BENE (fr. bien; sp. bien; ted. Gut; ingl. good)
"Bene" oggi ha due significati, a volte avvicinati, a volte contrapposti: vuol dire, per un verso, "benessere", felicità, per un altro, "bontà", moralità. Il concetto del "bene" è passato dall'uno all'altro significato, non senza oscillazioni e tentativi, variamente riusciti, di fonderli insieme.
Per l'antica coscienza greca "buoni" erano i validi, i destri, i potenti, gli ottimati. Fu Socrate che, senza rinunciare al concetto che il bene sia sempre giovamento, vantaggio, sentì tuttavia che far male è tal disagio e tormento per chi lo compie, che si può magari patire il male, ma non si può farlo senza soffrire. Donde conseguiva la proibizione, già cristiana prima del cristianesimo, di far male a chicchessia, per quanto nemico. Questa separazione, operata da Socrate, tra "far bene" e "star bene" diè luogo a indirizzi opposti: di chi, come i cinici e più tardi gli stoici, cercava il "far bene", la virtù, spregiando lo "star bene", o trovando la vera felicità nella stessa virtù; e di chi, come i cirenaici e più tardi gli epicurei, cercava lo "star bene", o il piacere e la felicità intendendo per virtù nient'altro che la sapiente ricerca della stessa felicità. Insistendo sul puro "far bene", Platone levò il bene tant'alto da farne il principio di spiegazione di tutto l'universo: ogni cosa è come è bene che sia: il Bene è ciò che fa essere ogni cosa, ideale e reale: di là dall'essere, esso è Dio medesimo: a cui si può fuggire solo morendo ai sensi, spregiando quelli che son beni solo per chi, nelle tenebre della caverna, ancora scambî per realtà le ombre, cioè le cose sensibili. Alla qual concezione mistica del Bene come idea suprema, Aristotele contrappose il suo concetto di un bene conseguibile: quello che ciascuno appetisce e ciascuno raggiunge come può. Il cristianesimo, concentrando in Dio tutti i valori, lo concepì come il Bene supremo in entrambi i significati, di suprema bontà, e di suprema beatitudine per chi giunga a Lui: conservandogli altresì il significato di supremo modello, di altissima meta d'ogni operare umano, di sovrana misura onde tutto è giudicato, e di regola per cui tutto va come è bene che vada. Il naturalismo del Rinascimento accentuò di nuovo che il bene è ciò ch'è appetito (Per bonum id intelligam, quod certo scimus nobis esse utile, scrisse lo Spinoza, Eth., IV, def. I); e cercò di mostrare come, per naturale svolgimento, l'uomo giunge ad amare Dio come il suo bene più vero ed eterno. Kant non riconobbe altro bene che la volontà buona; tuttavia ammise che il "bene perfetto" avesse anche un altro elemento, la felicità: e "postulò" l'esistenza di Dio, commisuratore della felicità alla virtù. L'etica moderna tende a concepire la vita umana come eterno sforzo di salire, da quel momento in cui ha per "bene" il piacere, l'utile, o quegli averi che l'economia chiama "beni", a quel momento in cui la moralità diviene pienezza di soddisfazione interiore, che dà valore nuovo anche all'utile.
Bibl.: v. etica.
Economia.
Il concetto di bene economico è fondamentale nell'economia, in quanto la sua definizione implica quella della stessa scienza economica. E ciò vale a spiegare la divergenza di opinioni e l'indeterminatezza delle teorie che a tale proposito sono state formulate dalla scuola fisiocratica in poi. Considerato come bene tutto ciò che è ritenuto atto a soddisfare un bisogno, agli economisti si è posto il problema di determinare quali tra gl'infiniti beni esistenti si debbano chiamare economici. Resi sinonimi i concetti di beni economici e di ricchezza, i fisiocrati ritennero oggetto della loro scienza soltanto quei beni che possono scambiarsi (Baudeau, Quesnay, Le Trosne, ecc.); e col criterio dello scambio la maggior parte degli economisti (Smith, Say, Ricardo, fino a Stuart Mill, Senior, Walras, ecc.) hanno considerato definitivamente risolta la questione. Ma il bisogno di analizzare la differenza tra i cosiddetti beni liberi e quelli proprî di ciascun individuo ha indotto ad approfondire il concetto di scambio e a collegarlo con quello, divenuto ben presto preponderante, della limitatezza o rarità dei beni economici. La formulazione più sistematica di questa teoria ci è data dalla scuola austriaca e in particolar modo dal Menger, che, oltre alla differenza tra beni economici e non economici, ne ha studiato i rapporti. Se la distinzione tra le due categorie di beni - osserva infatti il Menger - è fondata su una differenza di rapporto tra fabbisogno e quantità di beni disponibili, vuol dire che il carattere economico non è insito nei beni come una loro proprietà, ma è acquistato o perduto dai beni con l'entrare di essi in quel rapporto quantitativo o con l'uscirne. L'acqua di un fiume può considerarsi un bene libero se supera il fabbisogno della popolazione del paese che attraversa, ma può divenire bene economico in caso di siccità.
