grandi città: non solo per limitare gli aspetti negativi della grande dimensione (accennati all'inizio), ma anche per attenuare lo squilibrio che in molte regioni del mondo contrappone zone ad altissima e crescente concentrazione a zone di graduale abbandono.
In Unione Sovietica, dove il concetto di dimensione ottima della città è considerato essenziale, ancorché non fisso, ma progressivamente variante in relazione al progresso tecnologico, per attenuare la spinta alla crescita delle massime città si opera attraverso piani di decentramento industriale nelle regioni circostanti (regione di Mosca, regione di Minsk); mentre la creazione di nuove città satelliti è associata di norma alla realizzazione in sito di un adeguato contingente di posti di lavoro (Dubna, Zhukovski, Zelenograd, Sumgait, ecc.). Nella capitale, se non si è riusciti a frenare l'andamento demografico complessivo, si è però riusciti a limitare l'espansione industriale: trecento industrie sono state recentemente rilocalizzate fuori della città. In Gran Bretagna, per decenni Londra è stata oggetto di una complessa politica di decentramento di popolazione e di attività, basata non solo sulla strategia delle nuove città, ma anche sul principio della cintura verde periurbana (Green belt), e sulle pratiche restrittive all'impianto di opifici (Industrial development certificates) e di uffici (Office development permissions). A Parigi, il decentramento delle attività economiche è stato stimolato attraverso un regime di restrizioni ai permessi di costruzione, e di disincentivi fiscali (si calcola che dal 1965 al 1972 diecimila posti di lavoro siano stati decentrati in provincia). A Tōkyō si è incoraggiato l'allontanamento degli uffici dall'area centrale (Marunouchi).
La recente inversione di tendenza nella dinamica metropolitana solo in parte può essere attribuita all'efficacia di questi strumenti. In ogni caso, per le modalità con cui si è manifestata, essa ha obbligato parecchi governi a una sollecita revisione dell'approccio fin qui perseguito. L'attuale stasi, e, in certi casi, l'attuale declino metropolitano si accompagnano spesso infatti a gravi fenomeni di obsolescenza degl'impianti produttivi, di calo degl'investimenti e dei posti di lavoro, di degrado edilizio, di abbandono di interi quartieri, di crollo della base fiscale degli enti locali.
Questi aspetti negativi si manifestano al massimo grado o nel centro, o nelle zone immediatamente prossime al centro, di molte grandi aree metropolitane industriali (zone per decenni soggette all'esodo suburbano delle famiglie agiate, e all'immigrazione di poveri, stranieri, gente di colore) specie in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. È perciò che il governo inglese ha praticamente ribaltato la propria azione rivolgendola ora a favore delle "aree interne" (centro degli affari escluso) di città come Londra o Birmingham.
Ma in quasi tutti i paesi occidentali le amministrazioni pubbliche sono oggi spinte a intervenire per conservare e riutilizzare i fabbricati esistenti, per mantenere o ripristinare l'attività economica e i servizi, nelle zone (centrali o meno) minacciate o colpite da grave degradazione. Questi nuovi orientamenti vengono realizzati in alcuni paesi (SUA) puntando fondamentalmente sull'iniziativa e sulla speculazione privata (e perciò ammettendo le più radicali trasformazioni nella consistenza e nell'occupazione degl'immobili: uffici, negozi, ristoranti, residenze di alto livello al posto di quartieri medio-popolari e di attività economiche tradizionali). In altri, e soprattutto in Europa, essi si coniugano con una concezione della salvaguardia e del restauro dei centri storici estesa molto oltre la considerazione dei monumenti di eccezionale pregio architettonico o di notevole significato testimoniale.
Tra gli aspetti innovativi dell'attuale politica conservativa devono considerarsi:
a) il criterio di conservazione sociale, e in particolare del mantenimento delle famiglie (e delle attività) insediate nei vecchi quartieri delle città; a prescindere dalla loro capacità di addossarsi direttamente, o indirettamente, i costi del restauro;
b) il riconoscimento della convenienza di conservare e utilizzare buona parte delle vecchie strutture, valutando l'economicità dell'operazione attraverso un calcolo razionale, cioè escludendo di contabilizzare i profitti speculativi e contando invece in attivo la piena utilizzazione delle infrastrutture e dei servizi urbani in parecchi casi esistenti;
c) il superamento della nozione di competenza esclusiva degli enti specializzati nel settore storico artistico, e il coinvolgimento pieno delle autorità locali elettive, degli enti per l'edilizia economica e popolare, della popolazione tutta nel programma e nella realizzazione dell'opera di recupero.
Simili politiche sono state applicate in maniera pionieristica dal comune di Bologna; le azioni recentemente intraprese da quella amministrazione sono state portate a esempio in tutto il mondo.
Alla chiusura dell'"Anno europeo del patrimonio architettonico" (1975) il Consiglio d'Europa ha votato una sorta di carta dei principi da adottare nei programmi di restauro urbano, riadditando come esemplari i progetti in corso di attuazione a Salisburgo, Namur, Brugge, Nicosia, Helsingør, Rouen, Colmar, Chester, Poole, Edimburgo, Verona, Taranto, Lussemburgo, Falun, Mdina, Limerick; nonché varie iniziative di recupero di insediamenti rurali di minore dimensione.
Politiche urbanistiche nei paesi in via di sviluppo. - Fintanto che una società è in condizioni di squilibrio (troppa gente, troppo pochi posti di lavoro, troppo pochi capitali, troppa manodopera non specializzata, agricoltura stagnante, alto costo dell'industria, mercati troppo piccoli, tecnologie troppo sofisticate), le città sono inevitabilmente il luogo dove tutte le contraddizioni convergono, collidono e finalmente esplodono. Tutto ciò è vero in generale e vale in molto maggior misura per i paesi in via di sviluppo, le cui situazioni di squilibrio interno non possono essere eliminate esclusivamente attraverso misure di politica nazionale interna, perché dipendono sostanzialmente dal rapporto di subordinazione ai paesi ricchi. Tantomeno può sperarsi nel successo in questi paesi della trasposizione acritica (purtroppo non infrequente) di strategie e d'interventi importati dai paesi sviluppati, anche attraverso la consulenza di esperti internazionali di chiara fama. Non pochi degli schemi urbanistici proposti da luminari occidentali per le città del Terzo Mondo sono rimasti lettera morta, soprattutto per l'incredibile divario tra il costo di attuazione e le effettive disponibilità di risorse. In vari casi, la traccia di programmi urbanistici grandiosi si è materializzata sotto forma di frammenti di sistemi viabilistici surdimensionati, di edifici governativi modernamente monumentali e (nel migliore dei casi) di quartieri residenziali di per sé accettabili, ma destinati a ospitare, senza dubbio molto dignitosamente, una piccola e privilegiata frazione della popolazione urbana locale. Sempre nell'ottica di una mal giustificata emulazione, la misura degli standard è stata spesso fissata a livelli esageratamente alti nel settore dell'approvvigionamento idrico, dei presìdi sanitari, dei trasporti, delle abitazioni, con il risultato che il 60 ÷ 70% della gente ne resta escluso e si tratta naturalmente dei più indigenti.
