URBANISTICA
(XXXIV, p. 768; App. III, II, p. 1037; IV, III, p. 740)
Il processo di progressiva urbanizzazione della popolazione mondiale continua nel complesso a manifestarsi, sebbene con dinamiche diverse nelle varie parti del mondo. Nell'intervallo 1980-90 la popolazione urbana globale è cresciuta di circa 470 milioni, raggiungendo il livello di 2234 milioni; il tasso di urbanizzazione (rapporto tra popolazione urbana e popolazione complessiva) ha raggiunto, sempre a scala globale, il valore del 42,6%. Nell'ultimo decennio del secolo si prevede un ulteriore aumento di 620 milioni: il tasso arriverà al 46,6%. A partire dal prossimo millennio, dunque, per la prima volta nella storia vivrà più gente nelle città che fuori delle città. Le città di grandi dimensioni continueranno ad avere un ruolo preminente nel processo: le città superiori al milione di abitanti, 222 nel 1980, saranno probabilmente 408 nel 2000; in esse risiedeva il 34% della popolazione urbana mondiale nel 1980, percentuale che salirà al 49,8% nel 2000. Quanto alle città grandissime, con una popolazione di 10 milioni o più, il loro numero arriverà a 21, e la percentuale corrispondente, che era del 7% nel 1980, salirà al 22% nel 2000.
A questo incremento della popolazione urbana fa riscontro, nei paesi cosiddetti industrializzati dell'occidente, il fenomeno preoccupante del declino metropolitano, manifestatosi in tempi recenti, ma di cui si avvertivano i sintomi già verso la metà degli anni Settanta (v. App. IV, iii, p. 743). Al processo di declino contribuiscono cumulativamente varie cause. L'industria manifatturiera, che per secoli ha costituito una componente essenziale della base economica di tante città nel mondo occidentale, recede quasi dovunque da questo ruolo, per effetto sia della transizione verso un'economia post-industriale, a dominante terziaria, sia di un'agguerrita concorrenza proveniente dal resto del mondo, sia della radicale trasformazione delle esigenze localizzative degli opifici, indotti al decentramento dagli alti valori fondiari e soprattutto dai progressi nei sistemi di produzione, di stoccaggio, di trasporto, di comunicazione. La deindustrializzazione è soprattutto manifesta nelle città dipendenti da settori industriali di vecchio impianto e in crisi (tessili, acciaio, carbone, cantieristica, ma anche l'industria dell'automobile) del nord degli Stati Uniti (Detroit, Cleveland, Pittsburgh) e dell'Europa nord-occidentale (Liverpool, Glasgow, Lille-Roubaix-Tourcoing, Liegi, i centri della Lorena, della Ruhr e della Saar). Problemi analoghi incontrano molte città tradizionalmente legate al ruolo portuale (Amburgo, Rotterdam, Copenaghen, Marsiglia). Allo stesso tempo i negozi spariscono dai quartieri centrali, soppiantati dai grandi centri commerciali che sorgono ai margini delle città e attraggono maree di clienti motorizzati in immensi parcheggi. Persino la tradizionale concentrazione delle attività direzionali nel cuore delle metropoli è messa in crisi dall'espansione della telematica, che annulla i vantaggi della contiguità e dell'agglomerazione spaziale. I grattacieli si svuotano delle loro prestigiose funzioni, mentre crollano i posti di lavoro, si riduce la base fiscale, si moltiplicano le aree derelitte all'interno e ai bordi delle città. Quanti più cittadini emigrano tanto più si degradano i quartieri (e i servizi pubblici) che essi disertano, ove sopravvivono i diseredati e si insediano l'immigrazione povera e la malavita, e dilagano disordini e violenze.
Sintomi del declino urbano si manifestano, pur in forma attenuata, anche nelle città italiane. Nel periodo 1981-91 cala la popolazione in tutte le grandi città, ma a ritmi assai diversi (−15% a Milano e a Torino; −2% a Roma e a Palermo). La stagnazione e l'invecchiamento demografico determinano la sottoutilizzazione di edifici e spazi di proprietà pubblica: asili, scuole, mercati, impianti ferroviari, caserme. Si nota, soprattutto al Nord, un processo di diffusa deindustrializzazione, che lascia alle spalle numerose vaste aree dismesse dagli impianti di produzione (Torino, Milano, Genova, Firenze). La perdita di posti di lavoro nell'industria manifatturiera è in parte compensata da nuova occupazione nel settore terziario. Le attività terziarie in espansione tendono a insediarsi nelle aree centrali delle città, non esclusi alcuni centri storici, con esiti spesso sconvolgenti: traffico, rumore, snaturamento degli edifici. Altri settori centrali rischiano invece l'abbandono e il deterioramento (Genova, Bari, Palermo). Il degrado affligge anche vasti settori della periferia, dove domina un'edilizia di bassa qualità (anche se recente), e dilaga l'abusivismo (secondo stime del 1987 il numero delle abitazioni abusive in Italia sarebbe tra i 3,2 e i 3,5 milioni, interessando 320 milioni di m2 e 14 milioni di residenti).
Il fenomeno del declino urbano non è del tutto irrecuperabile. In molti centri metropolitani, soprattutto quelli già dotati di una struttura produttiva diversificata e di una forza di lavoro flessibile, alla fase di declino succede talvolta una fase di recupero: il dinamismo dell'iniziativa, approfittando della congiuntura favorevole degli anni Ottanta, ha agevolato il processo di mutazione della base economica. L'inversione di tendenza consente il ristabilimento della base fiscale, la formazione di nuove opportunità occupazionali, e una ripresa dell'edilizia che assume, in certe località, le dimensioni di un boom.
Ma anche in queste circostanze la transizione non avviene senza profonde alterazioni nel contesto fisico della città, né senza traumi nel tessuto sociale. Anche se si assiste a un rientro residenziale (gentrification) in certe zone urbane, esso è costituito da ristretti gruppi elitari, diversi dalle popolazioni originarie, ed è comunque un fenomeno di modesta entità. Permangono, specie nelle aree semicentrali (inner cities) sacche di disadattamento, di emarginazione etnica, di dequalificazione professionale, di disoccupazione, di miseria, di criminalità. Ne conseguono effetti destabilizzanti e fenomeni di acuta polarizzazione socio-economica.
New York rappresenta il prototipo del ciclo del declino e del recupero metropolitano. Negli anni Settanta la città perde quasi un milione di abitanti, e 600.000 posti di lavoro. La disoccupazione raggiunge l'11%. L'amministrazione locale arriva all'orlo della bancarotta. Dal 1977 al 1987 però la città riacquista quasi mezzo milione di nuovi posti di lavoro, e una marea di investimenti esteri, di aziende, di turisti, di immigrati forniti di vivace spirito imprenditoriale. La popolazione ricomincia a crescere nell'area metropolitana. Gli yuppies (young urban professionals) contendono lo spazio alle grandi società nei nuovi prestigiosi grattacieli del centro di Manhattan. Mentre l'industria manifatturiera continua a decrescere (200.000 posti di lavoro perduti negli anni Ottanta), la vitalità economica della metropoli dipende ormai interamente dalle attività del terziario avanzato, che si appoggia alla più estesa e sofisticata rete urbana di telecomunicazioni nel mondo, la cui punta di diamante è il primo teleporto del mondo, a Staten Island. Al tempo stesso è a New York che si trovano i sintomi estremi di degrado urbano, le più vistose concentrazioni di senzatetto (60.000 persone), di criminalità, di segregazione etnica, di spaccio di droga, e uno dei più deteriorati e congestionati sistemi di infrastrutture e di trasporto: sono spesso citate a esempio la centralissima zona di Times Square e le enormi periferie deserte, ridotte a slums e a rovine, tra cui notissimo è il quartiere del South Bronx. Alla fine degli anni Ottanta e fino alla metà degli anni Novanta la metropoli conosce un nuovo ciclo di recessione e poi di ripresa. La città perde ancora quasi 350.000 posti di lavoro, ma ne recupera successivamente il 12%. Alcune delle attività portanti (note sotto la sigla FIRE, Finance, Insurance, Real Estate) abbandonano la ''Grande Mela'' forse per sempre. Durante la fase espansiva degli anni Ottanta 5,6 milioni di m2 di nuova costruzione si erano aggiunti allo stock di spazio-uffici. Esattamente la superficie che attualmente non trova locatari: infatti gli spazi non occupati rimangono intorno al 20% nel centro di Manhattan. Per quanto riguarda i nuovi settori portanti dell'economia di New York, l'amministrazione locale guarda con interesse al commercio al minuto, al settore sanitario, ai media e alle telecomunicazioni.
La diffusione urbana e l'ambiente - È un notevole paradosso della grande città moderna il fatto che proprio l'insoddisfazione nei confronti del suo ambiente abbia indotto le famiglie e più recentemente le aziende ad abbandonare, piuttosto che a tentare di migliorare, il degradato ambiente collettivo del centro urbano (inner cities) e a disperdersi a largo raggio in cerca di una miriade di micro-ambienti privati gradevoli: creando così, con l'andar del tempo, la meno sostenibile forma urbana che sia mai esistita, la città sparsa. Fino a un certo punto, questo modello non costituisce altro che una continuazione del ben noto processo di suburbanizzazione, di cui l'inarrestabile diffusione dell'automobile continua a essere a un tempo la causa e l'effetto. Vi si aggiunge ora la telematica (telelavoro, telescuola, telespese, ecc.). In molti luoghi importanti, non solo l'estensione geografica della suburbanizzazione ha raggiunto dimensioni senza precedenti, ma le sue caratteristiche sono cambiate significativamente: tanto che è stato suggerito il termine contro-urbanizzazione (counter-urbanisation). Le conseguenze sono state importanti, sia in termini di modificazione ambientale all'interno delle città, sia in termini dell'impatto dell'urbanizzazione sull'ambiente globale.
La città sparsa è in effetti una nuova e diversa forma di sviluppo insediativo. A differenza del sobborgo tradizionale, a dominante residenziale, è tipicamente multi-funzionale, includendo centri commerciali, scuole, fabbriche, centri sanitari, blocchi di uffici, teatri, alberghi e sale di riunione. A differenza del sobborgo tradizionale, non è più soggetta a gravitazione verso un polo dominante di attrazione (il "centro"). La densità, che è forse il carattere distintivo delle città tradizionali, è estremamente bassa, e la scala geografica di ciascun elemento si ingrandisce in proporzione.
Come succede per molte tendenze nella società contemporanea avanzata, il Nord America apre la strada a questa forma di urbanizzazione (o contro-urbanizzazione). Gli aspetti sopra descritti richiamano alla mente l'immagine di Los Angeles, ma anche recenti sviluppi suburbani intorno a luoghi così diversi come Washington, Chicago, Detroit o Phoenix. La tendenza guadagna rapidamente terreno fuori dal Nord America in parecchie città dei paesi occidentali. In Europa, la superficie del terreno economicamente adatto all'agricoltura si restringerà drammaticamente come conseguenza di riforme radicali nella politica agricola europea, il che costituirà un fattore di accelerazione per la diffusione degli insediamenti. Nel Regno Unito, un paese a popolazione relativamente densa, 1,4 milioni di ettari diverranno disponibili per nuovi usi durante gli anni Novanta (secondo la National Farmers Union) e gli insediamenti abitativi dispersi saranno quasi certamente il nuovo uso redditizio. In Svezia, a Stoccolma, Göteborg e Malmö, i modelli di edificazione e di uso del suolo sono cambiati drasticamente durante i due recenti decenni, risultando in un'accresciuta diffusione urbana (sprawl). A Stoccolma, il numero delle famiglie residenti a meno di 500 m da una stazione di trasporto pubblico è diminuito del 30%. Nella regione metropolitana di Parigi, gli urbanisti stanno tentando di contenere la crescita geografica della capitale e persino di ridurre il ritmo delle recenti tendenze fino al 50%. Malgrado ciò, il recente Libro Bianco per Parigi (Le Livre Blanc) ammette lo sviluppo di non meno di trentamila e fino a cinquantamila ettari nel medio-lungo termine (da tre a cinque volte l'area della città stessa di Parigi), di fronte a una crescita di popolazione relativamente modesta (500.000 abitanti in più).
