BISOGNI
di Stefano Zamagni
Il problema della soddisfazione dei bisogni e della ricerca dei mezzi più idonei a tal fine ha rappresentato lo scopo 'naturale' dell'economia politica fin dal suo costituirsi come disciplina scientifica autonoma nella seconda metà del Settecento. Parecchie, e talvolta profondamente diverse, sono state le risposte che le varie scuole di pensiero economico hanno dato alla domanda: quali sono i bisogni da soddisfare e quali le modalità per soddisfarli? All'origine di tale pluralità sta l'ambiguità della nozione stessa di bisogno, un'ambiguità che a sua volta discende da un'altra più profonda: quella dell'uomo che è essere sociale e naturale a un tempo. Già gli autori del XVIII secolo distinguevano due categorie di bisogni, quelli naturali e quelli artificiali, una distinzione che, con denominazioni appena diverse (bisogni necessari e superflui, biologici e culturali, e così via), si ritrova in tutti gli studiosi che si sono occupati e si occupano della tematica dei bisogni. Scriveva Condillac (v., 1776; ed. 1948, p. 244): "I bisogni naturali sono una conseguenza della nostra conformazione: noi siamo conformati in modo da aver bisogno di nutrimento o da non poter vivere senza alimenti". Quanto ai "bisogni artificiali", essi sono "una conseguenza delle nostre abitudini. Una certa cosa, di cui potremmo fare a meno perché la nostra conformazione non fa sì che ne abbiamo bisogno, ci diventa necessaria in seguito all'uso e talvolta tanto necessaria come se fossimo conformati in modo da averne bisogno". Quanto a dire che da un lato i bisogni derivano dalla costituzione dell'uomo, dal suo corpo; dall'altro, dalla storia e dalla cultura proprie di ciascun gruppo sociale.
È un fatto che tutte le risposte ai bisogni, e prima ancora la loro formulazione, passano attraverso una dimensione simbolica. L'uomo non mangia solo per necessità biologica, ma il suo consumo di cibo subisce un'elaborazione culturale e immaginaria: attraverso questa griglia va colto il senso degli atti legati, direttamente o indirettamente, alla soddisfazione dei bisogni. I bisogni dunque, e soprattutto il modo di soddisfarli, appaiono sempre in qualche modo socialmente determinati. E ciò non solo perché i bisogni 'artificiali' non preesistono ai beni atti a soddisfarli - ma anzi si sviluppano in seguito all'esposizione agli stessi - ma anche perché, dal momento che i beni sono usati in attività socialmente definite, il processo di interazione tra bisogni e beni è mediato dal significato che i beni stessi assumono nel contesto socioistituzionale di riferimento del soggetto (v. Consumi). Come vedremo, la diversità dei modi in cui la categoria 'bisogno' è stata teorizzata nella storia del pensiero economico trova la sua radice ultima in questo divario tra una concezione essenzialistica - secondo cui i bisogni generano, fin dall'emergere della specie, i nostri comportamenti individuali e collettivi - e una concezione convenzionalista, secondo cui i bisogni sono storicamente e socialmente determinati. Secondo il primo punto di vista i bisogni si identificano con ciò che è richiesto dalla natura umana, senza di cui il soggetto risulterebbe danneggiato. Il danno è poi variamente definito in termini di "conseguenze patologiche" (v. Bay, 1968, p. 242), oppure di impedimento allo "sviluppo naturale della persona" (v. McCloskey, 1976, pp. 5-7), e ancora di vincoli alla razionalità (v. Nielsen, 1976). Nell'ottica convenzionalista, invece, i bisogni sono ciò che la società ritiene che gli individui non possano non avere. Per Townsend (v., 1979, p. 413) "le persone vanno considerate bisognose se mancano dei tipi di cibo, vestiario, alloggio, delle condizioni sociali e di lavoro che sono comuni nelle società cui appartengono".
Nel pensiero classico la riflessione sui bisogni è legata a doppio filo allo studio sistematico di quella nuova forma di organizzazione socioeconomica che prende corpo nell'Inghilterra del Settecento: il capitalismo industriale. Nel 1776 Adam Smith pubblica l'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, uno dei più significativi punti di riferimento della cultura occidentale. Obiettivo primario di Smith è spiegare come il perseguimento da parte degli individui dell'interesse personale, in un'economia in cui i soggetti interagiscono tra loro solo per mezzo di scambi volontari, dia origine a un'organizzazione della produzione e della distribuzione della ricchezza che è, a un tempo, efficiente e mutuamente benefica. In altri termini, si tratta di spiegare come un'economia di scambio riesca a garantire il soddisfacimento dei bisogni dei suoi componenti e in tal modo l'armonia sociale.
Per Smith ciò che consente un livello sempre più elevato di soddisfazione dei bisogni è il meccanismo dello scambio, che è alla base dell'economia di mercato. Lo scambio consente, in primo luogo, di confrontare e rendere compatibili i vari bisogni individuali: ognuno, scambiando i propri beni con quelli di un altro, può aumentare il proprio benessere e ampliare la gamma dei suoi bisogni. Dietro l'interesse privato del singolo agisce, sul mercato, una "mano invisibile" che unifica e concilia le differenti situazioni di bisogno. D'altro canto, lo scambio non è il risultato di una previdente invenzione, ma la conseguenza di un'inclinazione naturale, innata, dell'animo umano, che costituisce la base stessa della socialità.
Nella forma che esso assume nell'economia di mercato, lo scambio è comune a tutti gli uomini e a essi soltanto. Non si è mai visto un cane - dice Smith - scambiare un osso per un altro con un altro cane. Solo l'uomo dice all'altro uomo: "dà a me quello di cui ho bisogno e avrai ciò di cui hai bisogno". Inoltre, solo l'uomo può volgere a proprio vantaggio l'interesse degli altri così come gli altri fanno con il suo. Resta celebre l'affermazione smithiana secondo cui " non è dalla benevolenza del macellaio, del produttore di birra, del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal riguardo che essi prestano ai loro interessi" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 17). Quanto a dire che non è dalla benevolenza degli altri uomini che ognuno ottiene ciò di cui ha bisogno, ma solo dalla considerazione che egli stesso ha del proprio interesse. I bisogni sono infatti vari e molteplici - ricorda Smith - e la vita troppo breve per guadagnarsi l'amicizia di tutti coloro da cui i nostri bisogni dipendono; è dunque solo attraverso lo scambio che possiamo soddisfarli.
L'altro momento dell'economia politica classica in cui il concetto di bisogno gioca un ruolo fondamentale è quello della definizione del livello salariale di sussistenza. Sono infatti i bisogni a definire il contenuto della sussistenza, cioè il paniere dei beni di consumo senza i quali la classe lavoratrice non può riprodursi nella quantità e nella qualità richieste dal processo di accumulazione capitalistico. Il livello del salario naturale dipende solo dalle condizioni di offerta del lavoro, vale a dire dal costo della sussistenza del lavoratore e della sua famiglia. Il principio della popolazione di Malthus garantisce che il prezzo d'uso del lavoro, cioè il salario, non potrebbe mai scostarsi, nel lungo periodo, dal costo della sussistenza. Il rigore di questa legge ferrea dei salari viene mitigato da David Ricardo allorché osserva che il livello di sussistenza è definito non in termini del mero costo di riproduzione del lavoro, ma del costo calcolato tenendo conto anche dei beni di consumo generalizzato, i cosiddetti beni 'convenzionalmente necessari', legati al grado di sviluppo raggiunto dal sistema.
Se si analizzano le scoperte che Marx si attribuisce rispetto all'economia politica classica, si trova che, in qualche modo, esse sono tutte costruite sul concetto di bisogno. Marx (v., 1867-1894; tr. it., vol. I, t. 1, p. 47) definisce la merce come valore d'uso nel modo seguente: "La merce è [...] una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo". Tuttavia Marx non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non spiega nemmeno cosa si debba intendere con tale termine, anche se, più di una volta, egli ribadisce la storicità dei bisogni, la loro dipendenza dalla tradizione, dal grado di cultura e così via.
Lo sviluppo della divisione del lavoro e della produttività crea, con la ricchezza materiale, anche la ricchezza e la molteplicità dei bisogni; è però sempre in seguito alla divisione del lavoro che anche i bisogni si ripartiscono: il posto occupato all'interno della divisione del lavoro determina la struttura dei bisogni o, almeno, i suoi limiti. Questa contraddizione raggiunge il suo culmine nel capitalismo.
