Vincenzo Gioberti
Fin dall’inizio l’opera di Gioberti appare indirizzata alla ricerca del punto di intersezione tra una metafisica concreta e un pensiero politico capace di guidare il percorso risorgimentale. Conseguito il nucleo speculativo della sua posizione, con la dottrina della «formola ideale», Gioberti ne propose uno svolgimento che polarizzò l’opinione pubblica intorno alle tesi del federalismo e della ‘missione’ nazionale. Ma ben presto la sua meditazione maturò novità e correzioni che lo condussero a valorizzare il significato della soggettività umana e ad aprirsi a radicali proposte democratiche. Questo percorso, nel suo insieme, rappresenta una delle espressioni più suggestive della cultura filosofica dell’Ottocento italiano.
Vincenzo Gioberti nacque a Torino il 5 aprile 1801. Rimasto orfano del padre nel 1806, poi della madre, Marianna Capra, nel 1819, fu educato dai padri filippini, che lo sostennero materialmente, oltre che sul piano morale, nelle gravi difficoltà economiche che segnarono la sua adolescenza. Compiuto il corso di logica nel 1815, conseguì il magisterio in belle arti sul finire del 1816, ottenendo il posto di chierico di camera del re con la retribuzione annua di 400 lire. Preso il diploma di teologia con la dissertazione De Dei gratia e, nel 1823, la laurea in teologia con la tesi a stampa De veteri foedere, fu nominato dottore aggregato del Collegio teologico dell’Università di Torino, ordinato sacerdote il 19 marzo 1825 e promosso, l’anno successivo, cappellano di corte.
Il disagio spirituale che provò verso gli ambienti di corte, nonché le ampie e precoci letture (in particolare quelle di Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, a cui presto si aggiunsero Platone, Giambattista Vico e Thomas Reid) determinarono in lui, tra il 1825 e il 1833, una profonda inquietudine che lo portò più volte ad abbandonare il tracciato dell’ortodossia cattolica, sostenendo i principi del deismo e del panteismo, fino alla famosa lettera Ai compilatori della Giovine Italia che inviò, in segno di stima e di adesione, a Giuseppe Mazzini («La Giovine Italia», 1834, 6, pp. 171-93; ristampata nel 1849 con il titolo Della repubblica e del cristianesimo).
Ottenuto, dietro sua richiesta, l’esonero dalla carica di cappellano di corte, fu arrestato dalla polizia sabauda nel maggio del 1833, e si recò, nell’ottobre, in esilio a Parigi, dove restò fino al dicembre 1834, quando si trasferì a Bruxelles, presso l’Istituto Gaggia, su invito dell’ingegnere bresciano Pietro Bosso (1799-1857). Fu nel lungo periodo di permanenza a Bruxelles che scrisse e pubblicò le prime grandi opere di filosofia, a cominciare dalla Teorica del sovranaturale (1838), seguita dall’Introduzione allo studio della filosofia (1840), quindi dalle operette Sul bello: discorso (1841) e Del buono (1843); a queste si aggiunsero Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841) e la Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de M. de Lamennais (1841).
Già noto come filosofo, Gioberti divenne celebre nel 1843, con la pubblicazione, a Bruxelles, del libro Del primato morale e civile degli Italiani, che catalizzò l’opinione moderata con la dottrina del «primato» italiano e, soprattutto, con la proposta della confederazione dei maggiori Stati sotto la presidenza «simbolica» del papa. Pensato e scritto nei tempi poco propizi di Gregorio XVI, il Primato divenne attualissimo, sotto il profilo politico, nel 1846, quando l’elezione di Pio IX sembrò avviare una stagione di riforme e di rinnovamento. Fu in questo periodo che, riprendendo le tesi del Primato, Gioberti cercò di scansarne gli equivoci, ingaggiando una durissima polemica con l’ordine dei gesuiti, che sfociò, tra il 1846 e il 1848, nella pubblicazione di Il gesuita moderno e della successiva Apologia del libro intitolato “Il gesuita moderno”.
Eletto deputato nei due collegi di Genova e di Torino, lasciò Bruxelles e il 29 aprile 1848 tornò nella capitale sabauda, dove venne accolto da manifestazioni di grande simpatia da parte della popolazione. Dopo un viaggio di propaganda nell’Italia centrale e settentrionale, che lo portò anche a Roma, presso la corte di Pio IX, il 29 luglio venne nominato ministro senza portafoglio nel governo Casati, quando la guerra federale si avviava ormai verso il fallimento. Fu all’indomani dell’armistizio di Salasco, e della conseguente caduta del governo, che si consumò il suo distacco dal partito moderato e il progressivo avvicinamento alla linea democratica. Dopo la dura opposizione al ministero Sostegno, con una serie di discorsi pronunciati tra l’agosto e l’ottobre, Gioberti fu incaricato da Carlo Alberto di formare il nuovo governo e il 16 dicembre ne espose alla Camera il programma, centrato sull’unione federativa degli Stati italiani come presupposto dell’indipendenza nazionale e sulla ripresa della guerra contro l’Austria. Il governo, di netta ispirazione democratica, durò appena due mesi, fino al 19 febbraio del 1849, quando cadde sul tentativo di un intervento piemontese volto a restaurare il potere del granduca a Firenze e di Pio IX a Roma.
