Cittadinanza
(X, p. 498; App. I, p. 435)
Nell'uso moderno il termine cittadinanza tende a presentare due significati distinti: uno teorico-politico e l'altro più propriamente giuridico. Nel primo caso c. designa lo status sociale di cittadino e cioè il complesso delle condizioni politiche, economiche e culturali che sono garantite a chi sia a pieno titolo membro di un gruppo sociale organizzato. In questo caso il termine cittadino si oppone, prima ancora che a quello di straniero, a quello di suddito (o, più anticamente, di meteco, schiavo, servo ecc.). Il cittadino, a differenza del suddito, è titolare di diritti civili e politici (nel 20° sec. anche di 'diritti sociali') ed è in linea di massima legittimato a farli valere anche nei confronti dell'autorità politica. Nel secondo caso il termine cittadinanza designa uno status normativo, e cioè l'ascrizione di un soggetto - per connessioni territoriali, per legami di parentela, per libera opzione ecc. - all'ordinamento giuridico di uno Stato. In questa accezione formale il termine cittadino si oppone oggi, nel diritto interno come in quello internazionale, esclusivamente a quello di straniero (o di apolide). Il tema della c. riguarda in questo caso le situazioni giuridiche o di fatto che ciascuno Stato definisce - sotto i profili distinti del diritto privato e del diritto pubblico - come condizioni per il possesso, l'acquisto o la perdita della qualità di cittadino e della titolarità dei diritti e dei doveri connessi a tale qualità.
La cittadinanza in senso teorico-politico
Per quanto riguarda il significato teorico-politico di c., si possono distinguere, sulla base di una sommaria scansione storiografica, tre concezioni interne alla tradizione occidentale: la concezione classica, già precedentemente trattata (X, p. 498), risalente alla cultura politica greco-romana, della quale Aristotele può essere considerato il massimo esponente, cui si sono richiamati autori come Marsilio da Padova e, in età moderna, N. Machiavelli e J.-J. Rousseau. Questi ultimi hanno fatto della tradizione romano-repubblicana il modello di una c. fondata sulle virtù civiche e la dedizione alla cosa pubblica; la concezione moderna, prima assolutistica e poi liberale, che si può far risalire alla nascita e allo sviluppo, con il Rinascimento, la Riforma e le grandi rivoluzioni borghesi, dello Stato nazionale europeo e i cui padri fondatori possono essere considerati Th. Hobbes, J. Locke, B.H. Constant de Rebecque e, sotto un certo profilo, Rousseau; la concezione democratico-sociale, connessa all'emergere, fra Ottocento e Novecento, dei partiti democratici e socialisti, alla nascita del movimento sindacale, alla generalizzazione del suffragio e infine all'affermazione, prima nei paesi anglosassoni e poi in Europa continentale, del welfare state. Il maggiore teorico di questa concezione è il sociologo inglese Th.H. Marshall.
Occorre aggiungere che negli ultimi decenni del 20° sec. la questione della c. si è intrecciata con tematiche molto complesse e controverse. Per un verso sono stati rivendicati 'nuovi diritti': alla battaglia femminista contro la discriminazione sociale e politica delle donne si è affiancata la rivendicazione del diritto all'ambiente, del diritto all'integrità biologica, quello alla libertà sessuale ecc. Per un altro verso sono intervenuti imponenti processi di 'globalizzazione', in particolare nei settori dell'economia, della finanza e delle telecomunicazioni. Parallelamente a questi processi si sono verificati fenomeni come le migrazioni di massa, la crisi del sistema degli Stati sovrani - il cosiddetto sistema di Vestfalia -, la costituzione di comunità 'regionali' con le relative nozioni di c. (l'Unione Europea e la c. europea, per es.), il nuovo slancio della prospettiva cosmopolitica e la connessa ideologia della c. universale, la contemporanea esplosione dei particolarismi etnici. Fenomeno recente, collegato a questi processi, è la tendenza a introdurre ulteriori differenziazioni normative nella condizione dei non-cittadini: si pensi, per es., in Europa, alla distinzione fra gli stranieri comunitari e gli stranieri extra-comunitari.