Secondo Marx, la riduzione del concetto di bisogno al bisogno economico - riduzione tipica dell'economia politica classica - è un'espressione dell'estraniazione (capitalistica) in una società in cui il fine della produzione non è la soddisfazione dei bisogni ma la valorizzazione del capitale; in cui il sistema dei bisogni è determinato dalla divisione del lavoro e il bisogno incide sul mercato soltanto nella forma di domanda solvibile. Invero, le categorie marxiane di bisogno non sono categorie economiche, ma categorie antropologiche di valore e dunque non passibili di definizione entro il sistema economico.
Solo in quella che Marx chiama la società dei "produttori associati" può svilupparsi negli uomini una struttura dei bisogni tale da rendere possibile l'impiego del tempo libero per la soddisfazione di "bisogni superiori". Infatti, in questa società è di primaria importanza la valutazione dei bisogni e la conseguente ripartizione di forza lavoro e di tempo di lavoro; in tal modo viene modificata tutta la struttura dei bisogni (anche il lavoro diventa un bisogno vitale): gli uomini partecipano dei beni conformemente ai loro bisogni e sono primari non i bisogni riguardanti beni materiali, ma quelli diretti alle "attività superiori". Nulla di simile, sentenzia Marx, può riscontrarsi nel capitalismo. Qui la struttura dei bisogni si riduce al bisogno di avere, che subordina a sé l'intero sistema. Tutto ciò si manifesta nei membri della classe dominante come aumento quantitativo dei bisogni di uno stesso tipo e degli oggetti necessari alla loro soddisfazione, mentre nella classe operaia si manifesta come riduzione ai meri bisogni vitali, cioè ai "bisogni naturali" e alla loro soddisfazione. I bisogni qualitativi sono quantificati, da bisogni-scopo diventano bisogni-mezzo. Poiché non possono svilupparsi bisogni di qualità eterogenea, i piaceri degli uomini restano "rozzi" e "brutali" e alcuni dei loro bisogni si "fissano".
È di un certo interesse notare che è nei Grundrisse che si trova una delle più chiare descrizioni di Marx della società postindustriale e della nuova condizione del lavoro liberato dalla ossessiva ripetitività della fabbrica. "Il risparmio del tempo di lavoro equivale all'aumento del tempo libero - osserva Marx - ossia del tempo dedicato allo sviluppo dell'individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima produttività, sulla produttività del lavoro [...]. Il tempo libero, che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori, ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto diverso ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di produzione immediato" (v. Marx, 1953; tr. it., vol. II, p. 410). In queste circostanze "non è più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza" (ibid., p. 405). Come si comprende, sono qui abbozzati due spunti di riflessione di grande interesse. Il primo è che col progredire delle condizioni generali di vita nasce e si afferma un nuovo bisogno, il bisogno di tempo libero. La seconda idea importante riguarda l'aspetto 'produttivistico' della soddisfazione dei bisogni, e ciò nel senso che quanto meglio vengono soddisfatti i bisogni del lavoratore tanto più elevata risulterà la sua produttività.
Il punto di vista che caratterizza il sorgere del marginalismo e l'opera di alcuni tra i suoi più autorevoli esponenti individua nel concetto di bisogno il fondamento di una teoria economica dell'azione umana. L'asserto di base è che ciò che determina il comportamento economico dell'individuo è la sua situazione di bisogno. I beni sono utili in quanto hanno la capacità di soddisfare i bisogni, e quindi la scelta dei beni da parte del soggetto dipende dalle proprietà strutturali dei bisogni. La più importante di queste proprietà è che i bisogni si presentano gerarchizzati, ed è una proprietà da sempre riconosciuta, se è vero che addirittura Platone poteva scrivere: "Ora il primo e principale dei nostri bisogni è la provvista di cibo per l'esistenza e la vita. Il secondo è l'abitazione e il terzo è l'abbigliamento e cose simili" (Repubblica, II, 369 d).Già in T. C. Banfield, uno dei maestri di W. Stanley Jevons, troviamo chiaramente esposta "la prima proposizione della teoria del consumo: che la soddisfazione di ciascun bisogno inferiore della scala crea un desiderio di carattere più elevato [...]. La rimozione di un bisogno primario usualmente sollecita più di una privazione secondaria: così una disponibilità piena di cibo ordinario non solo stimola il piacere del buon mangiare, ma sollecita l'attenzione al vestirsi [...]. Ed è la costanza di un valore relativo negli oggetti di desiderio e l'ordine fisso di successione in cui questo valore sorge che rende argomento di calcolo scientifico la soddisfazione dei nostri bisogni" (v. Banfield, 1844, pp. 11-21).
È questo il principio di subordinazione dei bisogni, secondo cui il soddisfacimento di certi bisogni è condizione necessaria del manifestarsi di altri - un principio che alcuni decenni dopo l'economista austriaco Carl Menger illustrerà e renderà celebre con la ben nota parabola del coltivatore solitario che procede a ripartire i frutti del proprio raccolto in relazione al grado di urgenza dei propri bisogni.
Dall'affermazione che esistono priorità nell'ordine dei bisogni discende immediatamente un secondo principio, per la prima volta esplicitamente enunciato dall'economista tedesco Hermann Gossen: il principio dei bisogni saziabili, secondo cui l'intensità di un bisogno finisce col decrescere, fino a diventare zero e poi negativa, all'aumentare delle dosi di beni impiegate per soddisfarlo. Invero, la nozione di gerarchia implica che il soggetto soddisfi i propri bisogni in ordine di importanza, ma è evidente che solo se il bisogno più importante è saziabile, quello successivo potrà essere soddisfatto: un punto questo che Maurice Halbwachs pone in chiara evidenza in un'opera monumentale dedicata allo studio delle correlazioni tra bisogni e consumi (v. Halbwachs, 1913).
D'altro canto, se è vero che esiste una saturazione (relativa) per qualsiasi bisogno, è altresì vero che un bisogno successivo ne prende sempre il posto. È proprio questo terzo principio, noto come principio della crescita dei bisogni, a escludere situazioni di saturazione assoluta. In L'ideologia tedesca Marx scrive al riguardo: "Il secondo punto è che, soddisfatto il primo bisogno, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questa soddisfazione portano a nuovi bisogni: è questa produzione di nuovi bisogni la prima azione storica" (v. Marx ed Engels, 1845-1846; tr. it., p. 25).
Come avvenga questo sviluppo dei bisogni, secondo quali modalità e con quali conseguenze è un problema che non può essere ignorato se non si vuol rinunciare a cogliere alcuni aspetti centrali del funzionamento del sistema economico. Di ciò ha chiara percezione Menger che pone la teoria dei bisogni a fondamento di tutta la sua teoria economica. L'uomo è soggetto, al pari degli animali, a provare impulsi e appetiti che lo spingono a procurarsi mezzi di soddisfazione immediati, che però non sono in grado di assicurargli vita e benessere. Data la sua natura, tuttavia, l'uomo è in grado di percepire anche i suoi bisogni veri e propri, ovvero ciò che gli è necessario per la "conservazione e lo sviluppo armonico della natura nella sua totalità" (v. Menger, 1871; tr. it., p. 76). Ma da cosa dipende la possibilità di percepire i bisogni? La riflessione mengeriana acquista, a tale proposito, il valore di un'intuizione di grande momento. Poiché la percezione del bisogno è indotta da necessità pratiche, quanto più limitati sono i mezzi di cui un individuo dispone, tanto minori saranno le occasioni che egli avrà di conoscere i propri bisogni. Al contrario, "tanto più abbondanti sono i mezzi di cui una persona dispone, tanto maggiore è il suo desiderio di comprendere chiaramente le esigenze della propria personalità" (ibid., nota a). Sono dunque le condizioni soggettive dell'individuo, e in primo luogo i suoi mezzi (potere d'acquisto, informazione, ecc.), a fissare le modalità di crescita dei suoi bisogni. È questo un punto della più grande importanza, che purtroppo è stato accantonato negli sviluppi della teoria economica post-mengeriana, in cui il numero dei bisogni è invece un dato, e non una variabile che risente delle condizioni generali di crescita dell'economia.
I tre principî costituiscono, seppure in nuce, una felice schematizzazione della psiche del soggetto economico. Essi sottolineano, perlomeno, tre fatti fondamentali: a) il processo di produzione dell'esistenza è un processo temporalmente ordinato. Non è indifferente per il soggetto soddisfare un bisogno o un altro; vi sono certe priorità nel soddisfacimento che debbono essere rispettate; b) i rendimenti in soddisfazione di un certo processo di consumo sono variabili e oltre un certo punto decrescenti; c) il processo di produzione dell'esistenza non implica soltanto delle priorità, ma comporta anche delle insostituibilità. Il mancato soddisfacimento di certi bisogni non può essere compensato dal soddisfacimento di altri: non è possibile, altro che in ristrettissimi limiti, attenuare i morsi della fame dormendo di più.