Negli anni più recenti, simili indirizzi sono stati assoggettati a un severo ripensamento critico, e cominciano a delinearsi strategie alternative, che si concretano in pochi per ora ma significativi esempi. Un primo elemento indispensabile di queste strategie consiste nell'adozione di una razionale politica di recupero per le aree rurali, non più basata sull'industrializzazione e sulla meccanizzazione spinta (esaltando la produttività pro capite e l'intensità di capitale), ma piuttosto basata su opere di valorizzazione fondiaria, come dighe e canalizzazioni irrigue, rimboschimento e consolidamento dei bacini imbriferi, stabilizzazione e terrazzamento delle colline, utilizzazione di fertilizzanti per quanto possibile naturali, e su una meccanizzazione di ridotte dimensioni. Oltre a ciò è chiaro che ogni sforzo nel dotare le regioni rurali di un minimo di servizi elementari serve ad attenuare l'irresistibile attrazione verso le città. Un secondo fondamentale elemento consiste nell'esplicito riconoscimento delle condizioni obiettive di necessità che hanno determinato, in tante città dei paesi sottosviluppati, grandi espansioni insediative spontanee, incontrollate; e nello sforzo di recuperare queste espansioni marginali, ormai consolidate, attraverso opportuni interventi pubblici.
I governi dei paesi in via di sviluppo hanno appreso dall'esperienza l'inanità di una politica solo negativa e di rifiuto, basata, per es., sulla demolizione periodica delle costruzioni illegittime, o sulle autorizzazioni e sui divieti di cittadinanza. Nessun responsabile pubblico infatti può restare insensibile alla crescente domanda di servizi e di posti di lavoro che esplode in ogni grande città del Terzo Mondo; né può ignorare l'esigenza di calmierare i prezzi alimentari per una popolazione urbana, già sull'orlo della sopravvivenza, pur sapendo che qualunque beneficio ottenuto in questi campi non fa che rafforzare e perpetuare l'attrazione urbana.
Sempre più diffusamente si verifica un significativo mutamento di rotta, consistente nell'abbandono dei programmi di abbattimento generalizzato delle baracche, e invece nell'avviamento di progetti di riabilitazione delle shanty towns. Naturalmente il primo passo sta nella legittimazione dell'insediamento, generalmente sorto abusivamente. Una politica del genere è stata sperimentata pionieristicamente dal Perù (legge del 1956; legge del 1961 per il miglioramento degl'insediamenti marginali e per l'istituzione dei pueblos jòvenes). Si sta largamente diffondendo la formula sites and services: i governi locali (e la cooperazione internazionale) procurano cioè solo gli elementi strettamente necessari (terreno, condutture d'acqua e d'energia, fognature ed eventualmente materiali e attrezzi elementari per l'edilizia), lasciando alla popolazione stessa il compito di costruire con le sue stesse braccia il proprio riparo.
Non c'è dubbio che la formula sites and services origina dall'iniziativa spontanea e autogestita della popolazione, inizialmente osteggiata, in seguito tollerata e finalmente istituzionalizzata e sostenuta dai pubblici poteri. Tra gli esempi più istruttivi si possono citare, dopo le barriadas di Lima, i campamentos a Santiago (1969-71), notevoli per l'elevato grado di auto-organizzazione e per la realizzazione in proprio d'infrastrutture e di servizi di base; l'area del Tondo a Manila (con una popolazione di 170.000 abitanti); l'area suburbana di Guayaquil; il progetto Madipur Jhuggi-Jhonpri a Dehli. Recentemente, anche le organizzazioni internazionali sono intervenute in appoggio alle operazioni di recupero degli squatter settlements. La Banca mondiale è impegnata a finanziare programmi di questo tipo nel Senegal, nel Botswana, nel Salvador, in Indonesia, Giamaica, Kenya, Tanzania e Zambia. Si deve d'altronde riconoscere che la politica sites and services costituisce un estremo rimedio a mali estremi: essa appare l'unica possibile laddove le condizioni di privazione della popolazione sono estreme e impongono interventi di emergenza. Simili condizioni, è chiaro, a medio termine sono da considerare inaccettabili dal punto di vista sociopolitico, sia localmente, sia internazionalmente.
Sotto il profilo economico si nota parimenti un recente mutamento di orientamento. Si fanno strada nuove strategie, non di rado contrarie a quelle tradizionalmente adottate e consigliate ai governi locali per sollevare le intollerabili condizioni di miseria urbana. Piuttosto che puntare sul settore moderno dell'economia (il che generalmente comporta grandi aziende e alta intensità di capitale), si tende a sostenere con esoneri dalle autorizzazioni burocratiche, con crediti agevolati, con aree attrezzate, con assistenza tecnica e con promozione cooperativistica il cosiddetto "settore informale", il quale di fatto offre oggi sostentamento (ancorché a basso tenore di vita) per la massima parte della popolazione. Tale settore è caratterizzato da relativa facilità d'impiego, si fonda su risorse locali, interessa aziende familiari e consente tecnologie tradizionali e alta intensità di lavoro; inoltre ammette anche l'esercizio di abilità acquisite al di fuori del sistema scolastico. Operando in gran parte al di fuori delle regole del mercato ufficiale, delle norme fiscali sindacali e previdenziali, anche grazie alla sua flessibilità sopravvive alla concorrenza con il settore ufficiale dell'economia, in varie attività nel ramo manifatturiero, dei trasporti, delle costruzioni, del commercio e dei servizi.
D'altra parte, in molti paesi in via di sviluppo la presunta diseconomicità delle grandi agglomerazioni è da dimostrare. Le cifre del reddito pro capite, i livelli di servizi sanitari, educativi, sociali sono spesso superiori nella metropoli (persino a Calcutta) che nel territorio rurale o nelle piccole e medie città. La strategia di una deliberata urbanizzazione è stata teorizzata a proposito delle capitali latino-americane, quale premessa necessaria alla modernizzazione e all'emancipazione sociopolitica rispetto al gruppo dominante e alle aziende multinazionali.
Ovviamente, al di là delle generalizzazioni, nel grande gruppo dei paesi in via di sviluppo si vanno affermando orientamenti differenziati in corrispondenza alle diverse situazioni.
In Africa, dato lo stadio ancora incipiente di una rapida urbanizzazione, si può ancora realisticamente proporre un controllo e un orientamento del processo. I paesi asiatici più poveri, come l'India e il Pakistan, cercano soprattutto di aumentare la produzione nazionale, segnatamente nelle zone agricole. Paesi a economia dinamica, come la Malaysia, o come la Corea, cominciano a poter disporre di risorse da utilizzare per creare i servizi urbani che mancano. Per i paesi relativamente ricchi dell'America latina, la massima priorità risiede verosimilmente in una migliore ripartizione di tali servizi.
Nel quadro dei paesi in via di sviluppo un caso del tutto particolare e del massimo interesse è quello della Cina. La politica urbana cinese, dall'istituzione della Repubblica Popolare (1949) in poi, ha attraversato fasi diverse e in certa misura contraddittorie. Gli obiettivi del primo piano quinquennale (1953-57) sono stati sostanzialmente produttivistici e la priorità è stata riservata all'industria pesante. Il massimo impulso allo sviluppo si concentra nelle regioni costiere tradizionalmente industriali, e nelle città industriali esistenti (Shang hai, Nanchino, Tientsin, Hsien yang, Harbin). Si tende altresì alla formazione di alcune nuove aree industriali attraverso la creazione di poli di sviluppo di grande dimensione e a forte concentrazione d'investimenti (impianti siderurgici di Pao tou e di Wu han). In corrispondenza a questa linea, si verifica un processo di urbanizzazione massiccia e veloce, che determina gravi situazioni di congestione metropolitana (Shang hai passa dai 4,5 milioni di abitanti del 1949 ai 7 milioni del 1958; Pechino passa da 1,6 milioni a 4,2 nello stesso intervallo di tempo), e di abbandono delle campagne.