Conclusa la fase più intensa della sua esperienza politica, dopo una breve partecipazione come ministro senza portafoglio al governo De Launay (marzo-maggio 1849), Gioberti tornò a Parigi, dove curò la seconda edizione della Teorica del sovranaturale (1850), scrisse il libro Del rinnovamento civile d’Italia (1851) e compose quella grande massa di appunti e frammenti che, pubblicati postumi, delineano una nuova stagione della sua riflessione filosofica. Morì a Parigi, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre del 1852, per un attacco cardiaco.
Se si escludono alcuni testi giovanili, come le tre tesi De Deo et naturali religione, De antiquo foedere e De christiana religione et evangelicis virtutibus, scritte per l’aggregazione al Collegio teologico di Torino e pubblicate dall’editore Taurini nel 1825, e alcuni versi, come l’ode Igia o la dea della salute del 1826, la prima opera filosofica di Gioberti – la Teorica del sovranaturale – apparve solo nel 1838. Ma il travagliato periodo precedente, per il quale disponiamo di una larga mole di frammenti e corrispondenze, ha un’importanza fondamentale per intendere il formarsi dei concetti principali della sua filosofia, nonché gli orientamenti civili che, fin dall’inizio, li accompagnarono.
La precoce lettura di Rousseau e, soprattutto, della prima Critica di Kant (che conobbe già tra il 1815 e il 1816 nella traduzione latina di Friedrich Gottlieb Born), nonché la meditazione dei testi cristiani antichi e moderni, da Agostino a Félicité-Robert de Lamennais, lo avevano condotto a elaborare, tra il 1815 e il 1818, un singolare ‛pirronismo’, cioè una filosofia scettica, fondata sull’idea della sproporzione tra la ragione ingannevole dell’uomo e la verità inavvicinabile di Dio. Nel periodo appena successivo aveva ulteriormente sviluppato questa visione tragica della realtà, con l’aiuto della distinzione kantiana tra fenomeni e noumeni e della teologia di Blaise Pascal, elaborando un «trascendentalismo», come lo definì, che di nuovo escludeva la verità dalle limitate possibilità conoscitive dell’uomo.
Fu solo intorno al 1821 che questa acerba meditazione si arricchì di riferimenti nuovi e caratteristici, che condussero Gioberti a enucleare il tema dell’intuito delle idee eterne come la questione centrale della sua filosofia. Da un lato, si applicò allo studio dei dialoghi di Platone e di quella linea di pensiero che, da Agostino a Nicolas de Malebranche a Hyacinthe-Sigismonde Gerdil, gli rivelò la realtà di idee sovrasensibili e immutabili, che non procedono dalla sensazione; dall’altro, ritenne di trovare nei filosofi ‘scozzesi’ del 18° sec., in particolare in Reid (1710-1796), una prosecuzione e un perfezionamento dello stesso idealismo platonico, quasi una sua versione più moderna, capace di coniugare l’a priori delle idee con la pratica galileiana dell’osservazione e dell’esperienza.
Il quadro composito e persino eclettico che ne derivava finì per esplodere in quel periodo travagliato e turbinoso che portò il giovane chierico, tra il 1828 e il 1833, ad abbracciare teorie eterodosse ed eretiche, fino a uscire più volte dal tracciato della dottrina cattolica. Influenzato dal circolo del giansenismo torinese, cioè da personaggi come Giangiulio Sineo e Gianmaria Dettori, nonché dalle opere di Pietro Tamburini (1737-1827), Gioberti coltivò, tra il 1828 e il 1829, un ‘deismo’ integrale, cioè un razionalismo teologico e una religione naturale che lo condussero alla negazione del carattere ‘personale’ di Dio, della divinità del Cristo e della verginità di Maria. Tornato, nel 1830, nell’alveo del cattolicesimo (come dichiarò a Tommaso de Ocheda e a Giacomo Leopardi), se ne staccò di nuovo, intorno al 1833, per professare un radicale ‘panteismo’, testimoniato, tra l’altro, dalla citata vibrante lettera Ai compilatori della Giovine Italia, nella quale si richiamava al «panteismo stupendo di Giordano Bruno» e quindi ai sistemi di Baruch Spinoza, Johann Gottlieb Fichte, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling.
L’inquietudine che segnò la giovinezza di Gioberti, e che, come si è visto, arrivò ad assumere forme diverse e disparate (dal deismo al panteismo), ruotava intorno a un nucleo teorico unitario e ben definito che riguardava la relazione tra la natura finita dell’uomo e l’essenza infinita di Dio. La difficoltà di concepire la religatio tra finito e infinito (cioè la radice stessa del fenomeno religioso, secondo l’etimologia di Lattanzio) portava Gioberti – come hanno avvertito gli interpreti più accorti, a cominciare da Bertrando Spaventa – a oscillare tra una visione tragica della realtà, che poneva un abisso incolmabile tra l’uomo e Dio, e un’unificazione assoluta, in senso panteistico, dei due termini, che di fatto escludeva la trascendenza divina. La ricerca di una mediazione tra la ragione umana e l’infinito divino resterà, come vedremo, il problema fondamentale della sua meditazione. Accanto al panteismo, infatti, e nello stesso periodo (gli anni 1833-34) in cui ne sosteneva le tesi, Gioberti professava anche la dottrina dell’«ontoteismo», centrata sull’idea dell’intuito immediato dell’essere, e perciò incontrava, per la prima volta in maniera così impegnativa, le posizioni filosofiche di Antonio Rosmini-Serbati, che nel 1829-1830 aveva pubblicato, con il nihil obstat dei censori romani, il Nuovo saggio sull’origine delle idee.