La cittadinanza moderna
La concezione moderna della c. si qualifica per il suo carattere non aristocratico e non elitario: in linea di massima tutti i membri del gruppo sono, in quanto tali, sudditi o cittadini (con l'esclusione dei minorenni, delle donne e degli schiavi). Già in teorici dell'assolutismo monarchico che operano fra il Cinquecento e il Seicento, come J. Bodin e Th. Hobbes, il concetto di c., pur non essendo ancora concepito come uno status generale, perde il suo significato classico di partecipazione alle funzioni politiche e giudiziarie e agli onori a esse connessi. Essere cittadini equivale a essere sudditi fedeli e obbedienti del sovrano, soggetti alle medesime leggi e consuetudini, indipendentemente dalle differenze di religione, di lingua e di origine etnica. Nella prospettiva giusnaturalistica e contrattualistica di Hobbes, in particolare, la condizione del suddito-cittadino è direttamente connessa a quella di uomo: tutti gli individui che hanno sottoscritto il 'contratto sociale' originario, con il quale hanno dato vita alla 'società civile', sono divenuti sudditi del Leviatano. Questo 'Dio mortale' ha il compito di 'ridurre la paura' garantendo l'ordine e la pace sociale, e perciò detiene il potere supremo di vita e di morte. I cittadini-sudditi sono vincolati dal principio pacta sunt servanda, che impone loro essenzialmente doveri di lealtà e di obbedienza. Essi sono anche titolari del diritto alla sicurezza della propria vita fisica, che il monarca deve garantire a tutti.
Ma è con le grandi rivoluzioni borghesi fra Seicento e Settecento, in particolare con la Rivoluzione francese, che si afferma la concezione moderna della c. come prerogativa nello stesso tempo individuale e universalistica. Cittadinanza ora significa, in opposizione al regime feudale del privilegio monarchico, aristocratico e cetuale, eguaglianza giuridica e politica di tutti i cittadini in quanto soggetti di diritto e in quanto detentori della sovranità (in base al rivoluzionario concetto, centrale nel pensiero di Rousseau, di sovranità popolare). Tutti i membri della nazione - anche questo concetto diviene essenziale per la definizione della c. - hanno eguale diritto di voto per eleggere i propri rappresentanti nelle assemblee deliberative o per esservi eletti. La sola condizione di esclusione che ancora sopravvive è che deve trattarsi di maschi adulti.
Il principio universalistico vale come una formale e solenne dichiarazione di principio. Tuttavia, l'idea della perfetta parità non solo giuridica ma anche politica dei cittadini (maschi) si afferma esclusivamente in Francia e soltanto nel breve periodo del potere giacobino e del Terrore. Salvo rare eccezioni (la Francia della Seconda repubblica, per es.), in tutta l'Europa liberale e capitalistica sopravvivono nel corso dell'Ottocento pratiche riduttive della c. politica, cosicché si è potuto parlare a questo proposito di 'universalismo ristretto'. Cittadino optimo iure è in pratica soltanto colui che ha interessi materiali al benessere della nazione, e cioè il 'cittadino proprietario'. All'inizio viene considerato tale soltanto il proprietario fondiario, poi lo sarà, con un totale rovesciamento dell'antica concezione aristotelica, anche il proprietario di altri beni immobili, in quanto capace di contribuire con la sua attività economica e con il pagamento delle imposte al funzionamento dello Stato. È la logica del capitalismo industriale che si combina con la filosofia democratico-giacobina e finisce per prevalere. Il 'popolo sovrano' si divide nelle due schiere di coloro che sono titolari dei soli diritti civili e di coloro che godono anche dei diritti politici. I primi, secondo la formulazione di E.-J. Sieyès, ripresa da Kant, sono da considerarsi 'cittadini passivi', e cioè senza diritto di voto. Soltanto i secondi, essendo 'cittadini attivi', possono votare ed essere eletti.
