Contadini
"Fin dalle origini il genere umano si è suddiviso in tre categorie: i sacerdoti, gli agricoltori e i guerrieri". "Le tre categorie sono legate tra loro e non possono essere separate, in quanto sulla funzione di ciascuna poggia l'opera delle altre e tutte si assistono a vicenda". Questa tipologia medievale, tramandataci nell'XI secolo da Gerardo vescovo di Cambrais e Adalberone vescovo di Laon (citt. in Duby, 1978), ha condizionato tutta la riflessione successiva sui contadini: collocandoli in una posizione socialmente inferiore, gravandoli della responsabilità di provvedere ai mezzi materiali da cui tanto dipendevano il potere e la grandezza degli altri ceti, rendendoli politicamente soggetti alle vicende alterne dei loro superiori, negava loro, in larga misura, ogni possibilità di innovazione o riforma sociale e li costringeva a forme disperate di jacqueries quando le condizioni diventavano intollerabili. In questo senso la triade di Gerardo e Adalberone ci fornisce una buona guida per orientarci nella storia del mondo contadino; ma, poiché omette una quarta categoria - quella dei mercanti, elemento importante della società già nell'XI secolo -, non attira la nostra attenzione sui mercati urbani e sulla loro espansione, che tanto hanno condizionato le possibilità offerte ai contadini e l'evoluzione della società rurale.
Adalberone ci descrive una società che era sorta in seguito alle invasioni barbariche, quando le tribù germaniche avevano introdotto, entro i confini dell'Impero romano, la propria organizzazione sociale, nella quale, in origine, la distinzione tra guerriero e agricoltore non era tracciata molto nettamente (v. Thompson, 1965). Insediatisi in seno a una popolazione romanizzata e alla sua aristocrazia, i capi tribù occuparono vaste proprietà lavorate da schiavi e da servi. Inoltre essi imposero tributi ai propri coloni - uomini liberi appartenenti alle loro stesse tribù - nell'ambito di relazioni patrono-cliente caratteristiche di società tribali in cui erano cominciati a emergere diversi livelli di ricchezza privata (cfr. Bloch, in Postan, 1966-1978, vol. I, pp. 235-290).
Col tempo quelle relazioni tribali furono adattate a un sistema curtense che finì poi per irrigidirsi in uno schema feudale. Il legame di parentela cedette il posto a quello di vassallaggio: un cambiamento giuridico di enorme portata, i cui effetti si sarebbero protratti a lungo, impose il potere e l'autorità del signore locale fra l'uomo libero, il servo e il re, sottraendo quasi del tutto i contadini alla giurisdizione della Corona.
Il sistema curtense e il feudalesimo, combinandosi, crearono un'economia di oligarchie, tra le quali la Chiesa fu una delle più potenti.
Di fatto all'epoca in cui scriveva Adalberone le cose stavano già cambiando. Fino a poco tempo prima nelle economie chiuse della società europea occidentale si produceva un surplus agricolo molto scarso, si tendeva a pagare gli affitti in prestazioni o in natura, la circolazione del denaro era inibita dalla natura ancora incerta del commercio, signori e contadini costituivano la maggioranza schiacciante della popolazione. Queste condizioni stavano ormai cedendo il passo a uno sviluppo notevole della produzione per il mercato, all'espansione delle aree coltivate e all'incremento della popolazione, tutti fattori concomitanti con una rinascita urbana che portò prodotti agricoli sul mercato e immigranti nel settore artigianale in espansione. Questi nuovi elementi costrinsero sia i proprietari terrieri sia gli affittuari a rivedere i propri interessi, il proprio status e i propri obblighi.
"La storia della campagna nell'Europa occidentale - ha scritto Duby - viene improvvisamente illuminata [da documenti scritti] durante il regno di Carlomagno" (v. Duby, 1962). Due caratteristiche essenziali della vita rurale sono state chiarite dai documenti dell'epoca: i caratteri duraturi del sistema di produzione contadino e l'avviluppamento di tale sistema in un groviglio di pretese signorili, imposte ai contadini all'epoca dell'economia naturale (5001150), da cui essi per secoli cercarono di affrancarsi. Era un'età in cui i bisogni dei signori, sia laici che appartenenti al clero, potevano essere soddisfatti con approvvigionamenti diretti forniti dai coltivatori, un'età in cui il commercio era sostanzialmente limitato alle merci pregiate, ai tessuti costosi, alle pellicce e alle spezie (prodotti che potevano essere spediti attraverso grandi distanze), e in cui la circolazione monetaria riguardava soltanto il commercio di tali generi di lusso, il commercio del bestiame e quello del vino. Nel settore agricolo lo scambio diretto di beni e di manodopera era la norma (v. Slicher van Bath, 1960).
Il centro dell'economia naturale era situato nell'Impero carolingio, con le sue caratteristiche istituzioni di feudalesimo politico e di economia curtense. Il gruppo sociale fondamentale era la famiglia contadina, che forniva la manodopera necessaria a lavorare la terra ed era la principale consumatrice dei suoi prodotti. Tipica era la compenetrazione tra l'ordine basato sulla parentela e l'ordine economico, un tratto distintivo che è sopravvissuto fino all'età contemporanea. Inevitabilmente le pretese che i signori avanzavano sul lavoro della famiglia si estendevano alle questioni concernenti la famiglia stessa, giungendo a riguardare persino matrimoni ed eredità.
Centrale nell'economia curtense era la tenuta signorile, sfruttata dal proprietario terriero e dal suo castaldo per mezzo del lavoro svolto dai servi: aratura, erpicatura, sarchiatura e raccolta delle messi. I servi, inoltre, dovevano provvedere al trasporto delle merci dei proprietari e svolgere la mansione di messaggeri, e traevano le risorse necessarie al mantenimento delle proprie famiglie da piccole proprietà in concessione che essi stessi lavoravano. L'ampiezza di queste proprietà variava considerevolmente sia all'interno di uno stesso villaggio sia da una regione all'altra del paese. Accanto alla popolazione dei servi c'era un gruppo di uomini liberi con le rispettive famiglie; ma con l'ulteriore sviluppo del feudalesimo, dopo il regno di Carlomagno, furono anch'essi sottoposti alle richieste dei signori locali, ai quali si erano spesso affidati affinché proteggessero le loro vite e le loro proprietà. Testatici, imposte di successione e matrimoniali divennero la regola, così come l'obbligo di usare il mulino, il torchio per il vino, il forno e la fabbrica di birra del signore. I diritti signorili, che riguardavano già le corti dei castelli, furono estesi all'uso dei mercati, dei boschi e delle peschiere. Sui contadini, inoltre, gravavano le decime ecclesiastiche dovute alla Chiesa, che possedeva anch'essa grandi proprietà terriere.
Malgrado tutti questi oneri, l'agricoltura progredì, in concomitanza con l'espansione del commercio, con lo sviluppo delle città e con un incremento della popolazione, moderato inizialmente - tra il 1000 e il 1150 -, più rilevante in seguito, tra il 1150 e il 1300.
"Un importante mutamento nella produttività, l'unico nella storia fino ai grandi progressi dei secoli XVIII e XIX, ebbe luogo nelle campagne dell'Europa occidentale tra il periodo carolingio e gli albori del XIII secolo" (v. Duby, 1962). Come si giustifica un evento così eccezionale, il cui sviluppo rimane oscuro, le cui origini e la cui evoluzione risultano complesse e la cui diffusione geografica si rivela discontinua? Fondamentalmente i sistemi di coltivazione beneficiarono degli effetti di un incremento della popolazione. Si introdussero migliori sistemi di rotazione: in alcune regioni, in un numero sempre maggiore di tenute, si sostituì il sistema triennale a quello biennale, che, a sua volta, aveva rappresentato un progresso rispetto al metodo 'taglia e brucia', all'epoca ancora praticato. Migliorarono gli attrezzi da lavoro, si sostituirono i cavalli ai buoi come animali da tiro, con il risultato di sveltire il lavoro agricolo e di rendere possibile un maggior numero di arature. Tra i proprietari terrieri che desideravano migliorare l'amministrazione delle proprie tenute cominciarono a circolare trattati di agricoltura in lingua volgare. Tra il IX e il XIII secolo i raccolti raddoppiarono, anche grazie alla maggiore estensione delle aree coltivate.