Nonostante l'apparente mancanza di ordine e di scrittura, è chiaro che la città sparsa presenta alcuni vantaggi specifici, specialmente in termini di opportunità di scelta individuali, e soddisfa in larga misura i gusti e le preferenze di una gran parte della popolazione: un alloggio confortevole in un contesto piacevole, facile accesso a buone scuole, buoni posti di lavoro, e attrezzature ricreative e commerciali di grande varietà. Sfortunatamente, però, questo modello di sviluppo, così come i vari componenti del connesso stile di vita, è difficilmente compatibile con le esigenze ecologiche locali, regionali e globali. A cominciare dal consumo di risorse non rinnovabili, le nuove ondate di suburbanizzazione sommergono enormi quantità di territorio. Questo può essere un problema persino in Nord America. Per es., negli Stati Uniti la conversione di terreno agricolo in terreno costruito è stata quasi quattro volte più veloce nel periodo 1970-80 che nel decennio precedente. L'insediamento sparso risulta anche in un alto consumo d'acqua (irrigazione di manti erbosi, piscine, lavaggio di automobili) e anche in un alto livello di consumo di energia per il riscaldamento e per il raffreddamento delle abitazioni isolate. Esso anche induce al consumo di cibi preconfezionati, il che a sua volta contribuisce ad incrementare l'uso dei contenitori e degli imballaggi, aumentando così il volume di metalli, materie plastiche e altri materiali sintetici nei rifiuti domestici. Gli apparecchi domestici, dai frigoriferi alle lavatrici, sono egualmente richiesti in più gran numero e più vaste dimensioni; e quando devono essere eliminati fanno aumentare il volume dei rifiuti. Per controllare l'inquinamento generato da una tipologia abitativa dispersa occorrono ancora significativi progressi: i sistemi standard di trattamento fognario sono poco adatti alle condizioni abitative sparse. La contro-urbanizzazione riduce anche le possibilità di quelle economie di scala che derivano da insediamenti relativamente densi. Essa rende più difficile riciclare l'energia e le risorse e introdurre la co-generazione del calore e dell'energia elettrica così come del riscaldamento per distretti. La maggiore minaccia che emerge dalla città sparsa è naturalmente il continuo aumento nell'uso delle automobili. La completa dipendenza della vita di famiglia dall'automobile − per raggiungere il posto di lavoro, accompagnare i bambini a scuola, fare la spesa, spostarsi da un ufficio all'altro −incoraggia e addirittura obbliga ogni famiglia a mantenere almeno due e spesso tre automobili. Le statistiche dimostrano che il nuovo modello di mobilità nella città sparsa tipicamente si svolge da sobborgo a sobborgo (invece che da un sobborgo al centro e viceversa) risultando in un allungamento delle distanze tra origini e destinazioni. Insediamenti a densità molto bassa sono estremamente difficili e dispendiosi da servire con mezzi di trasporto collettivi. Il progresso continuo nella tecnologia dei motori d'automobile può risultare in riduzioni del tasso di emissione per veicolo e per chilometro, ma tali miglioramenti saranno presto più che annullati dalla crescita del traffico stradale, se le recenti tendenze nello sviluppo insediativo e le relative tendenze nell'uso della vettura individuale continueranno e si generalizzeranno nei prossimi decenni. Secondo la Commissione delle Comunità Europee, la flotta delle vetture individuali in Europa aumenterà del 45%, da 115 milioni nel 1987 a 167 milioni nel 2010. Dopo qualche temporaneo miglioramento, le emissioni inquinanti ricominceranno a crescere, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il clima globale, a causa dell'effetto serra.
Politiche urbane nei paesi economicamente avanzati dell'Occidente. - Le politiche urbanistiche sviluppate negli anni recenti non sembrano affatto idonee a controllare l'urbanizzazione sparsa. Per contro, i sintomi di stagnazione e di declino urbano, manifesti nella maggior parte dei paesi industrializzati dell'Occidente nel corso degli ultimi quindici o vent'anni, determinano un significativo riorientamento delle politiche urbanistiche. Al posto della strategia tendente a controllare la crescita della grande città e a pilotarne lo sviluppo, eventualmente attraverso la creazione di poli alternativi di attrazione demografica (nuove città), si fa strada l'esigenza di gestire l'esistente: la nuova strategia punta soprattutto su utilizzazione e riutilizzazione di spazi, infrastrutture, fabbricati minacciati da abbandono e degrado. Ci si preoccupa della conservazione e del restauro dei quartieri centrali vetusti; ma anche della riqualificazione delle periferie fatiscenti, ancorché di costruzione recente, e carenti di attrezzature e di verde. Intanto, però, al di là delle periferie, l'onda lunga della suburbanizzazione si estende a perdita d'occhio, fuori da ogni controllo.
L'ambiente diventa il nuovo protagonista delle politiche urbane. La strategia ambientale comprende, oltre alla salvaguardia del contesto costruito, la preservazione e la creazione di parchi e giardini, la valorizzazione degli specchi d'acqua, il risparmio energetico (reti di riscaldamento urbano), la corretta eliminazione dei rifiuti e il trattamento degli scarichi urbani, la lotta all'inquinamento e ai rumori, questi ultimi soprattutto derivanti dal traffico motorizzato. In un gran numero di città si creano zone pedonali e percorsi riservati ai ciclisti, mentre si cerca di favorire gli utenti del trasporto collettivo. Per frenare la crescita del numero di automobili, fonte di giganteschi ingorghi e di frequenti incidenti, si propongono i più diversi disincentivi, compreso il pedaggio sulle strade (applicato per ora solo a Oslo).
Sempre più si integra all'obiettivo della riabilitazione delle strutture e infrastrutture fisiche uno sforzo di privatizzazione socio-economica. I governi (centrali e locali) si fanno carico di promuovere l'iniziativa economica e la formazione di posti di lavoro nelle città in declino, con politiche quali il Community Development Block Program (USA), l'Inner Urban Areas Act e i City Grants (Regno Unito), le Missions Locales (Francia). A favore di determinate aree urbane in crisi vengono riorientate anche le politiche regionali dei singoli paesi (e anche dell'Unione Europea), un tempo unicamente dirette al sostegno di regioni periferiche. In questo contesto si sviluppano nuove forme di collaborazione tra amministrazione pubblica e settore privato, incoraggiato quest'ultimo con agevolazioni finanziarie, fiscali e regolamentari. In molte città degli Stati Uniti, ove il ruolo pubblico nella guida dello sviluppo urbano è meno importante che in Europa, è spesso il mondo imprenditoriale locale ad assumere la leadership.
Questi recenti orientamenti hanno richiesto la messa a punto di strumenti appropriati. Il piano regolatore generale, così com'è inteso tradizionalmente, si è rivelato spesso un documento eccessivamente astratto, rigido, utopico, espressione di un atteggiamento vincolistico piuttosto che dinamico, e soggetto a rapida obsolescenza. Analogamente viene ripudiata la zonizzazione, cui si imputano effetti di segregazione funzionale e sociale. Le risposte all'esigenza di rinnovamento si sono indirizzate verso due direzioni complementari: la formulazione di schemi strategici d'assieme, a vasta scala territoriale, più indicativi che prescrittivi, tradotti in rappresentazioni diagrammatiche, simboliche e necessariamente sommarie (ne sono esempi gli schemi regionali per la regione metropolitana dell'Ile-de-France e quelli per la regione di Tokyo); la progettazione di operazioni circoscritte, concretamente ancorate a scadenze temporali e a piani finanziari precisi, operazioni che riguardano ben definite parti di città (per es. il fronte del porto o le aree industriali dismesse) ovvero che affrontano ben definiti settori funzionali: ambiente, trasporti, telecomunicazioni.
Acquista rilevanza crescente la reazione critica del pubblico alle diverse proposte e realizzazioni urbanistiche. Alcune importanti iniziative di conservazione di quartieri tradizionali, come il Covent Garden a Londra o il Lower Norrmalm a Stoccolma, scaturiscono da movimenti d'opinione contrari ai progetti iniziali di demolizione e ricostruzione. L'inadeguatezza di certe tipologie rispetto ai destinatari (superblocchi a torre o in linea nell'edilizia pubblica residenziale) induce addirittura alla loro demolizione: dopo il complesso Pruitt-Igoe negli Stati Uniti, demolito nel 1972, è la volta delle torri delle Minguettes e delle barre di Courneuve in Francia, degli edifici di Newham e del complesso di Chelmsley in Gran Bretagna. Al confronto con lo stile razionalista, che non ha dato buona prova, l'architettura post-moderna sembra meglio accolta dal pubblico, forse grazie agli ambigui riferimenti storici, e si mimetizza anche meglio nel contesto dei quartieri antichi restaurati.
Le innovazioni istituzionali e legislative sono soprattutto cospicue in Europa, in quanto divergono da una radicata tradizione di controllo pubblico sull'uso dei suoli. Le autorità centrali mirano a incentivare le iniziative locali di intervento edilizio, sia pubbliche sia private: quelle pubbliche attraverso il progressivo decentramento delle responsabilità decisionali, quelle private attraverso la deregolamentazione e lo snellimento delle procedure di approvazione dei progetti. La classica struttura gerarchica della pianificazione, discendente a cascata dal massimo al minimo livello territoriale, è ignorata di fatto, dove non è eliminata formalmente.
In Gran Bretagna le riforme sono più radicali che altrove. Il governo (conservatore) abolisce le autorità metropolitane, compreso (1986) il Greater London Council (tradizionalmente laburista), definito ''un inutile intralcio all'amministrazione locale''. La pianificazione regionale assume la forma riduttiva di circolari del segretario di stato all'Ambiente. Gli Structure Plans a livello di contee sono sostituiti da semplici Statements of County Planning Policies (1989). I piani locali, responsabilità dei District Councils, coprono meno di un quinto della superficie del paese. La non conformità al piano non è motivo sufficiente per il rifiuto di un permesso edilizio: occorre che l'amministrazione dimostri un danno previsto. Il ben rodato meccanismo britannico (esproprio, quindi ristrutturazione fondiaria, infine enfiteusi) è sempre meno frequentemente applicato. Per attirare gli investimenti edilizi vengono introdotte in varie città Enterprise Zones e Simplified Planning Zones, entro le quali i progetti ottengono automaticamente il permesso di costruzione nonché importanti esenzioni fiscali. In Francia le riforme del 1983 e del 1985 favoriscono il decentramento dell'amministrazione. Spettano ormai ai comuni il varo di un Piano d'Occupazione dei Suoli (POS), e la gestione delle sempre più frequenti varianti. I comuni sopra i 10.000 abitanti, un tempo soggetti all'obbligo di dotarsi di uno Schema Direttore (SD), ne sono oggi esonerati. Gli attuali SD coprono meno di un settimo del territorio nazionale. La divisione in zone è resa meno rigida, e viene lasciata ai comuni la discrezione di determinare i Coefficienti di Occupazione dei Suoli (COS) e il livello della corrispondente imposta. In Germania le disposizioni urbanistiche vengono raccolte in un testo unico (Baugesetzbuch, 1987). Le autorità locali sono esonerate dall'obbligo di dotarsi di un piano regolatore (Bebauungsplan); ove lo adottino, esse possono limitarlo a una porzione del territorio; sul rimanente, le domande di costruzione vengono senz'altro accolte, purché si adeguino alle volumetrie e alle tipologie delle aree adiacenti. I piani urbanistici al di sopra del livello locale (Landesentwicklungspläne; Gebietsentwicklungspläne) hanno carattere meramente diagrammatico. Persino nei Paesi Bassi si nota un'attenuazione degli strumenti di controllo urbanistico. Viene abbandonata la pratica dei piani urbanistici a livello nazionale e abolita l'Autorità del Rijnmund (area metropolitana di Rotterdam). La discrezionalità dell'amministrazione locale (compresa la negoziazione con i privati) è notevolmente incrementata con la legge per il rinnovamento urbano (1984) e con gli emendamenti (1985) alla legge sulla pianificazione fisica del 1962. Orientamenti analoghi prevalgono in Danimarca, dove il governo metropolitano di Copenaghen è abolito.