Altri tentativi sono stati compiuti per una determinazione più precisa del concetto di bene economico e si è ricorso al criterio del lavoro, del costo di produzione, della materialità, ecc., ma il carattere evidentemente unilaterale di questi criterî ha indotto gli economisti a scartarli in modo definitivo. Se non che anche i concetti di scambio e di rarità non sembrano sufficienti a una rigorosa soluzione del problema sul terreno scientifico. Quando il Croce in una sua lettera al Pareto osservava che per suo conto non vedeva "che l'azione economica cangi natura, o che concerna un sacco di patate o che consista in uno scambio di attestazioni di tenerezza" (Materialismo storico, 5ª ed., Bari 1927, p. 239), implicitamente confutava la teoria della scuola austriaca. V'è tutta la categoria dei servizî, e tutta una categoria di beni (quelli non moltiplicabili: un quadro di Raffaello, ad es.) che sono o non sono economici indipendentemente dal rapporto quantitativo col fabbisogno. Si deve di essi occupare la scienza economica, e fino a che punto? La risposta a tale quesito è stata indirettamente data dal Marshall quando ha definito i beni economici come quelli "che si possono valutare mediante la moneta". L'economicità di un bene, in altri termini s'instaura col raffronto che se ne faccia con un comune denominatore: quando sorge il bisogno di questo confronto, e solo in quanto esso sorga, ogni bene diventa economico.
Classificazione dei beni economici. - Le distinzioni che si possono fare di questi beni sono numerose. Vi sono beni materiali che assumono forme tangibili e corporali e beni immateriali, i quali prendono anche il nome di servigi, e sebbene determinino il più spesso modificazioni materiali, per sé stessi non sono oggetti che abbiano, come i beni materiali, la caratteristica di essere impersonali e accumulabili. A lungo si è discusso intorno a questa distinzione che non può considerarsi né assoluta, né rigida; e non senza ragione Vilfredo Pareto (Manuale di Economia Politica, Milano 1906, p. 290) ha scritto che l'ultima parola in proposito fu detta da Francesco Ferrara, il quale mostrò che "tutti i prodotti sono materiali, se si riguarda al mezzo con cui si rivelano; e tutti sono immateriali, se si riguarda all'effetto che sono destinati a produrre".
Più importante è la distinzione dei beni economici relativamente alla loro funzione nel soddisfacimento dei bisogni. Quelli che servono direttamente, immediatamente a procurare un piacere o a sopprimere un dolore vengono detti beni di consumo o di uso diretto (il pane, ad esempio, il vestito, il libro, ecc.). Altri beni servono come mezzi per ottenere appunto quelli di uso diretto, oppure quegli altri ancora che hanno una funzione complementare; essi sono quindi strumenti di cui si vale la produzione; per questo vengono detti beni strumentali (fra i quali devono comprendersi i capitali produttivi). Rientrano in questa categoria tutte le materie prime che devono subire una trasformazione per divenire beni consumabili, tutte le macchine, o strumenti, che occorrono per la produzione di beni immediati, e quindi anche la maggior parte dei servizî, e segnatamente il lavoro dell'operaio.
I beni complementari sono poi quegli oggetti che da soli non soddisfano alcun bisogno, mentre in unione ad altri, secondo proporzioni determinate, acquistano la capacità di contribuire all'appagamento di uno o più bisogni. La complementarità di un bene può riferirsi, del resto, sia al consumo, sia alla produzione; nel primo caso vuol dire che esso concorre insieme con altri beni a soddisfare un bisogno (ad es. il sale, lo zucchero, il pepe, ecc.); nel secondo caso vuol dire che esso concorre, sia con un altro bene, sia con più altri, alla formazione di un bene determinato. Tale è il caso del carbone, della energhia elettrica, ecc., per la produzione di varie sostanze. E l'unione dei beni, sia per la produzione, sia per il consumo, può subire attraverso il tempo variazioni notevoli, determinate dai cambiamenti nei gusti e nella tecnica produttiva rispetto tanto al bene che risulta dall'unione, quanto ai singoli beni associati.