Queste innovazioni furono accompagnate da mutamenti sociali. Le famiglie in grado di mettere insieme squadre di aratori divennero l'elemento centrale della seigneurie; rispetto al loro lavoro risultò svalutato quello dei bordars e dei cottars, i braccianti che non lavoravano in gruppo e usavano la zappa. Ne derivò una differenziazione sociale all'interno della comunità di villaggio: coloro che non possedevano animali furono obbligati a pagare le imposte feudali in denaro anziché in servizi; cominciò a formarsi una classe di lavoratori agricoli salariati. Andò gradualmente emergendo una nuova struttura agraria, basata su aziende più piccole che, grazie alla maggiore produttività, erano in grado di assicurare il mantenimento e l'impiego a tempo pieno delle famiglie. Nel 1305 l'abbazia di St. Bertin, nelle Fiandre francesi, si disfece di 102 aziende: il 71% di esse aveva un'estensione inferiore ai 2 ettari; soltanto il 16% superava gli 8 ettari. Nell'Inghilterra orientale, più o meno nello stesso periodo, il 46% delle proprietà libere e il 29% delle proprietà servili si estendevano per meno di 3 ettari; il 23% delle proprietà libere e il 31% di quelle servili erano di 12 o più ettari.
A quell'epoca 12 ettari non erano garanzia né di ricchezza né di abbondanza, e certamente molta gente non riuscì mai a sollevarsi troppo da condizioni d'indigenza e d'inedia; tuttavia i progressi sociali ed economici in atto erano tangibili: lo dimostrano la minore incidenza di carestie diffuse (del tutto assenti dai Paesi Bassi e dalla Germania tra il 1215 e il 1315) e l'importazione di cereali dal Baltico, nel biennio 1217-1218, per prevenire la carestia. Assai indicativa della rinascita economica nel tardo Medioevo è l'allusione di Walter di Henly all'effetto dei prezzi elevati sulla semina a grano delle terre marginali (sappiamo che l'indice dei prezzi della farina crebbe da 100, negli anni 1160-1170, a 203 nel corso della generazione successiva, e sorpassò 300 intorno agli anni 1300-1319). Ma le prove conclusive che si trattò di un periodo di prosperità sono fornite dal fatto che la produzione era decisa in base alla domanda e dalla comparsa di gusti più raffinati: i ricchi mangiavano pane bianco fatto di sola farina di grano, per cui il grano veniva coltivato in terreni che altrimenti sarebbero stati riservati alla segale. I ceti inferiori imitavano le abitudini alimentari dell'aristocrazia. Duby descrive la domanda, nata nel bel mondo cavalleresco, di vino di alta qualità, di carne e di tessuti di lana fine tinti con colori brillanti, domanda che "si diffuse tra i ceti sociali più bassi e, a poco a poco, entrò a far parte delle abitudini dei signorotti di campagna, dei nobili di città e persino dei contadini" (v. Duby, 1962).
La domanda di prodotti agricoli proveniente dalle città riguardava non solo i generi alimentari ma anche le fibre, le pelli e le materie prime per l'industria tessile: canapa, lino, guado, robbia, ginestrella, cardi e giunchi. Le regioni boscose che circondavano la maggior parte dei villaggi fornivano non solo legna da ardere e carbone, ma anche resina per le torce, corteccia per le corde, cera per le candele e tigli e frassini per usi vari. Particolarmente rilevante era, da parte dei vinai, la domanda di legno per costruire botti. I contadini erano collegati al circuito economico da una moltitudine di piccole città di mercato, che cominciarono ad attrarre gli emigranti rurali alla stessa stregua dei maggiori centri urbani. L'aumento della prosperità nelle aree rurali favorì lo sviluppo di attività agricole part-time o non agricole nei villaggi e nei territori circostanti, e, soprattutto, attirò l'investimento di capitali urbani nella campagna. Un po' alla volta l'era dell'economia naturale cedette il passo a un'era in cui le pratiche curtensi furono trasformate in pratiche di vassallaggio, in cui i servizi pagati in natura furono monetizzati e in cui un'influente borghesia trovò posto accanto al clero e all'aristocrazia. La visione delle cose di Adalberone, mai esauriente, divenne sempre più anacronistica.
Nella seconda metà del XIV secolo i progressi in corso furono interrotti da svariate calamità, di cui la più terribile fu la peste nera. Epidemie avevano infuriato in Europa sin dall'inizio del 1300; la peste nera fu la peggiore, con un'incidenza notevolmente diversa da regione a regione. Gli alti livelli di mortalità associati alla peste furono probabilmente determinati anche dalla prolungata denutrizione sofferta da alcuni settori della popolazione nei periodi precedenti, una carenza imputabile all'eccessivo sfruttamento delle terre marginali, dovuto alla sovrappopolazione che caratterizzò l'inizio del XIV secolo (v. Slicher van Bath, 1960).
Dopo il suo scoppio iniziale, fra il 1347 e il 1349, la peste divenne endemica; in Francia le epidemie si susseguirono nei periodi: 1360-1361, 1373-1375, 1380-1383, 1399-1401, 1438-1441, 1450-1453 e andamenti analoghi si registrarono in altre parti d'Europa. Un'altra calamità fu la guerra, che ebbe però un'incidenza più localizzata rispetto alla peste, con periodi di remissione più o meno lunghi a seconda delle regioni. Nell'Ile de France in 95 anni si ebbero 40 anni di guerra. Probabilmente, a lungo termine, i danni maggiori furono causati non tanto dai saccheggi e dalla distruzione di vite umane, di proprietà e di bestiame, quanto dalla paralisi della vita agricola dovuta alla paura di un ritorno delle truppe. Dopo il 1300 i cattivi raccolti sembrarono moltiplicarsi e le carestie divennero più frequenti.Il calo della popolazione produsse importanti cambiamenti nel settore rurale: la manodopera agricola cominciò a scarseggiare e quindi aumentò il costo del lavoro e della conduzione dei poderi. I proprietari terrieri si trovarono ad affrontare la carenza di affittuari, servi e lavoratori, e tentarono di contrastarla offrendo a titolo gratuito, per un certo numero di anni, il godimento dei propri terreni, riducendo i canoni d'affitto e ricorrendo ad altri incentivi, ma l'abbandono della campagna e dei villaggi fu inarrestabile. Si verificò allora una sorta di selezione naturale: le aziende e i villaggi che sorgevano nelle zone più fertili sopravvissero alla crisi, quelli situati in posizioni meno favorevoli scomparvero (v. Abel, 1935). In Germania la percentuale dei villaggi abbandonati fu più alta nelle regioni montuose del Mittelgebirge, dove le condizioni ambientali erano meno propizie all'agricoltura. Nelle terre più fertili del Basso Reno e dell'Ovest il numero dei villaggi abbandonati fu molto inferiore. In Norvegia le zone montuose furono abbandonate a favore dei territori più pianeggianti e dei villaggi costieri, dove si poteva ricavare un ulteriore cespite dalla pesca. Ovviamente furono abbandonate le aree marginali dove la popolazione si era insediata sotto la spinta dell'incremento demografico delle epoche precedenti; ma furono abbandonati - per esempio in Inghilterra - anche villaggi che sorgevano in zone prevalentemente arabili.
La diminuzione della popolazione determinò una flessione della domanda di cereali. I problemi dei proprietari terrieri furono aggravati dal ribasso dei prezzi del grano, che, nonostante periodiche inversioni di tendenza dovute a cattivi raccolti, a guerre e a carestie, fino alla metà del XV secolo rimasero, nel complesso, inferiori ai livelli raggiunti nei primi anni del XIV secolo. L'allevamento del bestiame diventò quindi un'attività più redditizia e la conversione dei terreni arabili in pascoli divenne una caratteristica rilevante in alcune regioni, soprattutto in Inghilterra, ma anche in altre zone d'Europa. Il prezzo del manzo mostrò una tendenza al rialzo per quasi tutto il corso dei secoli XIV e XV. Aumentò notevolmente l'importanza dei prodotti animali nella dieta di quasi tutti i settori della popolazione: aumentò la richiesta non solo di manzo, ma anche di pesce proveniente dalle peschiere, di latticini, di frutta e di vino.
Con la ripresa dell'incremento demografico si assistette al ritorno di molte caratteristiche associate ai momenti più felici del periodo medievale: espansione del commercio e delle città, estensione delle aree coltivate, miglioramento e intensificazione delle tecniche agricole. Ma gli avvenimenti dei secoli XVI e XVII non furono affatto una mera ripetizione del passato: nuovi elementi fecero la loro comparsa nella società, per esempio la Riforma, e la formazione delle monarchie assolute provocò uno spostamento dell'equilibrio politico a favore dello Stato e dei suoi rappresentanti. Nonostante lo stereotipo dell'isolamento, della rusticità e dell'ignoranza, i contadini sono sempre stati coinvolti nelle controversie religiose, nelle guerre di religione e nei conflitti nazionali, e sono sempre stati soggetti alle pressioni delle forze del mercato.
