Xenofobia
Xenofobia (da ξένοϚ, straniero, e ϕόβοϚ, paura) significa paura dello straniero, paura che si manifesta attraverso comportamenti e atteggiamenti di rifiuto nei suoi confronti nella produzione del pregiudizio. La xenofobia individua una minaccia e afferma la superiorità del nazionale sullo straniero, dell'identità sull'alterità. È quindi un rapporto, sicuramente negativo, fra due entità sociali definite entrambe globalmente piuttosto che secondo una dimensione sociale particolare.La xenofobia non prende di mira un avversario politico o economico o definito per certe sue pratiche culturali particolari, ma chi appartiene a un'altra società, e cioè lo straniero. Se costui è molto lontano, senza reali rapporti con la società in cui si manifesta la xenofobia, quest'ultima sarà piuttosto debole, senza molto peso, quasi priva di oggetto.
Occorre che lo straniero sia vicino, che sia in qualche modo interno, che condivida lo stesso mondo, perché la xenofobia acquisti forza, sia perché lo straniero invade la società dello xenofobo, sia perché si colloca in una condizione di superiorità o d'inferiorità al suo interno. L'etimologia del termine fornisce due indicazioni importanti per analizzare un fenomeno che si presenta, con accentuazioni diverse, in tutte le società umane.La prima indicazione ci avverte che l'esigenza di allontanare, discriminare, emarginare lo straniero, di sterminarlo o di muovergli guerra, nasce dalla paura; la seconda ci dice che per dar conto della xenofobia occorre analizzare il significato della figura sociale dello straniero, la sua funzione caratteristica, che è quella di permettere la comunicazione fra culture diverse.
Lo straniero è qualcuno che manifesta nel suo aspetto fisico e/o nei suoi tratti culturali, nei modi e nel linguaggio che utilizza, di non appartenere all'identità culturale, spesso politicamente definita, del territorio in cui si trova. Lo straniero viene da altrove. Si è stranieri rispetto a chi è autoctono (αžôü÷øqν), ossia nato dalla terra, radicato nello spazio in cui vive, con la stessa evidenza di un albero. L'autoctono si concepisce come dotato di antiche, 'naturali' radici che affondano in un territorio. Da questa collocazione spaziale, vissuta come immutabile nel tempo, l'autoctono trae il sentimento della propria superiorità nei confronti dello straniero. Nel mondo moderno l'autoctono nella maggioranza dei casi è il cittadino dello Stato-nazione; fra l'elaborazione di un'identità culturale e il riferimento a una lingua e a un territorio esiste assai spesso un legame. Con l'eccezione dei nomadi, chi si riconosce in un'appartenenza culturale cui manca un territorio tende a mitizzarne uno, ne fantastica, vi ancora la memoria, spesso lotta per stabilirvisi, come è accaduto nel caso degli Ebrei.
Perché lo straniero fa paura? perché la sua comparsa evoca una minaccia? Rispondere a queste domande richiede di seguire il percorso di ricerca di diversi scienziati sociali, psicologi, antropologi, storici. Queste ricerche convergono sostanzialmente sulle stesse ipotesi, e si prestano bene a introdurre la riflessione sociologica sullo straniero permettendo di svilupparne il campo d'applicazione.
La paura dello straniero è un sentimento universale. Esso varia d'intensità al variare di circostanze storico-sociali che sostanzialmente riguardano le condizioni di sicurezza o di insicurezza in cui si afferma e si sviluppa l'identità culturale di un gruppo, ma resta onnipresente, difficilmente eliminabile anche nelle condizioni più favorevoli.
La paura dello straniero, tuttavia, si presenta molto raramente allo stato puro, ma è in genere accompagnata da un sentimento opposto, l'interesse per lo straniero. I due sentimenti convivono, si mescolano secondo proporzioni variabili, e raramente accade che l'uno prevalga completamente sull'altro, determinando un quadro dominato dalla sola paura o dal solo interesse per lo straniero.Lo straniero fa quasi sempre paura, almeno un poco, così come interessa sempre, almeno un poco, anche quando fa paura.
L'incontro fra lo straniero e l'autoctono è dominato da una sostanziale ambivalenza: lo straniero è nello stesso tempo ammirato e disprezzato, accolto e respinto, ricercato ed evitato. Lo straniero è la figura sociale che dà conto di ciò che accade quando si incontrano, in condizioni asimmetriche di potere, coloro che appartengono a culture diverse. Questo incontro genera una forte reazione emotiva, che è insieme negativa e positiva, di accoglienza e di rifiuto, e che richiede di essere elaborata attraverso norme che fissino lo statuto dello straniero. Tale reazione emotiva si esprime come desiderio di conoscenza, di contatto e insieme come disgusto, desiderio di distruzione nei confronti di abitudini e modi diversi da quelli che appaiono 'normali'.
Quando si parla di xenofobia, si parla di un solo aspetto, quello negativo, di un sentimento che nella maggior parte dei casi si presenta accompagnato dal suo opposto, che è ovviamente positivo. Per questo xenofobia e razzismo, anche se spesso i confini fra i due fenomeni sono incerti, non devono essere confusi, perché nel razzismo vive solo la componente negativa, distruttiva, di un insieme di atteggiamenti e comportamenti, tipicamente contraddittori, che sorgono in occasione dell'incontro fra soggetti culturalmente diversi.
Che sia più o meno sbilanciata a favore della paura o dell'interesse, la mescolanza di sentimenti opposti resta e produce conseguenze ben diverse da quelle che produce il razzismo.
La conseguenza caratteristica dell'esistenza di sentimenti opposti, come già si è accennato, è l'elaborazione di uno statuto dello straniero, che non ne sancisce né l'esclusione totale né l'inclusione totale, ma stabilisce qual è la distanza sociale - cioè una mescolanza di vicinanza e di lontananza - nel rispetto della quale possono stabilirsi i rapporti fra stranieri e autoctoni.La distanza sociale che si crea fra coloro che appartengono a culture diverse, che evidenzia una 'differenza', non è della stessa natura di quella distanza che deriva da una 'diseguaglianza' e che separa coloro che appartengono a strati sociali più o meno dotati di prestigio e potere, superiori o inferiori, ma interni alla stessa cultura. Le due distanze possono cumularsi o sottrarsi, trasformarsi parzialmente l'una nell'altra, annullarsi in casi di grande mobilitazione collettiva, ma hanno origini e producono conseguenze diverse.