Questa distinzione non va intesa nel senso che ciascun bene sia esclusivamente o di uso diretto, o strumentale, o complementare, perché è chiaro che un bene può essere simultaneamente, ma per rispetto a varî bisogni od usi, un bene di consumo immediato, un bene complementare o un bene strumentale.
Esistono poi tra le varie specie di beni delle relazioni quantitative. La produzione dei beni strumentali in misura eccessiva rispetto alla quantità di beni di consumo diretto necessarî all'appagamento dei bisogni darebbe origine a una crisi; lo stesso va detto per i beni complementari, per il caso opposto che la loro produzione rimanga inferiore al fabbisogno. Sono squilibrî, errori di calcolo, deficienze o eccedenze, che si risolvono in danni, in perdite, in perturbazioni economiche. Di qui l'importanza delle indagini statistiche sulla loro produzione e sul loro consumo.
Vi sono poi da distinguere i beni presenti e i beni futuri o prospettivi. I primi sono quelli che presentano un'utilità immediata, come i beni diretti già disponibili, i secondi non esistono presentemente, ma si prevede siano disponibili nell'avvenire. In considerazione dei bisogni futuri, nei paesi più progrediti e nelle epoche di maggior prosperità, si manifesta la tendenza a provvedere alla produzione di beni che saranno utilizzati nell'avvenire; questo è anzi compito, talvolta, dello stato e degli enti pubblici minori.
Un gruppo di beni che in certe condizioni (guerre, carestie) ha un'importanza considerevole è quello dei succedanei, ossia dei beni aventi qualità tali da poter soddisfare un determinato bisogno in modo pressoché eguale a quello del bene che sarebbe propriamente adatto all'appagamento del bisogno stesso. I beni succedanei sono numerosissimi: la luce elettrica sostituisce il gas o il petrolio, lo zucchero di barbabietola quello di canna, la seta artificiale quella naturale, l'automobile la ferrovia, ecc.
L'importanza dei beni succedanei è stata considerata specialmente da Francesco Ferrara nella sua teoria del valore fondata sul costo di riproduzione; essa risulta anche dallo studio della legge di sostituzione, che ha larghe applicazioni nell'economia politica e nella realtà economica.
In relazione alla durata dell'effetto utile i beni si distinguono in durevoli e non durevoli: i primi procurano un effetto utile senza che la loro forma e natura si alteri, almeno per un certo tempo; i secondi non dànno il loro effetto utile che perdendo la forma, la consistenza materiale, la composizione. Parlando di utilità o di fecondità dei beni si dice appunto che essi sono a utilità o fecondità ripetuta, oppure a utilità o fecondità semplice. La circostanza che i beni possono dare un solo effetto utile, o una successione di effetti utili, esercita un'influenza non trascurabile sul loro valore.
I beni economici presentano una duplice utilità: per le loro proprietà fisiche, chimiche, ecc., sono capaci di appagare un bisogno d'ordine generale; così il pane, la carne, gli ortaggi sono beni che servono a nutrire gli uomini in generale e quindi hanno un'utilità generica indipendente dalla loro quantità disponibile e dall'intensità del bisogno. Ma vi è anche l'utilità specifica, concreta, ed è quella che possiede il bene economico quando soddisfa il bisogno determinato di un individuo, o di un gruppo di individui che si trovano nelle medesime condizioni. Questa seconda utilità comporta dei gradi differenti in relazione all'intensità del bisogno e alla quantità disponibile del bene economico. E ciò per il fatto che una quantità piccola consente il soddisfacimento di uno o di pochi bisogni che hanno intensità maggiore; mentre una grande quantità permette di passare a soddisfare altri bisogni di decrescente intensità, o di minore importanza per il benessere dell'individuo.
