Vittorio Emanuele III, re d’Italia
Re durane la dittatura fascista
Vittorio Emanuele III diventò re d’Italia nel 1900, in seguito all’assassinio del padre Umberto I. Accompagnò la storia d’Italia in alcune delle sue stagioni più intense e drammatiche: l’età giolittiana, le due guerre mondiali, il fascismo e il suo crollo, fino alla vigilia della nascita della repubblica
Figlio di Umberto I e Margherita di Savoia, nato a Napoli nel 1869, nel 1896 sposò Elena di Montenegro. Di carattere schivo, appassionato numismatico, fu chiamato il «re borghese» per la vita semplice e ostile alla mondanità. Diventò re d’Italia nel 1900 in seguito all’assassinio del padre. All’inizio del regno, abbandonò la politica autoritaria del padre e affidò il governo ai liberali Giuseppe Zanardelli (1901) e Giovanni Giolitti (1903), il quale governò quasi ininterrottamente per un decennio. Promosse la ripresa del dialogo con Francia e Inghilterra, pur rinnovando la Triplice alleanza con Austria e Germania. Questa flessibilità nelle alleanze consentì all’Italia di conquistare la Libia (1911) senza l’opposizione francese.
Allo scoppio della Grande guerra (guerra mondiale, Prima) si ebbe il ribaltamento delle alleanze: Vittorio Emanuele inviò il capo del governo Antonio Salandra a Londra per siglare un patto segreto (1915) che impegnava l’Italia a entrare in guerra al fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia in cambio della promessa di Trento e Trieste – che appartenevano all’Austria – e di territori nei Balcani. Nonostante la maggioranza del parlamento fosse neutralista, ebbe un ruolo decisivo nel portare il paese in guerra nel maggio 1915. Durante il conflitto il re visitò spesso le trincee, meritandosi l’appellativo di «re soldato». La guerra, dopo momenti assai difficili, fu comunque vinta (battaglia di Vittorio Veneto, 1918), ma si trattò di una vittoria ‘mutilata’, perché l’Italia non ebbe tutti i compensi promessi.
Nel dopoguerra Vittorio Emanuele, pur non provando simpatia per Benito Mussolini, permise l’affermazione del fascismo per restaurare con la forza l’ordine sociale sconvolto dalla crisi del dopoguerra. Quando, nell’ottobre 1922, i fascisti organizzarono la marcia su Roma non firmò la dichiarazione di stato d’assedio richiesta dal capo del governo Facta e incaricò Mussolini di formare un nuovo governo. Dopo il delitto Matteotti (1924) il re non recepì l’indignazione morale del paese e accettò le «leggi fascistissime» (1925-26), che imposero una dittatura totalitaria, sopprimendo le libertà dei cittadini.
Pur senza convinzione, non si oppose neanche alle successive scelte del regime: la partecipazione alla guerra civile spagnola, le conquiste che gli fruttarono i titoli di imperatore d’Etiopia (1936) e re d’Albania (1939), le leggi razziali antiebraiche (1938).
Nonostante le perplessità, Vittorio Emanuele III non si oppose neppure alla decisione di Mussolini di combattere al fianco della Germania di Adolf Hitler (nazionalsocialismo) e firmò la dichiarazione di guerra (1940). Lasciò al duce il comando supremo delle forze armate, che era una tradizionale prerogativa regia (guerra mondiale, Seconda). Solo in seguito allo sbarco in Sicilia degli Angloamericani si dissociò dal fascismo: quando Mussolini fu messo in minoranza dal Gran Consiglio (25 luglio 1943), il re lo fece arrestare, assunse il comando delle forze armate e affidò il governo al generale Badoglio. Dopo la firma dell’armistizio a Cassibile, reso noto l’8 settembre, il re fuggì a Brindisi per sottrarsi ai Tedeschi e formò il Regno del Sud, che si contrappose alla Repubblica fascista di Salò costituita nel Nord.
Tornato a Roma nel 1944 dopo la liberazione della città, affidò al figlio Umberto la luogotenenza del regno, cioè l’esercizio effettivo della sovranità. Dopo la liberazione, in vista del referendum popolare per la scelta tra monarchia e repubblica, consapevole della propria impopolarità per le responsabilità nella disfatta della nazione Vittorio Emanuele III abdicò a favore del figlio Umberto II (9 maggio 1946), nel vano tentativo di salvare la monarchia. In seguito alla vittoria della repubblica (2 giugno) andò in esilio ad Alessandria d’Egitto, dove morì l’anno successivo.