Da allora in poi, il confronto con la filosofia di Rosmini rimase un tema permanente nella meditazione giobertiana, che conobbe, per altro, momenti di contrasto assai acuto, specie nel corso degli anni Quaranta, quando Rosmini pubblicò le «lezioni filosofiche» su Vincenzo Gioberti e il panteismo e Gioberti replicò con Degli errori filosofici di Antonio Rosmini. Tuttavia, anche nel periodo in cui mostrò di aderire ad alcune posizioni della filosofia rosminiana, in un fitto carteggio con Terenzio Mamiani Della Rovere (1799-1885) del 1834, Gioberti dichiarò subito il punto di accordo e, con altrettanta chiarezza, il disaccordo che lo allontanava da quella dottrina: l’accordo consisteva nel principio, che aveva già conquistato per conto proprio, applicandosi su Platone e Reid, dell’intuito dell’essere e della sua non derivabilità dalla sensazione; mentre il disaccordo si riassumeva nella negazione della tesi rosminiana relativa alla natura soltanto ‘possibile’ dell’essere.
L’ontoteismo di Gioberti fin dall’inizio postulava quindi quella esigenza di realtà e di concretezza che, di lì a poco, avrebbe trovato espressione nella dottrina della «formola ideale». Come avrebbe ribadito nell’Introduzione allo studio della filosofia, «il concetto primitivo dee essere il reale, e non il possibile: giacché il reale anche solo, è reale, e diventa possibile coll’astrazione» (Introduzione allo studio della filosofia, 2° vol., rist. 1846, p. 145).
D’altronde, la critica a Rosmini cominciò a delinearsi con precisione in una serie di appunti e frammenti che, con molta probabilità, Gioberti scrisse tra il 1835 e gli inizi del 1837, e che furono pubblicati soltanto nel 1910, da Edmondo Solmi, con il titolo riassuntivo La teorica della mente umana. In tali frammenti, il pensiero di Rosmini era ormai considerato come l’espressione di un errore psicologico e soggettivistico, per la pretesa che i sensibili conferiscano «realtà» all’essere, invece di riceverla dalla luce dell’intelligibile. L’errore di Rosmini, concludeva Gioberti, consiste nel ritenere che «l’ente costitutivo dell’intelletto umano è l’ente astratto e possibile, non l’ente concreto e reale»; e nel non avvertire che «l’astrazione presuppone il concreto», e che, dunque, «l’idea di possibilità non può essere l’idea primitiva» (La teorica della mente umana. Rosmini e i rosminiani. La libertà cattolica, a cura di E. Solmi, 1910, p. 49).
Questi pensieri, rielaborati e meglio affinati, trovarono una sistemazione nella prima, importante opera di Gioberti, la Teorica del sovranaturale, che venne scritta di getto, nell’esilio di Bruxelles, in meno di un mese, tra il settembre e l’ottobre del 1837. Il problema di fondo di questo lungo e faticoso trattato speculativo riguardava, ancora una volta, l’esigenza di una critica rigorosa del panteismo. Se il panteismo, spiegava, consiste nell’idea di un’identità di sostanza sia per il finito che per l’infinito, la sua critica deve essere capace, da un lato, di restaurare la differenza radicale tra i due termini, la trascendenza che divide l’uomo da Dio, ma, dall’altro, anche di accogliere la verità profonda di quelle dottrine, ossia la necessità della relazione e della sintesi, «la compenetrazione psicologica e ontologica di Dio coll’universo» (Teorica del sovranaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata colla mente umana e col progresso civile delle nazioni, 18502, § 7). Forte delle sue letture e dei suoi studi giovanili, Gioberti riconosceva nel problema kantiano del giudizio sintetico, della sintesi a priori di sensibilità e intelletto, l’unica via di uscita ‘moderna’ dalle difficoltà e dai pericoli del panteismo. Presupposta la differenza tra sensibilità e ragione, tra mondo sensibile e mondo intelligibile, mentre ribadiva che le idee razionali sono colte dalla mente per un atto intuitivo, al di fuori del tempo e dello spazio, sottolineava la natura sintetica dell’apparenza fenomenica, la quale, infatti, poteva costituirsi soltanto con il sostegno dell’infinito ideale. Se la realtà finita e contingente si manifestava, nel regno della sensibilità, come tempo e progresso, bisognava ammettere, dunque, che alla sua radice, e quindi come suo principio e fine, si delineasse il volto dell’infinito, dell’idea e di Dio. Come Gioberti chiarirà meglio nelle opere successive, l’atto iniziale della creazione e quello finale della palingenesi arrivavano a costituire, in senso ontologico, la struttura stessa del mondo finito.