A parte questi aspetti di evidente incongruenza fra la teoria e la pratica politica, va sottolineato come una profonda novità il fatto che fra Settecento e Ottocento il concetto di c. si afferma come il contenitore di una serie tendenzialmente aperta di diritti soggettivi. E in questo sta il significato profondo - filosofico e antropologico - della sua modernità, perché corrisponde alla concezione illuministica e giusnaturalistica del soggetto individuale. L'uomo del giusnaturalismo illuministico è un soggetto che, pur definito sulla base dei suoi bisogni e delle sue utilità 'naturali', è comunque considerato capace di realizzare 'razionalmente' la soddisfazione delle sue aspettative. È un soggetto non solo razionale, ma anche libero, moralmente responsabile, eguale di fronte alla legge e indipendente dal punto di vista economico. Ed è un soggetto impegnato nella vita politica ma nello stesso tempo, come sottolinea Constant de Rebecque, geloso guardiano della sua sfera privata contro l'intrusione del potere politico. In tal senso, come è stato sostenuto nella più recente letteratura sulla c., è la filosofia politica di Locke, assai più di quelle di Hobbes e di Rousseau, a essere stata la culla teorica della nozione moderna di cittadinanza. Il contrattualismo liberale di Locke non solo ha stabilito un nesso molto stretto fra c. e proprietà, ma ha posto l'accento sulla libertà del cittadino anche nei confronti del sovrano e delle sue leggi e ha postulato la razionale disposizione di ogni individuo a operare per il bene della società. Ed è appunto il 'lockismo diffuso' che, saldandosi con il lascito rousseauiano dell'Ottantanove (l'idea della stretta connessione fra c. e sovranità nazionale), ha attribuito alla c. la definitiva configurazione moderna di 'appartenenza e diritti'. Essa designa, nello stesso tempo, le ragioni dell'identificazione storico-culturale dell'individuo con il gruppo, l'obbligo della sua lealtà politica e la serie di diritti soggettivi che l'ordinamento giuridico gli riconosce, a partire dalla tutela della sua sfera di libertà privata. Si tratta di una configurazione carica di tensioni poiché la c. sembra restare sospesa fra il mondo 'alto' della sovranità nazionale e il mondo 'basso' dei bisogni e delle utilità particolari, fra l'appartenenza (democratica) allo Stato e la resistenza (liberale) allo Stato, fra i diritti politici e i diritti civili. Ulteriori tensioni verranno introdotte nel corso del 20° secolo dall'emergere dei diritti sociali e dai processi di 'globalizzazione' che hanno sottoposto a forti tensioni il sistema degli Stati nazionali (v. diritti e sovranità, in questa Appendice).
La cittadinanza democratico-sociale
Negli ultimi decenni dell'Ottocento e poi nel corso del Novecento il modello dello Stato liberale tende a tradursi, in Europa e in America Settentrionale, in forme che sono state definite liberal-democratiche. Su questo processo, a partire dagli anni Trenta, si è innestata un'ulteriore evoluzione istituzionale che ha condotto, una volta conclusasi la parentesi dell'autoritarismo fascista e nazionalsocialista, alle forme contemporanee dello 'Stato sociale'.
Nella seconda metà dell'Ottocento era esplosa la 'questione sociale' e la polemica dei socialisti e dei marxisti contro il modo di produzione capitalistico, accusato di produrre sfruttamento, miseria, disoccupazione e ricorrenti crisi economiche. Si erano andati poi affermando i partiti di massa, legati al mondo del lavoro o alle confessioni religiose, che tendevano a forzare le strettoie oligarchiche dello Stato liberale e spingevano per un allargamento del suffragio elettorale fino alla sua completa generalizzazione (ma l'ingresso delle donne nella vita politica dovrà attendere a lungo). Agli inizi del Novecento il movimento sindacale degli operai e dei braccianti agricoli era una componente rilevante non solo della vita economica ma anche di quella politica.
Dopo la crisi del 1929 - il celebre 'venerdì nero' della Borsa di New York - e la grave depressione che aveva investito gli Stati Uniti e l'Europa, si sperimentarono nuove politiche di intervento economico dello Stato, capaci di rimettere in moto la macchina produttiva del capitalismo. Sulla scorta delle analisi teoriche di J.M. Keynes si impostarono nuove strategie di politica economica e industriale che assegnarono allo Stato il compito di regolare i meccanismi finanziari e monetari, di incentivare gli investimenti produttivi e di stimolare l'occupazione. Nei decenni successivi l'interventismo economico dello Stato si estese ulteriormente, sia nel senso di un'ampia assunzione di funzioni produttive da parte di enti pubblici, sia nella direzione di una crescente offerta pubblica di servizi sociali, di sovvenzioni e di garanzie giuridiche a vantaggio dei lavoratori e delle fasce meno abbienti della popolazione: dalle varie forme di assistenza, previdenza e assicurazione all'enunciazione dei cosiddetti diritti sociali, come i diritti al lavoro, alla salute, all'istruzione, alla casa.
