civiltà
La vita materiale, sociale e spirituale di un popolo
Il concetto di civiltà è estremamente complesso e sfaccettato, ed è usato in una molteplicità di accezioni. La nozione di civiltà è stata spesso associata all'idea di progresso, e in questo caso indica lo stadio più elevato raggiunto nel processo evolutivo di una cultura, caratterizzato dal dominio sulla natura, da una maggiore complessità delle strutture politiche, economiche e sociali, ma anche delle manifestazioni artistiche e spirituali. In un'accezione più ampia, che rifiuta una distinzione tra società 'arretrate' ed 'evolute', il concetto di civiltà abbraccia tutte le manifestazioni di vita di un popolo o di un insieme di popoli in un particolare periodo della loro evoluzione o nell'arco complessivo della loro esistenza
Il termine civiltà deriva dal latino civilitas, una parola coniata nella seconda metà del 1° secolo d.C. come equivalente del greco politèia ‒ la costituzione politica della pòlis, la città-Stato greca ‒ per indicare la società dei cittadini, cioè degli abitanti della città in quanto comunità politica. Civiltà indicava quindi principalmente la condizione di cittadino, e spesso il diritto di cittadinanza. Tale significato politico si conservò nel Medioevo. Il termine civiltà indicava innanzitutto l'appartenenza a una città, il diritto di cittadinanza: per esempio, negli statuti comunali di Firenze civiltà e cittadinanza erano usati come sinonimi. In senso più ampio, civiltà designava l'ordinamento politico della città, e anche l'arte di governo. Contemporaneamente si affermò un significato giuridico della parola: con l'aggettivo civile, derivato da civiltà, si indicò un tipo di diritto distinto da quello penale. La distinzione tra causa civile e causa penale emerge già nel 12° secolo.
Dal riferimento alla condizione di cittadino derivò un'altra accezione, più estesa, della parola civiltà: essa finì per indicare i costumi e i modi di vita della città in quanto comunità politica, i comportamenti e il modo di sentire più elevato dell'abitante della città in quanto distinti da quelli dell'abitante della campagna o del barbaro (barbariche, invasioni).
Civiltà divenne sinonimo di urbanità, un modo di comportarsi gentile e cortese proprio dei cittadini. Questo significato si consolidò nel corso dei secoli e divenne comune nel Cinquecento. Progressivamente, però, si andò perdendo il riferimento esclusivo alla comunità cittadina: la civiltà fu identificata con l'osservanza delle convenienze in uso non più solo tra i cittadini, ma più in generale tra le persone che vivono in società, e come il frutto di un processo di educazione rivolto a questo scopo. Il termine designò sempre più un comportamento esteriore, fatto di buone maniere. Alla civiltà si collegavano spesso qualità come gentilezza, delicatezza, finezza, galanteria. Civile e civiltà e i loro equivalenti nelle altre lingue neolatine e in inglese hanno conservato ancora oggi questo significato di "buone maniere", modo appropriato di comportarsi.
L'idea della civiltà come insieme di comportamenti socialmente accettati e di regole che li sanzionano è alla base della teoria formulata dal padre della psicoanalisi, Sigmund Freud. Nelle sue opere di argomento sociologico e antropologico, in particolare in Il disagio della civiltà, apparso nel 1929, Freud sostiene che la civiltà è "la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l'umanità dalla natura e a regolare le relazioni degli uomini tra loro".
Oltre al sapere scientifico, che permette il progressivo controllo e l'assoggettamento della natura, e all'organizzazione sociale, la civiltà comprende per Freud tutte le attività rivolte al perseguimento della bellezza, della cultura e dell'ordine, e quindi l'arte, la filosofia, la religione. Lo sviluppo della civiltà, però, presuppone la repressione degli istinti e l'affermarsi di divieti, l'accettazione di norme che gli individui interiorizzano nel loro Super-io, cioè quella componente della psiche che regola il comportamento e presiede alla coscienza morale. La civiltà, in questo modo, contrasta con la naturale disposizione degli esseri umani a soddisfare le proprie pulsioni sessuali, lasciando libero gioco a un'altra categoria di impulsi, quelli aggressivi-distruttivi che mettono in pericolo l'esistenza della civiltà stessa. Il "disagio della civiltà" di cui parla Freud è quindi l'espressione di una lotta eterna e irrisolta tra Eros e Thanatos, istinto del piacere e istinto di morte, radicata nella natura umana.