Gli psicologi hanno dedicato molti studi alla reazione di rifiuto dello straniero da parte di chi fa parte di un gruppo, formulando varie ipotesi, e hanno osservato altresì come si manifesta questa reazione nella prima infanzia.
Due indicazioni sembrano particolarmente utili in proposito. La prima è data dall'ipotesi di Sigmund Freud (v., 1921) secondo la quale l'identificazione dell'individuo in un gruppo, che si accompagna a manifestazioni di xenofobia, al pregiudizio negativo nei confronti degli altri gruppi e dei loro membri, avrebbe la sua fonte nell'invidia originaria che ogni bambino prova nei confronti del nuovo fratello.La seconda indicazione è data dal resoconto della cosiddetta crisi dell'ottavo mese nella vita psicologica del bambino (v. Mahler e altri, 1975).Freud collega lo spirito di gruppo e l'avversione per lo straniero all'ostilità, generata da un sentimento di minaccia e di abbandono, con cui il bambino accoglie i fratelli che sembrano sottrargli l'affetto e le cure dei genitori, un'ostilità che comporta pesanti costi psicologici e che il bambino cerca quindi di superare.
Questo sentimento scomodo e penoso può essere abbandonato solo con un forte investimento in una diversa direzione, e cioè attraverso l'identificazione con gli altri bambini non appartenenti alla famiglia, che negli anni successivi si consolida con l'appartenenza a un gruppo di pari, a una classe scolastica. Secondo Freud (v., 1921; tr. it., p. 308), "ciò che in seguito troviamo operante nella società come spirito comunitario, spirito di corpo, ecc. non smentisce la propria provenienza dall'invidia originaria [...]. Il senso sociale poggia [...] sul volgersi di un sentimento ostile, inizialmente, in un attaccamento caratterizzato in senso positivo, la cui natura è quella dell'identificazione".
Quanto alla reazione del bambino di fronte a chi non fa parte di coloro che normalmente si occupano di lui, di fronte a un estraneo, sappiamo che l'andamento della 'crisi dell'ottavo mese' è collegato al decorso più o meno soddisfacente della fase simbiotica, cioè del periodo passato in totale dipendenza dalla madre o dalla principale figura che si è presa cura di lui. Nel processo di individuazione-separazione che ha luogo nel primo anno di vita del bambino, la sua reazione all'estraneo appare strettamente collegata al conseguimento di una buona fiducia di base. Se il bambino ha avuto esperienze serene e appaganti nel suo rapporto con la madre, se si è abituato a pensare che i suoi bisogni fondamentali vengono soddisfatti, se ha maturato una tranquilla fiducia nei confronti di chi si occupa di lui e del suo ambiente, l'arrivo di un estraneo lo stupirà e lo preoccuperà sempre in qualche misura, gli metterà un po' di paura, ma prevarranno in lui la curiosità, l'interesse e il desiderio di esplorazione. Il contrario accade quando il bambino non abbia avuto modo di sviluppare una sufficiente fiducia di base: in questo caso la reazione sarà di angoscia, paura, spesso di panico. Ma anche in queste condizioni di sofferenza e rifiuto, il bambino dimostra sempre una certa misura di curiosità e di attrazione.
L'immutabilità dell'emozione viene confermata da questo tipo di osservazioni sperimentali, e il contesto della conferma è molto eloquente per chi si interroga sulla xenofobia. Anche se immutabile e ambivalente, l'emozione originata dall'ingresso dell'estraneo ha maggiori probabilità di essere vissuta prevalentemente in termini positivi, come avventura, gradita innovazione, gioco, scoperta, quanto più il bambino ha avuto esperienze gratificanti, tranquillizzanti, che lo hanno felicemente predisposto verso la vita.
Al contrario l'incontro con l'estraneo ha maggiori probabilità di essere vissuto in termini negativi, come fonte di minaccia e pericolo, quanto più lo sviluppo del bambino ha conosciuto difficoltà, e in particolare quanto meno la fase simbiotica con la madre è stata felice, generatrice di fiducia. In ogni caso, l'ambivalenza verso lo straniero è ben evidente e non scompare mai: anche se angosciato, il bambino manifesta una qualche curiosità per l'estraneo, così come, anche quando l'attrazione e la voglia di esplorare prevalgono, non manca mai, sullo sfondo, una certa preoccupazione.
La letteratura antropologica concorda nel segnalare che l'incontro con la diversità culturale, con lo straniero, provoca una forte reazione emotiva. Questa emozione può esprimersi sotto forma di curiosità, interesse, desiderio di conoscenza e di contatto o addirittura di reverenza. Le reazioni più vistose sono comunque di ripulsa e disgusto per abitudini e modi di parlare e di comportarsi diversi dai propri, gli unici che vengono considerati convenienti e 'normali'.
L'etnocentrismo - la spontanea sopravvalutazione della propria identità culturale, accompagnata dal disprezzo per le identità culturali diverse, dal frequente disconoscimento all''altro' dei tratti stessi dell'umanità - sembra essere una caratteristica universale delle società umane.
Nella maggior parte delle società 'semplici', così come nelle società antiche di cui gli storici hanno studiato le testimonianze scritte, i confini dell'umanità non superano quelli dell'identità culturalmente definita. Tanto nel comportamento degli uomini 'primitivi' che nelle rappresentazioni delle grandi civiltà del passato troviamo ampie testimonianze di come lo straniero (βάϱβαϱοϚ, oppure ξένοϚ nel mondo greco; hostis che non fa parte del populus nel mondo romano; in molte lingue antiche, colui che è escluso da quella comunità i cui membri soltanto si definiscono 'gli eccellenti', 'i buoni' o semplicemente 'gli uomini') sia un personaggio temuto e disprezzato, nei confronti del quale si sviluppa il pregiudizio e cui si riconosce a stento o non si riconosce del tutto una natura umana.
La constatazione dell'universalità dell'etnocentrismo si accompagna tuttavia a una constatazione opposta, quella dell'onnipresenza nella storia umana di una indiscutibile passione per tutto ciò che è straniero, per ciò che viene da lontano, che parla di altri mondi, di cose ed esperienze sconosciute. Sembra proprio che una società tranquillamente ripiegata su se stessa, che si nutre solo della propria cultura senza cercare alimento altrove, non sia mai esistita. Ciò sembra abbastanza ovvio, dato che il problema di come nutrire la propria cultura, di alimentarne lo sviluppo, non può essere risolto che attraverso il contatto con culture diverse.