Eppure la scelta teorica dell'economia neoclassica, nei suoi sviluppi a partire dalla rivoluzione marginalista, è contraddistinta da un netto abbandono dell'impostazione precedente. Sostituendo ai tre principî dei bisogni la funzione di utilità, il pensiero neoclassico riesce a ignorare sia il principio della subordinazione sia quello della crescita dei bisogni, e a porre a fondamento del proprio edificio il solo principio dei bisogni saziabili, opportunamente qualificato come principio dell'utilità marginale decrescente: i rendimenti in soddisfazione di un certo processo di consumo sono non solo variabili, ma oltre un certo punto decrescenti.In questa nuova impostazione il soggetto possiede un unico bisogno fondamentale: il bisogno di utilità. All'origine dell'azione economica del soggetto vi è cioè un unico motore, la massimizzazione dell'utilità (poco importa se cardinale o ordinale) intesa come entità unica che sussumerebbe tutti i suoi bisogni. E poiché la funzione di utilità è posta come funzione diretta della quantità dei beni consumati, il risultato è che i beni sono tutti riducibili a un'unica sostanza, a una comune base che è appunto la loro capacità di produrre utilità. La struttura dei bisogni viene così appiattita su un unico bisogno, quello di utilità, col risultato, certo non secondario, che la pluralità di significati e le differenziazioni qualitative degli oggetti concreti di consumo vengono dissolte in una unidimensionale diversificazione di grado. Perché se tutti i beni servono, in definitiva, a generare utilità, il criterio per distinguere tra essi non può che essere quello della loro maggiore o minore capacità di produrre utilità. Come scrive con forza Nicholas Georgescu-Roegen (v., 1971, p. 52), nell'economia neoclassica "lo spettro dialettico dei bisogni umani (forse l'elemento più importante del processo economico) viene ridotto e nascosto nel concetto numerico e senza colore di utilità, per il quale, oltre tutto, nessuno è ancora riuscito a fornire un'effettiva procedura di misurazione".
Quali le ragioni di una siffatta operazione di riduzione? Se si considera che il problema della crescita dei bisogni è inscindibile da quello del rapporto tra struttura sociale, sue trasformazioni e valori ispiratori che ordinano i bisogni degli individui nella società - perché, se l'appagamento dei bisogni tende a elevare il livello di aspirazione, ogni nuova fase di sviluppo porta a una ristrutturazione dei bisogni - la scelta teorica dell'economia neoclassica diviene intelligibile. Si tratta di rinunciare alla valenza esplicativa della teoria economica a favore dell'eleganza e determinatezza dei suoi risultati (v. Consumi). Un vuoto non più colmato si apre così fra le indagini empiriche sui consumi, che seguitano a rilevare relazioni del tipo contemplato dal primo e dal terzo principio dei bisogni, e la teoria economica ormai impermeabile a quei fenomeni. Riprendendo ancora Georgescu-Roegen (v., 1967, p. 169): "Come effetto di questo modo di procedere, problemi molto importanti a cui non si poteva dare risposta che in termini dei principî ignorati [primo e terzo] furono gradualmente cacciati nella categoria delle questioni senza senso".
È significativo che, da quando l'utilità è entrata come categoria fondamentale nel discorso economico, la teoria neoclassica abbia finito con l'escludere dal proprio campo di ricerca quei processi di formazione, diffusione e diversificazione dei bisogni che avrebbero potuto costituire la base solida di uno studio rigoroso e soddisfacente non solo della domanda dei beni di consumo ma anche dell'evoluzione nel tempo storico del sistema economico. Col risultato collaterale che l'analisi ha finito con l'ignorare o col delegare a una letteratura di tipo sociologico e antropologico lo studio di tutte le attività economiche che intervengono su quei processi. Pertanto la base che la teoria dell'utilità - anche nelle versioni più recenti - offre alle ricerche empiriche è praticamente inesistente, il che dà conto del fatto che non pochi ricercatori empirici tentino di fondare le loro ricerche esclusivamente sul buon senso e sulla percezione intuitiva dei nessi causali.
In parziale ma significativa risposta alla situazione di disagio provocata dalla scelta riduzionista della teoria economica dominante, è andata prendendo corpo, in epoca recente, una nuova linea di riflessione centrata sulla nozione di bisogno di base (basic need: v. Streeten e altri, 1981). Non v'è dubbio che un'efficace sollecitazione a procedere in tal senso sia venuta dalla riapparizione di un approccio etico nel discorso economico. Il fatto che il problema dei bisogni rappresenti uno dei nodi centrali degli studi e dei progetti riguardanti lo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo ha contribuito non poco al risveglio di interesse nei confronti di una tematica che - come abbiamo sopra ricordato - aveva occupato gli economisti all'epoca della prima rivoluzione industriale. Scrive Paolo Sylos Labini (v., 1983, p. 106): "L'area delle persone che non riescono a soddisfare pienamente i bisogni essenziali - l'area della vera e propria miseria, ovvero della povertà assoluta - rappresenta una malattia che non è solo vergognosa dal punto di vista etico, ma ha effetti deleteri sull'intera società".Non vi è, né forse mai vi sarà, una nozione unica dei bisogni di base, i cui indicatori sono molteplici: durata media della vita, mortalità infantile, percentuale di analfabeti, disponibilità pro capite di calorie e proteine, disponibilità di alloggi, e così via. C'è tuttavia convergenza di opinioni sul fatto che si tratti di un concetto normativo e derivato a un tempo. Normativo perché per riconoscere che certe necessità o mancanze di un individuo sono bisogni occorre ammettere, da un lato, che esse sono urgenti, e dall'altro che esse rappresentano un obbligo per la società. Invero, il riconoscimento dei bisogni di particolari individui o gruppi costituisce per la società un impegno assai più forte che non il mero riconoscimento di voleri o preferenze: affermare che certi bisogni devono essere soddisfatti significa appellarsi a una qualche nozione di giustizia, mentre affermare che certi voleri o preferenze vanno soddisfatti significa, sotto il profilo della giustizia, fornire ragioni per cui questo debba avvenire - ad esempio, specificando il contributo che l'individuo deve offrire.D'altro canto i bisogni, a differenza delle preferenze, costituiscono una categoria derivata nel senso che affermare che qualcosa (ad esempio mangiare) è un bisogno per un soggetto presuppone che ci si riferisca a voleri o diritti che vengono riconosciuti a quel soggetto (ad esempio il diritto di non morire di fame). Una preferenza può essere un fine in sé; non così un bisogno. Dunque, a differenza delle preferenze, i bisogni sono normativamente primari, ma derivati (v. Fitzgerald, 1977).
Uno dei problemi centrali del dibattito contemporaneo sul tema dei bisogni di base è quello di identificare i bisogni meritevoli di speciale considerazione da un punto di vista pubblico. È interessante, al riguardo, la nozione di "interessi centrali" proposta da Thomas Scanlon (v., 1975): gli "interessi centrali" si distinguono dagli "interessi periferici" di un individuo o di un gruppo sulla base del criterio che i primi concernono, virtualmente, tutti. L'idea soggiacente a questa definizione è che gli individui sono portatori di un bisogno prioritario e fondamentale: quello di essere protetti dalle evenienze più socialmente inique. Qualsiasi teoria interessata ai bisogni, infatti, dà necessariamente rilievo all'idea intuitiva implicita nella nozione di bisogno, e cioè che il bisogno non costituisce una pretesa arbitraria. Le pretese valide sono quelle che, riguardando le condizioni generali dell'esistenza umana, risultano del tutto impersonali.
Un altro aspetto importante della problematica dei bisogni di base, che recentemente ha alimentato un vivace dibattito, è quello del nesso tra malnutrizione e livelli produttivi. La malnutrizione non produce solo disagio e sofferenza, ma anche una minore capacità di intraprendere attività fisiche o mentali. A bassi livelli nutrizionali si determina un legame molto forte tra assorbimento di cibo e capacità di lavoro. Eppure è ancora frequente il luogo comune secondo cui i trasferimenti di cibo ai più poveri rischierebbero di abbassare ulteriormente i saggi di crescita del prodotto nazionale a causa della loro influenza negativa su risparmio, investimento, incentivi e così via. Si continua così a ignorare il fatto che provvedimenti del genere tendono ad accrescere la produzione attraverso un aumento della capacità lavorativa. Ora, è ben vero che è difficile sapere in anticipo quale dei due (effetto positivo sulla capacità lavorativa ed effetto negativo sull'incentivo a lavorare) sarà l'effetto maggiore, ma - come ricorda Sylos Labini (v., 1983, p. 107) - "è anche certo che, se si lascia languire nella miseria una parte della popolazione, lo sviluppo produttivo non può non soffrirne".