Il termine utilizzato da Freud nelle opere di cui abbiamo parlato sopra è cultura (in tedesco Kultur), che egli considera perfettamente equivalente a civiltà (Zivilisation), parola entrata nell'uso in Germania alla fine del Settecento in un'accezione che accentuava il riferimento alle maniere e alle forme esteriori. La distinzione tra cultura, connotata in senso positivo, e civiltà, connotata in senso negativo, caratterizza invece la filosofia e la sociologia tedesche tra la fine dell'Ottocento e gli anni Trenta del Novecento. Già il filosofo Immanuel Kant alla fine del Settecento aveva operato una distinzione di questo tipo, riferendo la cultura all'arte e alla scienza, e la civiltà a "ogni specie di maniera e convenienza sociale". Questa distinzione si sarebbe trasformata in seguito in un'aperta antitesi: alla civiltà, qualificata come qualcosa di esteriore, di estraneo alla natura dell'uomo e quindi di artificiale, viene contrapposta la cultura come espressione dei valori autentici, degli aspetti più spirituali dell'uomo che si manifestano nella religione, nell'arte e nella filosofia. La civiltà, in questa concezione, riguarda la sfera della tecnica, della razionalità 'strumentale', mentre la cultura è collegata alla creazione letteraria, filosofica e artistica.
Alla fine dell'Ottocento il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche affermò che la civiltà comporta un forzato addomesticamento dell'uomo, che non lascia spazio alle "nature più spirituali e più ardite" e rappresenta quindi una fase di decadenza. Questa tesi fu ripresa e sviluppata in diverso modo anche dallo scrittore Thomas Mann e soprattutto dal filosofo Oswald Spengler. Nella sua opera del 1917 intitolata Il tramonto dell'Occidente, che ebbe grandissima risonanza, la civiltà viene identificata con la fase terminale, decadente di una cultura, con il suo "tramonto".
Parallelamente all'identificazione tra civiltà e buone maniere si affermò tra il Seicento e il Settecento una concezione della civiltà come passaggio da una condizione di vita primitiva a una condizione più progredita ed evoluta. L'antitesi tra popoli barbari e popoli civili aveva radici molto antiche ‒ risaliva alla cultura greca ‒, mentre l'idea di uno stato selvaggio anteriore alla stessa barbarie era nata nel Cinquecento dall'incontro con le popolazioni del Nuovo Mondo.
È alla fine del Seicento, però, che si afferma un'idea del progresso come perfezionamento graduale dell'umanità; a essa si collega una concezione della storia imperniata sulla successione di tre epoche o condizioni di vita dell'umanità: lo stato selvaggio, la barbarie e la civiltà. Il passaggio dall'uno all'altro stato comporta un avanzamento non solo del sapere, delle scienze e dell'arte, ma anche dei costumi, delle istituzioni politiche e della vita economica. Lo sviluppo dell'umanità è concepito come un progresso dalla 'rozzezza' alla civiltà, da uno stato primitivo a un livello di esistenza superiore. La civiltà è intesa sia come il processo attraverso il quale i popoli si trasformano da selvaggi in barbari e poi da barbari in civili, sia come il punto di arrivo, lo stato finale di questo processo. Condizione di vita più perfetta degli stati che la precedono, la civiltà è la direzione seguita dallo sviluppo di ogni popolo o dell'intera umanità, ma anche il termine, il fine al quale tende questo sviluppo.