Pianificazione urbanistica in Italia. - Anche in Italia la politica urbanistica tende ad abbandonare le posizioni vincolistiche e rigoriste (che in passato riflettevano l'urgenza del controllo dell'allora rapida espansione), per orientarsi verso l'incoraggiamento degli interventi, dando priorità a quelli di restauro e di recupero, nonché verso la manutenzione e la gestione dei fabbricati, piuttosto che la nuova costruzione. Ne formano oggetto non solo gli edifici di riconosciuto pregio storico-artistico, ma anche l'edilizia minore, e in genere l'intero patrimonio esistente, di cui si riconosce il valore economico. Il graduale passaggio di responsabilità dal ministero dei Lavori pubblici alle amministrazioni regionali, e poi a quelle provinciali contribuisce a snellire le procedure, sganciandole dall'immobilismo cui erano condannate dalla proverbiale inefficienza dell'apparato governativo centrale. Con la l. 47/1985 cessa anche il controllo regionale sui piani esecutivi adottati dai comuni, cui la l. 166/1975 già attribuiva una maggiore capacità di investimento nel settore del risanamento edilizio. Va nel senso della deregolazione anche il principio del silenzio-assenso a favore di determinati progetti di ristrutturazione (l. 457/1978) e anche di nuove opere (l. 94/1982). L'edilizia pubblica, prigioniera dei favoritismi politici, precipita verso la crisi (il disastro culmina con la demolizione del recente grande complesso residenziale ''Le Vele'' a Napoli, nel 1995). Caduto il tabù della contrapposizione pubblico/privato, l'iniziativa privata è facilitata dalla l. 10/1977, e soprattutto dalla l. 457/1978, riguardante i piani di recupero poliennali, la quale introduce agevolazioni creditizie a favore di progetti di manutenzione, restauro, ristrutturazione. Ulteriori incentivi vengono introdotti con leggi regionali. Bologna, la cui amministrazione è nota per l'efficienza, è in anticipo rispetto alle altre città per la privatizzazione di numerosi importanti servizi pubblici. Di fronte al clamoroso sottoutilizzo delle aree di proprietà pubblica, il governo presenta un disegno di legge per la gestione produttiva dei beni immobiliari dello stato (1989), compresa l'eventuale vendita a privati. Importanti interventi urbanistici vengono realizzati in alcune città (Bologna, Brescia, Venezia, Roma, Milano) spesso valendosi di speciali stanziamenti statali, e utilizzando accortamente i tradizionali strumenti urbanistici. Vecchi strumenti, come il programma di fabbricazione, vengono abbandonati. Nuovi strumenti vengono sperimentati, allo scopo di favorire la flessibilità e la processualità della pianificazione: piani d'inquadramento operativo, progetti di area, piani quadro, programmi integrati di recupero, programmi organici di intervento, documenti direttori, accordi di programma.
Mentre queste tendenze accomunano l'Italia agli altri paesi moderni, due linee di tendenza invece ne divergono: la prima è la programmata creazione di nuove entità amministrative a livello metropolitano, o ''aree metropolitane'': Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia, Bologna, Firenze, Napoli, Bari (l. 142/1990). La seconda è la ripetuta legalizzazione dell'edilizia abusiva (perimetrazioni) e finalmente il condono edilizio (l. 47/1985, prorogata da numerosi decreti), che assimilano piuttosto questo paese a quelli del Terzo Mondo.
Grandi progetti nelle città dei paesi economicamente avanzati dell'occidente. - Tra i grandi progetti emergono quelli dettati dallo sviluppo del terziario avanzato, che ha provocato una vera e propria gara internazionale tra le grandi città per la creazione di quartieri direzionali. Invarianti di queste realizzazioni sono la forte densità edilizia, l'alto livello di accessibilità, e l'elevata dotazione di impianti telematici d'avanguardia. Il cuore del complesso della Défense a Parigi, prototipo di queste realizzazioni, varato negli anni Cinquanta, è stato portato a conclusione nel 1989 e già se ne sta progettando il prolungamento al di là della Grande Arche. La ristrutturazione dei Docklands di Londra è certamente il più grandioso tra gli interventi di questo tipo: si estende su di un'area di 2200 ettari, lungo le due rive del Tamigi, subito a oriente della City, per una lunghezza di 16 km.
La valorizzazione dei terreni abbandonati da quello che fu il più grande porto mondiale è stata affidata dal governo britannico a un'agenzia pubblica, la London Docklands Development Corporation, dotata di ampi poteri concernenti l'acquisizione dei terreni (in massima parte di vari enti pubblici), la realizzazione delle infrastrutture, la cessione delle aree fabbricabili, la gestione e la regolamentazione urbanistica (ridotta ai minimi termini al fine di incoraggiare gli investimenti). Nel comparto dell'Isle of Dogs, destinata a ospitare il supercomplesso finanziario di Canary Wharf, è stata istituita una free enterprise zone. Nel comparto di Wapping è sorto uno dei poli del sistema dei World Trade Centers. Nel comparto dei Royal Docks è stato inaugurato nel 1987 il City Airport, destinato ai collegamenti d'affari tra le grandi capitali d'Europa. Il grande progetto dei Docklands si è sviluppato tra contrasti e difficoltà. Fin dal principio il governo centrale ha dovuto far fronte a vive proteste per l'estromissione delle autorità locali (boroughs) da ogni possibilità di controllo sulle implicazioni del progetto sul tessuto socioeconomico nonché sull'aspetto dei singoli edifici. La Corporation ha comunque segnato un primo successo per la capacità di attirare ingenti investimenti in tempi relativamente brevi: soprattutto grandi aziende, e in particolare le sedi dei più importanti giornali londinesi (Daily Telegraph, Guardian, Financial Times, Daily Mail), molti dei quali hanno abbandonato Fleet Street. Successivamente, peraltro, la collocazione degli spazi costruiti è diventata sempre più ardua, fino ad arrivare al clamoroso fallimento di Canary Wharf. A parte la bassa congiuntura del mercato immobiliare (1991), determinante è stata la carenza di accessibilità, salvo che per via d'acqua (Thames Line River Bus); i collegamenti viari e ferroviari (Docklands Light Railway) sono rimasti a lungo embrionali. Ha giocato negativamente anche la concorrenza suscitata da un contemporaneo boom edilizio nella City, realizzato attraverso un'ulteriore densificazione all'interno del prestigioso Square Mile. La ripresa economica registrata a metà degli anni Novanta ha ridato fiato all'iniziativa: il tasso di non-occupazione, che ha toccato il 19% nel 1993, è sceso al 13,6%. Inoltre, dopo lungo tergiversare, si sta realizzando un collegamento di Canary Wharf alla rete metropolitana (Underground) di Londra. All'interno della zona dei Docks rimangono pochi residui (restaurati) di edilizia vittoriana, attorniati da architetture caratterizzate da segni geometricamente e cromaticamente aggressivi.
Importanti progetti a dominante direzionale sono stati realizzati anche a New York (Battery Park), Baltimora (Inner Harbour), Utrecht (Hoog Catharijne), Lione (Part-Dieu). Altri, di pari importanza, sono in preparazione a Berlino (Potsdamerplatz, Friedrichstrasse) dopo la caduta del muro.
Tra i recenti progetti a dominanza residenziale il più significativo è l'operazione IBA (Internationale Bau Ausstellung), iniziata dal Senato di Berlino (ovest) nel 1979, e consistente nell'inserzione di numerosi interventi edilizi, affidati a diversi architetti di paesi diversi e distribuiti su gran parte del territorio urbano.
Si tratta di un insieme di numerosi interventi isolati, distribuiti all'interno di due ambiti, separati da un asse nord-sud (non lontano dal Reichstag) e caratterizzati da due approcci distinti, se non opposti. Nella porzione occidentale l'operazione Stadtneubau consiste nella realizzazione di nuovi edifici, in vari lotti, per lo più di proprietà privata (Tegel, Pragerplatz, Tiergarten-sud, Friedrichstadt): le progettazioni, per iniziativa e a spese dell'organizzazione IBA, sono affidate a decine di architetti scelti fra i più noti in ogni paese. Nella porzione orientale, l'operazione Stadterneuerung consiste invece nel restauro conservativo di edifici degradati (nella Luisenstadt, nel Distretto SO-36 e a Kreutzberg) a opera di altri architetti, in consultazione con i residenti, che, a restauro avvenuto, vi vengono rialloggiati. Grazie al prevalere dello stile post-moderno classicheggiante da una parte e all'accuratezza del restauro dall'altra, l'esito dell'IBA è un'interessante collezione di edifici vecchi che possono sembrar nuovi e di edifici nuovi che si potrebbero credere vecchi.
La funzione culturale ispira la maggior parte dei Grandi Progetti del presidente F. Mitterrand a Parigi: Grand Louvre, Museo d'Orsay, Città delle Scienze e delle Tecniche (alla Villette), Istituto del Mondo Arabo, Opéra de la Bastille, Arche de la Défense, Grande Biblioteca Nazionale. L'università è la ragion d'essere della nuova e vivace città di Louvain-la-Neuve, costruita a qualche chilometro da Bruxelles. A Barcellona, l'intera città, e in particolare il fronte mare, dalla collina di Montjuic fino alla Diagonal, è stata ristrutturata in vista delle Olimpiadi (1992). Tra i grandi progetti ambientali urbani, spicca la restituzione al verde pubblico delle sponde del Corno d'Oro, a Istanbul, che ha richiesto il trasferimento di una miriade di botteghe artigianali in nuove zone industriali attrezzate entro l'area metropolitana.
In Italia lo sviluppo delle attività del settore terziario avanzato porta alla realizzazione di grandi complessi urbanistici nelle maggiori città. Il più importante intervento in corso di realizzazione è il centro direzionale a Napoli (Poggioreale). Il progetto, iniziato nel 1983, si estende su 110 ha. Impostato su di uno schema schiettamente razionalista, esso comprende 4 milioni di m3 edilizi, di cui il 70% destinato a edifici pubblici e privati e il 30% a residenza e servizi. A Milano, la disponibilità di vaste aree industriali dismesse nonché di proprietà pubbliche egualmente dismesse (scali ferroviari) per un complesso di 600 ha favorisce una strategia urbanistica articolata su un numero limitato di poli. Sono realizzati o prossimi all'avvio i progetti Garibaldi-Repubblica, Alfa Romeo-Portello Sud, Montedison, Pirelli-Quarto Oggiaro, Bovisa-Politecnico e Scalo Farini, Porta Vittoria (con i mercati e il macello), Porta Romana, Porta Genova. Non meno del 50% delle aree in questione verrà destinata a spazi verdi d'uso pubblico, di cui Milano è particolarmente carente. Un'analoga strategia è in atto a Torino, dove sono disponibili le aree dello scalo ferroviario Venchiglia, di Porta Susa, della Teskind, della Lancia, della Rebaudengo. Il complesso industriale del Lingotto (Fiat) è stato completamente ristrutturato, trasformandolo in un centro di conferenze ed esposizioni. A Firenze è in discussione la grande area della Fiat a Novoli e Piana di Castello, dove potrebbe essere realizzato un grande centro direzionale e residenziale (4.500.000 m3) più un ampio parco. Il nuovo centro direzionale di San Benigno, a Genova, dotato di impianti telematici ad alta tecnologia, ospita uno dei poli del sistema dei World Trade Centers. Alcune di queste importanti iniziative hanno promosso lo sviluppo di interessanti concezioni progettuali attraverso concorsi e confronti tra progettisti di grande risonanza internazionale: Torino (Lingotto), Milano (Bicocca) e Firenze (Fiat).