Il "grande balzo" (1958-60) e, successivamente, la "rivoluzione culturale", segnano un rovesciamento della strategia della concentrazione: la nuova linea privilegia la media e piccola industria, le tecniche intermedie e tradizionali, il decentramento territoriale. Protagoniste di questa seconda fase sono le "comuni" popolari agricole (e poi urbane), che costituiscono una forma moderna d'insediamento del tutto originale, per la capacità d'integrare le attività più diverse (agricoltura, industria, commerci, istruzione, sanità, difesa) all'interno di una comunità dotata di piccole dimensioni demografiche e di piccolo capitale fisso sociale; rifiutando in gran parte la logica tradizionale della rigida assegnazione dei ruoli individuali, delle economie di scala, dell'organizzazione gerarchica della produzione, della preminente responsabilità degli enti centrali nell'esecuzione delle grandi opere pubbliche.
Naturalmente il processo di urbanizzazione, in pieno sviluppo nei decenni precedenti, non cessa bruscamente nel biennio 1958-60, anzi la popolazione urbana sale a 130 milioni di persone. Tuttavia, subito dopo il 1960, la politica di decentramento prende piede. Si assiste a un ingente riflusso di popolazione verso le campagne (si parla di oltre 20 milioni di persone: difficile dire in che misura si tratti di un movimento spontaneo, e in che misura invece ciò risulti dall'azione coercitiva del governo). Certamente conseguente alle direttive centrali (1968) è lo spostamento massiccio di giovani quadri (diplomati) dalla città alla campagna.
Per quanto riguarda le città, l'aspetto più rilevante della politica cinese, dalla rivoluzione culturale in poi, consiste nello sforzo costante di sviluppare attività manifatturiere (soprattutto aziende medie e piccole, e industria leggera) a integrazione e a complemento di quelle terziarie. Il caso più sorprendente è quello di Pechino, la città di tradizione amministrativa per eccellenza, oggi dotata di una forza di lavoro industriale di un milione di attivi. Il tasso di accrescimento urbano si riduce notevolmente: il rapporto tra popolazione urbana e popolazione totale tende a stabilizzarsi su livelli inferiori al 20%.
Il valore, il significato, i limiti alla ripetibilità dell'esperienza cinese oltrepassano evidentemente la tematica u. strettamente intesa. Anche in termini meramente settoriali, si deve tuttavia riconoscere alla politica cinese un elevato grado di successo: il controllo, almeno più che altrove, efficace sui fenomeni di distribuzione della popolazione, l'attenuazione del contrasto tra città e campagna, l'introduzione di tipologie insediative originali, la tutela dell'ambiente naturale, e il coinvolgimento diretto della popolazione nel processo di ristrutturazione degl'insediamenti.
Problemi settoriali. - Nel quadro globale della problematica u. emerge con particolare evidenza una serie di problemi di settore, che, non di rado, e nonostante il fitto intreccio di reciproche interrelazioni, gli studiosi e gli operatori pubblici affrontano anche con strumenti e politiche specifiche. Sembra opportuno, quindi, accennare almeno ai più attuali e ai più pressanti tra questi argomenti, nonché agli approcci risolutivi recentemente formulati e applicati.
Risorse, equilibrio ecologico, traffico e trasporti, ambiente. - La difesa e il mantenimento degli equilibri ecologici, una questione affermatasi verso la fine degli anni Sessanta (Conferenza delle Nazioni Unite, Stoccolma, 1972; ricerche del MIT promosse dal Club di Roma, "Limiti allo sviluppo"), ha importanti implicazioni nel settore degl'insediamenti. Dal punto di vista ecologico generale le città funzionano come colossali meccanismi a grande capacità di assorbimento di risorse e di produzione di rifiuti: il tutto a scapito del territorio, dei corsi d'acqua e dell'atmosfera circostanti.
Il suolo costituisce evidentemente la risorsa di base per la realizzazione e l'espansione della città. Attualmente, a scala mondiale, la superficie urbana non supera probabilmente lo 0,5% della superficie terrestre totale. Ciò non toglie che questa risorsa sia da considerare come scarsa, avuto riguardo alle grandi estensioni praticamente non urbanizzabili, alle tendenze in atto per una maggiore o minore densità abitativa, e ad altri aspetti variabili da paese a paese. In Italia, per es., l'incidenza della superficie urbana andrebbe confrontata non tanto con la superficie globale nazionale, quanto con quella delle zone pianeggianti che ne costituisce appena il 23%. In certi paesi dell'Europa occidentale, quali, per es., la Rep. Fed. di Germania, l'incidenza urbana si avvicina al 10% sulla superficie nazionale totale; in Gran Bretagna supera il 7%. Ogni anno, il residuo territorio agricolo perde un'importante frazione a vantaggio dell'urbanizzazazione: fino allo o,33% in Svezia, allo 0,43% nei Paesi Bassi, allo 0,73% in Giappone, all'1,23% in Belgio (medie 1960-70). D'altra parte, in molti paesi sottosviluppati, in cui l'incidenza della superficie urbana è di gran lunga inferiore, la situazione risulta anche più preoccupante, essendo tuttavia bassa la produttività agricola, e senza prospettive di rapido aumento. Ovviamente l'incremento numerico della popolazione mondiale e il miglioramento del livello medio di vita portano a una ulteriore occupazione insediativa dei suoli, anche a prescindere dalla urbanizzazione. Quest'ultima può anzi risultare in certi casi meno dispendiosa rispetto a un tipo d'insediamento fortemente disperso; molto dipende, naturalmente, dall'intensità con cui il suolo viene sfruttato; le differenze tra paesi sono notevoli. La densità media della popolazione urbana è intorno a 24 persone per ettaro in Gran Bretagna, 21 nella Rep. Fed. di Germania, sale a oltre 60 in Giappone, mentre negli Stati Uniti è di 13 persone per ettaro. Nella maggior parte dei paesi ricchi la tendenza è verso densità sempre minori; il contrario avviene nella maggioranza delle città nei paesi in via di sviluppo. La divergenza emerge se si considerano le città sopra il milione di abitanti; in esse la densità è oggi intorno a 40 - 50 persone per ettaro in Europa, inferiore a 20 negli Stati Uniti, prossima o superiore a 300 in città come Il Cairo, Calcutta, Manila, Ho Chi Minh (ex Saigon), Hong Kong.
Le risorse idriche necessarie alla città variano notevolmente da paese a paese; quelle per uso domestico oscillano tra i 120 e i 180 litri al giorno per persona nelle città dei paesi industrializzati (la cifra non comprende i consumi idrici industriali). In generale la carenza quantitativa d'acqua costituisce un problema drammatico per le città del Terzo Mondo; tuttavia la qualità dell'acqua potabile è fonte di crescente preoccupazione anche in Occidente, e, comunque, periodi eccezionali di siccità (come nell'estate del 1976 in Europa occidentale) possono imporre pesanti ancorché temporanee restrizioni d'uso.
Quanto al cibo, il volume corrispondente è modesto: intorno ai 2 kg per persona al giorno nei paesi ricchi; spesso in questi ultimi sussistono difficoltà per l'approvvigionamento di derrate fresche in quantità adeguate alle dimensioni metropolitane.