La ripresa della crescita demografica è stata attribuita al perdurare della consuetudine di contrarre matrimonio in giovane età: intorno ai 21 anni nel 1550, contro i 25-26 anni del periodo 1650-1780. La popolazione della Francia, scesa a 10 milioni di abitanti verso il 1430, si avvicinò ai 20 milioni intorno al 1560, epoca in cui si raggiunse un tetto demografico che restò invariato fino al 1720. Le terre abbandonate dopo la peste furono riconquistate, e nuove terre vennero colonizzate. Nei Paesi Bassi, tra il 1565 e il 1615, 44.000 ettari di nuove terre furono sottratti al mare; lungo la costa tedesca del Mare del Nord fu compiuta un'ampia opera di bonifica (v. Abel, 1935).
L'aumento della pressione demografica portò a una frammentazione sempre maggiore delle proprietà contadine. Nelle Fiandre, da una misura modale di 1,5-3,75 ettari, nel XV secolo, si passò, nel XVI, a una misura modale di 0,75-1,5 ettari. I contadini erano in competizione con la borghesia per assicurarsi l'accesso alle terre e di conseguenza gli affitti aumentarono notevolmente. Nello stesso periodo i salari reali diminuirono. Secondo Abel, la produzione non mantenne il passo dell'aumento di popolazione: è "l'unica spiegazione possibile [...] del peggioramento delle condizioni di vita dei braccianti e del marcato aumento degli affitti" (v. Abel, 1935). Tutto questo incise profondamente sul tenore di vita delle classi rurali, delle famiglie degli agricoltori e delle famiglie dei lavoratori giornalieri, che costituivano una componente notevole della comunità di villaggio.
Lo studio di una regione a sud di Parigi coltivata a cereali e a vite, basato su documenti del sesto decennio del XVI secolo, rivela che un terzo degli occupati nel settore agricolo era costituito da salariati - addetti alle vigne, lavoratori giornalieri, carrettieri e pastori - che avevano accesso solo agli appezzamenti di terra più piccoli, indispensabili al loro sostentamento. Quanto al titolo di godimento delle terre, per un terzo esse erano di proprietà dei contadini o cedute loro in affitto mediante contratti a lunga scadenza; la vecchia nobiltà e il clero conservavano la proprietà di quasi un terzo delle terre, sotto forma di tenute signorili. È significativo che questi terreni signorili, nella stragrande maggioranza dei casi, fossero boschivi o altrimenti tenuti a pascolo e a foraggio, mentre le terre dei contadini comprendevano pochissime foreste ma un'alta percentuale della superficie totale coltivata a vigna e circa la metà di quella coltivata a cereali. I poderi dei contadini fornivano naturalmente i generi necessari al sostentamento delle rispettive famiglie e qualche prodotto destinato al mercato. Un po' più di un terzo delle terre era di proprietà della borghesia parigina e locale, formata da funzionari prossimi a diventare nobili, da mercanti e da cittadini ricchi. La maggior parte della terra in loro possesso era coltivata a cereali, ovviamente destinati al mercato come i prodotti dei vigneti; circa un quarto della superficie totale coltivata a vigna era di proprietà di questi borghesi.
Per quel che riguarda la struttura agraria, due processi inseparabili e opposti erano in atto: la frammentazione della terra in mano ai contadini e l'ampliamento della grande proprietà terriera non contadina. Il secondo processo era destinato a prevalere dopo il 1560. Marc Bloch ha descritto il modo in cui un gruppo di persone 'socialmente mobili' - mercanti, banchieri, esattori, usurai, avvocati, funzionari statali, proprietari terrieri e persino contadini - intraprese la ricostituzione della tenuta signorile. Le grandi proprietà terriere furono ricostituite attraverso un processo di lenta accumulazione. Le proprietà ereditarie divennero alienabili e spesso si adottò la mezzadria. Di generazione in generazione i nuovi proprietari svilupparono una gestione più commerciale delle proprie tenute e cercarono di accedere alla nobiltà, spesso riuscendoci dopo qualche tempo. I tre secoli tra il 1480 e il 1789 videro la reinstaurazione delle grandi proprietà terriere in Francia, e in molti casi la proprietà, se non la nobiltà, sopravvisse alla Rivoluzione (v. Bloch, 1931).
La penisola spagnola e quella italiana - da sempre distinte, a causa del clima, dall'Europa nordoccidentale di cui ci siamo fin qui occupati - durante l'alto Medioevo furono teatro di eventi peculiari, in quanto la loro vita economica si svolse, per un certo periodo, all'interno del molto più vivace mondo commerciale islamico. E. Sereni ci descrive la "furia delle invasioni barbariche e [il] processo di disgregazione del paesaggio agrario ch'esse precipitano". Di conseguenza l'estensione dei territori incolti, boschivi e acquitrinosi - processo destinato a invertirsi - "e la generale mancanza di sicurezza delle campagne spingono di nuovo queste popolazioni a cercare fra le montagne un territorio di rifugio, e nei borghi inerpicati un habitat meno esposto all'offesa nemica" (v. Sereni, 1961, pp. 49 ss). Fu all'ombra dei casali fortificati, all'interno e oltre i confini di questi borghi che, alla fine, ebbe luogo la ripresa dell'agricoltura e con essa la disintegrazione del sistema curtense, soppiantato da un sistema economico più complesso e commerciale. "Nell'opinione di studiosi di economia politica quali Sismondi e Cattaneo - scrive Philip P. Jones - l'Italia medievale dimostrava perfettamente la validità della teoria secondo cui lo sviluppo agrario dipendeva dalle città e dal commercio" (cfr. Jones, in Postan, 1966-1978, vol. I, p. 353). Certamente, in contrasto con l'impoverimento economico dell'Europa nordoccidentale, l'economia della Sicilia fiorì nel IX secolo perché "ancora una volta [essa] trasse vantaggio da una posizione centrale all'interno di un immenso impero economico che si estendeva dalla Spagna alla Siria" (v. Mack Smith e altri, 1986, p. 51). In realtà si sa ben poco delle condizioni delle classi rurali sia in Spagna sia nell'Italia meridionale durante la dominazione musulmana. L'esistenza di colture intensive vicino alle città indica il diffondersi di piccole tenute e di affittanze sicure o di effettive proprietà contadine (ibid., p. 53). Forme di coltivazione estensive sopravvissero nelle regioni interne della Sicilia, favorite dal clima e dall'assenza di terreni irrigati.
Benché sia corretto affermare che la conquista araba ebbe effetti devastanti - fra cui spicca la distruzione dei boschi accessibili - essa tuttavia fornì un contributo fondamentale alla vita rurale della Spagna orientale, della Sicilia e, in seguito, dell'intera penisola italiana, un contributo riconosciuto da Sereni: "A quest'influenza araba [...] la Sicilia e il Mezzogiorno dovranno, per una gran parte, quella certa preminenza agricola che [...] conserveranno fino al XIV e in certi settori fino al XVI secolo. Basti ricordare [...] la diffusione di nuove culture come quella del riso, del cotone, della canna da zucchero [...], del carrubo, del pistacchio, delle melanzane, degli spinaci e di parecchie altre essenze orticole". I contributi più duraturi degli Arabi - nota Sereni - furono l'introduzione dell'arancio e del limone e, soprattutto, l'introduzione della sericoltura, che entro la seconda metà del XVI secolo si diffuse anche al centro e al nord (v. Sereni, 1961, pp. 66-67).
La reconquista e la conquista normanna del Mezzogiorno restituirono queste terre al modello di sviluppo occidentale. I monasteri svolsero un ruolo importante nella ricolonizzazione delle regioni di frontiera scarsamente popolate - León, Castiglia e Aragona - estendendo l'area coltivata a vigne e a cereali. Per attrarre coloni, le terre vennero messe a disposizione dei contadini pressoché libere da qualsiasi obbligo feudale, ma quando furono riconquistate alcune regioni meridionali del paese, più densamente popolate, l'amministrazione reale concesse enormi tenute ai nobili, agli ordini militari e alla Chiesa, creando latifondi e assoggettando le classi rurali a un certo controllo personale ed economico. I sistemi di coltivazione intensiva furono conservati nella huerta di Valenza dopo la fuga della popolazione moresca, mentre nella Murcia i terreni regredirono a uno stato paludoso.