Nonostante la stagnazione demografica e nonostante il gran numero di vani costruiti recentemente in Italia, la domanda di abitazioni rispondenti alle esigenze dell'utenza, in termini di localizzazione, tipo e prezzo, non è esaurita. Nei recenti quartieri di edilizia pubblica (per es. nella periferia di Napoli) si continuano a costruire i colossali falansteri che all'estero sono generalmente rifiutati, e non di rado demoliti. Tra le operazioni di recupero domina, per dimensione, quella della salvaguardia di Venezia e della sua Laguna, tuttora incompiuta, finanziata con leggi speciali (171/1973; 798/1984). Spicca per originalità il recupero del centro storico di Perugia e della sottostante sotterranea città medievale incapsulata entro la rocca Paolina.
L'urbanistica nei paesi dell'Europa centro-orientale. - Già qualche anno prima del crollo dei regimi comunisti (1989) si registrano nei paesi dell'Europa centro-orientale i segni precursori di una significativa evoluzione. In Unione Sovietica, per es., la perestrojka comporta uno snellimento delle paralizzanti procedure gerarchiche della pianificazione e un principio di decentramento nelle decisioni. Si comincia ad accettare e a valorizzare il ruolo essenziale delle metropoli, senza peraltro rinunciare al tentativo di limitarne la crescita. Mosca si dota di nuovi centri d'affari a orientamento internazionale. D'altra parte ci si propone di dirottare l'immigrazione (50.000 persone all'anno) attraverso la costruzione di nuove città satelliti nell'area della capitale, più tre nuove città capaci di accogliere circa un milione di abitanti ciascuna, situate a 100÷120 km di distanza. Cresce la sensibilità per la conservazione dei quartieri storici. Sotto la spinta di un vasto movimento di opinione è risparmiato dalla demolizione, restaurato e riservato ai pedoni il caratteristico quartiere moscovita dell'Arbat, o meglio ciò che ne rimane dopo il fendente modernistico del gigantesco Viale Kalinin.
Dopo il crollo dei regimi comunisti lo sviluppo urbanistico nelle città dell'Europa centrale e orientale conosce un periodo di serie difficoltà: grave recessione economica, incertezze istituzionali e organizzative, debolezza delle amministrazioni locali, mancanza di chiarezza nel regime proprietario degli immobili e nella validità dei piani regolatori (il piano di Mosca, del 1971, era in corso di revisione al momento della caduta del regime sovietico). Tra i problemi più gravi ereditati dal passato, e da affrontare in queste ardue condizioni, sono lo sterminato bisogno di abitazioni (causa principale: il blocco degli affitti, fermi, per es., in Unione Sovietica, agli anni Trenta) e lo stato deplorevole dell'ambiente urbano (in oltre 100 città sovietiche, secondo le fonti ufficiali, la qualità dell'aria è al di sotto delle soglie della tollerabilità; nel 1992 il 37,5% dell'acqua potabile in Cecoslovacchia, secondo l'agenzia statale responsabile, è al di sotto della norma sanitaria).
In generale, i nuovi orientamenti della politica urbanistica nei paesi dell'Europa centro-orientale consistono nell'attribuire potere, autonomia e risorse alle rinnovate amministrazioni locali, nell'attirare investimenti immobiliari dall'estero (senza compromettere però la conservazione del retaggio architettonico), nel privatizzare gradualmente il parco abitativo (ma non necessariamente i terreni fabbricabili), nell'aumentare il livello dei fitti fino a coprire almeno l'ammortamento e la manutenzione degli immobili. Due dei motivi ricorrenti dell'urbanistica staliniana sono più o meno abbandonati: la creazione di nuove città attorno alle metropoli, e la realizzazione di superblocchi di appartamenti. Si tende invece a dar risposta alla domanda di case individuali, specie nelle periferie.
In molti casi i piani regolatori sono sopravvissuti alla transizione politica, salvo necessari aggiustamenti, come per es. a Varsavia. Nella capitale polacca, fuori dal centro storico, oggetto di una celebrata ricostruzione integrale, lo sviluppo futuro appare facilitato dalla disponibilità di vasti spazi, residuo delle distruzioni belliche. L'amministrazione è orientata a istituire una specie di free enterprise zone. A San Pietroburgo, invece, il piano del 1986 è stato abbandonato, ed è stato chiesto a quattro organizzazioni tecniche (pubbliche) esistenti in città di proporre ciascuna uno schema; da questa esercitazione in qualche modo dovrà emergere un nuovo piano. Anche a San Pietroburgo è in gestazione una free enterprise zone, per scongiurare l'invasione del centro storico da parte di blocchi di uffici moderni. In Ungheria si attua su vasta scala la privatizzazione degli alloggi sociali. La città di Budapest si sviluppa per densificazione del centro storico (ove vengono evacuati e messi a disposizione del mercato numerosi palazzi di enti di stato). Sporadici uffici stanno sorgendo sulle colline di Buda, mentre si espandono i sobborghi e funge da polo d'attrazione l'area per l'Expo 96. A Praga, il cui centro storico sussiste anche se è disastrosamente degradato, sono state realizzate importanti operazioni urbanistiche, quali il centro del quartiere di Pankrac, l'accesso al ponte Nuselsky o il settore di Tesnov. Nell'immediata periferia è stata recentemente completata la costruzione di abitazioni per 120.000 abitanti. Si prevede l'abbandono del blocco degli affitti. Le competenze in merito di pianificazione urbanistica sono abbastanza chiaramente distribuite. Esiste un piano regolatore valido, ed è allo studio un nuovo piano. In Romania il crollo del regime dittatoriale ha interrotto lo svolgimento del cosiddetto programma di modernizzazione, avviato verso la metà degli anni Ottanta e che prevedeva l'eliminazione di 13.000 villaggi rurali, i cui abitanti erano destinati a essere rialloggiati in nuovi villaggi agro-industriali, nonché la demolizione e la ricostruzione di importanti quartieri in 39 città e nella stessa Bucarest. L'operazione, intesa a minare le radici culturali dei gruppi etnici minoritari, ha purtroppo distrutto importanti testimonianze urbanistiche e architettoniche del passato.
Dinamismo economico e strategie urbane nell'area del Pacifico e nell'Asia orientale. - In termini di progresso socio-economico, il Giappone gode di una posizione di largo anticipo rispetto ai paesi cosiddetti di nuova industrializzazione (NIC, Newly Industrialized Countries). Le metropoli giapponesi hanno raggiunto l'apice dello sviluppo post-industriale senza attraversare la fase traumatica del declino urbano, sofferta dall'Occidente. La popolazione nell'area di Tokyo è in continuo aumento. Durante gli ultimi quindici anni, l'incessante domanda di spazi per uffici nei quartieri centrali ha fatto salire i prezzi dei terreni a ritmi vertiginosi (anche del 50% all'anno). Solo recentemente (1992) si è verificato un vistoso calo, causato soprattutto dall'eccessiva esposizione delle banche; ma i prezzi a Tokyo restano a livelli più che doppi di quelli di New York. La politica urbana condotta dalle amministrazioni locali e fortemente sostenuta dal governo centrale tende a rafforzare il primato mondiale delle metropoli giapponesi, attraverso grandi progetti realizzati su terreni in gran parte ricavati dal mare e destinati all'insediamento di attività finanziarie, all'informatica, alle telecomunicazioni. Nella baia di Tokyo, su terreno artificiale, è in corso la realizzazione di un centro direzionale comprendente teleporto, edifici intelligenti, complessi congressuali, commerciali e di servizio, e collegato al centro attuale (6 km più a nord) con un nuovo ponte e nuove linee di ferrovia metropolitana. Operazioni analoghe sono in corso nella baia di Yokohama (Minato Mirai) e in quella di Osaka (isole artificiali di Hokko e Nanko) e Kobe (Port Island e Rokko Island). La creazione di cittadelle della scienza, di cui Tsukuba costituisce la capostipite, è una componente importante della strategia urbana giapponese. Di eccezionale interesse è l'iniziativa giapponese per la creazione di una nuova città (Multi Function Polis) in Australia, non lontano da Adelaide.
Nei paesi asiatici di nuova industrializzazione (Singapore, Hong Kong, Corea del Sud, Taiwan) le città principali sono rapidamente giunte a occupare posizioni di punta nel nuovo contesto economico globale. Alta tecnologia, finanza internazionale, turismo costituiscono la base economica in continua espansione di Singapore e Hong Kong. Il rapido aumento di ricchezza (individuale, aziendale e pubblica), accompagnato peraltro da enormi disparità tra strati sociali, ha consentito la realizzazione di grandi progetti, caratterizzati da architetture ultramoderne e da infrastrutture tecnologicamente avanzatissime, sia per le telecomunicazioni (teleporti) sia nei trasporti (metropolitane, regolazione automatizzata del traffico automobilistico, come il road pricing a Singapore, tunnel sottomarini, come a Hong Kong).
L'espansione dell'edilizia moderna avviene a ridosso e non di rado al posto dei quartieri residenziali tradizionali. Nel caso di Singapore, la Housing and Development Board ha rialloggiato il 70% della popolazione in moderni quartieri di edilizia pubblica, caratterizzati da tipologie multipiano ad alta densità, tipologie che incontrano peraltro il favore degli utenti, eliminando quasi completamente il problema degli slums e degli squatters. Il recente piano urbanistico di Singapore conserva (a ridosso dei grattacieli) la folcloristica China Town, nota meta di turisti. L'espansione demografica è stata in parte dirottata in nuove città: sei già costruite, sei in via di completamento.
Anche Hong Kong vanta notevoli realizzazioni urbanistiche, tra cui il più rapido e ambizioso programma di città nuove di tutta l'Asia. Tuttavia oltre 750.000 persone vivono ancora nei tuguri (squatter settlements). A Sŏul, il cui ritmo di crescita è elevatissimo, e solo in parte assorbito da nuove città, grandiosi programmi urbanistici sono stati realizzati in vista delle Olimpiadi (1988), nonostante l'opposizione accanita dei residenti dei vecchi quartieri in demolizione. Taipei vive un periodo di rapida espansione demografica ed economica nel più scandaloso caos urbanistico, infrastrutturale e amministrativo.
Il processo di urbanizzazione nel Terzo Mondo. - Nei paesi del Terzo Mondo l'urbanizzazione procede a un ritmo esplosivo. Solo quarant'anni fa meno di 300 milioni di persone viveva in città, o nell'immediata periferia di una città. Attualmente si valuta che la popolazione urbana raggiunga 1400 milioni (il 34% della popolazione complessiva) e si prevede che salga a 2 miliardi per la fine del secolo, e a 4 miliardi per il 2025. Sempre a fine secolo, ben 17 delle 21 città sopra i dieci milioni di abitanti saranno nel Terzo Mondo. Le città più grandi del mondo saranno in America Latina e in Asia (São Paulo, Città di Messico, Bombay, Pechino), ma quelle che crescono più in fretta sono in Africa. Oggi si riconosce che il processo di rapida urbanizzazione (con tassi fino al 4 o al 5% all'anno) non solo è ineluttabile, ma costituisce anche una premessa indispensabile allo sviluppo socioeconomico dei paesi del Terzo Mondo. Tuttavia le condizioni in cui esso si svolge rimangono estremamente problematiche (v. App. IV, iii, p. 743). Crescono senza sosta i già immensi insediamenti marginali, dove una popolazione miserabile (che in molte città è la grande maggioranza) alloggia in ricoveri precari o in tuguri (slums), carenti di infrastrutture, di acqua potabile, di servizi igienici e di reti fognarie, soggetti al rischio di frane e inondazioni, immersi nell'inquinamento. Dilagano le epidemie, prosperano il vizio, la droga e la prostituzione, adulta e infantile. Quasi dovunque questi fenomeni insediativi proliferano al di fuori di qualsiasi legge o regola, per non parlare di piani urbanistici. Ciò non impedisce l'affermarsi, in molte circostanze, di un diffuso sistema di economia informale, composta di una miriade di attività individuali o familiari, per lo più abusive, nonché l'emergere di forme di solidarietà nella povertà, per cui anche i più degradati quartieri urbani sono preferibili alla disperata miseria rurale.