È in questo contesto generale che si è affermata in Europa, a partire dagli anni Cinquanta, una nuova concezione della c., quella democratico-sociale. Nel saggio Citizenship and social class, del 1950, e in scritti successivi Marshall rielabora la nozione moderna di c. sulla base di un'analisi della storia politica e sociale dell'Inghilterra, dalla rivoluzione industriale alla nascita del welfare state. Per Marshall la c. moderna è uno status che attribuisce diritti e doveri ai nuovi ceti sociali che emergono con lo sviluppo della società industriale dalla seconda metà del Settecento. Mentre le forme premoderne di appartenenza politica erano di natura elitaria ed esclusiva, sostiene Marshall, la c. moderna ha un carattere aperto ed espansivo. Essa si è estesa, nelle tre fasi successive della c. civile, di quella politica e di quella sociale, includendo ogni volta nuovi soggetti e nuovi diritti.
La c. civile si afferma per prima e attribuisce agli individui una serie di diritti di libertà: la libertà personale, la libertà di parola, di pensiero e di religione, il diritto di possedere a titolo di proprietà e di concludere contratti, il diritto alle prestazioni del sistema giudiziario. La c. politica si sviluppa nel corso dell'Ottocento e riflette le rivendicazioni politiche delle classi subalterne. Essa consiste nel diritto dei cittadini a partecipare all'esercizio del potere politico come membri di organi investiti di autorità o come elettori di tali organi. Il suffragio generale per l'elezione del parlamento e delle assemblee del governo locale è l'espressione centrale di questo secondo aspetto della cittadinanza. La c. sociale, infine, si afferma nel corso del 20° secolo e consiste nel diritto a un grado di educazione, di benessere e di sicurezza sociale commisurato agli standard prevalenti entro la comunità politica. Le istituzioni connesse con questo aspetto della c. sono il sistema scolastico e i servizi sociali (salute, casa, pensioni, assicurazioni ecc.).
Ciò che secondo questa concezione caratterizza la c. in tutti i suoi aspetti - civile, politico e sociale - e la contrappone allo status feudale è la sua tensione verso l'eguaglianza. Nelle società in cui si sviluppano gli istituti della c. si afferma l'immagine di una convivenza ideale che funziona come un modello per misurare le realizzazioni conseguite e come un traguardo verso cui si orientano le aspettative sociali. Tuttavia i diritti di c., nonostante la loro tensione verso l'eguaglianza, sono indissociabili dalla nascita e dallo sviluppo del capitalismo, e il capitalismo è un sistema fondato non sull'eguaglianza ma sulla diseguaglianza. Ci si chiede quindi come sia possibile che un sistema sociale si stabilizzi e si sviluppi nonostante che alla sua base vi sia un conflitto fra principi che risultano opposti.
La risposta di Marshall a tali quesiti è che l'attribuzione dei diritti civili ai soggetti individuali era indispensabile all'economia di mercato nella prima fase del suo sviluppo. In questa fase la logica (civile) della c. e la logica (mercantile) del contratto non solo non entrano in collisione fra di loro ma vivono in un rapporto di sinergia. La c. civile consente infatti a ciascun individuo di impegnarsi come un soggetto indipendente nella competizione per l'acquisto della ricchezza. Essa legittima nello stesso tempo il rifiuto di ogni protezione sociale a favore di soggetti che si assume siano già dotati degli strumenti giuridici sufficienti per affermarsi e difendersi da soli.
Per quanto riguarda la c. politica, Marshall ritiene che, sebbene essa non abbia esercitato un effetto immediato sulle strutture della diseguaglianza economico-sociale, si sia tuttavia rivelata carica di pericoli per il sistema capitalistico. Essa ha consentito l'inserimento delle classi lavoratrici entro le istituzioni elitarie della democrazia liberale, sviluppandone il senso di appartenenza politica con effetti non solo di integrazione sociale ma anche di accresciuta consapevolezza rivendicativa. Ed è la c. politica che ha aperto la strada al riformismo delle politiche egualitarie del 20° secolo e all'affermazione dei diritti sociali.