La Sicilia infine divenne una colonia della Spagna. "Finché aveva fatto parte del mondo del Nordafrica e del Levante, l'isola era stata ricca; ma quando fu forzatamente annessa all'Europa occidentale perse molti dei vantaggi che le derivavano dalla sua posizione geografica. Dopo il 1194 la Sicilia divenne una piccola regione periferica di grandi imperi che si succedettero l'uno all'altro, e le sue risorse furono impiegate in progetti che tenevano pochissimo conto degli interessi siciliani" (v. Mack Smith e altri, 1986, p. 69). All'opposto la crescente prosperità e la crescente forza economica dei Comuni italiani rivitalizzarono l'attività agraria nelle regioni settentrionali. Stava nascendo una nuova società, urbana, ricca e mercantile.
"I secoli tra l'XI e il XIII restano decisivi per la rielaborazione di un paesaggio agrario organizzato in Italia, grazie alle grandi opere collettive di bonifica, di irrigazione, di dissodamento che ora si intraprendono, con nuove forme di organizzazione sociale, che divengono esse stesse una potente forza produttiva" (v. Sereni, 1961, p. 74). La principale opera di valorizzazione fu il disboscamento dei fianchi delle colline, dove vennero piantati castagni e ulivi, piante meno esposte all'azione nociva degli animali. Con l'avanzamento del controllo sulla campagna la vite diventò il mezzo principale per intensificare l'uso delle terre. Quando si costituirono varie forme di associazione furono costruiti canali, furono intraprese bonifiche e cominciò, come nel caso di Villafranca di Verona, nel 1185, l'insediamento di famiglie di agricoltori.
I grandi proprietari terrieri, laici e religiosi - in particolare i cistercensi - svolsero un certo ruolo in questa rinascita agricola, che comprese anche la concessione di incolti a pascolo, più estesi in Savoia, in Piemonte e in Puglia, più ridotti in Maremma e nell'Agro Romano; in questi terreni, in parte adibiti a pascolo per grandi mandrie di maiali, si ristabilì anche l'antica pratica della transumanza delle pecore e fu introdotto l'allevamento dei cavalli su vasta scala, per soddisfare la domanda degli aristocratici e del loro seguito. Nel complesso, però, l'effetto dell'intensificazione delle colture fu l'indebolimento del potere e dell'autorità della seigneurie, sempre più indebitata, le cui proprietà furono suddivise e subaffittate, mentre una nuova razza di proprietari terrieri assunse il controllo dell'amministrazione delle terre. Poiché le città rappresentavano gli elementi innovatori nel nuovo sistema, i Comuni diventarono un fattore di controllo della campagna: le loro classi governanti, piuttosto che la signoria, cercarono di imporre tasse e servizi alla popolazione rurale e di controllare l'immigrazione dalle zone agricole circostanti.
La crescita economica promosse la mobilità sociale e questo fenomeno rese in particolare quanto mai eterogenea la classe dei proprietari terrieri. Accanto ad antiche famiglie feudali - alcune delle quali (Visconti, Este, Malatesta, ecc.) contribuirono al miglioramento dell'agricoltura e conservarono, se non aumentarono, le proprie tenute - si affermarono nuovi proprietari terrieri: nobili e mercanti che acquistavano le terre un po' per volta e finivano per costruirvi le proprie residenze di campagna, commercianti, affittuari arricchiti, contadini intraprendenti, ecc. La tendenza di lungo periodo era quella di separare la proprietà della terra dalla sua amministrazione. Fecero la loro comparsa forme di mezzadria, emerse una classe di amministratori commerciali. Nette disuguaglianze si determinarono all'interno della stessa popolazione rurale: accanto a contadini decisamente benestanti - i 'contadini grassi' - vivevano contadini pressoché indigenti. Alcuni, ovviamente, non erano agricoltori a tempo pieno e lavoravano nelle città come artigiani; altri svolgevano lavori stagionali lontani dai propri villaggi, poiché i loro poderi erano troppo piccoli per offrire lavoro a tempo pieno a un'intera famiglia. Si formò una classe di lavoratori salariati.
Liberi dagli antichi obblighi curtensi, i contadini dovettero però competere in un mondo in cui il commercio aveva un rilievo sempre maggiore, e dove, dal momento che le comunità agricole divennero lo strumento della politica urbana - soprattutto di quella fiscale -, le classi rurali subirono numerose imposizioni. "In termini strettamente formali [...] il Comune urbano fu una creazione della società feudale; esso nacque col trasferimento di certi diritti pubblici [...] da un signore feudale a un gruppo di vassalli associati a questo scopo" (v. Luzzatto, 1949). Le città furono invase da immigrati provenienti dalla campagna, tra cui vi erano non solo servi, che così ottenevano la propria libertà, e affittuari liberi, ma anche proprietari terrieri e signori feudali, che rinunciavano alla giurisdizione sui propri sudditi cedendola al Comune. Ciò permise al Comune, a sua volta, di invadere la campagna per proteggere i propri interessi. In competizione con le industrie cittadine, i laboratori curtensi decaddero o scomparvero; ne derivò una netta divisione del lavoro tra campagna e città: la funzione primaria della campagna diventò quella di produrre generi alimentari e materie prime, mentre la città diventò il centro dell'industria e del commercio. Le città cominciarono a trattare la campagna come un territorio coloniale, impedendovi la fabbricazione dei beni che esse stesse producevano, sempre attente a mantenere bassi i prezzi dei generi alimentari a causa dei loro effetti sui salari. La verità - conclude Philip Jones - è che "la dissoluzione curtense, che emancipò i contadini, era soltanto un aspetto di una rivoluzione più ampia, che finì col danneggiarli" (cfr. Jones, in Postan, 1966-1978, vol. I, p. 427).
Nell'Italia meridionale, nelle zone in cui le condizioni urbane o commerciali erano favorevoli allo sviluppo, la terra fu minutamente suddivisa e coltivata intensivamente da piccoli proprietari e affittuari enfiteutici, ma la maggior parte del Sud - soprattutto l'interno - rimase isolata, e l'economia, dominata da vaste proprietà, restò in larga misura un'economia naturale. I proprietari, attratti dalle città, "lasciarono le loro proprietà nelle mani di amministratori che, di solito, erano altrettanto ignoranti e brutali quanto i contadini di cui si dovevano occupare [...]. La popolazione contadina fu tenuta in uno stato di totale soggezione nei confronti di una classe di maggiorenti feudali. La situazione rimase invariata, nella maggior parte del Sud, fino al periodo borbonico" (v. Luzzatto, 1949).
Germania orientale, Ungheria, Polonia. - La colonizzazione tedesca dei territori orientali al di là dell'Elba resta una delle imprese più notevoli del tardo Medioevo. Si calcola che vi siano state coinvolte circa 200.000 persone nel XII secolo e altrettante nel XIII, anche se queste cifre vanno prese con beneficio di inventario. Per il solo ducato di Sassonia si è calcolato che una popolazione di meno di 50.000 persone, che nel 1100 lavorava un sesto dei terreni coltivabili, sia aumentata fino a raggiungere un totale di 400.000 unità entro il 1300, quando si arrestò l'immigrazione. Aggirando i Monti Metalliferi con un moto a tenaglia, un'ondata di colonizzazione si propagò, tra l'VIII e l'XI secolo, dalle regioni da tempo colonizzate della Baviera fino all'Austria inferiore, alla Carinzia e al Tirolo. Nel XII secolo i coloni attraversarono la Saale e l'Elba e si sparsero nel territorio intorno a Berlino. Nello stesso periodo re Géza II d'Ungheria invitò coloni provenienti soprattutto dai distretti della Mosella - Metz, Aquisgrana, Lussemburgo e Bassa Sassonia - a disboscare i territori della Transilvania. Nel XIII secolo la colonizzazione tedesca si estese alla maggior parte del Meclemburgo, del Brandeburgo e della Slesia e alla regione attraversata dal corso inferiore della Vistola; nel XIV secolo, con il disboscamento e la colonizzazione dei territori prussiani, il processo si arrestò (v. Franz, 1970, pp. 99-117).