Anche in quelle società che si presentano allo sguardo dell'antropologo come tipicamente isolate, serenamente ripetitive e chiuse nella contemplazione e celebrazione della propria cultura, come i Tikopia di cui parla Raymond Firth (v., 1936), è fortissimo il desiderio di impossessarsi di oggetti che vengono da lontano, che non appartengono alla propria cultura, il bisogno di viaggiare o almeno di ascoltare i racconti di chi ha viaggiato. Quel desiderio non è stato introdotto dai colonizzatori occidentali e dalle strepitose novità che questi ultimi portavano con sé, ma esisteva anche prima del loro arrivo, che lo ha solo reso più intenso. È un desiderio presente in qualsiasi società umana, e accompagna il processo che porta alla formazione di un'identità culturale, convivendo con la paura dello straniero.
Anche se in molta letteratura sull'argomento le società 'primitive' appaiono come unità chiuse e autosufficienti, simili a isole che non comunicano con l'esterno, la realtà di una corrente continua di scambi è implicitamente ammessa, anche se non sufficientemente problematizzata.Nelle società di cacciatori-raccoglitori dell'Europa paleolitica descritte da Vere Gordon Childe (v., 1942) come gruppi chiusi, privi di contatti con l'esterno, una qualche misura di comunicazione, di commercio, interviene sempre a movimentare uno scenario che non è immobile, ma semplicemente molto più calmo di quello delle società moderne. Gli scambi riguardano spesso beni totalmente superflui, privi di particolare rilievo dal punto di vista economico.Marcel Mauss (v., 1923-1924) ha dato un importante contributo alla comprensione di questa realtà quando, discutendo della catena Kula studiata da Bronislaw Malinowski, ha evidenziato il carattere non utilitaristico, gratuito, del traffico di conchiglie nelle Trobriand.
Anche se questo scambio di beni simbolici apre la strada al commercio vero e proprio e lo accompagna, la sua relativa autonomia è stata sempre riconosciuta dagli studiosi più attenti e li costringe a interrogarsi sulla sua funzione e sulle sue origini.Più in generale, anche il grande traffico in cui gli Occidentali si impegnano per secoli in direzione di un Oriente in cui si vanno a cercare stoffe, spezie, profumi, sembra interpretabile come ricerca di oggetti preziosi perché esotici e diversi piuttosto che come ricerca di beni destinati a soddisfare irrinunciabili bisogni concreti. Le rischiose avventure e i viaggi estenuanti sembrano più giustificati dal desiderio di far proprio ciò che viene da lontano, di cercare nutrimento in altre culture, che non dalla reale necessità di procurarsi cose indispensabili e non disponibili in patria.La realtà è che l'etnocentrismo, così spesso descritto dagli antropologi, è stato raramente investigato per coglierne il possibile significato. Pochi si sono posti il problema di spiegarne le ragioni, limitandosi a segnalarne l'esistenza e le forme.Francesco Remotti ha il merito di muoversi chiaramente in questa direzione e di proporre l'interrogativo sull''oscurità' dell'etnocentrismo, sulle ragioni della sua forte aggressività, sulla sua costante convivenza con tendenze che vanno in senso opposto, verso la ricerca dello straniero, la curiosità e il desiderio nei suoi confronti. La sua argomentazione prende le mosse da una critica della spiegazione dell'etnocentrismo offerta da William Sumner (v., 1906), forse il primo antropologo che abbia problematizzato adeguatamente la figura dello straniero. Per Sumner colui che non appartiene al gruppo, l'out-group, ha una precisa funzione, quella di far sorgere l'identità-Noi, di procurare quel sentimento indispensabile alla sopravvivenza della propria cultura che è il sentimento della propria specificità. Di fronte allo straniero cui ci si oppone, cui si muove eventualmente guerra, il gruppo prende piena coscienza di sé, per differenza da qualcuno che sta fuori, che non fa parte della sua cultura, e che viene definito come inferiore o addirittura non umano.
Questa interpretazione della funzione dello straniero e dell'etnocentrismo si accompagna spesso a una visione evolutiva del rapporto fra lo straniero e coloro che appartengono al gruppo nel corso della storia. All'origine ci sarebbero delle identità culturali inconsapevoli, coerenti, innocentemente chiuse su se stesse e non comunicanti. L'incontro con l'outgroup, oltre che generare la guerra in una completa coincidenza fra straniero e nemico, provocherebbe la consapevolezza, da parte della comunità culturale, di un'identità precedentemente più vissuta che sentita. Lo straniero perderebbe in seguito la sua funzione definitoria, man mano che le identità culturali, con l'avanzare della modernità e lo sviluppo delle comunicazioni, si sciolgono in un'unica identità-Noi che dovrebbe coincidere con l'umanità intera. La figura dello straniero sarebbe così destinata a sparire, come l'emozione che accompagna l'incontro con la diversità. Questa interpretazione dell'etnocentrismo, oltre a essere violentemente smentita dai drammatici avvenimenti storici più recenti, non risponde alla domanda sul perché xenofobia e xenofilia si presentino per lo più insieme nella storia degli incontri fra gruppi umani culturalmente diversi. Molto più fertile appare l'ipotesi che lo straniero abiti fin dall'inizio all'interno dell'identità culturale, che quest'ultima non sia qualcosa di ben chiaro e limpido, che l'etnocentrismo dia forma a un bisogno umano di 'determinazione' che si oppone al pericolo di dissoluzione identitaria. Se è vero che le società umane hanno bisogno di definirsi secondo forme storicamente determinate, di prendere coscienza di sé nel "vincolo irrescindibile della particolarità" (v. Remotti, 1992, p. 32), di elaborare un sentimento del Noi che è culturalmente circoscritto, si può far l'ipotesi che questo bisogno venga soddisfatto operando una scelta fra voci discordanti, spesso in tensione reciproca. Questa scelta viene volentieri dimenticata proprio perché è stata difficile e perché può sempre riproporsi. È più semplice e gratificante, per chi appartiene al Noi, pensarsi come provvisto di un'identità essenziale, permanente e autoevidente, senza tracce di tensioni interne. Essere coscienti, oltre che della propria identità, anche dello straniero che da sempre l'accompagna, vuol dire essere coscienti delle altre vie che si sarebbero potute imboccare, delle possibilità che si sono rifiutate, delle forme alternative che anche oggi il Noi, pur culturalmente definito, potrebbe assumere. È una consapevolezza scomoda, che restituisce tutta la sua problematicità alla figura dello straniero, riconoscendone la sfida e il ruolo di fornire il nutrimento indispensabile all'identità culturale.