Il tema centrale - e il paradosso - della c. democratico-sociale sta nel suo rapporto con il problema dell'eguaglianza. Poiché l'estensione dei diritti e dei servizi sociali non è in grado di sovvertire la logica antiegualitaria del mercato, essa non può avere come fine l'eguaglianza dei redditi. Quanto invece può ottenere è un arricchimento della qualità della vita civile: la riduzione dei rischi e dell'insicurezza e una tendenziale equiparazione fra i cittadini più fortunati e quelli meno fortunati dal punto di vista della salute, dell'occupazione, dell'età, delle situazioni familiari. La c. sociale comporta perciò una sorta di contaminazione della logica contrattuale, poiché tende a subordinare i prezzi di mercato ai criteri della giustizia sociale e a sostituire il libero scambio con la dichiarazione dei diritti soggettivi. Questi diritti sono ormai così radicati nel sistema contrattuale che non possono più dirsi estranei alla pratica del mercato. Si può ritenere, in definitiva, che se la c. sociale non è in grado di sopprimere la diseguaglianza, ha tuttavia l'effetto di modificarne la struttura. Ciò che sopravvive non è più una diseguaglianza di status, ma una semplice diseguaglianza di reddito entro alcuni settori del consumo privato. È ragionevole perciò ritenere - questo è il succo della prognosi marshalliana - che la tensione fra gli opposti principi della c. e del mercato non ha l'effetto paralizzante di un'antinomia funzionale, ma è, grazie ai compromessi sociali nei quali tende a risolversi, un fattore essenziale di stabilità e di sviluppo delle società industriali.
Questa idea di c. è stata criticata, in particolare da A. Giddens e J.M. Barbalet, per il suo ottimismo evolutivo: sia per la tesi del carattere espansivo della c. in direzione dell'eguaglianza, sia per la continuità che stabilisce fra le varie fasi del suo sviluppo. Giddens ha rimproverato a Marshall di aver presentato l'affermazione dei diritti di c. come un processo graduale, favorito dallo sviluppo delle istituzioni di mercato e dalla protezione dello Stato e non invece come un esito del conflitto sociale e politico. Secondo Barbalet l'impostazione marshalliana impedisce di cogliere le tensioni interne ai diritti di c., in particolare quella fra i diritti civili (libertà di stampa, di associazione, diritto di proprietà ecc.), il cui esercizio produce potere a favore dei loro titolari, e i diritti sociali che sono dei semplici diritti di consumo, e che non attribuiscono perciò alcun potere ai loro fruitori. Inoltre, mentre i diritti civili si rivolgono contro lo Stato, i diritti sociali sono richieste di benefici che devono essere forniti dallo Stato. Nel primo caso lo Stato ha soltanto un obbligo di non fare, nel secondo caso è tenuto a specifiche prestazioni che però richiedono, per essere soddisfatte, complesse precondizioni economiche, amministrative e professionali. Perciò, i diritti sociali, assai più che veri e propri diritti di c., dovrebbero essere considerati come delle 'opportunità condizionali' rispetto all'effettivo esercizio dei diritti civili e politici.
In realtà è agevole osservare che i contenuti dei diritti sociali non sono mai, o quasi mai, delle prestazioni proceduralmente definite, stabili e uniformi per tutti i cittadini. I diritti civili e politici si concretano in prestazioni pubbliche che, per es., consentono ai cittadini di ottenere provvedimenti di polizia o decisioni giudiziarie a tutela della libertà e integrità della propria persona o dei propri beni. Oppure garantiscono le condizioni perché ciascuno possa esprimere liberamente il proprio voto o candidarsi a un'elezione politica. In questi casi la prestazione pubblica è formalizzabile in attività burocratiche standardizzate, perché consiste nell'apprestamento di procedure e di istituzioni - per es., le corti giudiziarie, il processo civile e penale, il sistema carcerario - a tutela di beni, come l'integrità fisica, la libertà personale o la proprietà privata, di cui i soggetti fruiscono per proprio conto.