Rompendo con l'impostazione neoclassica tradizionale, una linea di ricerca recente cerca di riportare la categoria di bisogno al centro dell'analisi del comportamento dei soggetti economici, basandosi sulla nozione di capacità intesa come capacità dell'individuo di esercitare certe funzioni. Secondo Amartya Sen (v., 1985) conviene muovere dalla semplice osservazione che quasi ogni bisogno può essere soddisfatto, in linea di principio, da diverse forme generali di consumo (individuali, familiari, sociali) e, all'interno di ciascuna di esse, da beni differenti. Inoltre l'individuo riconosce i beni specifici che possono soddisfare i suoi bisogni solo tra quelli prodotti e già esistenti sul mercato. Ciò posto, Sen propone di partire dalla nozione di 'capacità di soddisfare un bisogno'. La capability ha come oggetto diretto e immediato il bisogno; i beni servono quali strumenti, peraltro non univoci, per soddisfare i bisogni. La capacità nel senso di Sen è dunque un tratto distintivo di una persona in rapporto a un bene. E la capacità di esercitare una funzione riflette ciò che la persona può fare con i beni che ha a propria disposizione. "La persona che soffre per un parassita che le impedisce l'assimilazione di nutrimenti può morire di fame anche se consuma lo stesso ammontare di cibo di un'altra per la quale quell'ammontare è del tutto adeguato" (v. Sen, 1985, p. 9).
Proprio perché la capacità di esercitare una funzione appartiene alla categoria dei diritti, essa ha valore a prescindere dall'utilità che l'esercizio effettivo di quella funzione può eventualmente produrre. La teoria dominante, in quanto parte dal presupposto che la sola cosa che ha valore per il soggetto è l'utilità, non riesce a recepire nozioni quali quelle di 'diritto a' o 'libertà di'. All'origine della povertà della struttura informativa della teoria tradizionale sta l'insistenza a giudicare degno di considerazione solo quello che può essere misurato col metro dell'utilità, come se il giudizio sull'importanza di qualcosa potesse essere ridotto alla misura dell'utilità associata a quel qualcosa, o come se la relazione 'migliore di' potesse essere trasformata, senza scarto, nella relazione 'maggiore di'. Alan Gibbard è vicino a questa posizione quando osserva - disapprovando - che l'unità di misura della teoria economica neoclassica è la soddisfazione delle preferenze e non già la soddisfazione dei bisogni dell'individuo. E si chiede: "Perché mai dovremmo accettare che il benessere di una persona sia costituito dal grado al quale le sue preferenze sono soddisfatte anziché dal grado al quale essa si dichiara felice?" (v. Gibbard, 1986, p. 169).
Quali i vantaggi più significativi dell'approccio suggerito da Sen? In primo luogo esso consente di superare alcune grosse difficoltà implicite nel fatto che i beni oggetto della scelta del consumatore non sono da lui stesso proposti, ma da altri soggetti economici, ad esempio dai produttori. La più grave di tali difficoltà è che in contesti del genere le preferenze dei consumatori possono non esprimere i loro bisogni. Questo non costituisce un problema per la teoria tradizionale in quanto, partendo dalle preferenze assunte come un prius, questa teoria non ritiene di dover indagare sui rapporti intercorrenti fra preferenze e bisogni, ammettendo implicitamente che le une siano espressione perfetta degli altri. Eppure le preferenze hanno come referente i beni e non i bisogni, si esercitano cioè sui beni e non sui bisogni. Solamente se il soggetto dei bisogni fosse, al tempo stesso, anche colui che 'definisce' i beni atti a soddisfare quei bisogni non vi sarebbe alcuno scarto tra bisogni e preferenze. Ma chiaramente così non è in un'economia di mercato.
Un secondo importante terreno di feconda applicazione dell'approccio basato sulla nozione di capacità concerne la teoria del mutamento strutturale e in modo particolare la teoria dello sviluppo economico. L'impostazione tradizionale, mentre è adeguata a risolvere problemi di natura allocativa - problemi nei quali occorre, in buona sostanza, decidere non quali ma quanti beni produrre -, si trova del tutto impotente di fronte all'obiettivo di spiegare i processi di sviluppo economico. Come insegna la celebre legge di Engel questi processi sono infatti caratterizzati da mutamenti qualitativi del pattern dei consumi e dunque la comprensione della loro evoluzione non può che passare attraverso la comprensione dell'evoluzione della struttura dei bisogni.(V. anche Consumi; Domanda; Economia politica; Utilità).
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di Riccardo Luccio
1. Premessa
Il concetto di bisogno ricorre frequentemente nella psicologia contemporanea, ma la sua definizione è tutt'altro che univoca e varia da autore ad autore. In linea di massima, il concetto è legato a quello di omeostasi: in altre parole, le teorie psicologiche che concepiscono il comportamento in termini di tendenza all'equilibrio vedono il bisogno come una condizione di allontanamento o di carenza, che spinge l'organismo ad agire per riottenere la condizione di equilibrio perduto. Vi è quindi una duplice accezione del termine: bisogno come stato di disequilibrio, o di mancanza, e bisogno come tensione o pulsione, che spinge l'individuo all'azione per compensare la mancanza. A questa dicotomia ne corrisponde un'altra, più operativa, proposta da Murray (v., 1938), forse il più grande studioso in questo campo: bisogno come tendenza osservata oggettivamente, e bisogno come effetto che il soggetto dice di desiderare. In senso non strettamente tecnico, la più diffusa accezione del termine è comunque quella del bisogno come spinta all'azione; non vi è quindi da meravigliarsi se nella letteratura psicologica e sociologica si parla spesso di bisogno, al di là di una definizione specifica, come se si trattasse di pulsione (drive), tensione, spinta, o semplicemente motivo. D'altro canto, diversi autori hanno utilizzato nei loro sistemi teorici termini che erano strettamente tecnici, ma il cui significato si sovrappone in larga misura da un sistema all'altro, e si sovrappone a questo uso meno tecnico del termine bisogno. Così non è sempre facile distinguere, appunto, tra bisogno e alcune accezioni specifiche dei termini valore, interesse, atteggiamento, motivo, erg, tratto e così via. Questa relativa ambiguità ha fatto quindi storcere la bocca a molti, tanto che non è mancato chi ha definito tout court i concetti motivazionali psicodinamici di questo tipo, dai bisogni alle pulsioni, dei "relitti fossili" di cui la psicologia moderna farebbe bene a sbarazzarsi (v. Heckhausen, 1980). In realtà, come ad esempio osserva Thomae (v., 1983), al di là delle imprecisioni, questi "relitti fossili" appaiono ancora vitalissimi, in campi anche assai diversi e tuttora in sviluppo, dalla teoria della personalità all'etologia.
In linea generale, il concetto di bisogno si è comunque affermato in psicologia, tra le due guerre mondiali, sulla scia, come si è detto, delle concezioni biologiche e soprattutto di quelle omeostatiche. Per omeostasi si intende quel complesso di processi che si svolgono nell'organismo per mantenere le condizioni di equilibrio. Il concetto di omeostasi è stato enunciato dal grande fisiologo americano W. B. Cannon (v., 1932), ma concetti analoghi erano già presenti, nel secolo scorso, nella biologia positivistica e in particolare in Claude Bernard (v., 1878-1879), che aveva rilevato come i limiti di variazione dei fluidi che compongono il milieu intérieur (l'ambiente interno, contrapposto al milieu extérieur, l'ambiente esterno) fossero ristretti e come ogni scostamento dai valori medi producesse quindi delle risposte automatiche per ricondurre la situazione all'equilibrio.