Nella maggior parte dei paesi sottosviluppati, i ben noti problemi che la formulazione di politiche urbanistiche comporta e i ben noti ostacoli che la loro realizzazione incontra (incertezza del regime dei suoli, speculazione fondiaria; v. App. IV, iii, p. 745) si sono ulteriormente aggravati, nel corso degli ultimi due decenni, per effetto dell'elevato ritmo dell'urbanizzazione e delle ristrettezze economiche, soprattutto nei paesi poveri dell'Africa e di parte dell'Asia. In ben pochi casi le politiche tradizionali, tipicamente orientate a ridurre la predominanza delle massime città, a promuovere la crescita (e in certi casi la creazione) di città di grandezza intermedia e a ridurre il flusso migratorio dalle campagne alle città, hanno ottenuto i risultati sperati.
Non vanno ignorati gli obiettivi parzialmente raggiunti dalle politiche di creazione di villaggi rurali in molti paesi: Algeria, Mozambico, Cuba, Nicaragua, Etiopia, Angola; e anche in India, Tanzania, Tunisia, Malaysia, Thailandia e Kenya. Un programma per lo sviluppo delle ''cento città'' è stato lanciato di recente in Messico, per controbilanciare l'estrema polarizzazione della capitale. I programmi di creazione di nuove città, che continuano a essere una componente importante delle politiche urbanistiche in Asia, hanno avuto un certo successo in Cina, Indonesia, Thailandia, Malaysia. Vari paesi hanno addirittura realizzato o programmato la costruzione di una nuova capitale: dopo il Brasile (Brasilia), il Pañjab Orientale (Candigaṛh) e il Pakistan (Islamabad), è stata la volta di Mauritania (Nouakchott), Botswana (Gaberone), Malawi (Lilongwe), Belize (Belmopan), Tanzania (Dodoma), Nigeria (Abuja), Liberia (il nome della nuova capitale non è definito), Costa d'Avorio (Yamoussoukro) e Argentina (la località scelta è quella delle città di Viedma e Carmen de Patagones; il nome resta da definire). A questi programmi si possono assimilare quelli per lo spostamento di Bombay oltre la laguna, e per la seconda capitale della Malaysia (Pahang/Shah Alam).
Spesso, però, le politiche dichiarate di decentramento sono state neutralizzate da politiche (esplicite o implicite) di senso contrario. Massicci investimenti pubblici sono stati canalizzati verso le massime città, soprattutto le capitali, nell'intento di migliorarne l'immagine; al tempo stesso la pressione esercitata dalle enormi masse metropolitane e la forza politica delle élites hanno indotto le autorità a fornire servizi urbani a tariffe eccessivamente ridotte, e a calmierare i prezzi delle derrate alimentari, con il risultato di fatto di alimentare l'urbanizzazione. Tale essendo la situazione, i programmi e piani urbanistici incidono (quando incidono) solo su una limitata parte dell'insediamento: in genere i distretti centrali degli affari e i settori abitati dalla popolazione ricca, che di norma è un'esigua minoranza. Vi si aggiungono, in alcune città, i quartieri di edilizia residenziale pubblica, ma anche questi non sono finanziariamente accessibili che a una piccola frazione della popolazione, a causa del comprensibile ma irrealistico proposito di eguagliare gli standard costruttivi occidentali.
In un crescente numero di paesi è oggi apertamente riconosciuta l'inanità di arrestare con mezzi coercitivi o di controllare con strumenti regolamentari la crescita urbana spontanea. Anzi, si fa strada la convinzione che l'urbanizzazione, anche se avviene in forme difficilmente accettabili, è una componente indispensabile dello sviluppo del paese, e che le attività economiche della grande città, anche se esercitate fuori dal settore formale e dalla legalità, costituiscono un contributo importante all'economia nazionale. Di fronte all'evidenza dei fallimenti dell'approccio tradizionale, in certi paesi del Terzo Mondo le politiche urbanistiche sono state recentemente riformulate in termini di maggiore realismo. Si è preso atto, per es., che in molti casi sono di fatto disponibili vaste aree di proprietà pubblica, che possono essere dotate di un minimo di attrezzatura, e quindi messe a disposizione dei meno abbienti, concedendo loro l'autorizzazione e lasciando loro il compito di costruire. Tipico il caso del Cairo: lo sviluppo delle città nuove create dopo il 1973 non ha impedito la lottizzazione e la speculazione abusiva per centinaia di ettari su terre fertili, immediatamente a nord e a ovest della metropoli. Nel 1982 le autorità hanno dunque deciso di attrezzare e di offrire a prezzo accessibile diverse centinaia di ettari di terreno di proprietà dello stato, siti in zone desertiche attigue alla città. A Bangkok, la messa a disposizione di terreni appartenenti a un ente pubblico (porto di Klong Toey) ha consentito l'accesso a un'abitazione a prezzo moderato a una larga parte della popolazione (ancorché non ai poverissimi).
Fino agli anni Settanta, una politica molto in voga (e sostenuta dalla Banca Mondiale) era quella dei sites-and-services, ossia quella della promozione della infrastrutturazione di base (strade, condotte d'acqua, elettricità, fognature) in terreni da mettere a disposizione, gratuitamente, dei baraccati presenti o futuri. Ma in molte città, dove le shanty towns sono ormai vastissime e le risorse pressoché nulle, persino questo tipo di politica risulta insufficiente e troppo costoso. Rimangono allora due vie possibili da intraprendere: l'una consiste nell'attaccare frontalmente l'abusivismo e demolire coattivamente i tuguri (come si è fatto fino al 1990 per es. a Rabat o a Fès); l'altra, opposta, consiste nell'accettare gli insediamenti spontanei, dove sono e come sono, e nell'incentivare l'opera di miglioramento che gli stessi occupanti possono svolgere. Il primo passo è qualche forma di legalizzazione dell'abusivismo: ad Abidjan, per es., l'amministrazione stabilizza gli occupanti abusivi indennizzando i titolari dei diritti fondiari tradizionali (anche se ufficialmente tali diritti non sono riconosciuti!). L'acquisizione del titolo di proprietà peraltro non è sempre sufficiente e nemmeno necessaria. Torna utile allora la fornitura di materiali edilizi a basso prezzo, la diffusione di informazioni tecniche di base, i finanziamenti diretti (se possibile), oppure i sussidi o i prestiti a tasso ridotto. Questo approccio non è evidentemente senza rischi: esso tende oggettivamente a incoraggiare l'insediamento abusivo, e a consolidare scelte localizzative pericolose: terreni paludosi (Giakarta, Bangkok, Rabat), franosi (favelas a São Paulo, 1989), soggetti a rischi di sismi (Armero, 1985) o di catastrofi industriali (Bhopal, 1984). Le organizzazioni per l'assistenza bilaterale e multilaterale allo sviluppo contribuiscono a un numero considerevole di iniziative locali di formazione e di consolidamento di insediamenti spontanei nei paesi sottosviluppati. I governi degli stessi paesi incontrano comprensibili difficoltà ad appoggiare simili iniziative, in cui ravvedono una sfida alla legalità, all'autorità costituita e al processo di modernizzazione rappresentato dall'urbanistica ufficiale.
In Cina, la singolare esperienza della rivoluzione culturale s'interrompe di netto con l'avvento della riforma rurale (1974), che riconosce per la prima volta alla città il ruolo di fulcro economico del prossimo stadio di sviluppo. La (parziale) liberalizzazione dell'economia e la ricerca dell'efficienza innescano un inevitabile processo di esodo dalle campagne, che sfocia in una sfrenata corsa alla città durante la crisi rurale della seconda metà degli anni Ottanta. Le politiche ufficiali recepiscono gli effetti del nuovo corso in maniera incompleta e contraddittoria; continuano a valere, ufficialmente, i principi sanciti nel 1980: controllare la crescita delle grandi città, sviluppare razionalmente le medie e incentivare le piccole. Così il piano regolatore vigente di Pechino, adottato nel 1983 dal Consiglio d'affari di stato, prosegue nella strategia (di derivazione sovietica) di creazione di nuovi poli urbani, 12 dei quali già esistono in un raggio tra i 20 e i 70 km dal centro della capitale. Ciò non evita il proliferare delle bidonvilles (Henan, Xinjiang, Zhejiang). A Shanghai, invece, si prevede (piano regolatore del 1991) un gigantesco sviluppo urbano ultramoderno nella zona di Pudong, fronteggiante l'attuale distretto degli affari (Bund) e il centro storico: il che comporta l'attraversamento del fiume Huang Pu mediante una serie di tunnel e di ponti spettacolari, in gran parte già realizzati. Per sperimentare l'innovazione, in vari settori il governo designa alcune città-pilota: Qingdao (contratti di lavoro); Chongqing (industria), Shenyang (riforma finanziaria); Guangzhou (commercio internazionale). Notevole, per la spregiudicatezza dell'iniziativa e della realizzazione la designazione delle quattro città franche (special economic zones): Shenzhen, la più importante, alle spalle di Hong Kong, città cresciuta rapidissimamente (500.000 abitanti nel 1990, forse un milione nel 2000) sulla base di uno schema urbanistico lineare policentrico; Zuhai, alle spalle di Macao; Shantou nella provincia di Guangdong e Xiamen nel Fujian. Le quattro città sono destinate a costituire il ponte tecnologico e commerciale con il resto del mondo, e a dimostrare la capacità del governo cinese di gestire due regimi politico-economici completamente diversi all'interno di uno stesso grande paese.
Tecnopoli. - Scienziati ed esperti di alta tecnologia, in particolare quelli che concepiscono e realizzano sistemi di manipolazione e trasmissione a distanza delle informazioni a costi e tempi pressoché nulli, esigono, per produrre efficacemente, di lavorare entro un ambito geografico ristretto di contatti reciproci, dove domina la comunicazione interpersonale tradizionale. Per soddisfare questa esigenza sono nati i parchi tecnologici (v. in questa Appendice, per gli aspetti generali), detti anche tecnopoli o città scientifiche. Parecchie tecnopoli sono sorte senza un piano urbanistico, e alcune senza nemmeno un progetto esplicito. Silicon Valley è la più famosa e la più importante; battezzata così nel 1971, è sorta spontaneamente, nella Santa Clara County, in California, favorita dalla vicinanza dell'università di Stanford, di altri centri di ricerca, da un ottimo sistema di infrastrutture e aeroporti e, non ultimo, da un buon clima. Essa primeggia tuttora come sede di ricerca e di sviluppo per le massime ditte mondiali di telematica.