Quando si è consapevoli del travagliato processo che permette la definizione della propria particolarità, lo straniero non suscita più che quel tanto di paura che consente la difesa dell'identità e quel tanto di desiderio che consente di essere alimentati dai contatti con le altre culture.Il mito cui occorre rinunciare è quello dell'esistenza di un'identità culturale coesa, coerente, quel mito che Remotti (v., 1992, p. 22) ha descritto attraverso la metafora della 'sfera', dai contorni ben tracciati e dal contenuto coerente.L'identità culturale è stata spesso rappresentata come una sfera all'interno della quale regna una sovrana armonia, un ordine che viene turbato solo dal disordine esterno provocato dall'irruzione delle identità-Noi diverse.Lo straniero, nei termini di questa metafora, è stato rappresentato come una 'breccia', un elemento di intrusione esterna rispetto all'armonia originaria (ibid., p. 31).
Le identità culturali omogenee e internamente armoniche sono un'illusione pressoché priva di riscontri empirici. L'idea della cultura come un tutto omogeneo è stata criticata in modo convincente in numerosi studi antropologici che hanno messo in discussione la concezione dominante, centrata sull'isolamento e sulla delimitazione culturale. Le culture sono costruzioni eterogenee, mutevoli, sottoposte a continui processi di contaminazione da parte di altre culture.
Ogni cultura è piena di 'brecce', è il risultato della mescolanza di principî differenti in tensione reciproca. Lo straniero non è solo qualcuno che irrompe provocando cambiamenti sulla scena di una ripetizione dell'identico, qualcuno che viene dal di fuori, che si incontra perché ci invade, per ragioni di matrimonio, di convenienza o in seguito a movimenti migratori. Lo straniero fa parte fin dall'inizio dell'anima del Noi, anche quando l'occasione di un reale incontro non si è data. Fa parte dell'identità collettiva e contribuisce a definirla. Lo straniero è 'originario' nel senso che egli stesso non rappresenta un'identità coerente, compatta; prima ancora di entrare nella città dell'autoctono, lo straniero ne faceva già parte, nel senso che la sua presenza era indispensabile ad alimentare la vita, l'immaginazione, lo sviluppo dell'autoctono stesso. Se si va in cerca dello straniero, come tutti i popoli hanno sempre fatto, è perché si sa che esiste; ci si mette in viaggio per conoscerlo o lo si accoglie perché una parte del Sé lo reclama. L'incontro fra identità e alterità è improntato a uno squilibrio cronico, ineliminabile, fra desiderio di rifiuto e desiderio di accoglienza dello straniero. Ciò che sembra a prima vista una contraddizione, l'attrazione verso lo straniero e il rifiuto che la sua figura ispira, appare allora come la doppia faccia dello stesso fenomeno: la presenza simultanea, essenziale per la vita culturale e lo sviluppo di qualsiasi gruppo umano, del bisogno di chiudere e del bisogno di aprire le frontiere dell'identità.
Anche negli scritti di Lévi-Strauss (v., 1952) si incontra la coesistenza di asserzioni opposte, quando l'analisi mette a fuoco la questione della comunicazione fra identità culturali diverse. Da una parte infatti egli afferma che, in assenza di contatti, di quelle modificazioni continue che provocano gli scambi e gli incontri fra diversi, le identità culturali si impoveriscono, perdono ogni forza d'espansione, si riducono a scheletri senza carne. Dall'altra, ridicolizza il sogno di un 'meticciato' generale, l'aspirazione a un mondo in cui le identità culturali dovrebbero aprire completamente le loro porte davanti allo straniero, disponendosi ad ammirare tutto ciò che è alterità, riconoscendone la parità, se non l'eccellenza.
L'etnocentrismo è un sentimento universale che, entro certi limiti, assolve una importante funzione e che è perfettamente inutile condannare e reprimere. Fra le culture esiste una certa 'impermeabilità' e incomunicabilità reciproca che è meglio accettare e legittimare. Il progresso si realizza, secondo Lévi-Strauss, unicamente attraverso coalizioni di culture, intendendo con ciò un movimento di avvicinamento fra culture separate da un massimo di differenza, non certo un movimento che va in direzione della loro reciproca omogeneizzazione.La ricchezza che l'incontro fra identità culturali diverse può produrre è direttamente proporzionale alla profondità delle differenze che le separano. Ciò significa che i benefici del contatto culturale sono tanto più grandi quanto più aumenta la distanza, l'alterità fra culture. Per sviluppare al massimo le potenzialità culturali, gli uomini che appartengono a identità culturali diverse devono collaborare. In questo processo le diversità iniziali che rendevano fecondo l'incontro si attenuano e il loro potenziale di ricchezza diminuisce. L'umanità è costantemente occupata a svolgere due operazioni contraddittorie: la prima tende a instaurare l'unificazione, la seconda ristabilisce la diversificazione.
La conclusione di questo tipo di analisi è il riconoscimento di un'ambivalenza che accompagna quasi sempre e con conseguenze positive la comunicazione fra culture diverse. La comunicazione sviluppa tutta la ricchezza che l'incontro consente quando mantiene, senza uscire dal campo di tensione degli opposti, uno squilibrio ragionevole fra chiusura e apertura, che garantisce sia la protezione dell'identità che la sua messa in discussione. Lo squilibrio è produttivo quando il rilancio della comunicazione fra diversi non compromette eccessivamente la difesa dei contenuti culturali reciproci delle identità che si confrontano. L'insieme di queste riflessioni suggerisce che l'ambivalenza verso lo straniero - il rifiuto e l'accettazione della comunicazione interculturale - costituisce la condizione perché questa comunicazione si realizzi. Si può allora avanzare l'ipotesi che la sola xenofobia e la sola xenofilia costituiscano una patologia nei processi innescati da uno squilibrio continuo e necessario fra bisogni opposti. La sociologia dello straniero fornisce nuovi strumenti per proseguire in questa direzione di ricerca.
La riflessione sociologica sullo straniero non tematizza direttamente la xenofobia, ma cerca di individuarne le origini tracciando un quadro dei rapporti sociali che si stabiliscono fra lo straniero e coloro che appartengono al gruppo culturalmente definito che lo accoglie, e dei processi che ne derivano.Due concettualizzazioni sono particolarmente rilevanti quando si tratta di mettere in luce le fonti della xenofobia: la figura dello straniero di Georg Simmel e quella dell'outsider di Norbert Elias.
