VALORE
. Economia (fr. valeur; ted. Wert; ingl. value). - Il concetto di valore, collegato per un verso a quello di utilità e per un altro a quello di prezzo, è al centro della scienza economica e la sua definizione implica tutto il sistema. In termini generali può dirsi che l'economia politica dai fisiocrati in poi si è dibattuta continuamente tra le opposte esigenze di dare al valore della merce (bene economico, oggetto di scambio) un significato oggettivo (intrinseco alla cosa e indipendente dalla diversità degli apprezzamenti individuali) e un significato soggettivo (relativo alla valutazione dei singoli). Gli sforzi per risolvere univocamente il problema si rinnovano di continuo, ma ogni presunta soluzione si è finora rivelata apparente e il termine escluso è sempre ricomparso incrinando il rigore logico della scienza. E l'impossibilità di risolvere il dualismo, il quale si moltiplica poi in tanti binomî nell'applicazione del principio (utilità e ofelimità, intervento statale e iniziativa privata, protezionismo e liberismo, monopolio e concorrenza, benessere sociale e benessere individuale, comunismo e individualismo, ecc.), ha condotto la scienza economica a una differenziazione di scuole e tendenze che si negano reciprocamente ogni validità scientifica e giungono a far porre perfino il problema se l'economia possa mai assurgere a scienza.
La prima espressione del dualismo si ha in Adam Smith e si precisa nella distinzione di valore d'uso e valore di cambio. "La parola valore ha due differenti significati ed alle volte esprime la utilità di qualche particolare oggetto ed alle volte il potere, che il possesso di quell'oggetto apporta, d'acquistare altri beni; l'uno può essere chiamato valore d'uso e l'altro valore di cambio. Le cose che hanno il più grande valore d'uso hanno frequentemente poco o nessun valore di cambio; ed al contrario quelle, che hanno il più gran valore di cambio, hanno frequentemente poco o nessun valore d'uso. Nessuna cosa è più utile che l'acqua, ma essa difficilmente fa acquistare qualche cosa, poiché difficilmente alcuna cosa può aversi in suo cambio. Un diamante al contrario ha difficilmente alcun valore d'uso, ma una grandissima quantità di altri beni possono frequentemente aversi in suo cambio". In tali termini è chiarita non soltanto la differenza dei due aspetti del problema, ma anche la loro tendenza a svilupparsi in direzione diametralmente opposta. Ma gli economisti in generale, a cominciare dallo stesso Smith, non hanno cercato di approfondire il significato di questa contrapposizione, e hanno imboccato senz'altro una delle due vie che risultavano all'immediata constatazione dei fatti. E naturalmente la prima via ad essere scelta è stata quella che dava la più facile illusione dell'oggettività o dell'universalità. Tra valore d'uso e valore di cambio Smith assume a oggetto della scienza economica il secondo e si disinteressa del primo: egli vuol rendersi conto soltanto di come si determini il prezzo di una merce indipendentemente dall'uso che di essa possa farsi. Ma posto così il problema, sorgeva la necessità di trovare un'origine del valore che fosse intrinseca alla merce stessa e in quanto tale, determinabile e soprattutto misurabile in modo obiettivo. La misurabilità e cioè il carattere quantitativo del valore economico doveva assicurare il carattere scientifico dell'economia: da Smith in poi questo è rimasto un caposaldo cui han tenuto fede tutte le scuole, anche e soprattutto quelle che hanno spinto alle estreme conseguenze la tesi del carattere soggettivo del valore.