La Route 128, che circonda Boston, costituisce l'asse di un'agglomerazione di aziende tecnologiche di punta, attratte dalle rinomate università del Massachusetts, dall'ottima rete di infrastrutture, dalla disponibilità di manodopera specializzata e dal paesaggio. In Canada sono sorte alcune città scientifiche d'iniziativa statale: lo Sheridan Park (vicino a Toronto) costruito su 135 ha acquistati dal governo dell'Ontario; il Discovery Park (presso Vancouver) realizzato dal governo della British Columbia. Kanata, a ovest di Ottawa, si fregia dell'appellativo di Silicon Valley del Nord: il suo principale vantaggio consiste nella vicinanza della capitale.
In Gran Bretagna l'M4 Corridor (regione lunga più di 100 km attraversata dall'autostrada di questo nome) è la sede di una galassia di aziende ad alta tecnologia, favorite dalla vicinanza di Londra, dell'aeroporto di Heathrow, di una buona rete di trasporti, e dei preesistenti centri di ricerche a Bristol, Harwell, Bracknell. L'università di Cambridge include un importante parco scientifico. Un'importante tecnopoli è stata realizzata a Kista, nella periferia di Stoccolma, per iniziativa congiunta dell'amministrazione comunale e delle imprese private (Ericsson). In Italia, l'iniziativa Tecnocity della Fondazione Agnelli non mira alla creazione di una nuova città (nel senso tradizionale) quanto piuttosto alla riorganizzazione, anche urbanistica, di un vasto territorio intorno a Torino. Bari, invece, ha realizzato una vera e propria tecnopoli, anche se di dimensioni ridotte (qualche centinaio di ricercatori). In Germania le sedi di ricerca e sviluppo dell'alta tecnologia sono spesso integrate nel tessuto urbano, così come le università. Si possono citare, tra le recenti realizzazioni, il Berliner Innovations Grundzentrum, il Technologie und Innovation Park a Berlino e il Technologiepark a Heidelberg.
In Francia, tre grandi tecnopoli dominano un gran numero di centri minori. La prima è la Cité scientifique-Paris Sud, compresa nello Schéma Directeur d'Aménagement et d'Urbanisme della regione parigina fin dagli anni Sessanta. Essa raggruppa 90 comuni, una superficie di 500 km2 e una popolazione di 1.200.000 abitanti. Dotata di una sua amministrazione, la Cité scientifique realizza al proprio interno parchi scientifici nei quali continuano a insediarsi aziende di alta tecnologia, attratte dai ben noti vantaggi politici, amministrativi, scientifici e infrastrutturali che tradizionalmente sono forniti dalla capitale. La seconda, la tecnopoli di Sophia-Antipolis è sorta, a pochi chilometri da Antibes nel 1972, su di un terreno di 2300 ha a ciò destinato dal Comité Interministériel d'Aménagement du Territoire. Oggi l'estensione è di 4000 ha. L'iniziativa ha avuto un notevole successo, anche se l'ambizione di realizzare un insieme urbanisticamente equilibrato (ricerca, residenze, servizi) non sembra del tutto raggiunta. La terza è la Zone pour l'Innovation et les Réalisations Scientifiques et Technologiques (ZIRST) di Grenoble. Anch'essa si colloca in base alle indicazioni dello Schéma Directeur d'Aménagement et d'Urbanisme (1968) su un territorio di 200 ha, a contatto con la città e con la sua importante università. La ZIRST conta oggi quasi 200 aziende e più di 4000 attivi.
In Giappone, il potente ministero dell'Industria e del commercio internazionale (MITI) ha varato nel 1984 il più sistematico e vasto di questi programmi, Technopolis, giovandosi delle esperienze in corso, soprattutto a Tsukuba. L'iniziativa di Tsukuba risale al 1963: oggi la città ospita circa il 40% degli istituti di ricerca nazionali. I programmi urbanistici per Tsukuba (fondati su di un piano urbanistico-architettonico di notevole interesse) prevedono una popolazione totale di 100.000 abitanti, lo sviluppo di nuove aree destinate a iniziative industriali e commerciali private, nonché nuovi collegamenti ferroviari (Tokyo centrale) e autostradali (aeroporto di Narita). Il programma Technopolis mira soprattutto a un riequilibrio delle prefetture periferiche (rispetto a Tokyo, Osaka e Nagoya). Esso comprende finora non meno di 20 nuove città, di regola satelliti, della dimensione intorno ai 50.000 abitanti. Nei paesi di nuova industrializzazione dell'Asia sud-orientale sono state create o si sono comunque sviluppate alcune tecnopoli, tra le quali la Taeduck Science City (Corea del Sud), il Hsinchu Science-based Industrial Park (Taiwan) e la città dell'elettronica a Bangalore (India).
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Diritto. - Il concetto di u. ha subito nel tempo un'evoluzione di contenuto, superando il significato originario oltre che etimologico (urbs) di disciplina de "l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere del territorio" (art. 1 l. 1150/42), per comprendervi "gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente" (art. 80 d.P.R. 616/77) e delle "zone a carattere storico, ambientale e paesistico" (art. 1 n. 5 l. 1187/68), oltre a recepire i contenuti delle più specifiche discipline predisposte da altre amministrazioni competenti per la tutela di valori come i beni d'interesse artistico, storico e archeologico (l. 1089/39), le bellezze naturali (l. 1497/39), i valori paesistici e ambientali (l. 431/85), l'ambiente in senso ecologico (l. 349/86), la difesa del suolo (l. 183/89), il ciclo delle acque (l. 319/76 e seguenti).
I cinquant'anni trascorsi dalla legge urbanistica fondamentale 1150/42 hanno visto inoltre una profonda revisione, ma anche una positiva maturazione, delle idee che erano alla base del concetto di ''piano'' e delle sue valenze applicative, in materia di u. e di economia. Cause prime di tale revisione sono state l'eclissi delle idee di rigido dirigismo cui gli urbanisti si proponevano di dare applicazione per indirizzare la struttura stessa della società, e, sul piano della realtà effettuale, in particolare in Italia, un colpevole distacco dei comportamenti dal rispetto delle regole. Tale distacco, spesso interessato, ma altrettanto spesso giustificato da deficienze delle procedure di pianificazione e di controllo e della loro applicazione, è stato causa di vistosi fenomeni di edificazione incontrollata (abusivismo edilizio e conseguenti ''condoni''), e motivato anche da presupposti politici e culturali: strutture politiche e amministrative inadeguate e ancora la carenza di una cultura diffusa atta a riconoscere e, quindi, apprezzare i valori dell'ambiente, nonostante i crescenti impegni rivolti alla loro diffusione. In una prospettiva di superamento degli anzidetti presupposti, il momento attuale sembra adatto, scontato un sereno bilancio degli obiettivi falliti, ad avviare un riordino e una modifica della normativa, previa attenta individuazione delle cause che hanno determinato l'attuale crisi del sistema.
Dall'attività legislativa si attende la revisione della legge urbanistica fondamentale 1150/42, come quadro normativo unitario atto ad assicurare l'indispensabile coordinamento dei programmi, nell'unità dei metodi e delle procedure, ancor più necessario per il passaggio alle regioni, con d.P.R. 8/72 e con il d.P.R. 616/77, della competenza in materia. Con una legge-quadro nazionale organica, chiara e adeguata alla nuova situazione, sarà più agevole per le regioni, la cui produzione legislativa finora non è stata sempre congrua e tempestiva, l'emanazione di una normativa più coerente e appropriata.
La pianificazione di livello ordinativo, a dimensione comprensoriale (Piani Territoriali di Coordinamento, PTC, ex art. 5 della l. 1150/42), di competenza trasferita alle regioni per il d.P.R. 8/72, che deve fornire, in raccordo con gli indirizzi economico-sociali, il quadro dei presupposti della pianificazione di base (Piano regolatore generale del comune), anche nelle regioni più attive in materia ha incontrato gravi difficoltà a superare il livello di semplice studio o proposta. Il primo problema, la delimitazione dei comprensori (quindi del confine operativo), è stato risolto, in linea di principio, con la l. 142/90, attribuendo la competenza della redazione dei PTC alle province, enti territoriali già definiti (art. 15). Ma la formazione dei piani ancora non decolla, in attesa di uno strumento di coordinamento di livello territoriale superiore (quadro di riferimento regionale). La stessa l. 142/90 (artt. 17-20) istituisce province metropolitane, per le aree dei maggiori comuni italiani e dei comuni i cui insediamenti abbiano con questi rapporti di stretta integrazione: nell'ambito dell'area metropolitana la provincia si configura come autorità metropolitana e assume la denominazione di ''città metropolitana''. Le città metropolitane, oltre alle funzioni di competenza che sono proprie delle normali province, hanno anche il potere di procedere alla pianificazione territoriale dell'area metropolitana, risolvendo in tal modo, quando saranno operative, un problema altrimenti non risolubile a livello degli attuali comuni, vista l'impraticabilità della procedura di formazione del Piano regolatore generale intercomunale (l. 1150/42 art. 12).
L'evoluzione del quadro normativo giuridico dell'u. può essere utilmente illustrata articolandola, in sequenza, per la disciplina dei diversi strumenti urbanistici operativi, a iniziare dallo strumento pianificatorio di base, il Piano regolatore generale comunale.
Strumenti operativi di base. - Il Piano regolatore generale (l. 1150/42, capo iii, sez. i), che si estende all'intero territorio comunale, contiene un complesso di disposizioni che conferisce alla proprietà privata delle aree "conformazione e funzionalizzazione a fini sociali": esso ha il compito principale di procedere alla zonizzazione (zoning) del territorio, individuando le diverse zone (zonizzazione funzionale) per destinazione (residenziale, direzionale, per servizi collettivi, agricola, industriale o produttiva, ecc.) e dettando per le diverse aree (zonizzazione architettonica) la disciplina edilizia (indici di fabbricabilità − in funzione dell'intensità d'insediamento − e altre norme di edificazione, destinazione d'uso e di recupero edilizio). Il PRG individua inoltre il complesso delle attrezzature generali (a scala cittadina) e locali (a livello di quartiere), le aree per parcheggi e verde pubblico, e le sedi della viabilità primaria, e impone vincoli nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico. Il Piano, adottato dal comune, è successivamente approvato dalla regione (d.P.R. 8/72) che può introdurvi anche modifiche d'ufficio per la tutela di interessi sovracomunali. La l. 142/90 (art. 15) ha in materia assegnato alcuni compiti anche alla provincia. Il procedimento di approvazione del PRG è quindi articolato e complesso, e richiede di norma tempi incompatibili con la salvaguardia delle condizioni iniziali del territorio da iniziative edificatorie compromettenti. A questo grave inconveniente è stato posto rimedio ponendo mano alle cosiddette ''misure di salvaguardia'' consistenti in provvedimenti sospensori, per la durata massima di 5 anni, delle domande per interventi edilizi in contrasto con le previsioni del Piano adottato (l. 1902/52, 615/59 e 517/66).
La l. 765/67 (cosiddetta ''legge ponte'') ha prescritto che in tutti i comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, devono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (standard urbanistici), stabilendone (D.M. 1444/68) misure minime inderogabili. La formazione del PRG è prevista dalla l. 1150/42 come obbligatoria solo per i comuni compresi in appositi elenchi (competenza del ministero dei Lavori Pubblici, trasferita alle regioni con d.P.R. 8/72); ma attualmente molte leggi regionali hanno esteso l'obbligo a tutti i comuni. La stessa l. 765/67 prevede che, in caso d'inerzia dei comuni, sia nominato un commissario ad acta per la designazione dei progettisti, l'adozione del piano e i successivi adempimenti. La pianificazione a livello operativo di base (Piano regolatore generale, strumento fondamentale della pianificazione urbanistica) si è talora rivelata inadeguata e superata per una serie di motivi (eccessiva lunghezza del procedimento di approvazione del PRG, mancata sua tempestiva attuazione mediante gli strumenti urbanistici esecutivi, talora scelte di direttrici di espansione poco felici), con la conseguenza di essere ormai di impaccio al governo e allo sviluppo delle maggiori città, per la inattuabilità degli originari presupposti.