Formulato in modo compiuto dai filosofi francesi Charles-Louis barone di Montesquieu e Voltaire alla metà del Settecento e ulteriormente sviluppato dagli illuministi scozzesi, questo schema evolutivo dei tre stadi dell'umanità divenne un secolo più tardi uno dei capisaldi di una disciplina nascente, l'antropologia culturale. Nel 1877 l'antropologo americano Lewis H. Morgan delineò una serie di stadi successivi di evoluzione della specie umana basandosi sulla tripartizione in stato selvaggio, barbarie e civiltà.
Nello stato selvaggio l'uomo si nutre di frutti e piante selvatiche e dei prodotti della caccia e della pesca; in questo stadio avvengono la scoperta del fuoco e poi l'invenzione dell'arco e della freccia. Nello stadio della barbarie l'uomo impara ad addomesticare gli animali, e successivamente a coltivare la terra; l'esistenza nomade lascia il posto a forme di vita stabile nel villaggio, si arriva alla lavorazione del ferro. L'ultimo stadio, quello della civiltà, ha inizio con l'invenzione dell'alfabeto e la produzione di documenti scritti. A questo progresso nei modi di sussistenza e di produzione corrisponde un progresso delle istituzioni politiche e sociali. Nello stato selvaggio e nella barbarie l'organizzazione sociale è fondata sui rapporti di parentela: prima sul gruppo di discendenza per linea materna o paterna, poi sul clan e sulla tribù guidati da un capo. Solo con la civiltà si arriva a un'organizzazione politica basata sul territorio e sulla proprietà privata. Dall'esigenza di garantire la proprietà nascono le leggi e le istituzioni politiche che caratterizzano la civiltà: in essa soltanto si afferma lo Stato. Strettamente collegata a questo processo è la progressiva divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioni.
Lo schema di Morgan sarà ripreso dall'antropologia neoevoluzionistica della prima metà del Novecento. L'antropologo canadese Vere G. Childe, per esempio, lo utilizzerà per reinterpretare i risultati delle più recenti scoperte archeologiche, dando particolare rilievo al progresso tecnologico e alle trasformazioni socioeconomiche. In particolare, Childe riconnette l'origine della civiltà alla nascita della città: la civiltà sorge in concomitanza con quella che egli definisce "rivoluzione urbana", associata all'articolazione della società in strati distinti che assolvono funzioni diverse, all'invenzione della scrittura finalizzata all'amministrazione dei beni, alla regolazione delle acque per scopi agricoli e alla costruzione di edifici pubblici. La teoria di Childe sembra quindi ripristinare il collegamento originario istituito dai Latini tra civilitas e civitas, tra la civiltà e la forma di vita associata più complessa ed evoluta associata alla città.
La connessione tra civiltà e progresso istituita dall'antropologia evoluzionistica presuppone un processo sostanzialmente unitario, un unico percorso che tutte le società e i gruppi umani seguono nel loro sviluppo storico. Inoltre, il punto di arrivo di questo percorso, la civiltà, viene identificato con lo stadio più recente raggiunto da una particolare società o da un gruppo di società, quelle europee e più in generale occidentali: la civiltà occidentale diventa così 'la' civiltà, il modello, il paradigma stesso della civiltà. Le acquisizioni tecnologiche e scientifiche, le forme di organizzazione della vita politica, economica e sociale, ma anche i sistemi di valori delle moderne società occidentali finiscono con l'assumere un valore universale e assoluto, diventando il punto di riferimento per tutte le società umane. Le società considerate selvagge o primitive vengono giudicate arretrate perché sono rimaste agli stadi iniziali o intermedi del processo evolutivo attraverso cui gli antenati degli Europei contemporanei sono passati in epoche remote.
Alla classificazione delle società in 'superiori' e 'inferiori', 'arretrate' ed 'evolute', 'semplici' e 'complesse' implicata dal concetto di civiltà come stadio più avanzato dell'evoluzione di un popolo, e alla identificazione di tale stadio 'progredito' con la moderna civiltà occidentale, si associa spesso l'idea di una missione civilizzatrice dell'Occidente nei confronti dei popoli primitivi o arretrati. Questa idea ha permeato la politica coloniale delle potenze europee alla fine dell'Ottocento e ai primi del Novecento.