Smith credette di poter risolvere il problema trovando l'origine del valore nel lavoro. Muovendo dalla teoria della divisione del lavoro egli argomenta così: "Ogni uomo è ricco o povero secondo il grado in cui egli può avere mezzo di possedere i bisogni, i comodi o i piaceri dell'umana vita. Ma dopo che la divisione del lavoro ha una volta interamente avuto luogo, non è che una piccolissima parte di quelli, che il proprio lavoro d'un uomo a lui stesso può provvedere. La più grande parte di quelli medesimi egli deve derivare dal lavoro degli altri uomini, ed egli deve essere ricco o povero secondo la quantità del lavoro degli altri che può disporre o può avere mezzo di comprare. Il valore di qualunque mercanzia adunque riguardo a colui che la possiede, e che non intende d'usarla e di consumarla egli stesso, ma di cambiarla per altre mercanzie, è uguale alla quantità del lavoro, che essa lo abilita a comprare o disporre. Il lavoro adunque è la reale misura del valore cambiabile di tutte le mercanzie. Il prezzo reale d'ogni cosa, ciò che ogni cosa costa realmente a colui che ha d'uopo d'acquistarla, è la pena e l'imbarazzo di acquistarla. Ogni cosa per colui che l'ha acquistata, e che ha d'uopo di disporla o di cambiarla per qualche altra, realmente vale tanto quanto è l'imbarazzo che può risparmiare a lui ed imporre agli altri. Ciò che si compra col danaro o con delle mercanzie, è acquistato col lavoro, come lo è ciò che si acquista con la pena del proprio corpo. Quella moneta e quelle mercanzie invero ci risparmiano questa pena. Esse contengono il valore d'una certa quantità di lavoro, che noi cambiamo per ciò che si suppone contenere nel medesimo tempo il valore d'una uguale quantità. Il lavoro è stato il primo mezzo, l'originaria moneta, che si è pagata per l'acquisto di qualunque cosa".
La teoria dell'identità di valore e lavoro fu poi precisata e resa sistematica da David Ricardo, ma già col Ricardo cominciarono ad avvertirsi le prime serie difficoltà, di cui lo Smith aveva avuto soltanto una vaga intuizione. Anche per il Ricardo, "la quantità del lavoro incorporato nelle merci regola il loro valore di cambio", sì che "ogni accrescimento della quantità del lavoro deve aumentare il valore di quella merce su cui viene esercitato, come ogni diminuzione deve abbassarlo". Ma il principio generale è circondato da molte riserve che non possono non inficiarlo alla base. Una prima eccezione riguarda le merci il cui valore è determinato soltanto dalla loro scarsezza. Nessun lavoro può aumentare la quantità di tali merci (statue, pitture, opere, monete rare; vini di una peculiare qualità che possano essere fatti soltanto con uve di un particolare suolo, ecc.) e il loro valore è dato unicamente dall'intensità della domanda. Sennonché per il Ricardo queste merci formano una piccolissima parte di quelle che compaiono sul mercato e possono essere di regola trascurate. Egli non si accorgeva che l'eccezione era solo in apparenza limitata ad alcune merci e che invece anche nelle altre sussistevano le stesse ragioni di determinazione del valore e si componevano con le ragioni peculiari dell'elemento lavoro.
Ma una difficoltà anche più seria sorgeva circa lo stesso concetto di lavoro che pur essendo ragione del valore doveva essere a sua volta valutato. Oltre alla quantità occorre guardare alla qualità del lavoro. "Nel parlare intanto del lavoro", osserva infatti il Ricardo, "come fondamento di tutti i valori e della relativa quantità del lavoro come ciò che quasi esclusivamente determini il valore relativo delle mercanzie, non deve supporsi che io non metta attenzione alle diverse qualità del lavoro ed alla difficoltà di paragonare il lavoro di un'ora o d'un giorno, in un impiego, con la medesima durata di lavoro in un altro. L'estimazione in cui le diverse qualità di lavoro vadan tenute viene tosto ad essere determinata nel mercato, con sufficiente precisione, per tutti i propositi pratici, e dipende molto dalla comparativa perizia del lavorante e dall'intensità del lavoro eseguito. La scala, una volta formata, va soggetta a piccola variazione. Se il lavoro d'un giorno d'un gioielliere vaglia più che il lavoro d'un giorno d'un comune lavorante, ciò fu già da lungo tempo determinato, e ciascuno prese la propria posizione nella scala del valore". Il lavoro è, dunque, distinto qualitativamente secondo una scala di valori, ma è chiaro che tale scala deve essere costruita alla stregua di un concetto del valore non deducibile dallo stesso lavoro. Col lavoro si può determinare il prezzo di una qualsiasi merce all'infuori di quello delle diverse specie di lavoro. Il circolo vizioso si rivela con irrefutabile evidenza e la presunta oggettività del criterio trovato si dimostra affatto illusoria.