Enorme è l'assorbimento di energia che una grande città richiede; la crisi del petrolio (1973), che è il combustibile larghissimamente utilizzato nella circolazione automobilistica e per riscaldamento o produzione di energia elettrica, ha messo seriamente in questione la praticabilità funzionale della metropoli. Inoltre ha indotto a riconsiderare il grado di razionalità di strutture urbane di diverse dimensioni, di diversa densità, diversamente articolate sul territorio e diversamente organizzate dal punto di vista distributivo e funzionale, tenendo presente che la massima parte degli spostamenti urbani corrisponde ai collegamenti quotidiani luogo di residenza-luogo di lavoro, seguìti dagli spostamenti-scuola e dagli spostamenti- acquisti.
Non meno arduo del problema della limitazione dell'assorbimento di risorse è il suo risvolto: ossia la questione dell'eliminazione dei rifiuti. Nei corsi d'acqua che attraversano le città e negli specchi d'acqua su cui le città si affacciano, la concentrazione degli scarichi civili e industriali, a volte senza trattamento intermedio, supera facilmente i limiti di sicurezza igienica. In una grande città moderna i rifiuti liquidi possono raggiungere l'80% del volume d'acqua assorbito. I rifiuti solidi possono arrivare al peso di 3 kg/ab. (Los Angeles 3 kg Washington 2,1 kg; Londra o,83 kg). La massima parte dei rifiuti dispersi nell'atmosfera (monossido di carbonio, biossido di zolfo, altri ossidi e idrocarburi, particelle in sospensione) deriva dall'utilizzazione imperfetta di combustibili e carburanti. L'accumulazione dello smog, in condizioni atmosferiche particolari, ha spesso oltrepassato le soglie di sicurezza, mettendo in stato di allarme intere metropoli, e con effetti catastrofici per la salute e per la vita umana.
Sia i problemi di eccessivo consumo di risorse, sia quelli d'inquinamento vengono oggi affrontati sostanzialmente lungo una duplice linea d'attacco, cioè pianificando razionalmente la distribuzione spaziale delle attività e degli usi del suolo, e sviluppando e adottando tecnologie appropriate a ridurre il danno. Nell'ultimo decennio, l'entità dell'inquinamento atmosferico da anidride solforica è andato diminuendo nei paesi industriali occidentali; le emissioni di ossido d'azoto d'altronde sono aumentate. Il rumore intanto, una forma particolarmente fastidiosa d'inquinamento, nelle città ha raggiunto livelli spesso intollerabili. Nel settore del riscaldamento degli ambienti, notevoli progressi sono in corso sia nei sistemi di costruzione (isolamento), sia nell'utilizzazione dell'energia solare, sia nel riutilizzo dell'energia dispersa nei processi produttivi: in Israele le caldaie solari per acqua calda domestica sono diffusissime; in Svezia l'acqua calda di risulta delle centrali energetiche nucleari è trasportata in condotti isolati fino a 50 ÷ 60 km di distanza e ivi utilizzata per il riscaldamento di quartieri urbani; a Londra il divieto di utilizzazione del carbone per riscaldamento domestico ha eliminato completamente la famigerata nebbia; a Chicago nel 1964 è stato completato il più grande impianto di depurazione del mondo, sul lago Michigan (capacità: 6,4 miliardi di litri al giorno); la città di Tōkyō dispone oggi di dieci inceneritori nei quali scarica il 40% della spazzatura e ha in programma di estendere questo trattamento al volume totale con la costruzione di altri numerosi impianti. Per quanto attiene all'attività índustriale, tuttora prevalentemente all'interno o in prossimità delle città, in varie località, come a Mosca, si stanno realizzando grandi impianti per la riutilizzazione e il riciclaggio dei rifiuti industriali.
Per ridurre gli effetti urbani dell'inquinamento industriale è senz'altro indicato distanziare al massimo le industrie da tutte le aree residenziali. Purtroppo questo semplice principio (del resto in certa misura rispettato) può, se si eccede, portare a risultati controproducenti. Inevitabilmente infatti ciò determina l'allungamento dei percorsi tra residenze e luoghi di lavoro, e grava quindi sul trasporto. Com'è noto, la funzione di trasporto, o come talvolta si dice, il traffico, comporta un bilancio pesantissimo sia in termini di assorbimento di risorse (petrolio) sia in termini di rifiuti (inquinamento atmosferico). Notevoli sforzi sono in corso, sia per ridurne l'esigenza, sia per indirizzare l'utenza verso mezzi di movimento ecologicamente poco dispendiosi. Praticamente ovunque, pertanto, le amministrazioni territoriali hanno intrapreso vigorosamente la politica di disincentivazione dell'auto privata (aree di esclusione, parcheggi ai posti d'imbarco su mezzo pubblico, o park and ride, tassazione) e a favore dei mezzi collettivi, nonché della bicicletta (che già oggi assolve a un ruolo importante in paesi così diversi come i Paesi Bassi e la Cina), e dei pedoni.
La necessità stimola continuamente il progresso tecnologico. Il più moderno dei sistemi di ferrovia metropolitana è stato realizzato nella Bay Area (BART, San Francisco, SUA). Autobus di tipo speciale (transitanti sia su strada ordinaria sia su binario), con prelievo su richiesta, e con destinazione parzialmente flessibile sono in corso di sperimentazione. Si estende e si razionalizza l'uso collettivo del tassì, già affermatosi, del resto, a Istanbul, Hong Kong, Città di Messico, e recentemente a Washington.
È del tutto recente (dalla fine degli anni Sessanta in poi) la grande diffusione e popolarità della pedonalizzazione di aree importanti nei centri urbani. Gli esempi dell'immediato dopoguerra (la Limbecker Strasse a Essen; lo Strøget a Copenaghen; la Kalverstraat ad Amsterdam, il Lijnbaan a Rotterdam) si sono moltiplicati ovunque: a Monaco di Baviera (Marienplatz), a Stoccarda, a Brema, a Colonia, ad Hannover; a Vienna (Kärtnerstrasse) e a Klagenfurt; a Roma (Piazza Navona), a Milano, a Bologna; a Helsinki (Aleksanterinkatu); a Göteborg (Kungsgatan); a Parigi (l'Ile Saint-Louis, ma solo in parte), a Rouen; a L'Aia e a Eindhoven; a Norwich (London street), a Coventry, a Leeds; a Bolton. Gli esperimenti di New York (Madison avenue) e di Tōkyō (Ginza), anche se temporanei, hanno suscitato notevole interesse. La realizzazione di zone pedonali nel cuore delle grandi città contribuisce sostanzialmente a migliorare l'ambiente fisico urbano moderno notoriamente soggetto a numerosi inconvenienti (scarsità di spazio, di acqua e di aria pura, di luce, isolamento dalla natura; inquinamento, rumore, tensione nervosa). Nella stessa direzione sono diretti i programmi per l'espansione e per la diffusione dei servizi sociali e ricreativi, nonché per la dotazione di parchi urbani, nei confronti dei quali si è avuto un cospicuo dilatarsi della domanda pubblica (soprattutto nei paesi ricchi; vale a dire là dove, attenuatasi l'istanza quotidiana della sopravvivenza, le preoccupazioni della gente si sono rivolte al tempo libero, alle attività culturali e sportive, e alle esigenze delle persone emarginate dalle situazioni occupazionali regolari, come i pensionati, gli handicappati, e i giovani in attesa d'impiego).