Gli autori tedeschi non perdono occasione per sottolineare il carattere non coloniale di queste imprese; nessuna assistenza da parte della madrepatria, nessun vantaggio economico per essa. Le terre venivano disboscate, bonificate, colonizzate e suddivise in appezzamenti dalla forma caratteristica, come caratteristica era la forma del villaggio. Vennero fondate città che si diedero propri statuti. La natura sistematica di tutta l'operazione ne costituisce l'aspetto più vistoso e memorabile: principi, signori, vescovi e abati germanici e slavi assumevano esperti agrimensori, cui affidavano il compito di organizzare la strutturazione, il finanziamento e il popolamento della colonia. Come ricompensa per i rischi che si assumevano, questi imprenditori ricevevano terre coltivabili, spesso esenti da canoni e da decime, il diritto di costruire mulini e locande e di detenere altri monopoli, e il diritto (ereditario o meno) di agire in qualità di giudici e di sorveglianti del villaggio (tutte queste concessioni erano alienabili). Veniva così offerto loro un trampolino di lancio per entrare a far parte della nobiltà minore rurale o per rafforzare le basi originariamente urbane della loro ricchezza. Da parte loro, i contadini che abbandonavano le regioni occidentali sotto la spinta della pressione demografica, data la loro competenza in materia di disboscamento, bonifica e valorizzazione dei terreni, erano talmente richiesti che furono insediati in proprietà esenti da canoni, ereditabili e alienabili, liberi di andarsene a loro piacimento e tenuti soltanto al pagamento, a favore del loro signore, di moderate tasse fisse, che in un primo momento furono sospese per rendere la proposta più allettante. Pertanto i colonizzatori della Germania orientale erano contadini relativamente liberi e indipendenti, che occupavano tenute sufficientemente estese da garantire il pieno impiego di tutta la famiglia ed erano tutelati da proprie norme sulla proprietà e di diritto penale e da proprie corti di giustizia. Questa società contadina era collegata a una rete di mercati e di città la cui fondazione era parte integrante dello stesso processo di colonizzazione. Ciò "innanzitutto garantì all'Est un'economia controllata dal mercato completa, permanente e caratterizzata dalla divisione del lavoro" e una struttura sociale che "aveva subito un sostanziale mutamento con l'introduzione di una vera classe contadina, economicamente solida e libera", la cui esperienza avrebbe migliorato le condizioni della popolazione slava asservita, che lavorava le riserve signorili dei signori feudali (cfr. Aubin, in Postan, 1966-1978, vol. I, p. 481).
Nel 1250 ebbe origine nel Brandeburgo un commercio di esportazione in Occidente di cereali, pelli e bestiame, che si fondava su questa struttura agraria. Tuttavia le sorti mutevoli di questo commercio nel corso del tempo, la presenza, all'interno di tale struttura, di estesi possedimenti di proprietà di aristocratici, lo sfacelo provocato dalla guerra e dalla peste e la forza politica della nobiltà nei confronti della monarchia contribuirono a rovesciare l'intera struttura e a rimpiazzarla con un sistema agrario unico nel suo genere - la Gutsherrschaft - che distinse queste regioni dal resto dell'Europa e influenzò il loro sviluppo socioeconomico fino all'epoca della seconda guerra mondiale.
Intorno al 1400 ebbe inizio un lungo, progressivo processo di soppressione delle libertà contadine, al termine del quale i contadini si ritrovarono vincolati alla terra, furono costretti a fornire prestazioni obbligatorie, i loro salari vennero fissati, le loro terre confiscate e messe in vendita a tutto vantaggio dell'aristocrazia; fu addirittura posto un limite alla loro libertà di scelta del coniuge. Così, intorno alla metà del XVII secolo, "i discendenti dei primi coloni liberi erano ormai indistinguibili dai servi. Costituivano insieme un'unica massa di servi ereditari, contrapposta alla nobiltà" (v. Slicher van Bath, 1960).
La colonizzazione tedesca dell'Est proseguì durante quest'epoca di nuova servitù, mentre l'economia della Gutsherrschaft si espandeva nelle stesse condizioni vantaggiose per i contadini, verificatesi nel periodo precedente. La Prussia degli Hohenzollern promosse attivamente la colonizzazione. I 300.000 coloni che giunsero in Prussia e occuparono, durante il regno di Federico il Grande, per lo più terre di sua proprietà, portando con sé 2 milioni di talleri, 6.392 cavalli, 7.875 bovini, 20.548 pecore e 3.227 maiali, resero coltivabili circa 400.000 ettari di terreno. Il re poté così affermare, a buon diritto, di aver guadagnato per il proprio Stato, con mezzi pacifici, un'intera provincia. La perdita della Slesia indusse anche gli Asburgo a conquistare interi distretti, se non province, ricorrendo alla colonizzazione. I grandi proprietari terrieri ungheresi incoraggiarono la colonizzazione tedesca in seguito all'allentarsi del dominio turco sul bacino pannonico; le zone di frontiera attrassero molti coloni, i cui discendenti, in seguito, colonizzarono parti della Croazia e della Slovenia e, dopo il 1878, anche della Bosnia. Come in passato, i coloni erano reclutati nelle regioni occidentali della Germania, compresi i Paesi Bassi. La loro abilità nel prosciugare i terreni paludosi ebbe un'importanza cruciale nella valorizzazione delle terre adiacenti al corso inferiore della Vistola (nell'arco di un decennio il valore delle terre aumentò di dieci volte) e i magnati polacchi cercarono di assicurarsi i loro servizi. Di nuovo le condizioni della colonizzazione favorirono la libertà dei contadini; ma anche in questo caso i benefici effetti della colonizzazione sulla posizione sociale dei contadini furono transitori, per il diffondersi della nuova servitù cui si è accennato in precedenza.
Uno dei fattori principali che portò all'assoggettamento dei contadini fu il desiderio dei signori di assicurarsi la manodopera da adibire alla coltivazione, per scopi commerciali, delle proprie tenute, che erano diventate di nuovo redditizie. Nel 1600 l'80% del grano che giungeva ad Amsterdam proveniva da Danzica via mare. La nuova servitù fu una risposta alle forze di mercato. "La proprietà terriera era soltanto un'impresa commerciale che produceva per il mercato" (v. Slicher van Bath, 1960). Ma va puntualizzato che la produzione era diretta a un mercato estero, non interno. La domanda proveniente dal mercato urbano locale si era indebolita e il dominio della classe borghese era in declino, in seguito alle distruzioni provocate dalle guerre e alla concorrenza dei mercanti inglesi e olandesi nel Baltico e di quelli tedeschi in Boemia e in Ungheria. Le Gutsherrschaftsbetrieben - le grandi proprietà dei magnati - avevano acquisito proprio ciò che gli autori tedeschi si sforzano di negare riferendosi alla colonizzazione medievale: una chiara fisionomia coloniale, caratterizzata dall'esportazione di prodotti agricoli e dall'importazione di manufatti. L'obiettivo principale dei proprietari terrieri divenne quello di mantenere i costi di produzione al livello più basso possibile, obiettivo che raggiunsero pretendendo sempre di più dai contadini.
La nuova servitù si diffuse in regioni meno raggiungibili dal commercio baltico, per esempio in Ungheria, dove però, nel XVII secolo, si era sviluppato un importante mercato interno, legato allo stanziamento di truppe straniere in occasione delle guerre turche. Tale mercato fu ampliato a partire dal 1715 con la costituzione di un esercito permanente in Ungheria e in seguito a una serie di guerre, a cominciare dalla guerra di successione austriaca fino alle guerre dell'era napoleonica. I grandi proprietari terrieri colsero al volo le opportunità commerciali offerte da questi eventi. Dopo la rivolta di Dózsa del 1514 cominciò un processo di assoggettamento. In un primo momento il contadino si trovò legato alla terra; poi, nel 1608, perse la libertà di emigrare e la sua persona fu posta sotto il controllo giuridico delle corti locali, che erano feudi dei proprietari terrieri. Alla nuova servitù si accompagnò una progressiva differenziazione all'interno della società contadina: in particolare divenne sempre più numerosa la classe degli indigenti senza terra (i sottoinquilini), così poveri che abitavano nelle casette dei servi (gli inquilini). Nel 1848 ogni 100 servi della gleba che avevano accesso a qualche appezzamento di terra, per quanto insufficiente, vi erano 147 sottoinquilini. Analogamente in Polonia l'epoca della nuova servitù fu un'epoca di differenziazione sociale non solo nel mondo contadino, ma anche tra gli appartenenti alla nobiltà minore. Tra il XVI e il XVIII secolo le proprietà terriere (di meno di 1.600 ettari) della piccola nobiltà diminuirono di numero e in estensione. A metà del XV secolo, nella regione di Lublino, la nobiltà minore controllava il 50% di tutte le terre; entro la fine del XVIII secolo tale percentuale si era ridotta del 10%. Nello stesso periodo la quota nelle mani dei nobili che possedevano oltre 9.000 ettari passò dal 13 al 42%.