La sintesi di finito e infinito, generatrice dell’apparenza fenomenica, rivelava però un aspetto «occulto e impenetrabile» (Teorica del sovranaturale, cit., § 9). Se la realtà si manifestava come sintesi e giudizio, accadeva che questo giudizio sorgesse su una base incomprensibile, che (in modo analogo alla ‘cosa in sé’ kantiana) la mente poteva avvertire solo in modo indeterminato e indistinto. Ma il sentimento di questo «mistero», di questo fondo oscuro e nascosto, la «cognizione di una incognita», pure lasciava trasparire l’atto generativo della realtà intera, quel «sovrintelligibile», come Gioberti lo definì, per cui si apprende che,
siccome ai sensibili sottostanno gl’intelligibili, così agl’intelligibili sottostà una certa cosa, che non può essere conosciuta determinatamente, […] e che ci apparisce […] come il complemento dell’idea dell’ente, vale a dire come un elemento incomprensibile, ma che pur si conosce essere necessario a costituire l’elemento pensabile dell’ente e delle esistenze (Teorica del sovranaturale, cit., § 59).
La dottrina della «sovrintelligenza», nella quale si concludeva il suo primo sforzo teoretico, aveva conseguenze di capitale importanza per la visione religiosa e civile di Gioberti. In primo luogo, attribuiva alla rivelazione, e dunque al linguaggio che la incarnava, la capacità di parlare, attraverso un sistema di analogie e di metafore, del mistero ultimo della realtà, di quel «sovrintelligibile» che si era proiettato oltre l’intuito razionale delle idee. Di parlarne, chiariva Gioberti, senza tuttavia sollevare il «velo delle essenze» (Teorica del sovranaturale, cit., § 69), perché solo la beatitudine palingenetica, il «ritorno» degli esistenti nell’ordine dell’Ente infinito, avrebbe potuto rendere trasparente e attuale il mistero essenziale della realtà. In secondo luogo, la teoria della distinzione e della sintesi tra sensibilità e ragione prefigurava la relazione autentica tra sfera civile e sfera ecclesiale, sottolineando l’autonomia del progresso umano nella dimensione naturale, ma anche il necessario sostegno che le vicende umane trovano nel deposito dogmatico e sovrannaturale della Chiesa.
La Teorica del sovranaturale non fu soltanto un fallimento editoriale (lo stampatore Marcello Hayez non ne vendette più di ottanta copie), ma generò ben presto, nell’animo di Gioberti, una profonda insoddisfazione, dovuta anche alle critiche degli amici e alla confutazione che Rosmini aveva resa pubblica con un articolo su un giornale di Lugano (Lettera intorno alla “Teoria del sovrannaturale” del sig. Vincenzo Gioberti, «Il cattolico», 1839, 13, pp. 97-101). In effetti, la sintesi tra sensibile e intelligibile, tra finito e infinito, che pure si apriva al mistero del sovrintelligibile e quindi alla verità analogica della rivelazione, lasciava inalterato il dualismo iniziale: per quanto Gioberti avesse mostrato come la sfera contingente fosse sempre sostenuta, nella sua perfettibilità temporale, dall’intuito delle idee razionali, accadeva che l’oggetto sensibile conservasse, al di fuori della sintesi, una propria indipendenza, se non una originaria irrazionalità. Tuttavia, la revisione della Teorica avvenne in una direzione diversa, o addirittura inversa, rispetto a quella che la critica di Rosmini sembrava suggerirgli. Invece di tornare al principio dell’ente solo possibile, generalissimo e astratto, Gioberti allargò la portata ontologica dell’intuito, sino a includervi, con la dottrina della «formola ideale», l’intera struttura del contingente, cioè la realtà degli esistenti.
Il passaggio dall’una all’altra forma della sua filosofia, dalla teoria del «sovrintelligibile» a quella della «formola ideale», fu segnato da uno studio molto approfondito delle Meditationes de prima philosophia (1641) di René Descartes, che affrontò tra il 1838 e il 1839 nell’edizione curata da Victor Cousin, e da un nuovo esame della letteratura cattolica francese, che trovò un’espressione compiuta, nel 1841, con la citata Lettre sulle dottrine di Lamennais (1782-1854).
Ancora una volta, il problema del panteismo, cioè dell’unità di sostanza tra finito e infinito, arrivò a occupare il centro della sua meditazione. Da un lato, negli Appunti su Descartes – modificando il giudizio che, su questo autore, aveva offerto nelle opere precedenti – insisteva sulla contraddizione tra il lato scettico del soggettivismo, espresso dal dubbio metodico e dal cogito, e quello, autentico e verace, che era implicito nella dottrina delle verità eterne, cioè del «lume naturale», da lui interpretato come «l’intuito immediato e innato dell’ente intelligibile» (Appunti inediti su Renato Cartesio. La storia della filosofia, a cura di E. Bocca, G. Tognon, 1981, p. 69). Dall’altro lato, criticando l’Esquisse d’une philosophie (1841) di Lamennais, chiariva che il panteismo non consisteva soltanto nella dottrina dell’«unità di sostanza», e quindi nella «divinisation du tout», ma anche, e soprattutto, nella negazione dell’atto creativo di Dio. In altri termini, il panteismo si sarebbe fatalmente riaffermato se il contenuto dell’intuito fosse stato limitato al puro essere dell’ente possibile (come accadeva in Rosmini), senza includervi anche «la causation substantielle et libre de l’existence par l’Etre» (Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de M. de Lamennais, rist. 1843, p. 36), cioè la creazione, capace di indicare, nel contempo, la differenza e la relazione tra la sfera necessaria dell’Ente e quella contingente degli esistenti.