Ma prima che la teoria venga definitivamente abbandonata dalla scienza economica, essa si irrigidisce e assurge a caposaldo della concezione politica del socialismo attraverso l'opera di Carlo Marx. Prendendo ancora le mosse dalla distinzione di valore d'uso e valore di scambio e lasciato da parte il primo come irrilevante ai fini della scienza economica, egli avanza sicuro sgombrando il terreno dalle incertezze e dalle limitazioni del Ricardo. Le merci diventano una pura "gelatina" di indistinto lavoro umano e, come cristallizzazioni di questa comune sostanza sociale, esse sono valori. Per quel che riguarda la scala ricardiana del valore delle diverse qualità di lavoro, Marx si rifiuta di porre nei vecchi termini il problema e cerca di determinare un criterio astratto, medio e indistinto del lavoro. "Un valore d'uso o un oggetto utile", spiega Marx, "ha un valore solo perché in esso si è obiettivato o materializzato lavoro umano astratto. Ora, come misurare la grandezza del suo valore? Mediante il quantum della sostanza creatrice di valore, in esso contenuta, cioè il lavoro. La quantità di lavoro, a sua volta, si misura dalla sua durata nel tempo, come il giorno, l'ora, ecc.". "Le merci nelle quali sono contenute uguali quantità di lavoro, o che possono essere prodotte nel medesimo tempo, hanno, per conseguenza, valore uguale. Il valore di una merce sta al valore di un'altra qualsiasi nello stesso rapporto in cui sta il tempo di lavoro necessario alla produzione dell'una, al tempo di lavoro necessario alla produzione dell'altra. Come valori, tutte le merci rappresentano solo una misura determinata di tempo di lavoro coagulato" Con il portare in primo piano il concetto quantitativo del tempo, Marx esce dal circolo vizioso in cui era caduto Ricardo e può procedere alla critica del sistema capitalistico. Ma, come il superamento della contraddizione era stato possibile rinunziando a ogni criterio qualitativo, così la critica del capitalismo è compiuta abbassando tutto il lavoro alla sua minima espressione qualitativa. "Ogni lavoro è, per un lato, nel senso fisiologico, dispendio di forza umana e per questa sua qualità di essere lavoro umano uguale o lavoro astratto puro e semplice, esso costituisce il valore delle merci". Di qui la teoria del plusvalore e dello sfruttamento capitalistico del proletariato. Vero è che anche per Marx risorge qua e là il problema della differente qualità del lavoro (semplice, medio, qualificato), ma esso rimane generalmente al margine e le sue conseguenze più gravi sono sem- evitate con espedienti più o meno abili. Il dispendio di forza umana è visto esso stesso in termini di costi di produzione e nel calcolo di tali costi domina la considerazione del fatto puramente fisiologico: si comprende allora l'importanza che viene ad assumere il lavoro manuale, specialmente nelle sue forme più grossolane. La tendenza materialistica è poi corretta da esigenze in senso contrario, ma è essa che in fondo colora tutto il sistema e rende possibile, in particolare, la teoria dell'identità di valore e lavoro, evitando lo scoglio della valutazione qualitativa del lavoro e del conseguente circolo vizioso.
Se in tal guisa la teoria si irrigidiva nelle derivazioni di carattere socialistico, essa si era venuta dissolvendo nell'ambito della scienza economica classica. Le riserve erano aumentate, altri aspetti del problema si erano rivelati imprescindibili (capitale fisso, costo di produzione, entità della domanda e dell'offerta, valore d'uso, ecc.) e l'indagine aveva oscillato indecisa approfondendo a volta a volta i singoli criterî. I varî tentativi: si erano dimostrati inadeguati e la fiducia di trovare un principio oggettivo che riuscisse a dare la misura effettiva del valore aveva ceduto il posto al più scettico relativismo. Allora l'attenzione fu spostata dalla merce al meccanismo del mercato e la legge della domanda e dell'offerta, che si era affacciata qua e là in Smith e in Ricardo, cominciò a generalizzarsi e a scalzare tutte le altre fino ad acquistare un'importanza decisiva ed esclusiva in H. D. Macleod. Questi, irridendo alle teorie di Ricardo e degli economisti posteriori, dimostrava l'erroneità del concetto di valore intrinseco e dopo aver combattuto la teoria del lavoro come causa del valore (dottrina che "si sparse! a guisa di cancro per le opere degli economisti inglesi.") concludeva dogmaticamente che "la relazione tra la domanda e l'offerta è il solo regolatore del valore". "Noi quindi ne deduciamo, che nessun'altra causa influisce sul valore o sulle variazioni del valore, fuorché intensità di domanda e scarsità di offerta. Noi ne deduciamo, che né il lavoro, né il costo di produzione, né altra causa qualsiasi può avere diretta influenza qualunque sul valore; e che, ove possano averne una qualunque indirettamente, ciò avviene unicamente per o mediante i mezzi inducenti alterazione nella domanda o nell'offerta; dimodoché nessuna variazione nel lavoro, o nel costo di produzione, può avere influenza alcuna sul valore, a meno che non vadano congiunte con una correlativa variazione nella domanda o nell'offerta".