In casi del genere occorrerebbe procedere tempestivamente all'approvazione di un nuovo PRG o alla sua radicale revisione, anziché a mezzo di varianti con carattere di episodicità (varianti francobollo) o di natura settoriale (varianti per edilizia economico-popolare, ecc.) o di realizzazione di opere pubbliche in difformità dal PRG (art. 81 d.P.R. 616/77 e successive modifiche). Strumenti tutti che per il loro carattere episodico e parziale non sono adeguati ad un ordinato sviluppo del territorio.
Il Programma di fabbricazione (l. 1150/42, art. 34), altro strumento operativo o di base, in origine solo norma dell'attività edilizia, obbligatorio per i comuni non dotati di PRG, non esteso a tutto il territorio comunale, non poneva vincoli su aree da destinare a servizi e spazi pubblici. Le l. 765/67, 517/66 e 756/73 hanno assimilato i due strumenti, ai fini della imposizione e della proroga di tali vincoli, attribuendo anche al Programma di fabbricazione natura di regolamentazione urbanistica (Corte cost. 23/78).
Strumenti operativi attuativi del Piano regolatore. - Il Piano particolareggiato di esecuzione è il più importante, almeno teoricamente, degli strumenti urbanistici attuativi del PRG; esso deve indicare in dettaglio tutte le disposizioni a edificare che il PRG contiene solo per linee generali ed essenziali: limiti dei lotti edificabili, superfici destinate a uso pubblico, norme di allineamento, altezza e distacchi (in alcuni casi fino alla definizione della stessa volumetria degli edifici: piano planivolumetrico), viabilità secondaria, ecc. Poiché questo strumento è d'iniziativa dell'amministrazione, a motivo delle carenze di strutture tecnico-amministrative e di mezzi finanziari, vi si ricorre sempre più raramente, anche nei casi in cui sarebbe indispensabile, come nei centri storici delle città.
Agli effetti negativi di questa carenza, il legislatore (l. 765/67, art. 8) ha posto in parte rimedio attribuendo al Piano di lottizzazione convenzionato di iniziativa privata una funzione attuativa equipollente e uguale contenuto normativo. Il proprietario s'impegna per convenzione alla cessione gratuita delle aree per le opere di urbanizzazione primaria e di parte dell'urbanizzazione secondaria, e a sostenere gli oneri della realizzazione di dette opere. Con questa norma si è stroncato il fenomeno delle lottizzazioni selvagge (realizzazione di sole costruzioni in totale carenza delle necessarie infrastrutture anche le più essenziali). Con la successiva l. 10/77 è stato generalizzato per tutti gli interventi edilizi (a prescindere dalla necessità e dalla preesistenza o meno di strumenti urbanistici attuativi) l'obbligo al pagamento di un contributo, la cui quota di urbanizzazione sconta le spese sostenute in sede di lottizzazione convenzionata.
Oltre ai due strumenti urbanistici attuativi di natura generale, altri hanno carattere settoriale, ma con funzione attuativa equipollente e uguale contenuto normativo: in primo luogo, il Piano di zona per l'Edilizia Economica e Popolare (PEEP, l. 167/62 e successive modifiche), per la realizzazione di alloggi destinati alle classi sociali meno abbienti, che prevede l'esproprio di tutte le aree in esso incluse. Anche il Piano per gli Insediamenti Produttivi (PIP, l. 865/71, art. 27) concernente aree da destinare, d'iniziativa pubblica, a insediamenti di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico, prevede l'esproprio di tutte le aree in esso incluse. La l. 457/78 (art. 27 e s.) ha previsto, oltre all'individuazione delle zone di recupero, anche il Piano di recupero del patrimonio edilizio e urbanistico esistente in condizioni di degrado. La l. 47/85 (nota come legge sul condono edilizio) ha previsto all'art. 29 le varianti agli strumenti urbanistici per il recupero urbanistico degli insediamenti abusivi. La l. 179/92, art. 16, ha introdotto il Programma integrato di intervento, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di funzioni, dall'integrazione di diverse tipologie di interventi in dimensioni tali da incidere sulla riorganizzazione urbana e dal possibile concorso di più risorse e operatori, pubblici e privati. La Corte costituzionale (sent. 393/92) ha dichiarato però costituzionalmente illegittimi gli importanti commi istitutivi di procedure agevolate di approvazione. Di natura e finalità analoghe a quelle del Programma integrato di intervento è il Programma di recupero urbano (l. 493/93, art. 11), destinato a interventi coordinati di risorse pubbliche e private per il recupero edilizio e opere di urbanizzazione.
La l. 10/77, art. 13, ha introdotto, oltre agli strumenti urbanistici ordinativi e operativi concernenti la disciplina del territorio, in termini di ''spazio'', un ulteriore strumento di disciplina in termini di ''tempo'': il Programma pluriennale di attuazione (PPA) del Piano regolatore generale, che determina le zone in cui l'edificazione è obbligatoria in un periodo di tempo non inferiore a 3 e non superiore a 5 anni, a pena, in caso d'inerzia, di esproprio dell'area, mentre nelle altre zone, pur a destinazione edificatoria in base al PRG ma non incluse nel PPA l'edificazione è di norma vietata, salvo che per le aree di completamento già urbanizzate (art. 6 l. 94/82). Questo strumento ha prodotto conseguenze più negative che positive, per una serie di motivi, tra i quali: il ritardo nelle procedure di adozione e di approvazione; l'inclusione, in taluni casi, di aree edificabili in misura insufficiente alla soddisfazione delle esigenze del mercato edilizio, con conseguente lievitazione del prezzo delle aree rese disponibili per l'edificazione, che si riflette sul costo finale delle case; l'incapacità, per mancanza di volontà politica e/o di mezzi finanziari, di espropriare le aree incluse nel PPA ma non edificate dai proprietari nei termini prescritti; l'enorme potere discrezionale dell'amministrazione comunale nel decidere quali aree includere nel PPA e quali tenere fuori, potere non soggetto ad alcun criterio legislativamente predeterminato (come esigerebbe il principio della riserva − relativa − di legge, prescritto dall'art. 42 della Costituzione a tutela del diritto di proprietà) che, unito a quello delle scelte di Piano regolatore, ha contribuito in modo rilevante a fenomeni di corruzione/concussione in questo campo. Da molte parti si propone l'abolizione di quest'istituto, e in tal senso sembra muoversi il legislatore (D.L. 649/94 art. 8 e D.L. 310/95 art. 8). Comunque, anche in caso di tale abolizione, l'amministrazione comunale non perderebbe il potere d'influire sull'attuazione e sulla gestione del PRG, indirizzando lo sviluppo edilizio con programmi pluriennali di opere pubbliche e grandi infrastrutture generali da realizzare entro un dato e ben preciso periodo (art. 14 1° comma l. 109/94: presupposto di ammissibilità di piani di lottizzazione convenzionata d'iniziativa privata).
Snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie. - Un settore che ha positivamente impegnato il legislatore in diverse occasioni, e tuttora si deve auspicare raggiunga più decisivi traguardi, è costituito dallo snellimento delle procedure urbanistiche ed edilizie. Da un lato occorre ridurre le procedure di redazione e approvazione degli strumenti urbanistici di tutti i livelli in tempi molto inferiori rispetto agli attuali (che hanno determinato la mancanza di aree agibili in misura congrua per le esigenze del mercato), e dall'altro semplificare per ridurre in tempi ragionevoli il rilascio della concessione edilizia dopo la presentazione del progetto.
La l. 47/85 (artt. 24 e 25) dispone che non sono soggetti ad approvazione regionale gli strumenti attuativi di strumenti urbanistici generali e non sono soggette alla preventiva autorizzazione regionale le varianti dei PRG. Gli stessi articoli dispongono che le regioni emanino norme per garantire la snellezza dei procedimenti e prevedere procedure semplificate per l'approvazione di strumenti attuativi in variante dei Piani regolatori e per le varianti di adeguamento alle norme di standard urbanistici dei piani stessi. Alcune regioni, in quest'ottica, prevedono tempi brevi per le determinazioni in ordine alle approvazioni regionali, anche con l'istituto del silenzio-assenso.
Per quanto attiene l'aspetto edilizio il legislatore sembrava orientato verso procedure di formazione anche tacita dell'atto di concessione edilizia entro termini ragionevolmente congrui (cosiddetto silenzio-assenso) responsabilizzando, nel contempo, maggiormente il progettista ad attestare la regolarità del suo prodotto (artt. 7 e 8 l. 94/82). E la Corte costituzionale con sentenza 1033/88 ha ritenuto l'istituto del silenzio-assenso giustificato sia "dalla lentezza delle amministrazioni comunali nel rilascio degli atti di assentimento... sia dalla concorrente macchinosità delle procedure legate all'istituto del silenzio-rigetto" e lo ha considerato rientrante tra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, in quanto concernente "un settore di vitale importanza, sia per la soddisfazione di elementari e fondamentali bisogni dei cittadini, sia per l'attività produttiva e lavorativa del sistema economico del nostro Paese". È evidente che l'istituto del silenzio-assenso postula la formulazione di una normativa edilizia chiara e di interpretazione univoca (la certezza del diritto è un'esigenza primaria per poter operare legalmente e rapidamente). Peraltro più recentemente il legislatore ha mostrato di cambiare indirizzo optando per il meccanismo opposto del cosiddetto silenzio-rifiuto: in cui nel caso il comune non rilasci entro un determinato termine la concessione edilizia, questa − previa diffida dell'interessato − si intende rifiutata (art. 4 l. 493/93).
Per la definizione e l'attuazione di opere pubbliche, programmi (anche di recupero, per la l. 493/93) e interventi che prevedono competenze coordinate di comuni, province, regioni e altre amministrazioni, l'art. 27 della l. 142/90 prevede la conclusione di un accordo di programma tra tutti i soggetti interessati, al cui fine viene convocata una conferenza dei servizi (art. 14 l. 241/90) con lo scopo di pervenire in quella sede a una determinazione collegiale e unitaria con evidente enorme abbreviazione dei tempi altrimenti necessari in presenza di provvedimenti da assumere separatamente da parte di ciascuna amministrazione competente. L'accordo di programma può comportare anche variazioni per quanto riguarda gli strumenti urbanistici, nel qual caso l'adesione del sindaco deve essere ratificata dal consiglio comunale (art. 27, 5° comma l. 142/90).
Il progredire delle regole e dei processi che il pianificatore deve seguire per governare le trasformazioni dell'ambiente per l'uomo è essenziale indicatore del reale progresso della società. Gli indirizzi evolutivi della normativa urbanistica hanno riferimento nei valori di fondo della convivenza civile e nelle esperienze compiute negli ultimi anni. La bontà dei piani urbanistici, e quindi in definitiva la razionalità e la confortevole vivibilità dell'ambiente umano, dipende sia da scelte operate ''a monte'', e in sede di programmazione economica e − per la pianificazione territoriale − in sede di atti di indirizzo e di coordinamento da parte dello stato e di strumenti territoriali di area vasta, sia dalla preparazione e dalla valentia dei tecnici urbanistici (prevalentemente architetti e ingegneri, ma anche esperti di particolari discipline) nell'operare una sintesi creativa di risorse e obiettivi. Questa attività presuppone comunque la raccolta e disponibilità di dati, il più possibile precisi e aggiornati, e l'indicazione dei loro sviluppi tendenziali, afferenti i vari campi e settori interessati dal processo di pianificazione di un determinato territorio (popolazione residente e correnti migratorie, industria, agricoltura, turismo, risorse naturali, ecc.), affinché le previsioni del piano urbanistico, che dovrebbero per lo meno riferirsi a un arco di tempo decennale, possano rivelarsi appropriate e confermate dagli avvenimenti successivi. In questo modo lo strumento urbanistico − che deve costituire un punto di riferimento e di certezza affinché i vari soggetti possano programmare con ragionevole affidamento le loro attività personali, professionali, imprenditoriali, ecc. − potrà godere di un'adeguata stabilità (che non significa immutabilità) e non essere assoggettato a continue varianti che ne vanificherebbero, in definitiva, la funzione stessa che è quella di prevedere e regolare l'assetto del territorio in una proiezione futura di congruo respiro e non di breve durata. Questi dati, necessari per l'urbanista ai fini di una corretta pianificazione del territorio a livello comunale, è auspicabile che si possano attingere da un centro nazionale di raccolta e interpretazione di tutte le informazioni relative al territorio, da aggiornare annualmente e da articolare poi maggiormente a livello regionale e provinciale.