In Boemia, alla fine del XIV secolo, il contadino era, nella maggior parte dei casi, un piccolo proprietario pressoché indipendente, che pagava i propri debiti in denaro e vendeva una parte dei suoi prodotti sul mercato. Le guerre ussite distrussero sia le proprietà dei contadini sia quelle dei signori; questi ultimi, dopo un periodo in cui si preoccuparono di altre questioni, cercarono di ristabilire i propri privilegi. Una legge del 1480 legò i contadini alla terra e nel 1500 essi furono sottoposti alla giurisdizione curtense. L'incremento della popolazione, la concorrenza commerciale fra nobili e borghesi e un prospero commercio di grano contribuirono al risveglio dell'interesse dei signori per la coltivazione delle proprietà fondiarie; ma l'oppressione dei contadini ebbe inizio solo dopo la guerra dei Trent'anni, le cui devastazioni giustificarono in qualche misura l'affermazione dei nobili secondo cui la ripresa economica poteva aver luogo solo se preceduta da una restaurazione dell'ordine. Nuovi nobili, di origine straniera, furono protagonisti del ripristino della pace. Essi non si sentivano affatto vincolati dalle restrizioni di stampo antico e paternalistico o dalla propensione a favorire il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, che temperavano le azioni degli antichi signori. Erano intenzionati a far pagare agli eretici la follia delle loro insurrezioni, e decisi a ricavare il più possibile, il più in fretta possibile, dalla nuova situazione in cui si trovavano, come ricompensa per le proprie fatiche. Il loro patrono, il trionfante Ferdinando II, non aveva alcuna intenzione di tenerli a freno da questo punto di vista. Avrebbe preteso la sottomissione dei nuovi signori al proprio potente governo, ma in cambio di tale sottomissione avrebbe abbandonato completamente i contadini al potere del rispettivo signore. Grazie al proprio potere e alla propria autorità, questi nuovi aristocratici si frapposero tra il monarca e la gran massa della popolazione. Nonostante le sue evidenti inefficienze, il sistema del lavoro obbligatorio (robot) offriva vantaggi politici reali e fu perpetuato sulla base di motivazioni politiche finché i monarchi assoluti non furono costretti a riesaminare le basi militari ed economiche di un efficiente Stato moderno. Con la comparsa dei despoti illuminati si mossero i primi passi verso l'emancipazione contadina.
Balcani. - Nei Balcani la vita contadina fu notevolmente condizionata dalle vicende mutevoli della guerra, dall'alternarsi delle conquiste e delle ritirate turche, dalle opportunità di mercato offerte dalla presenza di eserciti permanenti e dal riassetto delle frontiere militari. La rioccupazione di territori diede via libera alla colonizzazione, che ebbe l'effetto di ridurre le tensioni tra signori e servi. D'altra parte, quando l'aristocrazia ungherese spodestata si concentrò in quelle zone, durante i secoli XVI e XVII, i contadini slovacchi ne risentirono molto. Cacciando l'aristocrazia cristiana, l'avanzata turca arrestò il progredire della nuova servitù. Il contadino cristiano, sotto la pax ottomanica, benché fosse un cittadino di seconda classe sottoposto a innumerevoli, meschine restrizioni (gli era proibito cacciare, andare a cavallo, pescare, partecipare alle processioni religiose e ad altre cerimonie), godeva di un affitto più stabile rispetto al contadino occidentale, quantunque fosse legato alla terra e gravato da una semplice, ancorché onerosa, tassa fissa da pagare allo Stato (v. Sugar, 1977, pp. 93-110 e 211-224). Durante i secoli XVII e XVIII questo modus vivendi monotono e burocratico stabilitosi tra vinti e vincitori si infranse in seguito alla disintegrazione del controllo centrale sulle province. L'onere fiscale imposto alla popolazione cristiana assoggettata (reaya) aumentò, in quanto le tasse occasionali divennero fisse. Apparvero gli esattori e con essi le grandi proprietà private impegnate nella produzione di cotone, patate, granturco e bestiame da esportare. La manodopera scarseggiava perché, a parte le perdite dovute alle guerre, alle malattie e ai tumulti civili, molti cristiani decisero di emigrare. Il movimento più consistente fu quello costituito da circa 200.000 serbi guidati dal patriarca di Peć che nel 1690 si unirono alle forze asburgiche in ritirata. Altri li seguirono quattro anni più tardi. Alcuni si rifugiarono sulle montagne e vissero da banditi, mentre la sicurezza interna si sgretolava. Coloro che rimasero si raggrupparono intorno ai castelli diventando totalmente dipendenti dai proprietari terrieri; essi conservarono, tuttavia, una notevole capacità di autogoverno, che forgiò i leaders del movimento contadino nazionale. Questo movimento raggiunse la fase del conflitto aperto nel 1804. L'insurrezione serba non fu una delle classiche sollevazioni contadine, come quelle che si susseguirono in Bosnia, rimasta sotto la sovranità turca, nel 1834, nel 1842 e nel 1848; fu una sollevazione nazionale di contadini, che occuparono, prendendone possesso, le proprietà confiscate agli stranieri espulsi. Le piccole e medie proprietà costituivano il 95% di tutte le tenute. Dopo non molto tempo, comunque, fece la sua comparsa l'indebitamento, piaga caratteristica di una società contadina moderna che veniva lentamente incorporata in un'economia in via di industrializzazione. Il nuovo Stato dovette intervenire con la legge del 1836, che proteggeva i debitori nei confronti dei creditori prescrivendo la dimensione minima e inalienabile della proprietà di famiglia, prescrizione che non fu, peraltro, di facile applicazione.
Con il ritiro dei Turchi e il ritorno in pianura delle popolazioni slave, la popolazione rurale aumentò rapidamente, ma le tasse per sostenere i nuovi Stati erano elevate, il disboscamento si intensificò, le tecniche agricole rimasero arretrate e si affacciò lo spettro della sovrappopolazione e della sottoccupazione. Tutte le classiche caratteristiche del 'sottosviluppo' emersero dopo le guerre di indipendenza, ponendo in tal modo le basi della situazione economica e politica del secolo successivo.
Russia. - Il periodo di Kiev della storia russa fu, come in Occidente, un periodo di espansione economica, di crescita urbana, di miglioramento delle tecniche agricole e di espansione del commercio locale e interregionale. I proprietari di estese riserve signorili - terreni agricoli sottratti alle comunità contadine - approfittarono di queste opportunità e intrapresero l'assoggettamento dei contadini. In tempi caratterizzati da disordini politici e catastrofi militari, in tempi di crisi o di espansione economica, in un territorio dove esisteva sempre la possibilità di fuggire dal proprio padrone e raggiungere nuove terre, i proprietari terrieri cercarono di limitare la libertà di movimento dei contadini. In questo furono appoggiati dalla monarchia, che eliminò l'alta aristocrazia e si guadagnò l'appoggio dei membri della piccola nobiltà, concedendo loro numerose terre e il permesso di esercitare un controllo ancora maggiore sui rispettivi sottoposti, finché, con le leggi del 1649, i contadini furono ridotti allo status di bene materiale. Secondo queste leggi, il contadino non aveva alcun diritto di lasciare le terre del signore e poteva essere trasferito da una tenuta all'altra come fosse un oggetto di proprietà. Il contadino, cui era negato il pieno possesso di proprietà personali, fu lasciato del tutto privo di mezzi legali che lo proteggessero dalla volontà del suo signore.
Sotto Caterina la Grande la servitù divenne più oppressiva che mai e fu introdotta in regioni dove precedentemente era sconosciuta. In Russia la monarchia e la nobiltà collaborarono all'assoggettamento dei contadini, finché lo stesso zar decise di intervenire in loro favore: Alessandro II, soprattutto per raisons d'État, temendo che il paese fosse sull'orlo di un collasso politico dopo la sconfitta subita nella guerra di Crimea, promosse, nel 1861, l'emancipazione contadina.
Nell'Europa occidentale l'emancipazione dei contadini prese le mosse dalla Rivoluzione francese, al cui successo avevano contribuito anche i contadini: i numerosi attacchi alle corti e ai castelli che ebbero luogo durante la grande peur accelerarono in effetti la fine dell'ancien régime. Entro il luglio del 1793 tutti gli obblighi feudali erano stati aboliti senza indennità. In quanto rivoluzione borghese, la Rivoluzione francese rafforzò la posizione delle varie classi di proprietari terrieri, contadini o borghesi che fossero. Nel Dipartimento del Nord furono tolte al clero le sue proprietà, che nel 1789 coprivano il 20% dell'intera zona. Entro il 1802 le terre appartenenti all'aristocrazia scesero dal 22 al 12% del totale; quelle appartenenti alla borghesia passarono dal 16 al 28%; quelle appartenenti ai contadini dal 3 al 42%.