L'ambiente della città certamente determina condizioni gravose per l'uomo anche sotto l'aspetto psichico e sociologico. Molto è stato scritto sulle possibili conseguenze dell'eccessiva densità abitativa, dell'incessante mobilità, dell'alienazione di fronte all'impersonalità dell'organizzazione sociale, del disorientamento di fronte alla frequenza delle innovazioni (future shock), e dell'alto grado di tensione competitiva che caratterizza la vita urbana. Nell'ottica di alcuni paesi, la delinquenza giovanile, le condizioni croniche di miseria e di disoccupazione, la discriminazione sociale e razziale che si manifesta soprattutto nei "ghetti" etnici delle metropoli, sono annoverati tra i massimi problemi urbani. Senza negare la gravità delle situazioni (da Watt negli SUA a Soweto nella Rep. Sudafricana), resta tuttavia discutibile l'attribuzione delle cause al fenomeno dell'urbanizzazione piuttosto che alla struttura e agli squilibri socio-politici di certe nazioni e appare riduttivo affrontarli come problemi propri della città.
Abitazioni, regime dei suoli, gestione finanziaria e politico amministrativa, partecipazione. - Anche il problema delle abitazioni, a rigore, non è un problema solamente urbano, tuttavia esso è strettamente legato al processo di urbanizzazione. Come già si è detto, la popolazione mondiale raddoppierà nei prossimi 30 anni; quasi tutti questi 3,5 miliardi aggiuntivi di abitanti vivranno in città; considerando una dimensione media familiare di 6 persone (assunzione generalmente ritenuta eccessiva), si renderanno necessari circa 600 milioni di alloggi addizionali: più di quanti non ne esistano oggi in tutto il mondo. Alla considerazione di questi ingenti fabbisogni aggiuntivi occorre affiancare la valutazione di quelli arretrati, derivanti, cioè, dall'insoddisfacente sistemazione di gran parte della popolazione urbana attuale. La situazione abitativa urbana nei diversi paesi è assai diseguale, soprattutto, ma non solo, in relazione ai diversi livelli economici. Nella maggior parte dei paesi sottosviluppati si riscontra frequentemente una carenza assoluta e globale di alloggi urbani: migliaia di famiglie vivono letteralmente all'addiaccio (ove il clima lo consente) o sotto ripari rudimentali, che in nessun modo si possono definire alloggi; inoltre praticamente tutto il patrimonio edilizio è fortemente sovrautilizzato (affollamento, coabitazione; specialmente in Africa e in America latina). D'altronde, anche in tutti i paesi avanzati e persino nei paesi ricchi si riscontra una persistente carenza abitativa nel senso che, anche ove il numero degli alloggi è notevolmente superiore a quello delle famiglie, si verifica spesso che si tratta in parte rilevante di alloggi in condizioni di conservazione e di equipaggiamento insoddisfacenti, ovvero localizzati dove meno richiesti; ovvero di taglio e tipo non corrispondente alle esigenze, oppure utilizzati solo stagionalmente o infine messi in vendita o in affitto a prezzi inaccessibili per larghe fasce di potenziale utenza. La carenza quindi sussiste insieme con fenomeni di sottoutilizzazione. Pertanto quasi in ogni paese i governi centrali e locali intervengono nel sistema di mercato, per attenuare la distanza tra la situazioue in atto e quella che si ritiene socialmente accettabile; quest'ultima costituisce un obiettivo mobile nel tempo, in quanto lo standard di soddisfazioue varia con il mutare e, sperabilmente, con il progredire del livello dei redditi (socioeconomico). Le misure d'intervento pubblico sono di tipi diversi: dai sussidi casa forniti alle famiglie a reddito più basso (per es., le housing allowances sperimentate per qualche tempo negli SUA), agli aiuti finanziari e creditizi, gestiti da appositi istituti (in America latina taluni istituti di credito specializzati hanno ottenuto notevoli successi nell'attrarre risparmio anche dalle famiglie meno abbienti), agli sgravi fiscali, alla regolamentazione dei fitti, e in casi eccezionali alla requisizione. Infine è quasi sempre presente l'intervento pubblico diretto nella costruzione delle abitazioni (edilizia pubblica propriamente detta). Gl'interventi pubblici rappresentano una quota assai variabile del volume totale di nuove costruzioni residenziali: per es., negli ultimi 5 anni è stata quasi nulla negli SUA; 1,53% in Canada; 40 ÷ 50% in Svezia, in Israele, nel Regno Unito, in Romania; 60 ÷ 70% in Venezuela, Irlanda del Nord; 70 ÷ 80% in Unione Sovietica e altre zone, per es., a Singapore.
I risultati combinati del mercato edilizio e delle politiche pubbliche nei diversi paesi hanno consentito livelli quanto mai diversi di produzione. Il numero delle nuove abitazioni costruite in un anno per 1000 abitanti varia da massimi di 16 (Giappone), 13 (Svezia), 12 (Svizzera, Francia), fino a livelli inferiori all'unità in moltissimi paesi dell'Africa e in parecchi dell'Asia e dell'America latina. Nel complesso dei paesi sottosviluppati si stima che sarebbe necessario assicurare un ritmo intorno a 8 - 10 nuovi alloggi annui per 1000 abitanti; in Italia era circa 7 intorno agli anni Sessanta; adesso è ridotto a circa 3.
Nell'elevato costo che costituisce per tante famiglie un ostacolo alla disponibilità di un'abitazione adeguata, occorre distinguere il valore conseguente all'effettivo assorbimento di risorse (manodopera, materiali), dal valore di posizione, il quale invece risulta dalla concorrenza che s'istituisce tra molti potenziali utilizzatori per il possesso e l'uso di un medesimo lotto, o di un medesimo edificio (o parte di esso). Nelle aree urbane il valore di posizione cresce vistosamente dalla periferia via via fino alle zone del centro e aumenta nel corso del tempo in modo particolarmente rapido in periodi di veloce sviluppo della città e di progresso economico generale: sia in assenza, sia a maggior ragione in presenza di nuove opere pubbliche infrastrutturali (strade, acquedotti, fognature, ecc.). In regime di prevalente proprietà privata dei suoli fabbricabili e dei fabbricati, l'aumento del valore di posizione si traduce in un guadagno per il proprietario, senza che quest'ultimo affronti alcuna spesa o rischio, salvo l'acquisto iniziale. Contro questa forma di speculazione, tipica della proprietà fondiaria e immobiliare urbana, le amministrazioni pubbliche esercitano tutta una serie di misure, tendenti a recuperare alla comunità il corrispettivo del plus-valore. In molti paesi s'impiega efficacemente lo strumento dell'imposizione fiscale sull'aumento di valore della proprietà immobiliare sui suoi trasferimenti. In quasi tutti i paesi si riconosce il diritto alle pubbliche autorità di espropriare, o comunque di acquisire, il territorio urbano o urbanizzabile a prezzi che escludano il corrispettivo del plus-valore speculativo. Infine certi governi hanno optato per l'acquisizione dei diritti di costruzione all'ente pubblico, ferma restando la proprietà privata dei terreni. In pratica si assiste spesso alla contemporanea applicazione dei diversi metodi.
In Gran Bretagna sono stati successivamente sperimentati diversi sistemi, come il development charge (1947-53) e il betterment levy (1967-70). Sulla base di queste esperienze si è giunti alla formulazione del Community land act (1975) e del Development land tax bill, dei quali non è ancora pienamente collaudata l'operatività. In Francia ci si basa soprattutto su due recenti strumenti giuridici: il diritto di preacquisizione (droit de préemption) e il tetto massimo di fabbricabilità (plafond légal de densité). La graduale, anticipata acquisizione alla proprietà pubblica dei suoli urbani è la strada seguita da molte amministrazioni sull'esempio di Stoccolma (che la segue dai primi del Novecento). La totale eliminazione della proprietà privata, come vige in URSS dal 1917-18 in poi, è evidentemente una soluzione radicale.