I beni economici non hanno adunque una utilità costante, immutabile, ma al contrario essa varia in funzione della quantità, così che le differenti unità, o dosi, di uno stesso bene economico non hanno una eguale utilità. Se avendo già una certa provvista di un bene, le aggiungiamo un'altra quantità dello stesso bene, quest'ultima avrà per noi un'utilità minore, perché ci permetterà di appagare lo stesso bisogno, ma nella sua decrescente intensità, o altri bisogni aventi un'intensità minore del primo. Ne deriva che i beni economici divisibili hanno un grado iniziale di utilità, gradi successivi, un grado marginale o finale e una utilità totale. E mentre l'utilità marginale, di regola, decresce quando il numero delle unità dei beni posseduti aumenta, l'utilità totale diviene maggiore col crescere delle unità; così l'utilità delle singole porzioni di un bene e la sua utilità totale variano in direzione opposta.
La qualità di bene economico può essere acquistata o perduta per varie cause: tra le altre, perché i bisogni sorgono, mutano e scompaiono talvolta con grande facilità, perché cambiano le opinioni circa le proprietà delle cose, oppure si acquistano nuove cognizioni sulle attitudini delle cose ad appagare i nostri bisogni. Dall'azione di queste cause possono derivare conseguenze assai importanti per la produzione e il consumo dei beni economici (v. le voci: bisogni; utilità; costo; ricchezza; valore; produzione; consumo, ecc.).
Bibl.: Intorno alla teoria dei beni economici v. K. Menger, Principî fondamentali di economia, trad. it., Roma 1907; A. Marshall, Principi di Economia (trad. ital.), II, c. ii; Ammon, Objekt und Grundbegriffe der theoretischen Nationalökonomie, Lipsia 1927, p. 226 segg.; A. Graziani, Istituzioni di economia politica, I, 4ª ed., Torino 1925, c. i; Hermann, Staatswirtschaftliche Untersuchungen, Lipsia 1832, c. iii; Landry, Manuel d'Économique, Parigi 1908, I, c. ii; Wagner, Les fondements de l'écon. pol., trad. franc., I, ii, Parigi 1904. c. i.
Diritto.
Nell'uso comune la parola "bene" significa tutto ciò che può giovare ai bisogni o ai desiderî umani, e quindi beni di fortuna oltre che utile o vantaggio; secondo le fonti del diritto romano (Ulpiano, Dig., L, 16, de verborum significatione, 49) bona ex eo dicuntur, quod beant, hoc est beatos faciunt: beare est prodesse. Il significato comune, o volgare, di bene, che comprende anche i beni puramente morali sino al bene assoluto o sommo ch'è Dio, è più esteso del concetto tecnico-giuridico, in base al quale sono beni solo quelli che, essendo capaci d'un assoggettamento al potere umano per la loro utilizzazione economica, sono o possono essere oggetto di diritti. Un tale concetto, che direttamente si ricollega ai rapporti giuridici patrimoniali, ha, nel nostro diritto, una base legislativa. Infatti, giusta l'art. 406 cod. civ.: "Tutte le cose che possono formare oggetto di proprietà pubblica o privata, sono beni immobili o mobili", nella quale disposizione di legge si parla di proprietà non secondo il concetto proprio del relativo diritto, ma nel senso largo di appartenenza. Il concetto giuridico di beni viene a risultare dalla coesistenza d'un doppio carattere: dell'utilità, ch'è propria dei beni in genere, e dell'attitudine, che deve caratterizzare i beni nel campo del diritto, a formare oggetto di rapporti giuridici; sono quindi beni nel significato giuridico (che richiama quello economico) le cose utili, o utilizzabili, e suscettibili di essere sottoposte, mediante rapporti giuridici, alla volontà e all'azione umana, o appropriabili in senso lato. Poiché non occorre l'esistenza di un potere giuridico in atto, bastando l'attitudine potenziale a formare oggetto di diritti, tra i beni in senso giuridico, insieme con le cose che hanno un titolare (cose in patrimonio), vengono comprese, in quanto possono essere acquistate con l'occupazione, le cose che non appartengono a nessuno (cose fuori di patrimonio), o perché non siano mai appartenute (res nullius, quali sono gli animali allo stato selvatico, possibile oggetto di caccia o di pesca), o perché furono dal proprietario abbandonate (res derelictae, da non confondersi con le cose smarrite). E di beni nel detto senso si può parlare, pur trattandosi di cose che (come l'aria, la luce, il mare, l'aqua profluens e in