Viceversa, nel caso dei diritti sociali si tratta di aspettative che hanno come oggetto prestazioni pubbliche - previdenze, trasferimenti monetari, garanzie di livelli minimi di istruzione, salute e benessere - che presentano, accanto a rilevanti elementi organizzativi e procedurali, soprattutto un aspetto contenutistico, e che perciò consumano una quantità molto elevata di risorse. La definizione dei contenuti e delle quantità delle prestazioni sociali dipende, in misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalla disponibilità di risorse economico-finanziarie garantite dal mercato, da decisioni discrezionali dell'amministrazione pubblica e dal gioco degli equilibri politici e delle rivendicazioni sociali che emergono dalla società. A causa del loro costo molto elevato e direttamente incidente sui meccanismi dell'accumulazione della ricchezza e del prelievo fiscale, i diritti sociali presentano un carattere aleatorio nettamente superiore rispetto alle prestazioni procedurali poste a presidio dei diritti civili e dei diritti politici. È vero che in condizioni di emergenza gli stessi diritti civili e politici e persino l'intera normativa costituzionale possono essere limitati o addirittura sospesi. Ma mentre l'ineffettività del diritto al lavoro, per es., è una condizione del tutto normale entro lo Stato sociale di diritto, non lo è la sospensione della inviolabilità del domicilio o del diritto di voto o delle garanzie della proprietà privata e delle regole mercantili di formazione dei prezzi.
Per quanto riguarda il diritto al lavoro, in particolare, si tratta di una aspettativa normativa totalmente non formalizzabile, rispetto alla quale l'apparato pubblico, purché non si proponga di stravolgere le regole del mercato da cui tuttavia dipendono le risorse necessarie per l'erogazione dei servizi, non dispone di alcun rimedio procedurale. Ciò a cui si potrebbe ricorrere in regime di economia di mercato sono forme di 'salario di base' o di 'imposta negativa sul reddito', che però sono delle compensazioni di carattere pecuniario per chi è privo di occupazione o versa nell'indigenza, non sono propriamente garanzie del diritto al lavoro. Soltanto un 'reddito di cittadinanza', corrisposto a tutti i cittadini indipendentemente dalle condizioni economiche e dall'occupazione, potrebbe avvicinarsi alla figura del 'diritto sociale' in un senso più rigoroso, anche se non andrebbero trascurati i rischi assistenzialistici e paternalistici di questo istituto e l'incertezza circa la sua stessa efficacia redistributiva. Non ha torto dunque Barbalet quando propone di distinguere fra la nozione di 'diritto sociale', inteso come pretesa a prestazioni pubbliche garantita dalla possibilità di agire in giudizio per la sua soddisfazione, e la nozione di 'servizio sociale', intesa come prestazione assistenziale offerta dal sistema politico per una esigenza di integrazione sociale, di legittimazione politica e di ordine pubblico. In breve, si può dire che i diritti sociali sono il punto di minore resistenza della cittadinanza.
Cittadinanza nazionale, nuovi diritti e processi di globalizzazione
Più recentemente la concezione democratico-sociale della c. è stata criticata come parziale e limitata. D. Held (1989), per es., ha sostenuto che essa non coglie la complessità della c. moderna, essendosi rigidamente vincolata ai temi dell'eguaglianza sociale e della produzione. Ciò condurrebbe a una concezione ristretta della c., se per c. si intende la piena partecipazione dei soggetti alla comunità di cui fanno parte. Nella storia dell'Occidente tale partecipazione ha incontrato ostacoli di varia natura, inclusi il genere, la razza e l'età. Una discussione sulla c. dovrebbe perciò tener conto delle diverse lotte che classi, movimenti e gruppi sociali hanno ingaggiato contro specifiche forme di discriminazione e di oppressione politica. Non si dovrebbero dunque ignorare questioni politiche come la libertà riproduttiva reclamata dal femminismo, o i problemi sollevati dal movimento dei neri, dagli ecologisti, dai difensori dei diritti del fanciullo e dai sostenitori dello statuto morale degli animali e della natura.