Il concetto di omeostasi di Cannon rappresenta una sistematizzazione e un ampliamento delle primitive intuizioni di Bernard. Cannon, che si occupò non superficialmente anche di psicologia, descrisse accuratamente dei meccanismi omeostatici per la concentrazione di acqua nel sangue, per la concentrazione di sale, per la glicemia, per la lipemia, e per altri indici fisiologici. Tra gli anni trenta e gli anni quaranta furono date delle clamorose dimostrazioni sperimentali, per merito soprattutto di C.P. Richter e di Paul T. Young, di come gli squilibri fisiologici influissero anche sul comportamento, indirizzato verso azioni che consentono di tornare a un equilibrio omeostatico. Un semplice esempio è quello della ricerca di determinati cibi da parte di animali che sono stati tenuti a dieta con carenze specifiche.Il concetto di bisogno acquista quindi uno specifico significato in primo luogo in riferimento al concetto di omeostasi. Come nota infatti Young (v., 1961), il concetto di bisogno è valutativo e implica un giudizio di valore, relativo o assoluto. Quando si dice che un organismo 'ha bisogno' di qualcosa, si intende che l'avere quel qualcosa sarebbe per lui una cosa positiva. Ma per definire un concetto valutativo occorre un criterio, e il concetto di omeostasi è evidentemente un criterio oggettivo e valido a questo scopo. In questi termini il bisogno si definisce come mancanza di un elemento necessario all'omeostasi e tendenza dell'organismo all'attività, sino alla rimozione della mancanza.
A fianco dell'omeostasi, il concetto di sopravvivenza ha anch'esso un indubbio valore come criterio di definizione del bisogno. È superfluo ricordare che si tratta di un concetto che si affaccia prepotentemente nelle scienze naturali con Charles Darwin (1859) e che ha profondissime influenze anche sulla psicologia, essendo determinante per la nascita del funzionalismo nel secolo scorso e improntando in questo secolo numerose dottrine: per quel che ci riguarda più da vicino, dalla teoria degli istinti di McDougall all'etologia, fino all'ultima nata, la sociobiologia. Anche qui, comunque, il criterio della sopravvivenza diventa definitorio dei bisogni. Si crea un bisogno quando manca qualcosa di indispensabile alla sopravvivenza e si genera una tensione che spinge l'organismo all'attività. Palesemente questo criterio può essere considerato il più generale e il criterio dell'omeostasi ne può essere ritenuto un esempio particolare.
Evidentemente, tuttavia, possono essere individuati anche molti altri criteri. Si possono definire i bisogni in base alle necessità della riproduzione (ad esempio, la carenza di vitamina E rende impossibile questo processo); o ancora, in relazione allo stato di salute; o alla normalità dello sviluppo dell'individuo.
Se questi bisogni hanno tutti comunque una base biologica (v. Becker-Carus, 1983), si assume comunemente, come meglio vedremo in seguito, che a fianco dei bisogni cosiddetti primari, definiti sulla base di carenze fisiologiche, ne debbano essere individuati anche di secondari, legati a necessità più propriamente psicologiche dell'individuo; si ritiene spesso che essi derivino, secondo meccanismi non individuati univocamente nelle diverse teorie, dai primi. Così, il bisogno di successo o il bisogno di affiliazione si presentano come tipici bisogni secondari: l'individuo sente il bisogno di ottenere dei risultati dalle attività che svolge; o sente il bisogno di appartenere a un certo gruppo, essere riconosciuto come membro dagli altri membri di questo; e così via. È certamente importante la determinazione del meccanismo genetico che fa sorgere questi bisogni, magari in modo differenziato nelle diverse culture e nelle diverse classi sociali (per fare un esempio, nella classe operaia sarebbe più diffuso il bisogno di affiliazione, con conseguente maggiore solidarietà tra i membri della classe; nelle classi superiori prevarrebbe invece il bisogno di successo, con conseguente prevalere della competitività). Da questo punto di vista, la psicologia (e la sociologia) di orientamento marxista ha particolarmente insistito sulla determinazione storica dei bisogni, che, come dice Rubinštejn (v., 1946), nei loro concreti contenuti derivano dallo sviluppo dei rapporti di produzione e riproduzione all'interno della società. Notiamo, tra parentesi, come nel corso degli anni settanta abbia incontrato in Occidente una straordinaria popolarità (i cui echi sono oggi molto attutiti) l'analisi marxista dei bisogni della scuola di Budapest, e in particolare dell'allieva di Lukács, Ágnes Heller (v., 1976; v. anche Schmieder, 1981). Forse più importante è però l'individuazione di criteri che siano cogenti quanto quelli di ordine biologico, che consentano cioè di definire i bisogni secondari in modo altrettanto attendibile e non ambiguo. Purtroppo possiamo dire subito che probabilmente questo è tuttora il punto debole delle teorie prevalenti dei bisogni.
2. Aspetti psicologici
Come abbiamo già avuto modo di dire, sono molte le teorie psicologiche in cui è stato fatto uso di concetti largamente sovrapponibili per significato a quello di bisogno, anche se i termini impiegati sono diversi. Prima di affrontare le classiche teorie dei bisogni affermatesi tra le due guerre, vediamo rapidamente l'uso di almeno due termini in diversi contesti teorici: quelli di istinto e di pulsione. Entrambi questi termini, assieme comunque a quello di bisogno, possono essere riassunti sotto il termine più comune di motivo. Vedremo allora, sia pur molto schematicamente, le principali teorie psicologiche che hanno affrontato il problema del comportamento motivato sulla base di questi concetti.Il concetto di istinto è forse quello che nella psicologia della motivazione vanta la storia più illustre. Con esso si intende, in genere, una struttura ereditaria, legata in larga misura alle caratteristiche biologiche della specie, che indirizza il comportamento in determinate direzioni. Nella psicologia moderna esso è stato utilizzato soprattutto da parte di tre indirizzi abbastanza distinti: la psicanalisi, la teoria emergentista-dinamica di McDougall e l'etologia.
Per quel che riguarda la psicanalisi, ci limitiamo qui a ricordare che Freud prevede, come concetti distinti, sia gli istinti che le pulsioni. Per Freud gli istinti sono schemi ereditari di comportamento, secondo la classica definizione che abbiamo dato sopra, sono schemi filogenetici, a cui corrisponderebbero nell'uomo dei 'fantasmi originari'. Peraltro maggior rilievo hanno nel sistema freudiano le pulsioni, e particolarmente, nella versione più matura, le pulsioni di vita (Eros) e di morte (Thanatos), che rappresentano rispettivamente la tendenza della materia organica alla sopravvivenza e alla riproduzione, e la tendenza contraria a tornare all'inorganico. Purtroppo, pur essendo i concetti di pulsione (Trieb) e di istinto (Instinkt) nettamente distinti in Freud, il primo termine è stato spesso tradotto, in inglese come in italiano, con istinto, il che ha generato una notevole confusione. Rileviamo ancora che il termine 'bisogno' (Bedürfnis) è viceversa sostanzialmente assente dalla psicanalisi, comparendo solo nel 'bisogno di punizione'; il termine è stato probabilmente scelto da Freud per sottolineare l'origine organica, biologica, di questa tendenza.
Nella psicologia generale è stato indubbiamente William McDougall (v., 1908), che peraltro si ispirava largamente a William James, a rendere popolare il concetto di istinto. Per McDougall l'istinto è una certa tendenza specifica della mente umana, innata o ereditata, che costituisce la molla delle attività e dei pensieri dell'uomo, che vengono così orientati, individualmente e collettivamente, verso una meta. A fianco di queste tendenze specifiche, che sono gli istinti, esistono però anche tendenze aspecifiche, che dipendono dalla costituzione della mente e dalla natura dei processi mentali e che diventano sempre più importanti con l'aumentare della complessità dei processi mentali nel corso dell'evoluzione. È importante rilevare che per McDougall tutta l'attività sociale, e non solo il comportamento individuale, si fonda su schemi istintuali.
Questo concetto di istinto entrò tuttavia in crisi, specie in psicologia comparata, apparendo a molti autori, come nota Gottlieb (v., 1979), circolare (gli uccelli si accoppiano, fanno nidi e allevano i piccoli per istinto riproduttivo. Cos'è l'istinto riproduttivo? È ciò per cui gli uccelli ecc.). Negli anni trenta e quaranta, però, per merito soprattutto di Lorenz (v., 1935) e Tinbergen (v., 1942), il concetto di istinto ebbe una nuova formulazione nella scuola dell'etologia. Venne così formulata la teoria oggettivistica dell'istinto, attraverso cui venivano identificati gli atti motori corrispondenti ai comportamenti istintivi e si sosteneva che questi erano, come gli organi, invarianti, adattivi ed ereditabili. In questo modo gli istinti potevano essere utilizzati, come la morfologia, per determinare le omologie tra specie, e cioè le rassomiglianze tra specie diverse assunte come derivanti da un progenitore comune.