generale le cose cosiddette comuni) nella loro totalità non sono capaci di essere assoggettate alla signoria dell'uomo, se esse vengano invece considerate in parti limitate, entro i quali limiti possano essere oggetto di diritti. D'altro canto, pur essendo una qualità normale, non è indispensabile la permutabilità (che presupporrebbe un valore di scambio), ammettendosi che ci siano beni con utilità limitata a una determinata persona, in modo che essi abbiano un valore, per così dire, personale (documenti personali, ad esempio di riconoscimento, che possono avere un notevole valore d'uso). Non occorre nemmeno che i beni siano disponibili o, come si dice, in commercio, potendosi avere beni (quali sono i beni demaniali) che, avuto riguardo alla loro destinazione direttamente all'uso pubblico, non possono sottostare a rapporti giuridici a favore dei privati (e in questo senso sono fuori di commercio), e anche beni, che pur restando in commercio, non possono essere liberamente oggetto di negozî giuridici (per es. il fondo dotale). E si può trattare, oltre che di beni aventi un'esistenza materiale e sensibile, di entità ideali o soprasensibili, che si percepiscono con l'intelletto (beni immateriali): a prescindere dai diritti, ai quali nondimeno si ha riguardo nella nostra legge, annoverandosi diritti tra i beni immobili (art. 415 cod. civ.) e tra i beni mobili (art. 418 cod. civ.), basta riferirsi ai prodotti dell'ingegno umano nelle svariate forme della produzione, scientifica, artistica, letteraria, o nel campo delle invenzioni, ecc.: beni immateriali ai quali si ricollegano interessi pecuniarî e che formano oggetto dei diritti d'autore (cfr. art. 437 cod. civ.: "Le produzioni dell'ingegno appartengono ai loro autori secondo le norme stabilite da leggi speciali").
Se il concetto di bene in senso giuridico vien messo in relazione col concetto comune di cosa, si rileva facilmente che il primo sta col secondo nel rapporto di specie a genere: tutti i beni sono cose, mentre non tutte le cose sono beni. Cose che possono essere solo pensate, cioè cose immaginarie (per es. il cavallo alato), non essendo utili né quindi capaci di formare oggetto di diritti, non sono cose in senso giuridico. E non sono tali nemmeno tutte le cose che pur sono cose nel senso fisico: non sono cose nel senso giuridico infatti quelle che, pur essendo utili o anche indispensabili ai bisogni della vita, non sono appropriabili, o in modo assoluto (il sole, la luna), o in quanto vengono considerate nella loro totalità (il mare, la luce, l'aria e in generale le cose cosiddette comuni). Ma da un altro punto di vista, se il concetto di cosa (in senso giuridico) vien riferito a ciò che ha esistenza materiale, a qualsiasi parte della natura o del mondo esteriore (esclusa la persona), appare più esteso il concetto di beni, che, come si è visto, può comprendere anche enti incorporei, soprasensibili (beni immateriali): tale punto di vista, se pur sia giustificato in base ad altra legislazione (§ 90 cod. civ. germ., per cui "cose, nel senso della legge, sono soltanto oggetti corporali"), non può essere accolto nel nostro diritto, in cui, per ciò, si può dire che beni e cose, nel concetto giuridico, si equivalgono. ("I beni singoli non sono che le cose stesse considerate nel rapporto dell'utilità di cui sono capaci per l'uomo": F. S. Bianchi).
Se si volesse tener conto dell'evoluzione storica del concetto di cosa in senso giuridico o di bene, si potrebbe dire che il detto concetto, dapprincipio, si ricollega a ciò che ha esistenza materiale e in seguito si sviluppa e si estende in modo da comprendere anche enti immateriali, man mano che si allarga la cerchia delle cose con cui si può provvedere agl'interessi umani. Il concetto giuridico di cosa, o bene, progredisce col progredire dei bisogni della vita, e in questo progressivo sviluppo esso viene spiritualizzandosi.
La dottrina giuridica dei beni comprende anche le classificazioni, o distinzioni, che delle cose si debbono fare nel campo del diritto. Il nostro codice civile, sull'esempio del cod. civ. francese, non si occupa dei beni che per classificarli: ciò che risulta dagli stessi titoli (Della distinzione dei beni; Dei beni immobili; Dei beni mobili; Dei beni relativamente alle persone a cui appartengono; vedi tit. I del lib. II).