Sennonché giunti a questo punto, e riconosciuti nella domanda e nell'offerta i principî di intelligibilità dello scambio e della vita economica in genere, l'economista non poteva non trascendere questi stessi termini e non domandarsi il perché della domanda e dell'offerta. E allora la famosa legge rivelò la sua intima esigenza che era quella di risalire dall'oggetto merce al soggetto dell'azione economica. Dietro la domanda e l'offerta apparvero gli homines oeconomici con i loro gusti e i loro bisogni e gli studiosi cominciarono a sentire la necessità di rivolgere la loro attenzione non più ai fatti economici nella loro astrattezza, bensì all'homo oeconomicus in quanto creatore di questi fatti.
La conversione dell'indagine dall'oggetto al soggetto ha condotto alla trasformazione della scienza economica in scienza psicologica e matematica (H. Gossen, W. Jewons, i rappresentanti della scuola austriaca - K. Menger, F. Wieser, E. Böhm-Bawerk - F. Edgeworth, J. Clark, J. Fisher, e i teorici dell'equilibrio economico - M. L. Walras, A. Marshall, M. Pantaleoni e V. Pareto). Il dualismo smithiano e ricardiano di valore d'uso e valore di scambio è stato abbandonato come affatto empirico e dell'utilità si è voluto dare una definizione rispondente al carattere soggettivo dell'individuo economico. Se, infatti, soggetto del mondo economico è l'individuo considerato nella sua particolarità, egli è l'unico giudice dell'utilità che le cose hanno per lui e nessun altro concetto di utilità si può ammettere che non sia quello relativo al giudizio insindacabile di lui. Si può anche riconoscere, e i nuovi economisti l'hanno esplicitamente riconosciuta, l'esistenza di un'utilità obiettiva, valea dire l'utilità della cosa in sé stessa indipendentemente dal gusto dei singoli che ne fanno uso, ma tale genere di utilità è stato escluso dalla considerazione della scienza economica, la quale deve teorizzare unicamente il mondo dell'individuo nella sua particolare soggettività, che è appunto quella che lo muove in quanto attore nel mercato. Ed è chiaro che per questa soggettività non esistono cose obiettivamente utili, bensì cose che rispondono o non rispondono a gusti e a bisogni limitati nel tempo e nello spazio e variabili da individuo a individuo, anzi per lo stesso individuo in momenti diversi della sua esistenza. Questa e soltanto questa è la vera utilità (o ofelimità, secondo la terminologia del Pareto) che muove gl'individui ad agire economicamente e a scambiare i proprî beni con quelli degli altri.
Determinato il punto di partenza, le nuove scuole hanno proceduto con la massima coerenza e hanno avuto il merito di condurre alle estreme conseguenze i principî sistematici della scuola classica, accentuando il loro carattere individualistico. Se l'individuo è il centro della vita economica, egli sarà abbandonato alla libera concorrenza, ma prima di tutto deve essere lasciato arbitro incondizionato nel giudizio del valore delle cose per il cui conseguimento scende in lotta con i suoi simili.
Tale posizione logicamente rigorosa, e assolutamente irrefutabile quando si sia ammesso il presupposto da cui deriva, apre tuttavia l'abisso innanzi allo scienziato che ha rinunziato a ogni nozione oggettiva del valore. Egli dovrebbe rinunziare a entrare comunque nel mondo della pura soggettività che ha ipostatizzato e, una volta constatatolo speculativamente, lasciarlo a sé stesso perché si svolga secondo la propria natura. Lo scienziato, per la stessa definizione che ne ha dato, non solo deve rinunziare a modificarlo, ma deve riconoscere addirittura l'impossibilità di studiarlo. È un mondo il cui atomismo originario deve sfuggire a ogni sistemazione, perché sistemazione significa appunto superamento della particolarità e determinazione di rapporti oggettivi di carattere universale.