Particolare rilievo aveva però per l'etologia l'interazione tra schemi istintuali e azione dell'ambiente sull'organismo. Esisterebbero nell'animale dei meccanismi innati che, per tradursi in atti motori attuali, devono essere attivati da determinate stimolazioni ambientali. Si parla così di 'meccanismi innati di liberazione', che obbligano coercitivamente a determinati comportamenti, se sono date certe condizioni ambientali. Ma questi meccanismi innati hanno anche dei periodi critici di maturazione, nei quali è indispensabile che l'organismo riceva gli stimoli giusti nel tempo giusto. Se viene saltato il tempo critico, o se viene dato al tempo giusto uno stimolo improprio, il meccanismo innato non maturerà, o maturerà in modo alterato. È questo il caso, reso popolarissimo da Lorenz, dell'imprinting, il meccanismo attraverso cui il piccolo riconosce la madre, e nello stesso tempo la femmina della specie, e che orienta così tutto il futuro comportamento sessuale.Il termine pulsione, al di là della sua presenza nella psicanalisi freudiana, viene introdotto nella psicologia generale da Robert S. Woodworth a partire dal 1918 e si è affermato soprattutto nel neocomportamentismo americano degli anni trenta, in particolare nelle accezioni di Clark Hull e Kenneth Spence (la cosiddetta scuola di Yale). Il termine viene utilizzato in molte diverse accezioni; secondo Young (v., 1961), per esempio, sono almeno sei i suoi principali significati: 1) energia che muove il corpo; 2) stimolo o condizione tissulare interna che libera energia e induce all'attività; 3) stato generale di attività; 4) tendenza comportamentale diretta a una meta; 5) attività specifica diretta a una meta; 6) fattore motivante: interesse, scopo o volere.
L'accezione che più si sovrappone a quella di bisogno è la seconda, ed è quella utilizzata dalla scuola di Yale. Così per Hull (v., 1943) lo stato tissulare che genera lo stimolo pulsionale è appunto il bisogno. Se il comportamento così stimolato porterà a una riduzione della pulsione, tenderà a ripetersi, ed è questo meccanismo il cardine del processo di apprendimento.
Molto schematicamente, secondo questo modello, il processo di apprendimento si svolgerebbe allora così: se un animale è in stato di bisogno, si genera una pulsione che stimola l'animale all'azione. È importante rilevare che la pulsione, contrariamente al bisogno, è aspecifica. C'è pertanto un bisogno legato alla fame o alla sete, ma le pulsioni che ne derivano non si differenzierebbero. Accanto alla pulsione si generano però stimoli interni (ad esempio stimoli provenienti dalla contrazione delle pareti dello stomaco nel caso della fame), che, in interazione con stimoli esterni, orientano il comportamento. Il soddisfacimento del bisogno riduce la tensione generata dalla pulsione e questa riduzione costituisce un rinforzo, che fissa il comportamento che ha portato a tale riduzione.
È importante rilevare che all'interno del modello si prevede la possibilità dell'esistenza di pulsioni acquisite o secondarie. Le pulsioni primarie, generate da bisogni fisiologici quali la fame o la sete, che hanno un ruolo preminente negli animali e nei bambini, non sono infatti in grado di spiegare una serie di comportamenti, i più tipici dell'uomo adulto, che chiaramente non sono motivati da questo genere di disequilibri tissulari.
Il concetto di bisogno, come autonomo e distinto da quelli di istinto o di pulsione, si afferma comunque nella psicologia generale soprattutto a seguito di quel vigoroso movimento sviluppatosi nella psicologia americana degli anni trenta in diretto riferimento alla teoria della personalità. Il movimento personologico tende soprattutto a rivalutare l'individuo, studiato come singolo e nelle sue differenze da tutti gli altri individui, contro la tendenza, che si va affermando viceversa nei laboratori comportamentisti, di annullare qualsiasi differenza individuale, con la presunzione di cogliere leggi psicologiche valide per tutti gli uomini, se non per tutti gli organismi, dal ratto all'Homo sapiens. In questo movimento, assai composito, il concetto di bisogno viene a svolgere in molte teorizzazioni un ruolo centrale, contrassegnando il momento della necessità individuale, che spinge il singolo all'azione.
È Kurt Lewin (v., 1935), psicologo tedesco di formazione gestaltista costretto a emigrare negli Stati Uniti durante il nazismo, che ne dà una prima formulazione divenuta molto rapidamente popolarissima. La teoria dinamica di campo di Lewin ha al suo centro il concetto di spazio vitale, e cioè quell'insieme di fatti e valori, obiettivi, ostacoli, barriere, attrazioni e repulsioni, che costituisce la totalità dell'ambiente psicologico in cui l'individuo vive e che è unico per ogni individuo. La teoria afferma che il comportamento C di una persona che ha caratteristiche psicologiche P, e vive in un ambiente di cui percepisce le caratteristiche A, è funzione delle caratteristiche della persona e dell'ambiente: C = f (P, A). Secondo Lewin per bisogno va inteso ogni stato motivato. La presenza di un bisogno corrisponde a una tensione che spinge a un comportamento. Ma, sempre secondo Lewin, è fuorviante cercare di definire immediatamente i bisogni in termini fisiologici, perché si tratta di stati psicologici, così come è sbagliato tentare di inquadrarli subito in una serie di categorie precise.
Se con Lewin si ha quindi una rapida diffusione del concetto di bisogno, che rimane comunque in quanto tale in uno stato di relativa indeterminatezza, nella teoria della personalità questo concetto viene comunque definito in altri contesti con più precisione e si afferma decisamente, sulla fine degli anni trenta, grazie soprattutto a Murray (v., 1936 e 1938). La teoria di Murray è indubbiamente la più completa e coerente teoria dei bisogni che sia mai stata prodotta in psicologia. Per di più questo autore ha stimolato un numero enorme di ricerche, nonché di applicazioni in campi diversi, da quello clinico, all'industriale, al sociale; alcuni suoi concetti, come quello di "bisogno di successo" (need for achievement), sono diventati un cardine della teoria della motivazione. Per questa ragione ci diffonderemo un po' più a lungo sulla teoria dei bisogni di Murray (come faremo, tra breve, e per motivi analoghi, su quella di Maslow).
Henry A. Murray, medico di formazione biologica giunto abbastanza tardi alla psicologia a seguito della lettura di Jung, tenta una difficile conciliazione tra la psicologia sperimentale e la psicanalisi. Murray definisce "regno" il processo cerebrale che si instaura in un dato tempo, attivato dalle eccitazioni provenienti dall'interno o dall'esterno dell'organismo, e che determina un'attivazione in uscita. Un processo regnante è allora per Murray un processo cerebrale che influenza nella sua globalità l'organismo. Di qui segue la sua definizione di bisogno, in larga misura derivata dalla definizione di istinto di McDougall: una tensione regnante (o, in altri suoi scritti, una 'forza' nella regione cerebrale) che viene evocata dalla percezione, consapevole o meno, di un certo stato interno o di una certa situazione nel mondo, e che tende a persistere, stimolando l'attività dell'organismo in una determinata direzione, sinché non verrà raggiunto un certo stato interno o una certa situazione esterna. Per dirla in modo diverso, un bisogno è una forza che, se inibita, tende a produrre un'attività; se questa attività è efficace, genera una situazione tendenzialmente opposta a quella che ha generato il bisogno.
La capacità che ha una situazione interna o esterna di spingere un individuo all'azione viene detta da Murray "pressione"; in altri termini, gli stimoli interni o esterni non vanno considerati isolati, ma in termini di raggruppamenti strutturati e significativi, vere e proprie 'Gestalt di stimolazione', dotate di un significato. Le pressioni vengono distinte in alfa e beta, a seconda che il loro significato sia proprio della situazione di stimolazione o sia solo percepito. L'unità di comportamento, che Murray chiama "tema", è quindi costituita da un complesso di cui fanno parte pressione e bisogno. La vita di un individuo può essere concepita come una serie di temi in successione.
Murray distingue quindi i bisogni in base a varie caratteristiche; essi possono essere così processuali o modali: i primi sono diretti al puro svolgimento di un'attività, i secondi determinano le modalità di tale svolgimento. Possono poi essere manifesti o latenti, a seconda del livello di coscienza a cui operano. Possono essere ancora focali o diffusi, a seconda dell'ambito che abbracciano.