Lo straniero di Simmel (v., 1908) è una forma sociale, uno dei modelli d'interazione umana che costituiscono il campo di studio specifico della sociologia. Gli elementi di questa forma sociale, come è caratteristico del pensiero di Simmel, sono costituiti dalla presenza contemporanea di due dimensioni polarmente opposte: dal punto di vista spaziale, la mobilità e la stabilità; dal punto di vista dei rapporti umani, dei sentimenti che sorreggono l'interazione, la distanza e la vicinanza; dal punto di vista della conoscenza, la generalità e la specificità.I rapporti fra lo straniero e i membri della società che lo ospita sono caratterizzati in primo luogo dall'ambivalenza: essere stranieri è una modalità caratteristica di far parte del gruppo.
La società emargina lo straniero ma ne ha bisogno per alimentare la propria solidarietà interna, per assolvere quei compiti che gli autoctoni rifiutano o non possono svolgere, per comunicare con l'esterno.L'ambivalenza è un elemento che non può essere eliminato nel rapporto fra straniero e appartenenti al gruppo, se non al prezzo di uscire dal campo di tensione generato dalla comunicazione interculturale, e cioè imboccando la strada della guerra, del razzismo oppure della completa assimilazione.Simmel pensa al mercante ebreo che vive fra le mura della città medievale: i cittadini possono emarginarlo ed escluderlo per molti effetti dalla piena partecipazione alla vita sociale, ma ne subiscono il fascino e ne hanno bisogno per produrre ricchezza e per procurarsi quei beni che in una società immobile, dove ognuno è vincolato alla terra, risulterebbero inaccessibili. Lo straniero è in soprannumero, occupa un posto che sarebbe altrimenti libero. Da parte sua egli non nutre alcuna lealtà nei confronti delle tradizioni culturali, delle istituzioni, dei legami primari e affettivi intorno a cui si salda la coesione del gruppo di cui è entrato a far parte, ma li utilizza strumentalmente per raggiungere obiettivi - avere un lavoro, arricchirsi - che in patria gli sarebbero preclusi. L'interpretazione di Simmel va in direzione opposta rispetto a quell'approccio teorico che ha guidato per anni le ricerche sugli oppressi, gli emarginati e gli esclusi e che parte dall'assunto che l'esclusione dell'altro, la sua uccisione metaforica, sia una costante antropologica (v. Basaglia Ongaro, 1978).
L'ambivalenza che regna nei rapporti fra straniero e autoctoni segnala invece una relazione asimmetrica di potere all'interno della quale nessuna delle due parti è mai totalmente priva di potere, né è in condizione di esercitarlo senza limiti.Fino a quando il rapporto non si interrompe, la funzione che lo straniero svolge è positiva e il suo vantaggio innegabile, anche in condizioni di emarginazione ed esclusione molto pronunciate. La pur modesta quantità di potere di cui lo straniero dispone dispiega la sua influenza in molti modi, soprattutto nel senso di provocare processi di cambiamento culturale. Lo straniero è il messaggero del cambiamento, perché ovunque due culture vengano a contatto si producono inevitabilmente modificazioni in entrambe. Le analisi di Werner Sombart (v., 1916-1927²) e di Alfred Schütz (v., 1971), che sviluppano il pensiero simmeliano, sono molto chiare in proposito. Il cambiamento è desiderato perché necessario alla sopravvivenza dell'identità culturale, perché è vitale, ma è anche temuto, perché cambiare costa fatica e dolore.
La figura simmeliana, che si riferisce a condizioni storico-sociali molto diverse da quelle che caratterizzano le società contemporanee, deve essere evidentemente storicizzata, declinata secondo le esigenze di ricerca specifiche che provengono da un mondo in cui lo statuto e la condizione dello straniero hanno assunto un altro rilievo e altre forme, ma l'elemento dell'ambivalenza, che costituisce il cuore e il motore di questa figura, continua a essere fondamentale, soprattutto per dar conto dei processi di comunicazione interculturale e della loro eventuale interruzione quando prevalgono la xenofobia, il razzismo o la completa assimilazione. Il processo attraverso il quale un gruppo culturalmente definito struttura il proprio spazio sociale porta a definire le lontananze e le vicinanze che i suoi membri devono rispettare in ragione delle differenze culturali (v. Tabboni, 1986).
La vita di un gruppo richiede l'affermazione della sua identità culturale, cui corrisponde l'emarginazione dei portatori di identità culturali diverse, e nello stesso tempo l'apertura verso l'altro da sé, verso il cambiamento, cui corrisponde l'inclusione dello straniero nella propria cerchia.Nella figura dello straniero convivono emarginazione e integrazione, esclusione e inclusione: lo straniero non è mai completamente accettato né mai completamente respinto. Nei suoi confronti si nutre normalmente un pregiudizio. È una figura fragile contro la quale può rivolgersi un'ondata di xenofobia se si presentano condizioni che scuotono la sicurezza identitaria del gruppo. Simmel ci dice che in caso di guerre, di disordini interni, lo straniero è il primo a essere accusato di tradimento, di complotto ai danni della comunità.
Le ragioni che inducono insicurezza nel sentimento dell'identità possono essere sociali, economiche, culturali, politiche: grandi cambiamenti sociali, modernizzazione, crisi economica, disoccupazione, forti correnti d'immigrazione, l'iniziativa di un potere politico totalitario che gioca la carta del nazionalismo per rafforzarsi.Un esempio storico fra i tanti: ogni volta che, nel corso del XVIII e del XIX secolo, una società rurale dell'Europa orientale o centrale si trova in crisi di fronte a cambiamenti sociali che preannunciano la modernità e che spaventano, in particolare lo sviluppo del commercio e l'economia urbana, gli Ebrei vengono accusati della crisi, perché occupano uno spazio a parte, perché non appartengono fino in fondo, perché non si dedicano alle attività agricole, anche se molti di loro ricavano dall'artigianato e dal commercio guadagni non superiori a quelli dei contadini tedeschi, polacchi o rumeni.L'outsider di Norbert Elias presenta una certa affinità con lo straniero di Simmel, sebbene in questo caso l'accento sia posto sulla relativa esclusione e marginalizzazione del diverso, sullo stigma di cui è oggetto in ragione di un'inferiorità che riunisce i caratteri della 'differenza' culturale e quelli della 'diseguaglianza'.Se lo straniero di Simmel è una forma sociale, l'outsider di Elias è una 'figurazione', un modello d'interdipendenza fra due gruppi di attori che si definiscono come identità contrapposte, gli established e gli outsiders.