In Francia la fine del feudalesimo promosse l'integrazione dei contadini nella vita economica, sociale e infine politica della nazione: fu un lungo processo di sviluppo, contrassegnato da eventi quali l'introduzione della leva per tutti i cittadini, la costruzione di ferrovie, l'inizio delle migrazioni dalle campagne verso le città industriali in espansione, la costituzione di un sistema scolastico nazionale e la diffusione dell'alfabetismo.
La Rivoluzione francese e l'esercito napoleonico contribuirono in modo determinante a diffondere in tutta Europa l'impulso a favore dell'emancipazione. Le sconfitte inflittele dalle armate imperiali indussero la Prussia a varare il decreto del 1807: "A partire dal giorno della festa di san Martino del 1810 in tutti i nostri domini cesserà ogni forma residua di servitù e da allora in poi nei nostri territori non vi saranno che uomini liberi". Ma il processo di emancipazione si protrasse ancora a lungo, condizionato da altri fattori, probabilmente più importanti. La conservazione e il rafforzamento del potere e dell'autorità del sovrano ebbero - secondo J. Blum - un'importanza notevole nel determinare la fine dell'ancien régime: "Gli sforzi del potere centrale per migliorare la condizione ed elevare lo status dei contadini avevano avuto un'importanza cruciale nella lotta per la supremazia tra la monarchia assoluta e la nobiltà. Con le riforme che infine liberarono i contadini dalla servitù, accordando loro l'uguaglianza civile rispetto agli altri strati della società, l'assolutismo monarchico trionfò per l'ultima volta sulla nobiltà, conseguì il suo ultimo grande risultato" (v. Blum, 1978, p. 373).
Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II tentarono entrambi di ottenere un miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, ma, come nel caso dei monarchi prussiani, con risultati deludenti. L'imperatrice si rendeva conto che il benessere della classe contadina, che costituiva la fonte primaria delle tasse e dei reclutamenti militari, era di somma importanza per lo Stato. Emanò, quindi, decreti che stabilivano il limite massimo degli obblighi dei contadini verso i loro signori (v. Macartney, 1969). Le riforme di Giuseppe II si spinsero in qualche modo ancora più in là, sebbene, come sostiene Macartney, non oltre l'istituzione di una condizione di moderato assoggettamento ereditario. Le sue riforme suscitarono violente opposizioni; fu per questo che l'emancipazione non fu concessa in Austria fino al 1848 e in Ungheria fino al 1853.
In Prussia occorsero 43 anni per completare la legislazione inerente all'emancipazione. Oltre al decreto del 1807, furono approvati due altri importanti decreti nel 1811 e nel 1850. La lungaggine di questa vicenda legislativa fu dovuta non solo alle resistenze della nobiltà, ma anche alla complessità delle questioni sul tappeto: non si trattava solo di legiferare circa una società contadina non omogenea (la maggior parte delle riforme non prevedeva la concessione di terre ai senza terra), né si trattava semplicemente di eliminare delle servitù e di decidere le forme di indennità, ma si trattava anche di ristabilire i diritti della comunità di villaggio in modo da rendere possibile un'agricoltura razionale. I proprietari terrieri prussiani guadagnarono forse un milione di ettari di terra in seguito al processo di emancipazione, poiché le famiglie che lavoravano piccoli appezzamenti, e quindi non erano impegnate a tempo pieno, andarono a ingrossare le file del proletariato delle nuove città industriali. Comunque l'intensificazione su larga scala della coltivazione, che accompagnò l'emancipazione, permise a un numero maggiore di persone di vivere dei proventi della terra (v. Lütge, 1963, pp. 169-259, e 1966³, pp. 433-455).
Dubbi sull'efficienza economica dell'ordine feudale nel suo complesso erano stati espressi da cameralisti come J. H. von Justi, da sostenitori dei fisiocrati come il margravio Carlo Federico di Baden e, soprattutto, dai molti convertiti alle teorie di Adam Smith (v. Gagliardo, 1969, pp. 35-41 e 123-135). Nella commissione che si occupò dell'emancipazione in Prussia si affermarono due partiti. Il primo aveva come grande obiettivo l'istituzione della più assoluta libertà di scambio, sia riguardo alle terre sia riguardo alla manodopera, e i suoi fautori non erano turbati dalla prospettiva che grandi imprese a forte intensità di capitale, ampliate a danno delle terre dei contadini, diventassero il mezzo di sfruttamento prevalente. I membri della fazione opposta temevano il caos sociale che sarebbe seguito a un'applicazione incondizionata del laissez faire. Essi volevano mantenere intatte le basi sociali e la forza militare della monarchia prussiana, e si assunsero il ruolo di difensori delle tenute contadine. Nelle regioni tedesche della Gutsherrschaft, durante il XIX secolo, le proprietà contadine riuscirono a competere con quelle degli Junker. Dopo l'emancipazione le terre erano in prevalenza di proprietà dei contadini nelle regioni più densamente colonizzate della Gutsherrschaft.
In Russia, anche dopo aver ottenuto l'emancipazione, i contadini si videro negati molti diritti civili. Non venne loro concesso il diritto al possesso della terra: questa restava di proprietà comune e il contadino, in quanto appartenente a una famiglia e alla comunità (appartenenza cui non poteva rinunciare), riceveva un lotto di terra e con esso l'obbligo di pagare le tasse. Perché nessuno sfuggisse alla ripartizione di questo gravame, il mir limitava la libertà di movimento individuale. Furono varate leggi a vantaggio dei proprietari terrieri, mentre le terre coltivate dai contadini spesso erano di dimensioni insufficienti a dar lavoro a tempo pieno a una famiglia. L'emancipazione lasciò il mondo contadino russo impreparato a una forma modernizzata e progredita di azienda familiare (cfr. Gerschenkron, in Postan, 1966-1978, vol. VI, pp. 706-800). Dovevano passare più di quattro decenni prima che le riforme di Pëtr A. Stolypin promuovessero, tra il 1906 e il 1911, un'integrazione più completa dei contadini nella vita economica e civile di una nazione in via di industrializzazione.
All'emancipazione si accompagnò una notevole inversione di tendenza nel giudizio della società sui contadini, giudizio che aveva raggiunto livelli bassissimi nei secoli XVI e XVII, durante i quali i contadini erano stati considerati, e spesso trattati, come una via di mezzo fra le bestie e l'uomo. Attraverso l'emancipazione e i suoi effetti collaterali i contadini furono integrati nell'ideologia dello Stato nazionale moderno, nel cui ambito costituirono spesso un baluardo del conservatorismo. In quanto custodi della lingua e dei costumi nazionali, specialmente nei territori dell'Europa orientale, i contadini si accattivarono le simpatie dei nazionalisti e dei romantici, benché, in pratica, il loro ingresso nella vita politica sia stato tardivo e limitato. Per i populisti i contadini rappresentavano la chiave per accedere a un futuro che non sarebbe stato né capitalista né socialista.
Dal 1300 fino al 1750 circa la popolazione dell'Europa occidentale aveva oscillato approssimativamente tra i 25 e i 40 milioni di abitanti, facendo registrare andamenti analoghi nei vari paesi.Verso la fine del XVIII secolo incominciò a manifestarsi un aumento della popolazione: l'inizio del processo oggi noto come 'transizione demografica', che portò le popolazioni di tutti gli Stati europei al di là dei più alti livelli raggiunti nei secoli precedenti. Associato all'industrializzazione e alla modernizzazione dell'Europa, che ebbero luogo qualche tempo dopo, l'incremento demografico creò il problema di sfamare un maggior numero di persone, con una maggiore varietà di prodotti e in corrispondenza del più alto tenore di vita mai conosciuto. Il problema fu fronteggiato, da una parte, promuovendo l'ammodernamento dell'economia agricola, nei suoi aspetti tecnici, organizzativi, finanziari, ecc. - un processo che, a seconda che sia stato compiuto tempestivamente o con ritardo, influenzò moltissimo le condizioni di vita delle popolazioni agricole delle diverse nazioni - dall'altra, importando prodotti agricoli dal Nuovo Mondo, con il risultato di esporre i contadini emancipati alle conseguenze della fluttuazione dei prezzi agricoli in tutto il mondo. La politica agraria divenne quindi un problema importante e permanente nella vita politica di ogni nazione, e lo è tuttora.