La scienza economica, invece, non si è arrestata al soggettivismo e non ha voluto suicidarsi: essa ha creduto di poter oggettivare lo stesso soggetto raggiungendolo con gli strumenti della psicologia empirica. Allora l'arbitrio si è dissolto nella sua legge e l'ofelimità è diventata oggettiva: la contraddizione è stata vinta con un atto di forza ed è stata escogitata la famosa teoria dell'utilità marginale. Tutta la cosiddetta economia marginalista ha preso le mosse da questo presupposto fondamentale e si è trascinata nell'illusione di vincere in tal modo il puro soggettivismo. Se soggettivo, si è detto, è il concetto di utile, entriamo pure nell'anima del soggetto e studiamo la logica del suo operare. Ma è chiaro che il soggetto così oggettivato non può essere appunto che oggetto, cioè tipo, fuori della peculiarità per cui ogni soggetto si distingue dagli altri ed è perciò propriamente soggetto. E nel tipo l'economista ha potuto naturalmente trovare ben povera cosa, anzi l'unica conclusione è stata che di veramente certo nella logica di ogni individuo non v'è che il bisogno di procurarsi beni economici in quantità tali da rendere eguali le soddisfazioni procurate dalle unità ultime dei diversi beni. Il ragionamento si è svolto nei seguenti termini: se io vado al mercato a comprare pane e vino è chiaro che compro tanto pane e tanto vino da far coincidere il piacere che può procurarmi l'ultima parte del mio pane con quello che può venirmi dall'ultima parte del mio vino. Se l'ultimo boccone del mio pane avesse per me maggiore o minor valore dell'ultimo sorso del mio vino, la mia azione sarebbe illogica perché rinunzierei senza ragione al massimo di utilità possibile, facendo acquisto di troppo vino o di troppo pane.
Non potendosi arrestare a una formula così generica, l'economista ha creduto, a questo punto, di poter far ricorso all'esperienza e di superare il tipo e l'astratta soggettività con la constatazione del particolare agire dei soggetti. Estendendo il criterio marginalistico a tutti i miei beni e misurando la quantità di ognuno di essi posso giungere a determinare il loro valore relativo, posso cioè avere una nozione sperimentale del mio equilibrio economico. E se dalla mia persona passo a quella degli altri individui che formano la collettività, posso sempre sperimentalmente e oggettivamente giungere alla nozione di un equilibrio generale, che è tuttavia la risultante di molti mondi assolutamente soggettivi. Si compie in tal guisa la trasformazione del mondo soggettivo in mondo oggettivo e ciò che sembrava l'espressione di un arbitrio inafferrabile e indeterminabile diventa elemento rigorosamente determinato.
L'equivoco che si cela in questo ragionamento è stato intravisto dagli stessi teorici del marginalismo e soprattutto dal Pareto che ha finito con il riconoscere l'incomparabilità delle utilità marginali di due beni per uno stesso individuo e a fortiori per diversi individui. Già nella sua prima opera fondamentale, il Cours d'économie politique, egli deve ammettere che il carattere soggettivo delle ofelimità non consente un confronto quantitativo, ma nel Manuale di economia politica la riserva diventa ancora più grave, fino a svalutare radicalmente il principio. "Un uomo", egli osserva, "può sapere che dal terzo bicchiere di vino ha meno piacere che dal secondo; ma egli non può in nessun modo conoscere quanto vino precisamente a lui conviene bere dopo il secondo bicchiere, per avere un piacere uguale a quello che a lui ha procurato quel secondo bicchiere. Da ciò cresce la difficoltà di considerare l'ofelimità come una quantità; se non in via di semplice ipotesi".