Questo allargamento dell’oggetto ideale dell’intuito, che arrivava così a comprendere la struttura della realtà esistente, delineava, inoltre, il compito della filosofia e la fisionomia di una scienza, antica e al tempo stesso nuova: la «scienza ideale», come la definì, o «protologia», come iniziò a denominarla sin dal Cours de philosophie degli anni 1841-42. Una scienza che, richiamandosi alla filosofia prima di Aristotele, avrebbe dovuto elaborare la materia e i metodi, i principi e i fini dell’intera enciclopedia del sapere. La proposizione fondamentale di questa «protologia» venne indicata da Gioberti nell’opera più importante che, in tale periodo, pubblicò, cioè l’Introduzione allo studio della filosofia, apparsa nel 1840:
Chiamo formola ideale una proposizione, che esprime l’Idea in modo chiaro, semplice e preciso, mediante un giudizio. Siccome l’uomo non può pensare, senza giudicare, non gli è dato di pensar l’Idea, senza fare un giudizio, la cui significazione è la formola ideale. La quale dee constare di due termini congiunti insieme da un terzo, conforme alla natura di ogni giudizio (Introduzione allo studio della filosofia, cit., 2° vol., p. 137).
Nel primo ciclo della «formola ideale» – «l’Ente crea gli esistenti» – i due termini del giudizio – l’Ente e gli esistenti – erano congiunti da un terzo elemento – l’atto di creazione –, capace di esprimere sia l’«intervallo infinito» che separa l’uomo da Dio, sfuggendo così il rischio del panteismo, sia la relazione e la mediazione che li stringe in un solo universo ideale. Il secondo ciclo della «formola» – «gli esistenti tornano nell’Ente» – manifestava, invece, l’elemento attivo («concreativo», come dirà in seguito) delle creature, della libertà umana, la quale si muove e progredisce, circolarmente, per tornare al principio, all’Ente, verso una conclusiva palingenesi. Il terzo termine, quello della creazione, assumeva così un significato e un’importanza cruciali, tali da unificare e illuminare sia l’Ente sia gli esistenti, al punto che, nelle pagine più impegnative dell’opera, lo stesso Dio sembrava trarre la propria essenza dal libero atto creativo, il quale, mentre generava ex nihilo le creature, costituiva anche il suo proprio essere.
Al di là delle gravi complicazioni teologiche che la «formola ideale» comportava, il principio protologico implicava anche una completa revisione delle categorie filosofiche che, fin lì, Gioberti aveva adoperato. Se nella Teorica del sovranaturale la forma del giudizio riguardava il difficile rapporto tra sensibilità e ragione, ora, a partire dall’Introduzione, entrambi i termini della sintesi erano raccolti nella visione ideale dell’intuito: se da un lato il problema della mediazione s’internava nell’oggetto ideale, assumendo il volto della creazione divina, dall’altro lato quel medesimo oggetto si sdoppiava tra l’apprensione immediata dell’intuizione e quella, discorsiva e mediata, della riflessione. Alla riflessione era ormai assegnato il compito di ripercorrere e riconquistare, di articolare e svolgere, negli ordini del tempo e del linguaggio, quello stesso contenuto (la «formola ideale») che l’intuizione sapeva apprendere con la nota, infallibile ma confusa, dell’immediatezza. Per questo, intuito e riflessione (a cui si aggiunse, con l’operetta estetica del 1841 Saggio sul bello, la facoltà ulteriore dell’immaginazione), e il problema della loro distinzione e del loro rapporto, divennero, fino alle ultime meditazioni delle opere postume, i concetti capitali della filosofia giobertiana.
Al di là del significato speculativo e teologico, la «formola ideale» costituì, per un lungo periodo, la base metafisica della filosofia civile di Gioberti. L’etica e la politica, in quanto opera pratica dell’uomo nella sfera naturale, corrispondevano al secondo ciclo della proposizione protologica, quello che, attraverso l’uso del libero arbitrio, riconduce gli esistenti all’Ente. Nel terzo volume dell’Introduzione, e poi nel piccolo trattato Del buono del 1843, Gioberti chiarì che la legge morale deriva da Dio, è appresa dagli uomini con l’intuito immediato, e costituisce il principio e il fine di quell’attività concreativa, di un’attiva cooperazione al fiat divino, che avvicina la perfezione finale. Se Platone, spiegò, aveva visto nelle idee intelligibili e trascendenti la natura del bene, solo il «principio di creazione» è in grado di correggerne il dualismo, mostrando le «attinenze ontologiche dell’Idea col mondo» (Del bello e del buono: due trattati, 1846, p. 257). Nella sfera civile, l’imperativo morale si manifestava concretamente nella «forma augusta del diritto» (Introduzione allo studio della filosofia, cit., 3° vol., p. 97), e dunque nella superiorità dell’etica sulla politica. A proposito del potere civile, Gioberti distingueva tra una sovranità «assoluta», che deriva da Dio e, anzi, è in Dio e di Dio, e una sovranità «ministeriale» e secondaria che, pur trovando in Dio la sua origine ed essenza, appartiene alla libera organizzazione umana che deve renderla mite ed equilibrata, attraverso l’istituzione di un governo rappresentativo, della Costituzione mista e soprattutto nel rispetto della pubblica opinione. La dottrina filosofica della «formola ideale», insomma, gli permetteva di criticare sia il dispotismo, negatore del secondo ciclo (cioè della libera azione concreativa dell’uomo), sia la democrazia, che rifiutava, alla maniera del panteismo, il primo ciclo creativo, nella persuasione erronea che siano gli esistenti a generare l’Ente e, di conseguenza, a fondare la morale e la sovranità.