La speculazione urbana appare particolarmente intollerabile specie in considerazione del rapido e rovinoso aumento della spesa pubblica urbana. Il plus-valore speculativo deriva infatti in buona misura dal flusso d'investimenti pubblici in infrastrutture e servizi (opere di urbanizzazione) che consente il funzionamento e l'espansione della città.
Di fronte alle crescenti esigenze dei cittadini e all'aumentare incessante del costo delle prestazioni d'opera personali, i servizi pubblici urbani (molti dei quali rispondenti a funzioni scarsamente suscettibili di aumenti di produttività) hanno raggiunto oneri finanziari di proporzioni gigantesche. La difficoltà di coprire le spese mediante tariffe di utenza sufficientemente elevate contrasta con i fini sociali delle amministrazioni, molte delle quali pertanto sono state condotte sull'orlo della bancarotta. Il caso più clamoroso è certamente quello del Comune di New York, che, nell'autunno del 1975, è stato sul punto di fallire, sotto il peso di un disavanzo di 800 milioni di dollari (con un bilancio municipale di 12,3 miliardi di dollari), accompagnato da debiti e obbligazioni per più di 4 miliardi di dollari. Il salvataggio di New York è costato caro ai governi federale e statale, nonché alla stessa città che ha sofferto una drastica riduzione nei servizi sociali e culturali, e le conseguenze del licenziamento di 40.000 pubblici dipendenti. In altri paesi la crisi dell'ente locale non è meno grave, anche se apparentemente assorbita dalla maggiore solidarietà finanziaria del governo centrale. Così è in Italia, dove, solo tra il 1965 e il 1975, l'indebitamento delle amministrazioni comunali e provinciali è passato da 4360 miliardi a 25.000 miliardi di lire.
La gestione di un assortimento sempre più ampio e sofisticato di servizi (trasporti, sanità, istruzione, acquedotti, fognature, immondizie, anagrafe e statistica, ecc.) richiesti all'amministrazione locale non pone solo un problema di reperimento di fondi. Ciascuno di questi servizi richiede, per il suo più razionale espletamento, un minimo di superficie geografica e di entità di popolazione utente, nonché il suo affidamento a un organo di gestione tecnicamente specializzato. In base a queste esigenze il territorio dovrebbe essere servito attraverso numerosi distinti sistemi, ciascuno specializzato funzionalmente, e in cui i centri di erogazione non coinciderebbero geograficamente, come pure risulterebbero sfalsate tutte le aree di competenza. D'altra parte, l'esigenza del controllo da parte del pubblico sulla politica di gestione richiede invece che il sistema si articoli sulla base di un mosaico geografico unitario dotato di maglie non tanto grandi e di sedi decisionali non tanto numerose da scoraggiare la partecipazione della gente. Finalmente v'è da tener conto della tradizionale politica che in molti paesi ha consolidato e resi significativi i confini, per altri versi obsoleti, delle località. Quasi tutti i paesi sono attualmente impegnati nella formulazione o nell'applicazione di una riforma dell'amministrazione locale che in qualche modo concilii le opposte esigenze.
La più importante riforma dell'amministrazione locale è stata adottata in Gran Bretagna nel 1972 (Local government act). Nel 1973 furono creati 26 nuovi distretti nell'Irlanda del Nord. Nel 1974 le 1424 amministrazioni locali dell'Inghilterra e del Galles furono ridotte a 456; e quelle della Scozia passarono da 432 a 65 nel 1975. In Francia, la legge per la ricomposizione e la riduzione nel numero dei comuni prevede una riduzione da 38.000 a circa 10.000 unità. Nella Rep. Fed. di Germania tra il 1968 e il 1971 i comuni sono scesi da 24.000 a 11.000 circa. In Danimarca nel 1973 le unità minime di livello locale sono state diminuite da 1300 a 277. Negli Stati Uniti, nel 1972 c'erano circa 80.000 amministrazioni territoriali contro le oltre 100.000 del 1957; tuttavia il numero delle agenzie specializzate, per la fornitura di particolari servizi, è aumentato nel frattempo da 14.000 a 24.000. In Italia, l'istituzione delle comunità montane (raggruppamenti di comuni contigui e omogenei) costituisce un'innovazione significativa, ma episodica; mentre i comprensori (intercomunali) urbanistici sono da considerare tuttora nella prima fase di avvio.
In questo quadro, le aree metropolitane presentano un caso particolarmente difficile. In generale infatti le nuove grandi dimensioni sottendono, oltre alla città centrale, una costellazione di comuni limitrofi: onde la pianificazione e la gestione si scontrano con le difficoltà di un'amministrazione geograficamente frammentata. Negli anni Sessanta, Londra ha istituito la nuova amministrazione del Greater London Council che abbraccia un'area molto superiore al precedente London County Council. Dal 1974 è attivo il Consiglio metropolitano di Copenaghen, che include, oltre al comune della capitale, anche quello di Frederiksborg nonché le intere contee della capitale, di Frederiksborg e di Roskilde. Anche Stoccolma ha seguito una linea analoga. Un esperimento particolarmente riuscito è quello dell'area metropolitana di Toronto (Metro Toronto) che dal 1953 riunisce al suo interno, senza eliminarle, 5 amministrazioni locali, cui si sovrappone un livello di governo unitario, con proprio super-sindaco, super-assessori e consiglio super-comunale.
Specialmente a partire dagli anni Sessanta le amministrazioni locali sono indotte a considerare con crescente attenzione il problema della partecipazione del pubblico alle decisioni urbanistiche. La delega tecnica tradizionalmente concessa all'urbanista, quale progettista del piano regolatore, appare sempre meno accettabile; e alla stessa delega politica ai consigli amministrativi di vario livello, per la scelta e per l'adozione del piano, non è riconosciuta legittimità, se non sulla scorta di un ampio e preventivo coinvolgimento della popolazione tutta nella formulazione degli orientamenti e nelle decisioni. La partecipazione rivendicata dal pubblico è stata anche sollecitata e assicurata (con vario successo) in vari modi: diffusione dell'informazione, esposizioni, stampa, radio e TV, interessamento della gente nell'espletamento delle rilevazioni e delle inchieste urbanistiche, concorsi d'idee, presentazione pubblica di alternative, osservazioni e reclami. Uno degli orientamenti seguiti per attenuare il senso di distacco del cittadino singolo rispetto ai problemi collettivi nel contesto della grande città, consiste nel suddividere il territorio di quest'ultima in zone di minore ampiezza, nominando o eleggendo per ciascuna zona degli organi di rappresentanza più o meno formali. A questi comitati o consigli di zona, o circoscrizionali, vengono demandate decisioni riguardanti, per es., la tutela dei più significativi ambienti, la salvaguardia di edifici di pregio storico artistico, il controllo sulle licenze di costruzione. I pareri di queste sotto-unità amministrative sono spesso vincolanti, di diritto o di fatto, per i livelli superiori di governo.