Le due figure costituiscono insieme un riferimento teorico indispensabile per dar conto di come i processi generati dall'incontro fra identità culturali diverse, in condizioni asimmetriche di potere, producano rifiuto e accoglienza verso chi viene da altrove.Il modello established/outsiders è elaborato nell'ambito di una ricerca di comunità - cui viene dato il nome di Winston Parva - condotta negli anni sessanta da Elias e dal suo assistente John L. Scotson per spiegare l'elevato tasso di criminalità e di devianza tra i giovani di una determinata parte del territorio. Come sempre, il punto di partenza di Elias è la ricostruzione di un processo: la situazione che si è creata in un vecchio quartiere operaio fra i vecchi abitanti, che costituiscono una comunità fiera della propria cultura che si può riassumere nel concetto di 'civilizzazione', e i nuovi arrivati nel quartiere, anch'essi di classe operaia ma 'incivili', che si sono trasferiti in una zona adiacente del quartiere. Gli established e gli outsiders sono una 'figurazione', un modello di interdipendenza, nel senso che gli uni non potrebbero esistere senza gli altri, che sono diventati quel che sono in ragione del loro legame reciproco.
Come già aveva notato Max Weber, chi possiede privilegi afferma che ciò accade per valide ragioni, ne sostiene la legittimità: le maggiori chances di potere di cui gli established dispongono consentono loro di attribuirsi un carisma di gruppo (group charism) - maggioranza dei migliori - cui corrisponde lo stigma attribuito agli outsiders - minoranza dei peggiori (group disgrace). La scarsa coesione sociale che regna fra gli outsiders impedisce loro di reagire con un movimento di autostima che definisca positivamente la loro identità culturale oppure con un etnocentrismo simmetrico a quello degli established: essi accettano l'etichetta che viene loro applicata, si comportano di conseguenza, e molti fra i giovani diventano devianti o criminali. La 'civilizzazione' delle vecchie famiglie si è compiuta attraverso l'adesione, nel corso degli anni, a quei codici di comportamento che sono tipici delle classi medie e che impongono l'autocontrollo, la repressione istintuale, il rispetto delle buone maniere, l'educazione dei bambini a osservare le stesse regole. L''inciviltà' dei nuovi arrivati si manifesta nelle loro abitudini non controllate, nella loro propensione alle risse e all'abuso di alcolici, all'uso di un linguaggio rozzo e violento, a non rispettare norme igieniche e di ritegno nel soddisfare le esigenze fisiologiche, a lasciare i bambini liberi in strada.La situazione di vicinato viene avvertita come minacciosa e degradante dalle 'vecchie famiglie', e i nuovi arrivati vengono rifiutati, subiscono discriminazioni, denigrazioni, misure d'esclusione che erodono seriamente la loro autostima, influenzandone il comportamento in direzione della devianza.
Anche in questo caso l'ambivalenza che caratterizza il rapporto fra i due gruppi è evidente. Gli outsiders invidiano le chances di potere di cui gli established dispongono, i loro privilegi, il loro facile accesso alle risorse che il quartiere offre, ma ne deridono le buone maniere, ne disprezzano l'ipocrisia, la vita piena di divieti e priva di emozioni. Gli established disprezzano l''inciviltà' degli outsiders ma ne invidiano segretamente la libertà, la spontaneità e la mancanza di inibizioni.Il modello eliasiano fornisce indicazioni importanti per ciò che riguarda l'origine della xenofobia.
In primo luogo, la xenofobia può avere come oggetto anche gruppi che non sono stranieri in senso proprio, ma che sono percepiti come stranieri e 'inferiori' perché mancano di 'civilizzazione'. Essa ha più spesso origine da timori di discesa sociale, da ansie di status, dalla sfiducia nella capacità di resistenza ed espansione della propria identità culturale da parte degli autoctoni, che dal comportamento degli stranieri. Gli outsiders sono percepiti dagli established come una minaccia di discesa sociale perché la cultura a cui mostrano di appartenere non solo appare 'diversa', ma si connota chiaramente come 'inferiore' in un mondo in cui la 'civilizzazione' è diventata un requisito indispensabile all'ascesa sociale.Solo per estensione si può parlare di xenofobia da parte degli established: chi suscita paura e rifiuto non viene da un altro paese, parla la stessa lingua, appartiene alla stessa classe sociale. Ciò che in lui disgusta è l''inciviltà', il rifiuto di una cultura dell'autocontrollo che è tipica degli strati sociali più bassi. Ciò che subiscono gli outsiders non è diverso da ciò che subiscono gli stranieri poveri che vanno ad abitare vicino agli autoctoni, o che subiscono i neri quando vanno ad abitare nei quartieri dei bianchi, come è stato messo in luce in numerose ricerche della scuola di Chicago. Il modello eliasiano sposta l'attenzione sui processi di emarginazione ed esclusione che vengono messi in moto dall'intrusione nel territorio dell'autoctono di figure sociali che appaiono più 'inferiori' che 'diverse', sul fatto che alle diverse classi sociali corrispondono culture differenti e gerarchizzate. Il rifiuto che una cultura sollecita è spesso da attribuire anche alla sua scarsa 'civilizzazione', alla paura di discesa sociale che suscita. Questo suggerimento di ricerca, che diventa prezioso quando la mobilità sociale discendente è un fantasma onnipresente nell'immaginario collettivo, particolarmente minaccioso negli strati sociali più esposti al rischio, invita a riprendere il discorso sull'intreccio delle distanze sociali che derivano dalla 'differenza' e dalla 'diseguaglianza'. Le due distanze si cumulano quando lo straniero non è solo 'diverso' ma anche 'inferiore', proveniente dai paesi poveri del mondo (il caso della xenofobia verso gli immigrati arabi e africani nei paesi ricchi dell'Occidente), oppure quando non è solo 'diverso' ma anche 'superiore' (il caso della xenofobia indiana verso i colonizzatori inglesi, dei paesi arabi verso l'Occidente corrotto e dominatore, dei Sudamericani verso i gringos, gli Americani del Nord).