Alle distinzioni fatte esplicitamente dalla stessa nostra legge (e sono le due ora indicate) bisogna aggiungere le altre fatte in dottrina, in quanto sono presupposte o implicitamente riconosciute dalla legge; e si tratta di distinzioni da punti di vista diversi, o in base alle qualità, spesso d'ordine economico, delle cose, o in base al rapporto tra cose e cose, oltre che in base al rapporto di appartenenza al titolare. Vi sono distinzioni che hanno importanza solo relativamente a particolari effetti, mentre ve ne sono altre che hanno un'importanza maggiore, o addirittura un'importanza fondamentale per tutto il sistema del diritto, quale fu, nell'antico diritto romano, la classificazione in res mancipii e res nec mancipii (connessa col regime economico di quella società primitiva); e quale potrebbe essere considerata, nel nostro diritto, la classificazione in beni immobili e beni mobili. Classificazione questa che, pur non essendo ignota al diritto romano, acquistò valore nel Medioevo, in cui si tenne in massimo conto la proprietà immobiliare (res mobilis, res vilis), e che ha tuttora, nel nostro diritto, importanza notevolissima per la diversità delle regole che si applicano alle due categorie di beni, relativamente ai modi di acquisto e relative forme di pubblicità, alla rivendicazione, ai diritti di garanzia, e, nel campo processuale, relativamente all'esecuzione forzata sui beni del debitore, per accennare alle principali regole. Il criterio principale di distinzione, molto semplice, consiste nell'attitudine o meno delle cose a essere trasportate da un luogo a un altro senza che se ne alteri la sostanza: sono immobili, per natura, le cose che non hanno tale attitudine, come i terreni, le sorgenti, i corsi d'acqua e in generale tutto ciò che si trova sopra o sotto il suolo in modo da formarne parte integrante, per incorporazione artificiale o naturale (edifici, alberi non atterrati, frutti non ancora raccolti, ecc.); mentre sono cose mobili, per natura, oltre ai semoventi (animali), quelle che si possono trasportare senza alterazione della sostanza (es. un carro, un libro), e sono pure mobili le cose già immobili per incorporazione, cessata che sia quest'ultima (materiali d'un edificio diroccato, alberi atterrati, frutti raccolti). Una cosa mobile sui generis è la nave, che ha un trattamento giuridico per varî riguardi analogo a quello degli immobili. In base a un altro criterio sono immobili, per destinazione, cose in sé stesse mobili, in quanto siano effettivamente destinate al servizio di un immobile (per es. le scorte vive e le scorte morte, per la destinazione agricola) oppure in quanto siano connesse stabilmente, di solito con mezzi fisici, a un immobile (specchi, quadri che formino corpo con la parete, statue collocate in un'apposita nicchia). E infine, per un terzo criterio, sono immobili o mobili anche i diritti in quanto si riferiscano a cose immobili o a cose mobili per natura, avendosi così rispettivamente diritti immobiliari e mobiliari. Secondo l'altra distinzione fatta nel nostro codice civile (articoli 425-435) le cose possono spettare o ai privati, o allo stato, o ad altri enti pubblici (senza tener conto delle cose che non spettano a nessuno e di cui già si fece cenno); e, quanto alle cose degli enti pubblici, è notevole la suddistinzione in beni patrimoniali e beni demaniali.
Altre distinzioni di minore importanza sono quelle in cose fungibili e infungibili, consumabili e inconsumabili, divisibili e indivisibili, semplici e composte, principali e accessorie, oltre alle distinzioni di cui si ebbe sopra occasione di far cenno, in cose corporali e incorporali, in commercio e fuori commercio, in patrimonio e fuori di patrimonio.
Bibl.: A. Berio, s. v. Beni e Cosa, in Dizionario pratico del diritto privato, Milano s. a., I, p. 505 segg., II, p. 495 segg.; F. S. Bianchi, Corso di diritto civile italiano, Dei beni, della proprietà e della comunione, IX, i, Torino 1885, p. i segg.; N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, I, Parte generale, 3ª ed. Milano 1924, §§ 73, 75 segg., p. 252, 257 segg.; F. De Filippis, s. v. Beni, in Enciclopedia giuridica italiana, II, i, Milano 1911, p. 399 segg.; R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, I, Messina 1926, § 45, p. 436 segg.; C. Fadda e P. E. Bensa, Nota g alla traduzione italiana del vol. I, parte 1ª del Diritto delle Pandette di Windscheid, Torino 1902, p. 658 segg.; F. Ferrara, Trattato di diritto civile italiano, I, i, Roma 1921, p. 729 segg., n. 155 segg.; G. Lomonaco, Della distinzione dei beni e del possesso, in Il diritto civile italiano esposto secondo la dottrina e la giurisprudenza, III, Torino 1922, p. 11 segg.