In secondo luogo Held ha sostenuto che una discussione sulla c. oggi non può limitarsi a considerare la situazione dei diritti individuali all'interno dello Stato-nazione. Il processo di globalizzazione ha incrementato il divario fra la c., intesa come attribuzione di diritti all'interno delle singole comunità nazionali, e lo sviluppo della legislazione internazionale che sottopone a nuove discipline gli individui, le organizzazioni governative e quelle non governative. Secondo Held questa tensione potrebbe rivelarsi espansiva e inclusiva, nel senso che l'interferenza delle normative internazionali con gli ordinamenti degli Stati potrebbe rendere più concreta la capacità dei cittadini di ottenere il rispetto dei propri diritti ricorrendo ad autorità sovranazionali. Altri autori - fra cui H. Bull (1977) e S. Latouche (1989) - guardano con pessimismo all'impatto dei processi di globalizzazione sui sistemi politici, sulle economie e sulle culture dei paesi più deboli e diffidano dei nuovi ideali cosmopolitici proclamati in Occidente.
Si profila inoltre un'altra e più grave tensione, quella fra la c. nazionale e i 'diritti cosmopolitici'. È vero che nelle società liberaldemocratiche occidentali le particolarità etniche restano in gran parte dei presupposti prepolitici e pregiuridici della c., normativamente non formalizzati. Perciò, come ha sostenuto J. Habermas (1991), entro una concezione pluralistica della democrazia è del tutto legittima la struttura plurietnica e pluriculturale del démos, e la c. dovrebbe essere attribuita anche agli stranieri, a condizioni di natura esclusivamente procedurale.
Ma di fatto sono soltanto i membri della comunità nazionale a godere della pienezza dei diritti di c. a esclusione degli stranieri interni o esterni, con una drastica limitazione del diritto di residenza e del diritto di circolazione, oltre che dei diritti politici e, in parte, dei diritti sociali. Le particolarità storico-naturali - lingua, religione, tradizioni culturali, valori etnici, folclore, ambiente geopolitico, miti e rituali - svolgono dunque il ruolo di precondizioni di fatto dell'appartenenza dei soggetti al gruppo politico perché sono le condizioni stesse del suo costituirsi e della sua identità distintiva: l'éthnos è il necessario presupposto del démos. Questa logica di esclusione si scontra duramente con la pressione per l'acquisto delle c. pregiate dell'Occidente che viene esercitata da parte di individui appartenenti ad aree continentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. La lotta per i 'diritti cosmopolitici' assume la forma della migrazione di massa di soggetti che, infiltrandosi capillarmente negli interstizi delle c. occidentali, avanzano di fatto e di diritto una forte rivendicazione dell'eguaglianza. È la stessa nozione moderna di c. che sembra minacciata dalla richiesta di un numero crescente di uomini e di donne non appartenenti alle maggioranze autoctone occidentali di diventare cittadini pleno iure dei paesi dove vivono e lavorano (v. migrazioni, in questa Appendice).
Un terzo tema, in qualche modo di segno opposto perché consiste spesso in un rifiuto della c., è quello della richiesta di autonomia politica da parte di minoranze etnico-culturali incluse entro i confini e le istituzioni di Stati plurinazionali o plurietnici. Si tratta di un fenomeno di estesissime proporzioni, che spesso assume i connotati della guerra civile, in particolare come effetto dello sfaldamento di regimi autoritari precedenti (ex Unione Sovietica, ex Iugoslavia, Albania ecc.) o della rivolta armata o del terrorismo contro le istituzioni delle maggioranze autoctone (Corsica, Paesi Baschi, Irlanda del Nord, Québec, Kurdistan ecc.) che di fatto praticano l'assimilazione linguistica, culturale e politica nei confronti delle minoranze interne. Sul piano teorico ciò pone il problema delle condizioni sociali, politiche e giuridiche che legittimano le richieste autonomistiche e del cosiddetto 'diritto di secessione' come diritto fondamentale di c. (Miller 1995).