Il modello di Elias, oltre a mostrare i possibili intrecci che la distanza sociale assume nelle società contemporanee, continuamente agitate da tutti i tipi di mobilità sociale, è particolarmente adeguato a mettere in luce l'insicurezza, la paura da cui oggi nasce frequentemente la reazione xenofoba.Molte ricerche, condotte in diversi paesi occidentali, hanno mostrato che il rifiuto delle minoranze straniere non era da attribuire tanto alle difficoltà d'integrazione di queste ultime, quanto a timori di caduta sociale diffusi nella popolazione autoctona e indotti da congiunture economiche sfavorevoli. I timori sono aggravati dal sentimento che la propria cultura 'rispettabile' e 'decorosa' venga travolta dall'invasione di culture caratterizzate da un minor livello di autorepressione. La xenofobia e l'affermazione esasperata della propria superiorità culturale denunciano spesso una profonda insicurezza, una fragilità della coscienza identitaria, piuttosto che la sua forza. Il caso francese è particolarmente interessante in proposito: il paese, diversamente dall'Inghilterra e dall'Olanda, rifiuta ufficialmente qualsiasi forma di comunitarismo, e l'integrazione linguistica e culturale degli immigrati procede molto più rapidamente di quanto si pensasse. La crisi sociale e culturale che colpisce le categorie più svantaggiate, meno competitive, e la crisi dello Stato-nazione che preoccupa gran parte della popolazione contribuiscono a suscitare reazioni xenofobe verso gli immigrati, sentiti come un elemento di contaminazione, di trasgressione dei valori nazionali, molto più di quanto essi non facciano con i loro comportamenti reali. La xenofobia francese sembra esprimere la paura di perdere un'identità culturale che non è più molto sicura di se stessa.In secondo luogo, la xenofobia è strettamente correlata al comunitarismo. Essa può esplodere anche quando le diversità culturali fra gruppi sono molto deboli se da una delle due parti, per qualsiasi ragione, si sviluppa una chiusura comunitaria forte e aggressiva.
Nel caso analizzato da Elias il comunitarismo delle vecchie famiglie esprime una xenofobia che non esce dal campo di tensione creato dall'ambivalenza. Ma possiamo analizzare alla luce del modello di Elias, per coglierne le possibili degenerazioni, quelle situazioni in cui il comunitarismo è sollecitato da un potere politico totalitario che si serve di questo potente strumento per rafforzare la propria posizione. I rischi che la xenofobia non sia più accompagnata da xenofilia, che abbandoni ogni ambivalenza, che si trasformi in razzismo, sono ben segnalati dal modello eliasiano e correlati all'attivazione di una forte chiusura comunitaria. È ciò che accade in Iran, in Afghanistan, in Sudan. Nell'ex Iugoslavia, nella regione africana dei grandi laghi e in certe regioni dell'ex Unione Sovietica la xenofobia si è trasformata in razzismo a partire da differenze culturali molto deboli. In tutti questi casi spirito comunitario, xenofobia e infine razzismo sono strumenti utilizzati dal potere politico per la loro forza mobilizzatrice e distruttiva.
Un orientamento di ricerca che, pur avendo proprie originali basi teoriche, si presta a sviluppare alcuni suggerimenti della sociologia dello straniero colloca le manifestazioni di xenofobia nel quadro di rapporti di diseguaglianza, dominazione e anche di dipendenza. La xenofobia, secondo questo approccio teorico, non è il rifiuto dell'altro in generale ma dell'altro come minaccia, come invasore. La ragione per cui l'altro è respinto non è semplicemente il suo status di straniero; costui viene respinto perché minaccia l'identità e l'unità stessa della società, i suoi principî costitutivi, siano essi religiosi, politici o economici. Il meccanismo centrale della xenofobia sarebbe l'identificazione di un insieme sociale con un principio superiore, la sua sacralizzazione: la minaccia non proviene quindi dall''altro' ma dal barbaro, dall'infedele, dalla violenza bruta o dal caos (v. Touraine, 1997).
Una società porta in sé la xenofobia quando non separa la sua organizzazione e le sue leggi dai principî universali sui quali fonda la sua legittimità, siano essi Dio, la Ragione, la Storia o la Nazione. La xenofobia appare in questo caso legata all'idea della superiorità assoluta di un popolo o di una società. La sola forza che possa combattere la xenofobia, allora, è quella che separa una società dai principî di legittimazione trascendenti su cui si fonda. In una parola, il solo rimedio alla xenofobia è la secolarizzazione, nel senso moderno di adesione sempre più completa a un ideale laico di vita sociale.Ogni volta che compare, in una forma o nell'altra, l'idea del 'Gott mit uns', anche quando prende la forma di 'Francia, patria della libertà', o di 'America, paese del progresso', la xenofobia è presente; non si concepisce infatti alcun rapporto possibile tra insiemi sociali, ma solo opposizione fra un principio metasociale e una realtà infrasociale cui il razzismo si può incaricare di fornire la definizione estrema. La xenofobia non è solo paura dell'altro; è il rifiuto di un rapporto propriamente sociale, è la sostituzione della figura dello straniero con quella del nemico.Metodologicamente, questo orientamento di ricerca si richiama all'idea, puntualmente criticata da Robert K. Merton (v., 1972) attraverso la nozione di insiderism, secondo la quale non si può conoscere e capire una cultura che dall'interno, in ragione della propria appartenenza.È l'idea che sorregge l'identity politics negli Stati Uniti e, in un quadro socio-storico molto diverso, il comunitarismo culturale nei paesi dominati da regimi integralisti. Se occorre essere una donna per capire le donne, musulmani per studiare i paesi islamici, neri per studiare i neri, omosessuali per studiare gli omosessuali, il rifiuto dello straniero si diffonde in tutti i campi della conoscenza. La comunicazione con l'altro diventa impossibile, lasciando il posto alla guerra, alla segregazione, al razzismo, forme estreme di xenofobia.
Se al contrario si sostiene che solo la distanza permette la conoscenza - il punto di vista criticato da Merton come outsiderism, secondo cui è più facile capire il passato che il presente, e quindi solo l'etnologo può parlare del 'pensiero selvaggio' - il rischio è l'indeterminazione completa.Un orientamento di ricerca più legato agli approcci di Simmel e di Elias, e agli sviluppi di cui i loro modelli possono essere arricchiti seguendo l'originale lavoro di Remotti, mette in luce le virtù dell'ambivalenza reciproca che accompagna la comunicazione fra culture diverse, il campo di tensione che si crea fra bisogni opposti, la possibilità sempre presente che l'ambivalenza venga abbandonata per lasciar emergere la sola xenofobia o per consentire la perdita culturale che accompagna l'assimilazione completa dello straniero. Ciò che viene analizzato in questo orientamento non è la rottura, ma l'interdipendenza che lega identità e straniero, il che implica, prima di tutto, la rinuncia a qualsiasi definizione in blocco dell'identità. Quest'ultima non è un'unità ma una realtà composita, è legata a un momento storico, è mutevole e, secondo le circostanze, lascia emergere l'una o l'altra delle sue molte anime. Solo attraverso il rapporto con l'altro, con lo straniero, l'identità si definisce e acquista unità. Solo l'incontro con lo straniero permette ai membri di una cultura di prendere coscienza delle scelte attraverso le quali si è formata l'identità culturale. Questo richiamo alle origini e di conseguenza alle soluzioni alternative che sono state respinte indebolisce la forza dei valori e delle norme, perché obbliga a mettersi continuamente e completamente in questione. È quindi necessario, mentre ci si espone allo straniero, nasconderlo, marginalizzarlo, collocarlo a una distanza sufficiente a impedirgli di sollevare, con la sua sola presenza, interrogativi inquietanti.
