valore
Polisemia del concetto di valore
Il concetto di valore negli studi economici assume diversi significati nell’economia politica, nella finanza e nell’economia aziendale.
La definizione prevalente, nell’economia politica (➔), è riferita al mercato di scambio, dove per valore s’intende la quantità di denaro per la quale è possibile che domanda e offerta di un bene economico (merce o servizio) s’incontrino perfezionando lo scambio. Il valore (economico) di un bene è cioè il prezzo al quale è possibile che sia rispettivamente venduto e acquistato, ovvero il punto d’incontro della domanda e dell’offerta (per la teoria del valore lavoro, ➔ valore lavoro, teoria del). Al concetto di ‘valore di scambio’ si affianca quello di ‘valore d’uso’. Quest’ultimo è inteso come valore per uno specifico soggetto, funzione dell’utilità (misurata in termini monetari, ➔ utilità, funzione di p) che un bene esprime per tale soggetto, nelle sue particolari condizioni di utilizzo (anche congiuntamente ad altri beni). Si tratta, pertanto, di un valore per definizione ‘soggettivo’, a differenza del valore di scambio, che si caratterizza come valore ‘oggettivo’, in quanto determinato dalle forze di mercato (domanda e offerta), nelle quali le ‘soggettività’ si annullano. In condizioni di mercato perfetto, infatti, gli elementi soggettivi della domanda (utilità) e dell’offerta (convenienza) interagiscono sistematicamente, fino a rendere il prezzo indipendente dalle condizioni specifiche di un particolare ‘cliente’ o ‘offerente’. Al venir meno di tali condizioni (per es., per la presenza di asimmetrie informative e/o di posizioni monopolistiche), il prezzo perde (in parte) quel carattere di ‘oggettività’, per riflettere, anche nel mercato (valore di scambio), elementi di ‘soggettività’.
Da tali nozioni economiche prende spunto la finanza aziendale (➔), perfezionando la teoria (e i modelli di misurazione) con particolare riguardo al valore del capitale, cioè delle attività detenute da soggetti (persone o enti, privati o pubblici) a fronte di precedenti operazioni d’investimento. Il valore del capitale è, così, definito come il prezzo equo di mercato (fair market value) al quale può essere scambiato. In condizioni di efficienza (➔ efficienza economica) del mercato − situazione distinta da quella di perfezione, poiché si assume la possibile presenza di elementi monopolistici, mantenendo, invece, l’assenza di condizioni di asimmetria informativa (➔) − il valore del capitale dipende dai risultati/ritorni economici futuri attesi dal suo possesso (➔ anche simmetria/asimmetria; valore atteso), dalla distribuzione temporale di questi e dal livello di rischio che li caratterizza. Per il capitale investito nell’azienda, il valore complessivo (enterprise value) è funzione dell’entità, della distribuzione temporale e della volatilità (rischio) dei flussi monetari attesi dalla gestione aziendale nell’orizzonte di vita utile futura dell’azienda (assunto, salvo casi particolari, infinito). Il valore del capitale di rischio (equity) è dato dal valore del capitale investito al netto del valore del debito. A partire da queste nozioni base, la teoria della finanza studia l’impatto sul valore del capitale (inteso come valore del capitale investito, del debito e dell’equity) delle diverse scelte e politiche aziendali in merito a: investimenti, finanziamenti, dividendi e altre operazioni sul capitale di rischio (incluse le operazioni di finanza straordinaria).
Uno specifico filone (shareholder theory) dell’economia aziendale (➔) e degli studi di management accoglie l’impostazione della finanza e la declina sul piano operativo-manageriale (gestione orientata al valore o value-based management). Si parte, quindi, dal concetto che la finalità economica (ragion d’essere) dell’azienda sia la ‘massimizzazione’ del valore del capitale, indagando e intervenendo sulle diverse aree aziendali (gestione, organizzazione, rilevazione), alla ricerca delle condizioni (teorico-empiriche) e delle politiche manageriali (scelte, progetti, obiettivi intermedi) atte a perseguire tale finalità. In una diversa impostazione (stakeholder theory), si assume, invece, che l’azienda sia rivolta a soddisfare, oltre a finanziatori e azionisti, anche gli interessi di tutti gli altri soggetti coinvolti nel suo funzionamento, tra cui: clienti, personale, fornitori, comunità sociale, ambiente. Si parla, quindi, in senso piuttosto generale (e parzialmente indeterminato), di valore per tutti questi soggetti, sostenendo che il valore del capitale sia, comunque, un riferimento essenziale, ma non esclusivo. D’altronde , anche nelle applicazioni illuminate della prima teoria, non si esclude affatto che il soddisfacimento delle attese per i diversi portatori di interessi (clienti, personale e fornitori-chiave) sia essenziale per favorire la massimizzazione del valore del capitale in prospettiva di lungo periodo (cioè agendo oggi per il domani prossimo e lontano). Il pregio di quest’ultimo approccio è quello di ricondurre le scelte e le politiche aziendali a una finalità unica e misurabile (il valore del capitale), che consente di governare l’analisi costi-benefici (➔ trade-off; ➔ costi-benefici, analisi dei), cui la gestione aziendale è chiamata a rispondere, alla ricerca dell’ottimale utilizzo delle risorse scarse disponibili. Tale prospettiva, peraltro, riflette la struttura tipica dell’impresa capitalistica, che vede negli azionisti i soggetti detentori dei diritti residuali sui risultati aziendali (dopo aver soddisfatto tutti gli altri portatori di interessi); su questi soggetti grava il livello di rischio più elevato (sul rendimento e sul rientro degli investimenti effettuati nell’impresa) e a questi competono i diritti/doveri di controllo del funzionamento aziendale.