Le due categorie generali di bisogni di maggior rilievo, e più ampiamente riprese da altri autori sulla scia di Murray, sono quelle dei bisogni primari, o viscerogenici (somagenici), e secondari, o psicogenici (distinzione molto prossima a quella tra pulsioni primarie e pulsioni acquisite del modello neocomportamentista). I primi sono la risultante diretta della percezione, consapevole o meno, di uno stato corporeo. Sarà soprattutto lo stato fisiologico interno dell'organismo a generare il bisogno, ma esso potrà sorgere anche in seguito a stimoli esterni. Così, sarà lo stato fisiologico della carenza di cibo a provocare la fame, e la ricerca di cibo si avrà anche indipendentemente dalla percezione di cibo all'esterno; ma la vista del cibo potrà in determinati casi suscitare il bisogno prima della percezione dello stato fisiologico di carenza.
Murray distingue tre categorie di bisogni primari, che a loro volta possono essere positivi o negativi. Si hanno così bisogni di 'mancanza' (tutti positivi), che conducono a un'assunzione: inspirazione di ossigeno, assunzione di acqua, di cibo, piaceri sensoriali; bisogni di 'distensione', che inducono all'emissione: possono essere di secrezione (positivi), come il sesso o la lattazione, e di escrezione (negativi), come l'espirazione, l'urinazione e la defecazione. Infine si hanno bisogni di 'danno' (negativi): evitare il dolore, il caldo, il freddo, le lesioni. Vi sarebbero poi bisogni di 'passività': necessità di rilassamento, di riposo, di sonno.
Dai bisogni primari deriverebbero i bisogni psicogenici, secondari, non legati direttamente a stati organici. Va peraltro rilevato che, contrariamente ad altri autori, non è chiara in Murray la derivazione dei bisogni secondari da quelli primari. L'elenco dei bisogni psicogenici è troppo lungo perché possa essere qui integralmente riportato, ed è stato inoltre oggetto di numerosi rimaneggiamenti. Ci limitiamo quindi a presentarne alcuni dei più noti e utilizzati nelle ricerche e nelle applicazioni.Abbiamo così bisogni di acquisizione (bisogno di acquisire in proprietà cose o denaro, e di lavorare a tal fine); di conservazione (collezionare, conservare, anche curare i propri possessi con pulizie, restauri, ecc.); di ordine (mettere in ordine, essere precisi, ecc.); di ritenzione (conservare sino all'avarizia); di costruzione (organizzare e costruire); di superiorità (bisogno di potere), a cui sono subordinati il bisogno di successo, di riconoscimento, di esibizione; di inviolatezza (bisogno di evitare un deprezzamento del rispetto di sé), a cui sono subordinati il bisogno di evitare situazioni di inferiorità (infavoidance, bisogno di sfuggire alle cattive figure), di difesa, di controreazione; e ancora il bisogno di dominanza, di autonomia, di aggressione, di affiliazione, di gioco. E molti altri se ne potrebbero aggiungere.
È interessante il fatto che Murray ha sviluppato un test proiettivo, il TAT (Thematic Apperception Test), che consente di rilevare i 'temi', e cioè i complessi di bisogni e pressioni, come sopra definiti, che sono presenti nella struttura della personalità dell'individuo. Come tutti i test proiettivi (di cui il più famoso, anche a livello di divulgazione popolare, è il celebre test delle macchie di inchiostro di Rorschach), anche il TAT si avvale di un materiale poco strutturato a cui il soggetto deve attribuire un significato, 'proiettando' su tale materiale elementi propri della struttura della sua personalità. Nel caso del TAT il test si compone di una serie di tavole che rappresentano delle persone in atteggiamenti ambigui. Ad esempio, una tavola rappresenta un bambino che ha davanti un violino, ma la sua espressione non consente di dire quale sia il suo rapporto con il violino e quale atteggiamento abbia di conseguenza nei suoi riguardi. Il soggetto viene invitato a dire cosa rappresenta la scena, cosa è accaduto prima, cosa accadrà poi. Si assume allora che i temi che emergeranno in queste sue risposte saranno propri della struttura tematica (bisogni e pressioni) della sua personalità. Il TAT è oggi dopo il Rorschach (di cui è certamente più attendibile e valido, essendo quest'ultimo uno strumento molto dubbio sul piano psicometrico) il più diffuso test proiettivo nell'uso non solo clinico, ma anche per tutte le applicazioni della psicologia che richiedono un'analisi personologica.
L'altra grande teoria dei bisogni in ambito motivazionale-personologico è quella di Abraham H. Maslow (v. 1943 e 1954), sviluppata a partire dagli anni quaranta. La prospettiva di Maslow è 'olistica': in altri termini questo autore, che parte dalla tradizione funzionalistica americana dei James e dei Dewey, rimane profondamente influenzato dalla psicologia della Gestalt, e in particolare da Max Wertheimer e da Kurt Goldstein, che lo spingono a considerare sempre l'individuo come una "totalità integrata". Secondo Maslow, infatti, il punto di partenza per lo studio di motivazione e personalità è l'individuo intero, nel suo complesso, e ogni analisi che non inizi e non acquisti significato da questo punto globale di partenza diventa fuorviante. Ma vi è un altro apporto fondamentale nel pensiero di Maslow, ed è quello psicanalitico, che egli tenta di conciliare con questi apporti tipici della psicologia generale e sperimentale.
Contrariamente a quanto riteneva Murray, per Maslow è "impossibile e vano" cercare di stendere un elenco dei bisogni fisiologici fondamentali, quelli cosiddetti primari, perché il loro numero dipende dal livello di specificità della descrizione dei meccanismi fisiologici. Così, se esiste il bisogno di cibo, si può indurre il bisogno di una certa categoria di cibo, e quindi di una sottocategoria, e così via all'infinito. Di più, Maslow critica le definizioni di bisogno in termini di puri meccanismi omeostatici, a cui non sono riconducibili, a suo avviso, molti bisogni fisiologici: il desiderio sessuale, il sonno, la spinta al comportamento materno.
Ma, osserva Maslow, nell'uomo la spinta all'azione per squilibri fisiologici è atipica, mentre è tipica nell'animale. L'organismo è allora soggetto a una gerarchia di bisogni, e quelli che dominano l'uomo sono bisogni più 'elevati'. Una volta soddisfatti i bisogni fisiologici, i primi a emergere sono, nell'ordine, quelli di sicurezza; una volta soddisfatti questi, emergono i bisogni d'amore, che comprendono i bisogni d'affetto e di appartenenza; vengono successivamente i bisogni di stima e quelli di autorealizzazione.
Peraltro Maslow avverte che tale gerarchia non va vista come una necessità assoluta; l'ordine non è identico per tutti gli individui. Vi sono persone per le quali il bisogno di stima precede quello d'amore; altre per le quali, ad esempio, la pulsione alla creatività sarà talmente forte da manifestarsi anche se i bisogni più basilari non sono soddisfatti; e gli esempi potrebbero continuare.
Con Murray e con Maslow si chiude la stagione dei grandi 'personologi', che hanno posto al centro dell'analisi del comportamento motivato il concetto di bisogno. La tendenza attuale è sostanzialmente diversa. In questi ultimi anni, infatti, le teorie della motivazione, seguendo l'andamento generale che si è potuto constatare in tutta la psicologia, si sono fatte sempre più 'cognitive', hanno sempre più abbandonato il terreno psicodinamico, ma nel contempo, scostandosi dalle teorizzazioni comportamentistiche, si sono allontanate anche dalle concezioni pulsionali. Si sono affacciati nuovi concetti a spiegare il comportamento motivato, dalla teoria della dissonanza cognitiva ai processi di attribuzione, ai modelli di helplessness o di locus of control. Nelle stesse teorie del comportamento più legate a modelli biologici si è assistito a un profondo ripensamento di concetti come quello di bisogno, ma anche di istinto, sul versante etologico e comparato; sul versante psicofisiologico si è dato maggior peso a modelli neurologici in termini di attivazione o di arousal, più che di carenza.Il concetto di bisogno è quindi relativamente scomparso dalle più attuali teorizzazioni del comportamento motivato, se si fa eccezione per le teorizzazioni di stampo marxista, specie della Heller, che in Italia hanno avuto un ruolo particolarmente importante nel dibattito sociologico (ma forse in misura ancora superiore nel dibattito sulla nuova psichiatria), ma che hanno notevolmente perso di rilievo in questi ultimi anni.
