conflitto sociale
Antagonismo tra gruppi sociali
Tutte le società sono attraversate da conflitti sociali, ossia da contrasti per assicurarsi posizioni di potere, ricchezza e prestigio. Sul conflitto sociale i pensatori occidentali si dividono in tre gruppi: quelli che vedono in esso una patologia del corpo sociale, quelli che lo considerano necessario ma superabile in futuro e infine quelli che lo ritengono indispensabile e salutare
I pensatori che hanno una concezione armonica della vita sociale vedono nel conflitto il segno che il corpo sociale è in preda a qualche malattia. Ma quali sono le cause di tale malattia? La diagnosi di due grandi filosofi come Platone e Jean-Jacques Rousseau ‒ l'uno antico, l'altro moderno ‒ è sostanzialmente la stessa: la causa dei conflitti sta nel perseguimento degli interessi particolari. In una società bene ordinata l'interesse generale ‒ che per Platone è individuato dai sapienti, mentre per Rousseau è individuato dal popolo ‒ deve dominare su tutti gli interessi particolari e gli individui devono sentirsi come gli organi di un unico grande corpo.
La concezione armonica della società è rintracciabile anche in importanti esponenti della sociologia moderna, come Auguste Comte (prima metà del 19° secolo), il quale riteneva che i conflitti fossero il segnale della crisi di una società, e Talcott Parsons (20° secolo), che vedeva in essi un sintomo del cattivo funzionamento di una struttura sociale i cui elementi non erano sufficientemente integrati.
Il pensatore che più di ogni altro ha dato rilievo al conflitto sociale è senza dubbio Karl Marx, che ne ha fatto la base della sua teoria politica. In ogni fase storica, secondo Marx, c'è una classe dominante (classi e ceti sociali), che controlla i mezzi per produrre i beni, e una classe oppressa, che viene sfruttata. Tale conflitto economico determina tutti gli altri aspetti della vita umana: dai rapporti sociali alle forme giuridiche, dalle forme istituzionali alle idee morali e politiche.
Ma qual è la molla dell'evoluzione storica? Secondo Marx essa è costituita dal rapporto tra le forze produttive (ossia gli uomini, i mezzi e le conoscenze che servono a produrre) e i rapporti sociali. Quando le forze produttive della classe oppressa raggiungono un elevato grado di sviluppo, i rapporti sociali creati a suo tempo dalla classe dominante diventano una camicia di forza che impedisce lo sviluppo: si entra allora in una fase rivoluzionaria, il cui esito è la radicale trasformazione della società. Come la borghesia, con la Rivoluzione francese, ha abbattuto l'ordine feudale creato dall'aristocrazia, così il proletariato abbatterà in futuro l'ordine capitalistico creato dalla borghesia, dando vita alla società comunista, dove non vi saranno più classi e di conseguenza non vi sarà più né conflitto, né sfruttamento.
Marx è dunque il più radicale sostenitore della concezione conflittuale della società, per quanto riguarda il passato e il presente, ma è al tempo stesso il teorico di una società futura armonica e coesa.
Tutti i pensatori di ispirazione liberale (liberalismo) ‒ siano essi filosofi del Seicento e del Settecento come John Locke o Immanuel Kant o sociologi contemporanei come Ralf Dahrendorf ‒ hanno una concezione conflittuale della società e della storia, che tuttavia è ben differente da quella di Marx.
Anzitutto il conflitto, per i liberali, riguarda tutti gli aspetti della vita e non può essere ricondotto alla sola sfera dei rapporti economici; in secondo luogo, esso è ineliminabile, perché ineliminabile è la varietà delle opinioni e degli interessi; infine, i conflitti tra le diverse opinioni e i differenti interessi sono il meccanismo che produce ogni forma di progresso. Secondo tale concezione l'interesse generale non scaturisce dall'eliminazione degli interessi particolari, ma proprio dal loro conflitto, a condizione che questo avvenga senza violenza e nel quadro di leggi uguali per tutti.
La concorrenza nel campo economico tra le varie imprese; il conflitto degli interessi tra le parti sociali, con il diritto di sciopero e le varie procedure per le trattative; la competizione tra i partiti per il potere politico; il confronto tra teorie scientifiche e culturali: tutte queste sono forme di competizione pacifica, che imbrigliano il conflitto senza sopprimerlo, evitandone gli effetti distruttivi e conservandone l'energia creativa.