western Genere cinematografico d’avventura che, attraverso le vicende di pionieri, cowboy e fuorilegge, affronta il tema della ‘frontiera’ all’epoca della colonizzazione delle regioni occidentali (West) degli USA.
Nato agli albori del cinema (il primo esempio può essere considerato L’assalto al treno, 1903, di Edwin S. Porter), il w. è forse il genere che è riuscito a creare in maniera più forte e radicata, con una produzione imponente di opere, una formidabile tradizione visiva, imponendosi a livello mondiale tanto da essere riconosciuto come il cinema americano per eccellenza. Durante il muto vennero realizzati film di grande respiro come I pionieri (1923) di J. Cruze e Il cavallo d’acciaio (1924) di J. Ford, epopea della costruzione della prima ferrovia transcontinentale, ma è con l’avvento del sonoro che il w. consolida il successo popolare e rivela una capacità di rappresentare le mitologie della cultura americana che gli accordano un ruolo egemonico nell’immaginario cinematografico. Con Ombre rosse (1939) di Ford, l’autore più celebre della storia del w., in cui l’epopea della conquista del West celebra poeticamente virtù eroiche e valori familiari, adottando un uso plastico del paesaggio e una tecnica mirabile dell’azione, il genere inizia un’evoluzione che si completerà negli anni 1970. Se i film di Ford, dopo aver fondato l’orizzonte narrativo e ideologico del w., ne seguono parzialmente il solco (Sfida infernale, 1946; Il massacro di Fort Apache, 1947; I cavalieri del Nord-Ovest, 1949; Sentieri selvaggi, 1956), quelli di A. Mann, spesso interpretati da J. Stewart, ne accentuano la costruzione drammatica, registrando le nevrosi e le inquietudini della società del dopoguerra (Winchester 73, 1950; Lo sperone nudo, 1953; Terra lontana, 1955), così come Il cavaliere della valle solitaria (1952) di G. Stevens e soprattutto Mezzogiorno di fuoco (1952), di F. Zinneman, trasparente metafora antimaccartista. Furia selvaggia (1958) di A. Penn apre la strada alla rivisitazione dei miti della frontiera, ora fortemente critica della realtà storica, ora nostalgica e disperata per la loro definitiva scomparsa come nell’opera di S. Peckinpah, considerato l’ultimo grande regista del w., il cui stile, che raggela e moltiplica la violenza con il ralenti, suona come l’ultimo grandioso epitaffio del genere (Sfida nell’alta sierra, 1962; Il mucchio selvaggio, 1969; Pat Garret and Billy the Kid, 1973). L’importanza del w. e la sua centralità nel sistema produttivo sono dimostrate dal fatto che non solo i principali interpreti, soprattutto maschili, ne hanno costantemente incarnato l’epopea (H. Carey, J. Wayne, G. Cooper, R. Scott, C. Eastwood), ma che tutti i registi statunitensi di valore hanno finito, in misura diversa, per cimentarvisi (H. Hawks, R. Walsh, B. Boetticher, H. Hathaway, K. Vidor, J. Sturges, R. Fleischer, N. Ray, D. Daves, S. Fuller, S. Pollack).
Nel corso degli anni 1970 il w. si sviluppò anche al di fuori degli Stati Uniti, soprattutto in Italia, dove nacque il cosiddetto w. all’italiana (o spaghetti-western), che ne modificò sostanzialmente il profilo. Autori come S. Leone (Per un pugno di dollari, 1964; Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto e il cattivo, 1966; C’era una volta il West, 1968), registi come M. Lupo, S. Corbucci, E. Barboni esasperano fino alla parodia il linguaggio del w., stilizzandone l’uso della violenza e accelerandone il processo di dissoluzione ideologica, cui si assiste in America e altrove alla fine degli anni 1970. Negli anni successivi, il sostanziale esaurimento del genere è interrotto o da operazioni di sapore decadente e barocco (I cancelli del cielo, 1980, di M. Cimino) e neoclassico (Silverado, 1985, di L. Kasdan; Il cavaliere pallido, 1985, di C. Eastwood), o da reviviscenze occasionali (Young guns – Giovani pistole, 1988, di C. Cain) o da inediti esercizi d’autore (Pronti a morire, 1995, di S. Raimi). All’altezza dei classici appaiono invece Balla coi lupi (1990) di K. Costner, Gli spietati (1992) di C. Eastwood, Quel treno per Yuma (2007) di J. Mangold.