Neanche il nuovo concetto di utilità, dunque, può valere come fondamento della scienza economica. Rinunziato al criterio del valore che la scuola classica credeva di poter determinare obiettivamente, si deve riconoscere che egualmente vano è il tentativo di determinare l'utilità soggettiva elevando l'economia alla psicologia. Ma i marginalisti, pur riconoscendo, almeno in parte, il fallimento, non hanno creduto di poter abbandonare il principio e hanno cercato di salvarlo passando dallo schema psicologico a quello matematico. Data l'ofelimità elementare "del bene y per l'individuo z...": da questa e da analoghe ipotesi il passaggio alla formula algebrica è stato facile, e in breve le formule si sono moltiplicate in ben congegnati sistemi matematici, che hanno dato a tanti la certezza di aver reso esatta quella scienza dell'economia che è stata il campo di battaglia delle più diverse ideologie filosofiche e politiche. I teorici dell'equilibrio, soprattutto, hanno potuto matematizzare l'interdipendenza parziale e totale dei fenomeni economici, illudendosi di poter dare una soluzione rigorosamente determinata di qualsiasi problema economico, una volta dati i termini necessarî per impostare la relativa equazione. Ma quando dal formalismo e virtuosismo matematico si è passati alla ricerca concreta dei termini con i quali impostare le equazioni, ci si è trovati nuovamente di fronte a quel mondo soggettivo che si credeva di aver obiettivato, quantificato e matematizzato. Il soggetto è riapparso in tutta la sua immediatezza e cioè nel suo arbitrio assolutamente inintelligibile.
L'indirizzo psicologico-matematico raggiunge il suo punto critico nell'ultima grande opera del Pareto, il Trattato di sociologia gcnerale. Da allora in poi l'inadeguatezza del criterio del valore soggettivamente inteso comincia ad avvertirsi un po' da tutti e l'esigenza di un ritorno all'oggettività si affaccia con sempre maggiore insistenza. All'abbandono del psicologismo e del relativo individualismo contribuisce anche la reazione politica al liberalismo che si è delineata un po' dappertutto nel dopoguerra. Al di là dell'individuo si sono riaffermati i valori religiosi, nazionali e sociali e lo spostamento ideologico ha avuto profonde ripercussioni nel campo della scienza economica. Per un verso, preoccupati dal problema religioso si è cercato - soprattutto dai cattolici - di rinnovare il compromesso tra scienza e morale, e di concepire un valore che fosse insieme economico ed etico: sono risorti allora i criterî del salario giusto o del prezzo equo, in cui due valori eterogenei vengono giustapposti in maniera necessariamente non sistematica. Per un altro verso si è affermata Ia subordinazione degl'interessi individuali a quelli nazionali e si è tentato di escogitare un'economia nazionalista che fosse ligia al principio capitalistico e privatistico e insieme anticapitalistica e statale. Per un altro verso ancora si è accentuato il tentativo di una scienza economica a carattere socialistico e comunistico respingendo ogni criterio soggettivistico di determinazione del valore. Sennonché questi e altri tentativi analoghi non hanno dato frutti degni di nota e il difetto di rigore scientifico si è mostrato sempre più evidente. L'unico risultato che riassume un po' i diversi sforzi indipendentemente dall'ispirazione ideologica è quello dell'economia programmatica, in cui l'esigenza di un criterio obiettivo del valore cerca di esprimersi al tempo stesso scientificamente e politicamente. In Italia l'economia programmatica ha assunto carattere corporativistico e - quando non ci si è arrestati al compromesso - si è tentato di risolvere il dualismo di valore oggettivo e valore soggettivo con la teoria dell'identità di individuo e stato. Il tentativo ha condotto alla risoluzione dell'economia nell'etica o nella politica eticamente concepita e la distinzione di valore morale e valore economico si è convertita nella contrapposizione di valore e disvalore.
Bibl.: Trattandosi del principoi sistematico di tutta la scienza economica la bibliografia si estende a tutte le opere di carattere generale. Cfr. in particolare le opere degli autori citati nel testo. Tra gli studî speciali sulla teoria del valore vedi: R. Kaulla, Die geschichtliche Entwicklung der modernen Wertheorien, Tubinga 1906; C. e C.-H. Turgeon, Premières études. La valeur d'après les économistes anglais et français, 3ª ed., Parigi 1925; L. v. Mises, Grundprobleme der Nationalökonomie, Jena 1933; Probleme der Wertlehre, a cura di L. v. Mises e A. Spiethoff, Schriften, del Verein für Sozialpolitik, CLXXXIII, voll. 2, Monaco 1931-33.