Agli inizi del terzo millennio la situazione del pianeta sembra segnata dall'incertezza e dall'instabilità. Le ondate migratorie, l'esplosione dei particolarismi etnici, gli squilibri ecologici, l'asimmetria nella distribuzione internazionale del potere e della ricchezza, la diffusione delle armi nucleari, la stessa crisi delle istituzioni democratiche occidentali rischiano di compromettere i valori e i diritti di cittadinanza. Una piena consapevolezza dell'irreversibilità funzionale e, nello stesso tempo, dei limiti e delle tensioni della c. potrebbe forse favorire una sua elaborazione teorica adeguata, nel quadro di una più generale ricostruzione della teoria democratica. Potrebbe essere utile una tavola di rivendicazioni normative rivolte contro i rischi crescenti di discriminazione cui vanno incontro i cittadini non affiliati alle grandi corporazioni politiche, professionali, sindacali e religiose (pubbliche, private e occulte). E andrebbe probabilmente tematizzata l'esigenza di garantire non soltanto le libertà politiche ma anche la 'autonomia cognitiva' dei soggetti di fronte alla crescente intrusività simbolica dei mezzi di comunicazione di massa. J. Derrida (1991) ha sostenuto che i temi della 'nuova censura' e del 'diritto di replica' a difesa dell'autonomia cognitiva, e non semplicemente della libertà di informazione dei cittadini, dovrebbero essere posti all'ordine del giorno di una battaglia per l'aggiornamento della cittadinanza. Senza una lotta contro la concentrazione e l'accumulazione comunicativa la c. democratica potrebbe divenire una pura finzione procedurale.
In conclusione si può sostenere che la nozione filosofico-politica di c. si è oggi affermata a pieno titolo nel lessico politico occidentale, dopo che per decenni è stata di esclusiva pertinenza della sociologia politica anglosassone. Oggi un numero crescente di autori attribuisce alla nozione di c. il valore di un'idea strategica, sino a farne la categoria centrale di una concezione della democrazia che sia fedele ai principi della tradizione liberal-democratica e nello stesso tempo non sia puramente formalistica o procedurale. La nozione di c. viene considerata utile almeno per i tre seguenti aspetti: 1) consente di connettere il tema del funzionamento delle istituzioni democratiche a quello della 'qualità' della vita pubblica in quanto effettivamente fruita dai cittadini. Permette cioè di guardare al sistema politico ex parte populi, poiché privilegia il duplice punto di vista della titolarità di diritti (entitlement) e del loro godimento effettivo (endowment); 2) associa in una prospettiva unitaria l'universalismo dei diritti soggettivi con il particolarismo delle ragioni dell'appartenenza a un gruppo politico (o della esclusione da esso). Coinvolge quindi, e connette fra loro, sullo sfondo di una teoria generale dei diritti soggettivi, problemi di identità collettiva oggi di particolare attualità in un contesto di recupero dei valori etnico-nazionali; 3) consente di tematizzare le tensioni oggi esistenti fra: a) la tutela dei diritti soggettivi garantita dallo Stato nazionale ai propri cittadini, a esclusione degli stranieri; b) la protezione delle minoranze etnico-culturali interne agli Stati nazionali; c) il carattere espansivo e inclusivo dei diritti soggettivi; d) i processi di globalizzazione che fanno dipendere la fruizione effettiva di questi diritti dalla possibilità di una loro tutela internazionale.
La cittadinanza in senso giuridico-formale
Dal punto di vista formale la c. è disciplinata dalla legislazione di tutti i paesi occidentali, all'interno dei codici o in leggi ordinarie, oltre che in trattati e convenzioni internazionali. La c. può essere originaria (attribuita dal fatto della nascita) in base al rapporto di filiazione (ius sanguinis) o al rapporto territoriale (ius soli). La c. può essere acquisita dopo la nascita per beneficio di legge, per naturalizzazione, per matrimonio, per mutamento di c. del genitore, per annessione territoriale ecc. La c., sia essa originaria o acquisita, può essere persa per rinuncia espressa o tacita da parte del cittadino, per mutamento di c. del genitore, per secessione o per cessione di parte del territorio nazionale. Sono inoltre disciplinate le situazioni della apolitia e della doppia cittadinanza. In Europa l'intera legislazione sull'acquisizione della c. ha subito in anni recenti importanti modificazioni in relazione all'emergente problema dell'attribuzione della c. agli stranieri, in particolare agli stranieri extra-comunitari, e al diritto di asilo (v. rifugiati, in questa Appendice). Di notevole rilievo è il Trattato di Schengen (recepito nel 1992 entro il Trattato di Maastricht), che ha deciso la libera circolazione sul territorio e il diritto di voto nelle elezioni amministrative dei cittadini europei e ha inoltre abolito i controlli alle frontiere interne dell'Unione Europea (con l'esclusione della Gran Bretagna e dell'Irlanda). Spetta ai paesi con frontiere esterne garantire agli altri il controllo dell'accesso degli stranieri nel territorio dell'Unione.
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