Se ha perso di precisione teorica e di spessore specialistico, mai forse come in questi ultimi anni il concetto di bisogno è stato tuttavia tanto presente nella sua accezione relativamente aspecifica, inteso soprattutto come tendenza all'azione, venendo decisamente a soppiantare i suoi rivali di sempre: istinto, pulsione, tendenza, motivo, e così via. E forse i tempi sono maturi perché un nuovo Murray o un nuovo Maslow lo rimettano al centro della teorizzazione del comportamento motivato.
3. Aspetti sociologici
In sociologia il concetto di bisogno presenta delle chiare analogie con quello impiegato in psicologia (e da cui frequentemente viene fatto derivare, in un parallelismo tra organismo vivente individuale e organismo sociale, soprattutto in alcune teorizzazioni di stampo positivistico). Sono quindi sempre presenti i concetti di privazione, di necessità, di ricerca di elementi indispensabili alla sopravvivenza o al benessere (in questo caso del gruppo sociale). In linea assolutamente generale, si afferma poi in larga misura, sulla scia soprattutto di quanto osservato in antropologia culturale da Malinowski (v., 1944), che la cultura va considerata una risposta storica che un gruppo sociale dà ai bisogni degli individui che lo compongono; e che dai bisogni 'primari', legati a stati di privazione biologica, derivano dei bisogni 'secondari', legati ai rapporti sociali. In realtà, con poche eccezioni, è però ben difficile che nelle scienze sociali si approfondisca in modo sistematico il concetto di bisogno, e se nelle teorizzazioni si parla dei rapporti che sussistono tra i bisogni e le funzioni, o le norme, o i valori, per il versante 'bisogno' lo scienziato sociale tende poi sempre a rimandare al concetto come è definito in psicologia. Vengono così affacciati alcuni concetti di bisogno 'sociale', spesso vaghi sul piano definitorio: Goldschmidt (v., 1959) parla di 'bisogno di risposta positiva', Linton (v., 1945) di 'bisogno di risposta emotiva favorevole', di 'bisogno di sicurezza', di 'bisogno di esperienze nuove'.
Ma le classificazioni dei bisogni secondari sono infinite e, come si è detto, spesso piuttosto vaghe. Tra i bisogni sociali di cui più spesso si parla vi sono il bisogno di potere come realizzazione (potere 'di') e come dominazione (potere 'su'), il bisogno di relazione, come comunicazione o come affiliazione, e così via.
Evidentemente nelle scienze sociali il bisogno viene visto in funzione non tanto della natura dell'organismo individuale, quanto dell'interazione sociale. Così, per fare un esempio (v. Johnson, 1960), se, come affermava Hobbes, la scarsità di beni in rapporto al numero di persone che vorrebbero entrarne in possesso provoca, in assenza di norme regolative, una lotta continua per il potere, e se organizzazione e stabilità devono invece caratterizzare la vita sociale, allora sorge un bisogno sociale di mitigare la lotta per il potere. I modelli culturali che possono poi derivare da questo bisogno sociale non sono necessariamente gli stessi per ogni cultura, né, all'interno di una cultura, per ogni gruppo sociale. Non tutti gli autori, peraltro, accettano in sociologia (e in antropologia culturale) il concetto di bisogno, per le implicazioni teleologiche che esso presenta. Così, ad esempio, Radcliffe-Brown (v., 1935) sostiene che in luogo di bisogni occorrerebbe parlare di 'condizioni necessarie di esistenza'; anche in questi termini, comunque, è implicito che ci sono effettivamente condizioni necessarie di esistenza per le società umane, in stretta analogia con quanto avviene per gli organismi animali.
Da un punto di vista sociologico il concetto di bisogno è strettamente legato da un lato a quello di funzione, dall'altro a quello di valore. Il rapporto tra bisogno e funzione viene affermato probabilmente per la prima volta, nella sociologia moderna, nel 1895 da Durkheim, secondo il quale la 'funzione' di un'istituzione sociale è la corrispondenza che esiste tra l'istituzione stessa e i 'bisogni' dell'organismo sociale. E di converso, si può dire di ogni istituzione, o di ogni struttura sociale, che possiede una funzione se dà il suo contributo alla soddisfazione dei bisogni sociali. Sulla base di queste considerazioni è quindi possibile utilizzare, come strumento potente di analisi delle strutture sociali, la cosiddetta analisi funzionale, che occupa una posizione centrale nella teoria sociale contemporanea (v. Merton, 1957, in particolare il cap. 1).
In questa prospettiva, il concetto di bisogno assume un risalto notevole nella teoria dell'azione sociale, il cui principale esponente è Talcott Parsons (v., 1937; v. Black, 1961; v. Parsons e altri, 1953). In questa teoria vengono classicamente distinti quattro ordini di problemi funzionali, la cui soluzione porta alla soddisfazione dei bisogni sociali. Ogni sistema sociale deve infatti risolvere: a) il problema della conservazione del modello (pattern maintenance) e del controllo delle funzioni; b) il problema dell'adattamento; c) il problema del perseguimento dello scopo (goal attainment); d) il problema dell'integrazione. I bisogni acquistano rilievo come variabili interne, di orientamento agli oggetti, che possono essere distinte per specificità o diffusione, e per neutralità o affettività. Si hanno così bisogni (o meglio, interessi) per l'utilizzazione strumentale (neutrali e specifici); bisogni consumatori (di portare, cioè, a compimento degli atti preparatori; affettivi e specifici); bisogni di eseguire (neutrali e diffusi); bisogni affiliativi (affettivi e diffusi).
Come si è detto, il concetto di bisogno è in sociologia particolarmente legato a quello di valore, e da questo punto di vista particolarmente preziosi sono stati i contributi di Clyde Kluckhohn (v., 1951), che non a caso ha collaborato significativamente negli anni trenta con H. A. Murray, il personologo americano, al centro del cui sistema vi è, come abbiamo visto, quella che senz'altro può ritenersi la più importante teoria dei bisogni sviluppata nella psicologia. Secondo Kluckhohn un valore è una concezione, che può essere esplicita o implicita, tipica di un singolo individuo o propria di un gruppo sociale, che rappresenta un fattore determinante nella scelta dei possibili modi, mezzi e fini dell'azione. I valori regolano così la soddisfazione degli impulsi, ma nel far questo essi si fondano sulla struttura gerarchica dei bisogni che costituisce la struttura della personalità dell'individuo; e soprattutto, si fondano su due bisogni determinanti: quello d'ordine, proprio della personalità e del sistema sociale, e quello del rispetto degli interessi degli altri e dei gruppi come un tutto nella vita sociale.
È evidente che una definizione così ampia non consente poi di individuare operativamente i reali rapporti tra valori e bisogni. In particolare, non è facile determinare il processo attraverso cui la cultura determina quelle scale differenziali su cui collocare gli oggetti e le persone, sulla base dei cosiddetti valori attributivi, che deriverebbero da un bisogno sociale di scelta comparativa. Vi è poi spesso una certa confusione terminologica, che fa sì che il termine 'valore' venga usato in modo interscambiabile con altri termini che indicano stati motivazionali (in primo luogo, evidentemente, i bisogni).
Peraltro, come nota Williams (v., 1972), il fatto che venga in genere accettato che il sistema di valori entra a far parte integrante della personalità dell'individuo appartenente a una certa cultura non significa che i valori abbiano lo status di elementi motivazionali, dovendo essere invece tenuti ben distinti dai motivi (e, sull'altro versante, dalle norme). Come diceva il già citato Kluckhohn (v., 1951, p. 425), "un dato valore può avere una forza relativamente indipendente da ogni motivo specifico, pur rimanendo in un certo senso funzione del sistema motivazionale totale".
In conclusione, il concetto di bisogno ha certamente esercitato, e seguita a esercitare, una considerevole influenza sulla teorizzazione in campo sociale. Questa influenza è derivata storicamente soprattutto dall'analogia tra organismo sociale e organismo individuale, ma si è particolarmente affermata sulla scia delle teorizzazioni funzionalistiche e grazie all'impatto che la personologia degli anni trenta ha avuto sulle scienze sociali. Peraltro il concetto di bisogno, mai troppo approfondito in ambito sociologico e fatto derivare spesso senza sufficiente analisi dalla psicologia, non sempre si rivela sul piano operativo uno strumento idoneo. Forse per questo motivo, sempre più spesso gli studiosi tendono ad abbandonarlo a favore di altri concetti motivazionali. È comunque un chiaro caso in cui, come denunciato da tanti scienziati sociali (v., per esempio, Kardiner e Ovesey, 1951), la frammentazione delle scienze dell'uomo porta a una perdita di spessore scientifico nel trasferimento di concetti da un ambito disciplinare a un altro. (V. anche Sociobiologia; Utilità).
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