Queste posizioni restarono ferme, pur con notevoli complicazioni, nella maggiore opera politica di Gioberti, quel libro Del primato morale e civile degli Italiani che, scritto negli ultimi tre o quattro mesi del 1842, apparve per l’editore Méline, Cans et co. nel maggio del 1843, suscitando approvazione ed entusiasmo in larga parte dell’opinione moderata. La proposta che vi era dichiarata, cioè la confederazione dei quattro Stati maggiori della penisola sotto la presidenza papale, sembrò indirizzare le speranze nazionali verso un obiettivo realistico e raggiungibile, capace di superare sia le velleità rivoluzionarie dei democratici sia l’inconcludenza delle trattative dinastiche. Ma l’idea del ‘primato’, che costituiva la base di quella proposta – e che arrivava a configurare il carattere della nazione italiana come unico e peculiare, perché segnato da un principio di universalità e di cosmopolitismo –, implicava una tela speculativa assai vasta, strettamente legata alla filosofia che, nelle opere precedenti, Gioberti aveva delineato. In effetti, l’idea stessa del ‘primato’ italiano e della presidenza papale trovava una giustificazione di fondo nella dottrina del «primo ieratico», cioè nella persuasione che il «primo in generale», ossia la «formola ideale» afferrata dall’intuito, dovesse necessariamente incarnarsi in una tradizione nazionale, in una «nazione sacerdotale», capace di conservarne il deposito dogmatico:
Se togli questa salvaguardia ieratica, il Primo biblico perde il suo valore storico, cessa di essere autentico e veridico, e non si distingue più dai libri favolosi (Del primato morale e civile degli Italiani, a cura di G. Balsamo Crivelli, 2° vol., 1919, pp. 118-19).
Uscita l’opera nel maggio, già tra l’agosto e l’ottobre del 1843 Gioberti le riservò parole di insoddisfazione, arrivando a definire la proposta della presidenza papale un semplice «quadro ideale», destinato a «dissimulare» e a smuovere «il popolo più inerte e imbelle d’Europa» (Epistolario, a cura di G. Gentile, G. Balsamo Crivelli, 4° vol., 1928, p. 335). L’autocritica, che fu rafforzata dalla lettura delle Speranze d’Italia (1844) di Cesare Balbo e che trovò, nel 1845, un approdo non marginale nei Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani, si arrestò per le aspettative destate dall’elezione di Pio IX e, quindi, nel periodo di più intenso impegno politico, tra il 1847 e il secondo esilio parigino nel 1849.
Le ragioni del dubbio, o almeno dell’incertezza, si erano però depositate nel fondo del suo animo, ed esplosero, all’indomani delle delusioni del 1848, con la pubblicazione, sul finire del 1851, dell’opera Del rinnovamento civile d’Italia, che segnava una correzione profonda delle precedenti idee politiche. Non solo, infatti, la proposta della confederazione e della presidenza papale veniva abbandonata, ma emergeva una diversa prospettiva filosofica, solo in parte legata alla struttura metafisica che sorreggeva l’ipotesi del ‘primato’, e che, anzi, lasciava uno spazio inedito all’analisi realistica della situazione. Da un lato, la vecchia idea del ‘primato’ (che pure veniva riaffermata nelle pieghe dell’opera) era chiamata a coniugarsi con il nuovo concetto dell’‘egemonia’, definita, sulla base di Tucidide, come «quella spezie di primato, di sopreminenza, di maggioranza, non legale né giuridica, propriamente parlando, ma di morale efficacia» (Del rinnovamento civile d’Italia, a cura di F. Nicolini, 3° vol., 1912, p. 203) che avrebbe dovuto unificare la dispersa materia municipale degli Stati italiani, raccogliendola in un solo Stato civile: egemonia che spettava, ormai, alle armi del Piemonte sabaudo nell’ambito della «leva esterna» rappresentata dal moto europeo. D’altro lato, Gioberti accoglieva fino in fondo il principio democratico, sino a tingerlo di toni giacobini (come nella proposta della «leva di tutti i cittadini» e del suffragio universale), criticando per ciò il liberalismo ristretto del «patriziato subalpino», il quale con «il ripudio dell’idea democratica troncava vie meglio e immiseriva le dottrine e le opere del Risorgimento» (Del rinnovamento civile d’Italia, cit., 1° vol., 1911, pp. 45-46).