Concezioni progettuali e ricerche scientifiche. - Lo sviluppo urbano durante gli anni Sessanta e Settanta ha offerto l'opportunità di realizzare e verificare alcune tra le più avanzate concezioni elaborate dagli architetti contemporanei. Due nuove capitali, Chandīgarh (Panjab) su progetto originale di Le Corbusier e Brasilia su progetto originale di L. Costa, entrano in attività alla fine degli anni Cinquanta, suscitando dibattiti tuttora accesi, soprattutto in merito al discutibile rapporto tra quelle architetture, senza dubbio originali e imponenti, e il contesto culturale e sociale nel quale si collocano. Nel 1960 inizia la costruzione di Islāmābād, nuova capitale del Pakistan. L'occasione di realizzare complessi urbani autonomi di tanto rilievo non è frequente; tuttavia la forte tendenza alla concentrazione di attività burocratiche di alto rango, pubbliche e private, nel cuore delle massime metropoli (il Central business district delle città americane), offre lo spunto a progetti notevoli sia per la dimensione sia per la localizzazione. Sorgono così, per es., a Boston il Government center (progetto di P. Rudolph) e la City hall (progetto di G.M. Kallmann e associati); a Toronto il complesso della City hall (in base a un concorso internazionale). A Stoccolma il complesso di cinque edifici alti fiancheggianti la zona commerciale e pedonale di Sergelgatan. A Londra si completa il quartiere Barbican, in piena City, a due passi dalla cattedrale. A Parigi si conclude l'esecuzione dei grandi progetti nel centro urbano: Maine-Montparnasse, Italie, Front-de-Seine. Anche il centro di Sofia e il centro di Berlino (Alexanderplatz) si arricchiscono di ambienti decisamente moderni; e così il centro di Mosca, con gli edifici alti del Prospetto Kalinin (1964-69), il centro di Minsk, di Kiev, di Leningrado lungo le due rive della Neva, e di Novgorod. Il centro di Taškent viene totalmente ricostruito dopo il terremoto del 1966, secondo una curiosa formula architettonica, moderno-folcloristica. La recente realizzazione di nuovi grattacieli altera, non sempre con felice esito, lo skyline, o profilo altimetrico di molte città. Basti ricordare tra gli edifici più discussi la Tour Montparnasse a Parigi; il Centre Point a Londra; il World Trade Center a New York; l'Hancock Center a Chicago, la Transamerica Tower a San Francisco, il grattacielo Pirelli e la torre Velasca a Milano.
Anziché insistere nella trasformazione e nella modernizzazione del centro tradizionale, si è optato in alcuni casi per la formazione di nuovi centri funzionali metropolitani, a qualche distanza da quelli originari, appoggiati a un sistema altamente efficiente di comunicazioni rapide viarie e ferroviarie. L'esempio più noto è quello di La Défense, a Neuilly, un quartiere d'affari (e di grattacieli) collegato con l'Étoile e con Place de la Concorde a mezzo del Réseaux express régional del métro. Un programma analogo, anche se di minor imponenza, è quello della City Nord, costruita a circa 6 km dal centro di Amburgo. Lo stesso principio trova applicazione a Shinjuko, Ikebukuro, e negli altri centri di nuova costruzione nell'area metropolitana di Tōkyō. I progetti delle nuove città e delle nuove grandi espansioni urbane presentano spesso concezioni di grande interesse sia sul piano compositivo, sia sul piano dell'organizzazione funzionale. Ciò può dirsi, per es., per alcune città nuove progettate in Finlandia (Tapiola) e in Svezia, e per alcune new towns inglesi della seconda e della terza generazione (Hook, poi non realizzata, Cumbernauld, Redditch, Runcorn, Milton Keynes), nonché per i progetti di espansione di Caen-Hérouville e di Toulouse-le-Mirail (progettisti G. Candilis, A. Josic e S. Woods), per il progetto di Thamesmead nell'immediata periferia di Londra, e per molti altri.
Le esposizioni internazionali e i giochi olimpici hanno talvolta lasciato in eredità alle città ospitanti complessi architettonici innovativi destinati, in ultima istanza, a usi urbani permanenti. Sono da ricordare, in tal senso, il complesso Habitat realizzato a Montreal nel 1967 (progetto di M. Safdie) e gli edifici per gli alloggi degli atleti a Monaco di Baviera (1972). Probabilmente non pochi dei grandiosi progetti urbani elaborati in questi ultimi anni, anche tra i più interessanti, sono destinati a rimanere in parte o in tutto sulla carta. Così si può supporre dei progetti di K. Tange per l'ampliamento di Tōkyō sullo specchio d'acqua della Baia, o per la ricostruzione di Skopje; dei progetti di J. Bakema e J.H. van der Broek per l'espansione di Amsterdam e per il centro di Tel Aviv; dei progetti di L. Kahn per il centro di Filadelfia e per Dacca. A una sorte del genere appaiono destinati i numerosi progetti di nuovi centri direzionali prodotti in Italia intorno al 1960 (Milano, Roma, Torino, Bologna, ecc.). La mancata realizzazione di questi progetti non li priva certo di significato e d'importanza, come strumenti di espressione e di diffusione del contributo sempre fondamentale dell'architettura all'interpretazione (non solo in termini formali) del problema urbano e metropolitano.
In questo quadro può essere apprezzata l'opera di C.A. Doxiadis e dei suoi collaboratori.; essi introducono e propagandano, negli anni Cinquanta e Sessanta, una teoria generale dell'insediamento umano (ekistics) in base alla quale si prevede la generalizzazione e la ramificazione dei sistemi metropolitani fino a interessare l'intero globo terracqueo con una rete articolata di insediamenti (ecumenopolis). La forma ideale di sviluppo urbano, secondo la teoria echistica, è quella di un'area parabolica, che s'ingrandisce nel tempo allargandosi, mentre il centro funzionale risale, per così dire, lungo l'asse. P. Soleri crea una sua propria scuola (un po' sul modello di quelle di F. Ll. Wright) in Arizona, e vi elabora speciali formule spaziali-architettoniche (arcologies) destinate a ospitare le comunità del futuro. B. Fuller suggerisce di estendere una delle sue strutture tipiche, la volta geodetica reticolare, fino a dimensioni tali da coprire intere aree metropolitane. Il carattere pneumatico di queste enormi calotte dovrebbe consentire, oltre alla più perfetta regolazione artificiale dell'ambiente, anche il sollevamento da terra e la mobilità dell'intera città. In Giappone si afferma negli anni Sessanta la scuola del "metabolismo ", caratterizzato da proposte di natura architettonica fantasiose e grandiose al tempo stesso. K. Kikutake ne è un noto esponente. Y. Friedmann, P. Maymont e altri, soprattutto in Francia, propongono macrostrutture urbane di forma caratteristica (piramidale, conica, paraboloidica ovvero a telaio orizzontale tridimensionale), sollevate al di sopra del suolo, o galleggianti sulla superficie del mare. Concezioni originali, al limite dell'immaginazione fantascientifica (e sospette di un certo compiacimento grafico) sono quelle proposte dal gruppo Archigram, formato da P. Cook e altri in Gran Bretagna (Plug in City). Sul piano formale è una nota comune di queste proposte la ricerca di soluzioni volumetriche e strutturali di effetto drammatico, in contrasto con la castigata semplicità della produzione razionalista. Sul piano funzionale, si riconosce una generale tendenza ad abbandonare i criteri tradizionali della distinzione tipologica, e a concepire le architetture come grandi contenitori plurifunzionali. Il valore utopico che a taluni di questi approcci si suole attribuire è in realtà piuttosto opinabile; la concezione di simili strutture raramente riflette un modello di società alternativa logico e coerente; anche se postula l'assunzione d'ipotesi avveniristiche a sostegno di una piuttosto improbabile praticabilità.