Rifiutando il concetto di civiltà come la forma più evoluta e complessa di una cultura, molti studiosi hanno cercato di usare il termine civiltà in un'accezione assai più ampia e 'neutra', in cui sia assente ogni giudizio di valore, ogni riferimento a una gerarchia di 'superiore' e 'inferiore'. Esemplare in questo senso è la celebre definizione formulata alla fine dell'Ottocento dall'inglese Edward B. Tylor, considerato da molti il fondatore dell'antropologia culturale: "La cultura, o civiltà [...] è quell'insieme complesso che comprende le conoscenze, le credenze, l'arte, i principi morali, le leggi, le usanze e ogni altra capacità e abitudine acquisite dall'uomo in quanto membro di una società". In questa definizione la civiltà assume un significato globale in quanto comprende la totalità delle manifestazioni di una società, ma non viene più limitata a una fase, la più recente, della storia umana. Viene così a cadere quella connessione tra l'idea di civiltà e la nozione di progresso che circoscrive la civiltà a quelle culture che sono pervenute, nel loro processo evolutivo, a un presunto livello 'superiore' di vita.
Optare per una definizione ampliata di questo tipo significa anche rifiutare di parlare di civiltà al singolare, riconoscendo l'esistenza di una pluralità di civiltà. È questa, per esempio, la prospettiva adottata dallo storico inglese Arnold J. Toynbee in una monumentale opera in dieci volumi apparsa tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento. Ogni civiltà, secondo Toynbee, può essere intesa come la 'risposta' data da un gruppo umano alle sfide poste dalle particolari condizioni dell'ambiente naturale e sociale in cui viene a trovarsi. La nascita di una civiltà coincide quindi con una serie di risposte riuscite ad altrettante sfide. Una civiltà si sviluppa finché è capace di rispondere alle sfide che incontra sul suo cammino; quando questa capacità viene meno, la sua crescita si arresta; una serie di risposte non riuscite causa la sua disgregazione. Ma non si tratta di un processo irreversibile. Proprio la fase della disgregazione può segnare, anzi, la nascita di una nuova civiltà, 'figlia' della precedente.
Un approccio analogo è adottato da alcuni sociologi che interpretano lo sviluppo della civiltà in chiave di adattamento, o di 'strategia adattiva' a pressioni ambientali esterne e interne. Da questo punto di vista, la civiltà dei cacciatori-raccoglitori non è 'arretrata' né 'primitiva', ma è semplicemente una riuscita forma di adattamento di un particolare gruppo umano all'ambiente.
Nel 1530 apparve un trattatello dell'umanista Erasmo da Rotterdam intitolato La civiltà dei costumi nei fanciulli. Il libro fu uno dei maggiori successi letterari del secolo: ebbe complessivamente 130 edizioni e un numero incalcolabile di traduzioni, imitazioni e adattamenti. Pochi anni dopo la sua pubblicazione fu introdotto come libro di testo nell'educazione dei fanciulli.
Dedicato a un giovane principe con lo scopo di ammaestrarlo, il libro ha come argomento la civiltà dei costumi, cioè il comportamento degli uomini nella società, soprattutto il comportamento esteriore e il decoro. Erasmo ripercorre le situazioni principali della vita mondana e sociale: dalla cura del corpo all'atteggiamento da tenere in chiesa, dalle maniere a tavola al comportamento nei giochi e in camera da letto. Ecco un breve passo sulle buone maniere a tavola che conserva tutta la sua attualità: "Non essere il primo a prendere il cibo dal vassoio appena portato, non solo perché appariresti avido, ma anche perché ciò può comportare un pericolo: infatti chi maldestramente si mette in bocca qualcosa di bollente deve o sputarlo o ustionarsi la gola se lo inghiotte. In ogni caso, è un uso ridicolo e biasimevole".