Qui la xenofobia non appare più come il rifiuto dell'altro, come nelle analisi precedenti, ma come la paura di se stessi, come la necessità, per gli individui come per le collettività, di non sapere, di non capire più che tanto, per non perdere la sicurezza del mondo autoevidente della vita quotidiana, un mondo in cui i comportamenti e i sentimenti acquistano 'naturalmente' senso (v. Schütz, 1971).
L'ambito degli esempi storici che questo orientamento di ricerca si presta a illuminare è ampio e comprende molti degli scenari più noti nei quali si realizza l'incontro fra culture diverse, in condizioni asimmetriche di potere, nel mondo moderno: i rapporti fra stranieri e autoctoni che si stabiliscono in seguito alla grande migrazione dai paesi poveri verso i paesi ricchi, quelli che stanno prendendo forma fra minoranze che si 'etnicizzano' e maggioranze che si proclamano 'universali', oppure fra cultura americana egemone, cultura europea e culture dei paesi del Terzo Mondo. In tutti questi casi si constata come il fragile equilibrio generato dall'ambivalenza sia ciò che consente la comunicazione fra culture e come il rischio dell'abbandono dell'ambivalenza, della scelta univoca della xenofobia, del razzismo sia sempre presente quando intervengono congiunture storico-sociali che minacciano l'identità culturale. Osservando che gli atteggiamenti verso lo straniero dipendono dalla coscienza di superiorità o inferiorità che il gruppo nutre nei suoi confronti sia al livello culturale che al livello economico, si ottiene un'analisi più precisa dell'equilibrio instabile fra accettazione e rifiuto che regna nel loro rapporto. Un tipo di ambivalenza 'dolce' è, per esempio, quella dei paesi europei che, almeno fino a un recente passato, si sono considerati culturalmente superiori agli Stati Uniti pur riconoscendone la superiorità economica e tecnologica; l'ambivalenza 'dolce' permette ai sentimenti opposti di mescolarsi, alle culture di comunicare, senza gravi lacerazioni e senza violenza. I sentimenti opposti possono anche succedersi nel tempo, come è accaduto in Germania nel periodo che va dal blocco di Berlino alla crisi dei missili nucleari americani installati sul territorio tedesco: al tempo del blocco una ventata di entusiasmo per gli Stati Uniti, al tempo dei missili l'indignazione antiamericana e la mobilitazione dei Verdi.
Il caso più vistoso di ambivalenza 'dura', in cui il sentimento d'inferiorità si fa sentire sia al livello culturale che economico, è invece quello della gioventù sradicata del mondo arabo, che combina l'attrazione frustrata per l'Occidente - decisione di migrare o mercato nero (trabendo) - con la denuncia morale, spesso anche violenta, di quello stesso Occidente di cui non si riesce a far parte. Un caso ben noto di abbandono dell'ambivalenza si è realizzato fra una popolazione che si sentiva superiore economicamente e stranieri orgogliosi della propria identità culturale, che appariva aggressiva, indisponibile all'integrazione in un momento di crescente nazionalismo: è stato questo il caso dell'antisemitismo diretto contro gli Ebrei degli shtetl e dei ghetti in Europa orientale.I paesi colonizzati sono quasi sempre sia il teatro della xenofobia che dell'ambivalenza soprattutto quando l'uomo bianco avverte contemporaneamente il dovere di civilizzare gli stranieri e il bisogno di proteggersi contro di essi. Edward M. Forster ha descritto in Passaggio in India situazioni sia di xenofobia reciproca fra Indiani colonizzati e Inglesi colonizzatori che situazioni in cui l'ambivalenza, la mescolanza di attrazione e repulsione reciproca, non potevano essere più evidenti. Le modificazioni che la cultura indiana e la cultura inglese hanno subito attraverso la comunicazione stabilita sulla base dello scambio di ambivalenze hanno segnato profondamente la produzione letteraria, artistica, le abitudini culinarie dei due paesi.
L'analisi della società occidentale fornisce esempi di un altro tipo di xenofobia, meno vistoso ma molto diffuso: la maggior parte delle culture è ossessionata dalla propria identità e superiorità o, al contrario, ricorre alla violenza e alla guerra per sfuggire alla propria perdita d'identità, alla propria indeterminazione. La società occidentale ha costruito la sua modernità proclamando il regno della ragione e sottomettendovisi per prima. Ha espulso da se stessa tutto ciò che appariva contrario alla ragione, si trattasse dei desideri del corpo o dell'abbandono alle passioni, della tradizione o delle credenze. Se la xenofobia occupa tanto posto nella società occidentale non è solo perché le nazioni si sono costruite attraverso la guerra, ma anche perché lo straniero è stato confuso con tutto ciò che rifiuta la ragione. La donna e il bambino sono diventati stranieri per l'uomo, come l'operaio per il borghese e il 'selvaggio' per il 'civilizzato'. Questa xenofobia culturale e sociale, non solo nazionale e politica, può essere sconfitta dalla critica della dualizzazione sulla quale è stata costruita e ha trionfato a lungo la modernizzazione occidentale (v. Touraine, 1992). Accettare lo straniero significa allora accettare in se stessi e nella propria società tutto ciò che, secondo 'ragione', dovrebbe essere respinto e cancellato (v. Kristeva, 1988).
Generalizzando queste osservazioni, possiamo dire che la xenofobia, che non è solo il rifiuto dell'altro in quanto diverso ma anche in quanto costituisce una minaccia per i valori universali di cui ci si sente depositari, può essere superata se si rinuncia a proclamare la propria universalità e il particolarismo dell'altro, se si riconosce in se stessi come negli altri una mescolanza di universalismo e particolarismo.
(V. anche Discriminazione razziale; Etnocentrismo; Movimenti integralistici; Razzismo; Società multiculturale).
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