Nel secondo libro del Rinnovamento, la revisione delle idee politiche lasciò scorgere quel ripensamento di principi filosofici che sarebbe sfociato nei frammenti delle opere postume. Se l’ideale democratico, nel suo punto più alto, si risolveva nella dialettica della «plebe» e dell’«ingegno» (la cui unione raffigurava per altro, sul piano politico, il necessario «connubio» di conservatori e democratici), accadeva che questi due termini rappresentassero le categorie stesse che, nel discorso protologico, avevano innervato la dottrina della «formola ideale»: la «plebe» esprimeva il momento dell’intuito, il sentimento potenziale e confuso della totalità politica, mentre, dall’altro lato, l’«ingegno» indicava la mediazione riflessiva, lo svolgimento distinto e razionale di quel contenuto. Solo che, rispetto alle tesi metafisiche dell’Introduzione, cominciava a farsi largo, attraverso questa dialettica, la superiorità del principio «moderno» della riflessione soggettiva, destinato a «guidare» e «perfezionare» l’ispirazione intuitiva (Del rinnovamento civile d’Italia, cit., 3° vol., 1912, p. 10), e, con ciò, quasi la prevalenza dell’ingegno sui rischi impliciti nella visione immediata delle idee. Emergeva, insomma, il valore della modernità, giacché, come Gioberti sottolineò più volte,
il Rinnovamento d’Europa è l’ultimo atto di una rivoluzione incominciata quattro o cinque secoli addietro e non ancora compiuta; rivoluzione che io chiamerei “moderna”, perché destinata a sostituire un nuovo convitto a quello del medio evo (Del rinnovamento civile d’Italia, cit., 2° vol., 1911, p. 177).
I frammenti che accompagnarono e seguirono la stesura del Rinnovamento (le cosiddette opere postume) offrono i termini di una revisione ancora più completa delle antiche tesi del ‘primato’. Non solo la proposta della presidenza papale vi è archiviata, ma Gioberti insiste sulla necessità di rovesciare i termini del discorso: se le riforme di Pio IX fallirono, «perché non ebbero per base la riforma ecclesiastica», ora si tratta di «procedere al rovescio», cioè di «purgar prima Roma, il papa, il Cattolicismo, per abilitarli a essere italiani» (I frammenti “Della riforma cattolica” e “Della libertà cattolica”, a cura di G. Balsamo Crivelli, 1924, p. 153). Oltre i prudenti consigli a rinnovare la Chiesa, che si leggevano nel Primato, oltre la successiva polemica contro l’ordine dei gesuiti, si trattava di promuovere una vera e propria «riforma» ecclesiale, che toccasse in profondità la concezione generale della vita religiosa. La polemica contro le tendenze «ascetiche» e «mistiche», che cercavano di segregare la religione dalla civiltà, e dunque la condanna della discordia della Chiesa con il principio stesso della modernità, arrivavano a investire la stessa istituzione del papato e del clero, fino alle ipotesi di ‘secolarizzare’ il governo temporale, di abolire l’ordine dei gesuiti e di sopprimere il celibato. Ma la critica toccava i toni più radicali a proposito dell’infallibilità della figura del papa, che doveva essere ristretta alla mera definizione «negativa», e solo «potenziale», del dogma, lasciando alla libera ragione degli individui il compito di determinarne i contenuti positivi e «attuali». In generale, la riforma auspicata da Gioberti tendeva a una fusione della Chiesa con la civiltà moderna, al modello di una ‘Chiesa universale’, dove la stessa separazione tra laicato e sacerdozio appariva ingiustificata o persino dannosa.
Tra il marzo e il maggio del 1850 Gioberti aveva curato, dall’esilio di Parigi, la seconda edizione della Teorica del sovranaturale, che uscì, in quello stesso anno, con l’aggiunta di un lungo e importante Discorso preliminare, il quale per molti versi inaugura l’ultima fase della sua filosofia. In tale scritto (che occupa l’intero primo volume dell’opera) si impegnò a rispondere alle obiezioni che, in due libri apparsi nel 1848 e nel 1849 (Il sistema filosofico di Vincenzo Gioberti e Il sistema teologico di Vincenzo Gioberti ), gli erano state rivolte, con lo pseudonimo di T. Zarelli, da Giovanni Maria Caroli (1821-1899). In modo particolare, Caroli aveva formulato due critiche all’impianto della metafisica giobertiana: da un lato, aveva osservato che la «formola ideale» non poteva affatto costituire il «vero primitivo», cioè la base e il fondamento del sapere protologico, perché il libero atto creativo presupponeva l’esistenza di Dio come persona, e dunque la proposizione originaria ‘l’Ente è’; dall’altro, sul versante gnoseologico, Caroli aveva affermato che, se l’intuito cogliesse in maniera immediata l’Idea, allora l’uomo, che rimane pur sempre il soggetto e l’artefice dell’apprensione intuitiva, s’immedesimerebbe con Dio, togliendo così la trascendenza e cadendo, volere o no, nel panteismo.
La lunga replica di Gioberti non si limitò a ribadire le antiche tesi sulla «formola ideale», ma inserì, nel tracciato della sua filosofia, importanti novità. Sul primo punto, quello ontologico, chiarì che il senso del suo pensiero doveva essere riconosciuto nell’atto primitivo della creazione:
chi proferisce pensatamente questa voce creazione, esprime in modo conciso e pensa la cagione e l’effetto insieme, cioè tutta la formola, il cui termine mezzano, essendo relativo, importa i due estremi, e non può separarsene in guisa alcuna (Teorica del sovranaturale, cit., p. 221).