Quest'attività di studio, di programmazione e di pianificazione a livello superiore è assolutamente indispensabile per assicurare un razionale e coordinato sviluppo dell'intero territorio nazionale considerato nel suo insieme, onde evitare il ripetersi di gravi errori, già compiuti nel recente passato, come l'irrazionale utilizzazione del territorio, la distruzione delle coste, l'inquinamento delle acque, lo sviluppo di industrie (per es. raffinerie di petrolio) che hanno determinato la distruzione di alcuni insediamenti abitativi o il pregiudizio di località turistiche, l'avvio della realizzazione di centrali elettro-nucleari in mancanza di una legge che ne valutasse le implicazioni, ecc.
Se si dovesse ritenere utopistico e non realizzabile in concreto questo sistema che si basa su di una preliminare attività di programmazione economica e di pianificazione territoriale che dall'alto cala verso il basso, allora si dovrà pensare a un diverso modello di Piano regolatore generale, concepito con previsioni di larga massima e dotato di notevoli margini di elasticità, da ''riempire'' e completare in successivi ''strumenti di dettaglio'', che in tal caso però non potrebbero più essere considerati e definiti quali meri strumenti attuativi dello strumento urbanistico generale. Una tendenza in tal senso è riscontrabile già nell'attuale sistema ed è rappresentata dai programmi integrati d'intervento di cui all'art. 16 l. 179/92 e dai piani di recupero urbano di cui all'art. 11 l. 493/93, citati in precedenza. Nella prospettiva poi di una modifica della legislazione urbanistica qualcuno pensa a uno sdoppiamento dell'attuale Piano Regolatore Generale, articolandone il contenuto in due strumenti: un piano strutturale per il medio periodo che dovrebbe definire la strategia urbanistico-ambientale, indicando le scelte ''invarianti'', le maggiori carenze e i principali obiettivi del piano stesso; e un successivo piano operativo, che dovrebbe costituire l'effettivo strumento di trasformazione urbanistico-ambientale, nel cui ambito troverebbero spazio anche legittime forme di iniziative di privati e di intese con il comune per la realizzazione di nuovi insediamenti o di interventi di recupero. Quanto sopra, nel quadro − sembrerebbe − di una tendenziale esigenza più alla trasformazione e al recupero del tessuto urbano edilizio esistente che non alla sua espansione onde evitare l'ingiustificato consumo del territorio e la sottoutilizzazione delle infrastrutture urbanistiche esistenti.
L'attuale sistema non ha dato indubbiamente buoni risultati e ne vanno ricercate le cause. Prima tra queste è la normativa statale che, pur valida nel suo complesso, risulta complicata e spesso non coordinata, per cui si palesa indispensabile e urgente un suo riordino organico, ossia la formulazione di una sorta di testo unico che individui ed estrapoli dall'attuale normativa i principi fondamentali, in modo da formare una legge-quadro o legge cornice di competenza dello stato ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, appartenendo infatti ormai la normativa di dettaglio alle regioni.
In questa sede andrebbe sciolto il nodo tuttora irrisolto della cosiddetta ''indifferenza'' dei proprietari di aree urbane rispetto alle scelte urbanistiche da operarsi da parte della pubblica amministrazione. È ben noto l'interesse della proprietà fondiaria all'incremento di valore delle aree destinate all'edificazione. La pressione speculativa di questi interessi è causa di gravi illegalità e raggiunge livelli tali da compromettere la credibilità delle istituzioni locali. La soluzione radicale a questi problemi, già nella l. 1150/42, e cioè l'esproprio generalizzato delle aree preliminare all'urbanizzazione sia pubblica che privata (art. 18 l. cit.), si è dimostrato inattuabile, tanto più se riferito a valori di mercato non già di aree agricole da urbanizzare, ma oggi realmente di aree urbane periferiche da trasformare.
Scartata altresì la via dello scorporo dello ius aedificandi dalla proprietà dell'area − nel senso, cioè, che il carattere dell'edificabilità non costituirebbe più un attributo o qualità connaturale all'area urbana, tentativo operato in occasione del varo della l. 10/77, ma fallito in quanto secondo la consolidata interpretazione della Corte costituzionale (sentenza n. 5/80, 92/82 e 127/83) l'attributo dell'edificabilità è tuttora inerente all'area stessa e al relativo diritto di proprietà − sarebbe opportuno battere altre strade, che tengano conto che il diritto di proprietà è fortemente radicato nell'attuale ordinamento giuridico italiano e nella coscienza degli Italiani, oltre a godere della tutela costituzionale (art. 42 Cost.). La cosiddetta ''indifferenza'' dei proprietari delle aree urbane rispetto alle scelte urbanistiche − onde consentire che tali scelte vengano operate in modo razionale e asettico, scevre cioè da condizionamenti di interessi privati e onde evitare successivamente defatiganti contenziosi − potrebbe quindi essere raggiunta, per es., prescrivendo che la realizzazione dei singoli quartieri o nuclei avvenga mediante piani di lottizzazione convenzionati tra i proprietari e il comune, in forza dei quali i vantaggi (realizzazione delle costruzioni) e gli oneri (realizzazione senza corrispettivo delle opere di urbanizzazione primaria − strade, fognature, rete di distribuzione dell'acqua potabile e dell'energia elettrica, pubblica illuminazione, verde pubblico − e di quota-parte delle opere di urbanizzazione secondaria e di cessione senza corrispettivi al comune delle relative aree così urbanizzate) siano di pertinenza dei proprietari delle aree di quel determinato comprensorio in quota proporzionale alla superficie delle aree di rispettiva proprietà. Salvo il successivo scomputo di questi oneri in sede di pagamento del contributo di concessione, come del resto già disposto dall'art. 11, l. 10/77. Questa formula è già presente sia nella legge (art. 8 l. 765/67) che in alcuni Piani regolatori e si tratterebbe soltanto di renderla di portata generale e obbligatoria. Con il sistema della lottizzazione convenzionata estesa a interi comprensori e resa obbligatoria, si realizzerebbe, se non la totale indifferenza dei proprietari dei suoli, certamente la giustizia distributiva e cioè una perequazione tra le proprietà coinvolte dalla trasformazione con conseguente eliminazione o comunque forte diminuzione della pressione dei proprietari di aree urbane sulla pubblica amministrazione in senso distorsivo della correttezza nelle scelte urbanistiche di PRG.
In tal modo le opere pubbliche da realizzarsi tramite espropri verrebbero limitate alle sole opere pubbliche di livello cittadino (grandi infrastrutture, università, ospedali, ecc.) e per esse andrebbe prevista la corresponsione di un equo indennizzo, abbastanza prossimo al valore di mercato dell'area oggetto di esproprio, risolvendo così anche l'altro problema consistente nell'attuale ingiustizia insita nella sperequazione tra chi subisce l'esproprio dietro corresponsione di un indennizzo palesemente insufficiente e chi lucra il plus-valore delle aree edificabili; si eviterebbero così i rapporti di forte conflittualità attualmente esistenti tra pubblica amministrazione, che impone i vincoli espropriativi, e i proprietari di aree soggette a esproprio. Attualmente in base all'art. 5 bis l. 359/92 e fino all'emanazione di un'organica disciplina in materia espropriativa (che però è dal 1980 che tarda a essere varata) praticamente l'indennità di esproprio è pari a un terzo del valore di mercato dell'area, salvo a portarsi teoricamente a circa la metà del valore in caso di cessione volontaria del bene, ipotesi in cui però il proprietario deve accettare la valutazione operata unilateralmente dall'amministrazione rinunciando all'accertamento dell'effettivo valore da parte del giudice. Ecco perché si tratta in tal caso di una metà solo teorica del valore di mercato.
Sempre in questa stessa ottica potrebbe sopprimersi l'intera legislazione sull'edilizia economica e popolare (l. 167/62 e successive sue modificazioni e integrazioni), che prevede l'esproprio generalizzato di tutte le aree ricadenti all'interno dei piani di zona di edilizia economica e popolare per realizzare i relativi quartieri, e prevedere, in sostituzione di questo sistema, la realizzazione diretta di quest'edilizia da parte del proprietario dell'area, a condizione che il medesimo s'impegni a realizzare edilizia convenzionata e, se del caso, anche le relative opere di urbanizzazione disciplinando convenzionalmente i parametri relativi ai prezzi di vendita, ai canoni di locazione e alle caratteristiche degli alloggi. Anche questa formula è già prevista nell'attuale sistema ma in misura più limitata (artt. 7 e 8 l. 10/77), e si tratterebbe anche qui di renderla generale e obbligatoria. Solo nel caso che il proprietario non intenda assumere gli impegni innanzi elencati, scatterebbe l'espropriazione dell'area da parte del comune per sostituirsi al privato inerte.
Un altro fattore che ha contribuito a impedire il corretto funzionamento dell'attuale sistema è la mancata redazione e approvazione da parte dei comuni dei piani particolareggiati di attuazione del Piano regolatore generale, per carenza di idonee strutture tecniche e amministrative oltre che per difficoltà finanziarie. Inconveniente questo ovviabile dando maggiore spazio all'iniziativa privata, opportunamente incentivata. Altro fattore di difficoltà nell'attuazione dei piani regolatori è l'eccesso di vincoli d'inedificabilità assoluta di varia natura (paesistici, ambientali, archeologici) manifestatisi in quest'ultimo periodo, e talora contrastante con l'esigenza di un'effettiva tutela attiva del territorio. Va inoltre stabilito che, a causa della presenza sul territorio di poteri diversi con finalità differenti appartenenti ad autorità diverse, si crei un ''tavolo unico'' di pianificazione, cioè si pervenga a una pianificazione unica e globale, nella quale siano esaminati, valutati e decisi tutti i diversi interessi pubblici in giuoco (urbanistici, paesistico-ambientali, artistico-storico-archeologici, ecologici, ecc.), in un quadro unitario, al fine di effettuare una comparazione e una composizione tra questi interessi in parte confliggenti. Lo stesso procedimento dovrebbe essere osservato per l'approvazione di successive varianti di questo piano. È necessario che gli interventi urbanistico-edilizi ammissibili sul territorio, sia pubblici che privati, dispongano di un quadro unico di riferimento, chiaro e dotato di una certa stabilità, che consenta di programmare e di operare secondo criteri ispirati al principio fondamentale della certezza del diritto e di trasparenza dell'attività amministrativa, in osservanza dell'art. 97 Cost. e della l. 241/90.
Bibl.: G. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, Milano 1986; F. Salvia, F. Teresi, Lineamenti di diritto urbanistico, Padova 1992; P. Urbani, s.v. Urbanistica, in Enciclopedia del diritto, 45, Milano 1992; G. Colombo, F. Pagano, M. Rossetti, Codice dell'urbanistica, ivi 19938; Codice dell'urbanistica e dell'edilizia, a cura di M. Falcone, Torino 1994; P. Urbani, S. Civitarese, Diritto urbanistico. Organizzazione e rapporti, ivi 1994.