Negli ultimi 15 ÷ 20 anni, lo studio dell'u. si è arricchito di notevoli contributi scientifici. L'analisi della formazione delle strutture urbane e della fenomenologia localizzativa (distribuzione nello spazio dei diversi usi del suolo) si è giovato di apporti teorici di W. Alonso, L. Wingo Jr., B. Berry e altri (come sviluppo delle ricerche pionieristiche di W. Christaller e di A. Lösch). Le caratteristiche del fenomeno metropolitano e megalopolitano sono state indagate ampiamente e acutamente da J. Gottmann e da P. Hall. L'approccio ai problemi del traffico urbano è stato profondamente innovato dall'epoca dello studio per l'area di Chicago in poi; R. B. Mitchell e C. Rapkin hanno saputo esprimere in termini operazionali il rapporto di causa ed effetto intercorrente tra uso del suolo e generazione della domanda di trasporto. Nel 1963 la diffusione del cosiddetto "rapporto Buchanan" (Traffic in towns) ha avuto un'incidenza notevole nella politica del settore, soprattutto per la chiarificazione delle relazioni che legano mobilità urbana, investimenti economici e ambiente; mentre il tema delle comunicazioni, e più in generale dei rapporti funzionali tra gli elementi del sistema urbano, è stato indagato da R. C. Meier, K. Webber, C. Alexander, R. Artle; queste indagini hanno dimostrato, in particolare, l'inadeguatezza del concetto di gerarchia e del concetto di contiguità spaziale per l'interpretazione delle attuali fenomenologie insediative.
Il problema della valutazione e della scelta economica tra diverse alternative di piano è stato affrontato con nuovi strumenti da B. Malisz e da N. Lichfield (teoria delle soglie; analisi dei costi e dei benefici, estesa agli elementi non monetizzabili). H. Lefebvre, H. P. Bahrdt, P. H. Chombart de Lauwe, A. Mitcherlich, A. Pizzorno, partendo ciascuno da sue proprie premesse ideologiche, hanno gettato nuova luce sulle strutture e sui comportamenti sociologici urbani; mentre A. Altschuler e J. Dyckman, tra gli altri, hanno affrontato il tema della pianificazione urbana come processo decisionale di natura intersoggettiva complessa.
L'analisi degli aspetti estetici (nel senso di "percettivi", non nel senso di "artistici") della città è stata impostata in modo originale da K. Lynch attraverso inchieste tra gli abitanti.
Negli studi teorici recenti si è constatata l'utilità e si è riscontrata la diffusione di metodi matematici, statistici, econometrici, e dell'analisi dei sistemi in u., nonché la convenienza dell'impiego di calcolatori. B. Harris, J. Forrester, A. Wilson hanno esplorato con successo la possibilità di rappresentare la città (o un sistema di città, o alcuni aspetti di quella, o di questo) mediante modelli matematici, ossia mediante un sistema di relazioni formali allo scopo di poter studiare a tavolino il comportamento delle strutture insediative al variare di certi parametri. Il più noto di questi moderni modelli è probabilmente quello concepito e applicato da I. S. Lowry, il quale si è posto il problema di prevedere (sia nella loro dimensione, sia nella loro localizzazione) i nuovi insediamenti di residenze e di attività indotte conseguenti all'ipotetico nuovo impianto localizzato di un certo volume di attività economiche di base. I modelli matematici urbani trovano un'interessante applicazione didattica nella cosiddetta gaming simulation. È un quid simile a un gioco di società, che operando su un simulacro di città, come su una scacchiera, consente ai giocatori (che rappresentano le principali forze in gioco, residenti, commercianti, operatori immobiliari e finanziari, pubblica amministrazione, ecc.) di saggiare le conseguenze delle proprie azioni, in un contesto realistico d'interessi contrastanti.
Attività internazionale. - La questione dell'insediamento urbano ai nostri giorni è universalmente riconosciuta come un problema la cui crescente importanza travalica la responsabilità dei singoli governi nazionali. Praticamente tutti gli organismi internazionali sono impegnati attivamente nel settore: per incentivare lo scambio di esperienze, per confrontare e orientare le politiche nazionali, verificandone i reciproci riflessi esterni, per stimolare la cooperazione internazionale e, ove ne abbiano il mandato e la capacità tecnico-finanziaria, per intervenire con fondi, progetti e realizzazioni.
La Conferenza sull'Habitat convocata dall'ONU a Vancouver nel 1976 ha posto le basi per l'istituzione (a Nairobi) di un Centro delle Nazioni Unite per gl'insediamenti umani (Habitat) incaricato di agire direttamente nel settore e di coordinare le attività urbanistiche di varie agenzie delle Nazioni Unite, quali: United Nations Development Program (UNDP, per lo sviluppo dei paesi arretrati), United Nations Industrial Development Organization (UNIDO), United Nations Institute for Training and Research (UNITAR), Food and Agriculture Organization (FAO), International Bank for Reconstruction and Development (IBRD, conosciuta come "Banca mondiale"), World Health Organization (WHO), United Nations Educational and Cultural Organization (UNESCO), United Nations Expanded Program of Technical Assistance for economic development of under-development countries (UNEPTA).
Le 64 raccomandazioni adottate per consenso unanime a Vancouver (Vancouver plan of action) rappresentano orientamenti di notevole interesse e impegno. Vi si afferma, tra l'altro, che è un dovere dei governi la pianificazione del territorio; che è necessario il controllo pubblico sul regime (proprietario) dei suoli; che il plus-valore fondiario risultante da decisioni e investimenti pubblici dev'essere recuperato alla collettività; che il processo di pianificazione deve garantire la massima partecipazione pubblica. La priorità degl'interventi viene attribuita all'approvvigionamento idrico, con l'obiettivo di assicurarlo a tutti gl'insediamenti umani (urbani e rurali) entro il 1990. Al tempo stesso, la polemica insorta a Vancouver tra i paesi in via di sviluppo (il cosiddetto "gruppo dei 77") e i paesi avanzati, la quale ha messo in crisi la Dichiarazione dei principi e in ultima analisi ne ha impedito l'adozione unanime, ha chiarito una volta di più la natura sostanzialmente politica dei molti e gravi ostacoli che si frappongono alla soluzione dei problemi insediativi, la cui radicale eliminazione, mentre richiede l'impiego di opportuni interventi tecnici, finanziari, e istituzionali, postula soprattutto una profonda modificazione degli odierni squilibri e conflitti, interni e internazionali. Importanti attività nel settore urbanistico, relative a speciali gruppi di paesi, rientrano del pari nei programmi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), della Commissione per le Comunità europee, del Consiglio d'Europa, della NATO, dell'OAS, nonché di varie organizzazioni non governative come la International Union of Local Authorities (IULA) e l'International Federation for Housing Building and Planning (IFHBP). Vedi tav. f. t.
Bibl.: P. Georges, Précis de géographie urbaine, Parigi 1961; J. Gottman, Megalopolis, New York 1961; L. Mumford, The city in history, ivi 1961 (trad. it., Milano 1963); Ministry of transport, Traffic in towns, Londra 1963; L. Benevolo, L'origine dell'urbanistica moderna, Bari 1963; J. Beaujeau-Garnier, G. Chabot, Traité de géographie urbaine, Parigi 1964; P. Hall, World cities, Londra 1966; C. A. Doxiadis, Ekistics, Oxford 1968; P. Merlin, Les villes nouvelles, Parigi 1969; K. Davis, World urbanization 1950-1970, Berkeley 1972; L. Benevolo, La storia della città, Bari 1975; United Nations, Global review of human settlements, New York 1976; B. Ward, The home of man, Toronto 1976.