Nei frammenti postumi spiegò, in modo più preciso, che la dottrina della «formola ideale» individuava il «vero primitivo», cioè il fondamento di tutto il sapere, nella relazione, o meglio nella «relazione assoluta»: «se si vuole esprimere la formola ideale con una voce unica – sottolineò –, bisogna dire relazione assoluta» (I frammenti “Della riforma cattolica” e “Della libertà cattolica”, cit., p. 46). Se, sul versante teoretico, il problema della filosofia giobertiana si stringeva attorno al nodo della «relazione assoluta», del religare dialettico di finito e infinito, sul piano teologico l’immagine stessa dell’Ente, di Dio, tendeva a risolversi nel «ciclo interno» definito dal dogma trinitario, nell’«identità del non identico», nell’«identità dei contrari nel seno dell’infinito», al punto che – esclamò – «il Primo di Dio non è l’unità ma la Trinità» (p. 299). Nelle intenzioni di Gioberti, il principio della relazione avrebbe colmato il difetto della sintesi a priori di Kant, il quale
notò i giudizi sintetici, ma non ne esplicò la struttura, che non si può trovare fuori della creazione. Il giudizio sintetico a priori è una causazione a priori, cioè la creazione (Della protologia, a cura di G. Massari, 1° vol., 1857, p. 228).
Al netto primato della relazione dialettica che emergeva in queste meditazioni faceva riscontro, a proposito della seconda obiezione di Caroli, un ripensamento della funzione dell’intuito, e quindi del suo rapporto, da un lato, con l’Idea (con l’Ente, con Dio) e, dall’altro, con la riflessione. Accogliendo almeno in parte la critica ricevuta, Gioberti insisteva sulla debolezza dell’atto intuitivo, il quale era bensì capace di osservare l’Idea, in modo confuso e indistinto, ma non di afferrarla e tanto meno di chiarirla, lasciando una distanza infinita tra il proprio gesto immediato e la luce dell’essere. L’intuito, spiegò, «circoscrive» l’Idea, cioè la determina nell’ordine dell’empiria, smarrendone il carattere assoluto. Solo il lavoro della riflessione (ossia la libera mediazione intellettiva del soggetto umano) era in grado di colmare, almeno in parte, quella distanza, di avvicinare l’uomo a Dio e alla verità, dapprima nella forma di una «riflessione psicologica», capace di generare la «personalità propria», l’«io sono» e il cogito dell’individuo, quindi nella forma di una «riflessione ontologica», che avrebbe ritrovato in sé la notizia dell’Ente e della creazione.
I chiarimenti forniti sul principio protologico (la «relazione assoluta») e sul rapporto tra intuito e riflessione (che per altro si legavano strettamente agli esiti democratici del Rinnovamento) portarono Gioberti, nella fase estrema delle opere postume, a configurare la struttura della realtà, cioè il doppio ciclo della «formola ideale», nei termini di una dialettica che, almeno nominalmente, si richiamava all’antica filosofia di Platone. Se la sfera della «mimesi», cioè il mondo sensibile, appariva caratterizzata dalla negatività e dal ritmo della contraddizione, quella della «metessi» (dal greco méthexis, partecipazione) risultava informata dalla logica della differenza e dell’armonia; per poi compiersi nell’Idea, in Dio, ormai inteso come pura sintesi, come «relazione assoluta» e «senza termini», capace di includere in sé il molteplice e la differenza come una pura «potenza». Perciò, il secondo ciclo della «formola ideale» veniva ormai articolato nella direzione che conduceva la «mimesi» del mondo sensibile nella «metessi» della partecipazione intelligibile, fino a sollevarsi verso la realtà ultima dell’Idea: un processo, questo, che appariva mediato dall’energia della riflessione assai più che dall’immediatezza dell’intuito.
Questo «ciclo della riflessione» (come è stato definito dagli interpreti) trovò una pregnante metafora nell’immagine del «poligono», che Gioberti derivò dal De docta ignorantia (1440) di Niccolò da Cusa e riempì di suggestioni derivanti dalla Monadologie (1714) di Gottfried Wilhelm von Leibniz. La figura geometrica del poligono avrebbe dovuto rappresentare sia l’idea della Chiesa universale, dove ogni fedele (incluso il papa), lavorando nello spazio aperto dalla definizione negativa del dogma, esprime solo una parte della verità, sia, più in generale, il ritmo della civiltà e del conoscere umano, per cui la verità, manifestata dalla totalità del poligono, si compone della libera riflessione di ogni prospettiva individuale. Il compito concreativo della riflessione, cioè della moderna soggettività, emergeva con chiarezza nella figura dell’«ingegno dialettico», ossia di quel «lato» del poligono che, lungi dall’arrestarsi alla propria parzialità, si fa capace di superare il limite, di rappresentarsi tutti gli altri lati, fino ad avvicinare la totalità della figura, cioè la verità stessa, nel suo senso oggettivo. Tuttavia, anche in questa versione estrema della sua filosofia, le difficili questioni dell’intuito e del rapporto tra la libertà umana e la trascendenza di Dio tendevano a riemergere, seppure confinate in uno spazio meno evidente. La totalità della figura chiusa del poligono, cioè l’idea della verità, rimaneva infatti garantita e sostenuta, da un lato, dalla visione intuitiva che consentiva all’«ingegno dialettico» di superare il proprio limite e di approssimarsi al disegno divino, e, d’altro lato, dalla volontà imperscrutabile e provvidenziale dell’Ente, che sola poteva, di fronte al limite della natura umana, chiudere il circolo della riflessione, unificando gli infiniti lati della figura e ristabilendo, così, l’armonia del tutto.
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