L'aumento della pressione demografica portò al diffondersi di forme intensive di coltivazione, sviluppate su scala familiare nelle Fiandre durante i secoli XV e XVI, e quindi adattate a un'agricoltura su più vasta scala in Inghilterra nei secoli XVII e XVIII. Caratteristiche fondamentali del sistema erano la particolare cura riservata alla coltivazione e l'abbondante concimazione del terreno, associata allo stallaggio del bestiame e all'impiego del bottino. Una maggiore concentrazione di bestiame fu possibile grazie alla riduzione o all'eliminazione del maggese, seguita all'introduzione delle radici commestibili e del foraggio artificiale. Gli investimenti supplementari risultarono remunerativi, vista l'intensa produzione, per i mercati urbani, non solo di prodotti orticoli e zootecnici, ma anche di colture industriali, la cui lavorazione, a sua volta, creò posti di lavoro (v. Lefebvre, 1924).
Le conseguenze sociali ed economiche dell'aumento della popolazione e della diversificazione agricola furono diverse. La provincia olandese di Overijssel ci fornisce alcuni dati significativi. Tra il 1602 e il periodo napoleonico la popolazione agraria aumentò del 62%, le aree arabili del 35%. Tuttavia il numero delle aziende familiari aumentò solo del 24%, mentre crebbe notevolmente il numero delle aziende troppo piccole per consentire l'impiego a tempo pieno di un'unità familiare: fra il 1602 e il 1795 aumentarono dall'1 al 18% del totale (v. Slicher van Bath, 1960). Da queste cifre emergono le caratteristiche fondamentali della struttura agraria che caratterizzò la maggior parte dell'Europa alla fine del XIX secolo e nel XX, e che diede origine ai principali problemi sociali delle zone agricole. Si moltiplicarono le aziende familiari, che divennero oggetto di particolari attenzioni da parte dei politici conservatori, accanto a un gruppo di aziende marginali, spesso con specifiche caratteristiche regionali, e a una schiera di braccianti, che diedero vita alla prima migrazione verso i centri industriali insieme agli individui più facoltosi delle zone agrarie. Questi ultimi spesso usavano la proprietà di famiglia come base di lancio per le loro carriere cittadine. Un'ulteriore pressione economica si venne a creare nelle campagne con la penetrazione di beni industriali a buon mercato, che ebbe l'effetto di distruggere i mezzi di sussistenza di molti artigiani rurali. In due aree, e precisamente in Svizzera e nel Baden Württemberg, questo processo di 'disindustrializzazione' dell'economia rurale fu attivamente ostacolato e infine invertito con il diffondersi di attività industriali nelle zone agricole: così nacquero alcune delle aree più intraprendenti ed economicamente più prospere dell'Europa contemporanea. Altre aree, quali la Danimarca e l'Olanda, ammodernarono le loro strutture agricole in modo da trarre profitto dall'espansione del commercio internazionale, dovuta alla crescita delle metropoli. Ma rimasero delle zone che avevano poco in comune sia con le aree in cui l'agricoltura era basata sull'azienda familiare, sia con le aree delle grandi aziende capitalistiche, per esempio intorno a Parigi e a est dell'Elba (nella Germania di Bismarck). Nella Spagna e nell'Italia meridionali, in Polonia, in Ungheria e in Romania i latifondi, lavorati da braccianti occasionali, continuarono a esistere accanto a una moltitudine di piccole proprietà impoverite. Queste zone finirono per subire in pieno l'impatto della transizione demografica anche per l'assenza di cambiamenti di rilievo nelle tecniche agricole o nei comportamenti sociali. Esse divennero le regioni arretrate dell'Europa, in cui la povertà agricola diventò endemica e le emigrazioni - soprattutto verso le Americhe - rappresentarono l'unica soluzione possibile per milioni di persone. Queste strutture agrarie non riformate influenzarono negativamente l'evoluzione politica e sociale dei nuovi Stati nazionali ben oltre gli inizi del XX secolo.
Le nazioni occidentali avevano registrato una diminuzione del numero dei residenti nelle campagne a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, ma il processo si accelerò enormemente dopo il 1945, allorché il fenomeno dell'urbanesimo raggiunse il suo massimo storico.
Lo squilibrio venutosi a creare fra popolazione urbana e popolazione rurale impose all'attenzione delle classi politiche dei vari paesi europei il problema di ristrutturare l'economia contadina, ossia il problema di inserire la classe contadina in un'economia industriale avanzata.
La fisionomia di una classe contadina moderna era stata discussa a lungo e la sua formazione era stata prevista da molto tempo, ma una soluzione definitiva della questione si è raggiunta solo dopo la seconda guerra mondiale.
L'obiettivo principale era la ristrutturazione dell'azienda agricola a conduzione familiare, fulcro dell'economia e della società contadina, in quanto unità produttiva e unità sociale. I più energici difensori dell'azienda agricola a conduzione familiare riconobbero che la sua sopravvivenza e la sua modernizzazione dipendevano, fra l'altro, dalla meccanizzazione, volta ad accrescerne la produttività. Questo processo avrebbe però inevitabilmente comportato la diminuzione del numero di queste aziende. Nel 1950 uno dei primi studiosi a prevedere tali fenomeni, René Colson, sosteneva che dovessero scomparire almeno un milione di aziende perché le rimanenti potessero essere meccanizzate e potessero fornire alle famiglie che vi lavoravano un livello di vita accettabile. La tesi di Colson era condivisa da René Dumont (v., 1956), mentre alcuni dirigenti di aziende agricole nutrivano dubbi sul fatto che questa fosse una ricetta valida per conservare l'azienda a struttura familiare. In effetti gli interventi riconosciuti necessari e quindi attuati si rivelarono più complessi di una semplice meccanizzazione, e conseguente decimazione, di aziende agricole.
A partire dalla metà degli anni sessanta il destino dei contadini europei è stato tracciato nell'ambito della politica agricola della CEE. L'art. 39 del Trattato di Roma, firmato nel 1957, esponeva gli obiettivi di questa politica, e cioè: incremento della produzione agricola; stabilizzazione dei mercati; garanzia di rifornimenti regolari e di prezzi ragionevoli al consumo; aumento dei guadagni degli addetti all'agricoltura. I programmi di sostegno dei prezzi della Politica Agricola Comune, oltre a favorire gli agricoltori più grandi e più ricchi della Comunità, hanno determinato la produzione di ingenti surplus agricoli che, quando sono stati venduti sottocosto sul mercato mondiale, hanno aggravato le difficoltà economiche dei paesi del Terzo Mondo. D'altronde le politiche strutturali della Comunità, che suscitarono proteste allorché furono annunciate per la prima volta nel 1968 come Piano Mansholt, non hanno fatto altro che facilitare ciò che era inevitabile. Il Piano si prefiggeva l'obiettivo dell'abbandono dell'attività agricola da parte di 5 milioni di persone nel corso degli anni settanta (a quell'epoca non ci si era resi conto che molti avevano già lasciato la campagna nel decennio precedente). Esso puntava alla creazione di grandi aziende familiari moderne, capaci di impiegare l'equivalente di due unità lavorative a tempo pieno e di assicurare redditi paragonabili a quelli ottenibili nelle imprese urbane. Per ampliare le tenute fino alle dimensioni previste si incentivò il ritiro dall'attività degli agricoltori anziani e di quelli marginali.
Tra il 1966 e il 1983 il numero degli addetti all'agricoltura nella originaria Comunità dei Sei è diminuito del 49%. La dimensione media dell'azienda è salita da 10,1 a 12,1 ettari, con un incremento di quasi il 20%. Purtuttavia 30 milioni di ettari di terra coltivabile, pari al 35% dell'area totale, sono rimasti a far parte di aziende di meno di 20 ettari, cioè al di sotto del minimo considerato vitale dall'originario Piano Mansholt.Il grosso della forza lavoro attiva nel settore agricolo è tuttora costituito dalla forza lavoro familiare, benché la percentuale dei figli sia diminuita.Nel 1954, in Francia, dei 5 milioni di attivi in agricoltura il 21% era costituito da manodopera salariata; i membri della famiglia rappresentavano il 42% e i capi d'azienda il 37%. Nel 1975 il numero degli attivi era sceso a 2 milioni; la percentuale dei lavoratori salariati era sempre del 20%, quella dei collaboratori appartenenti alla famiglia era scesa al 25% e quella dei capi era salita al 55%. Complessivamente l'80% della forza lavoro attiva era formata da capi famiglia e da membri delle rispettive famiglie.
Nella Germania Federale, verso la metà degli anni ottanta, l'88% della forza lavoro attiva era forza lavoro familiare, il 57% della quale prestava la propria opera in poderi di meno di 20 ettari, ma quel che più conta è che anche il 57% della manodopera salariata lavorava in imprese di meno di 20 ettari. Le piccole proprietà, pur essendo molte meno di una volta, rappresentano ancora una porzione notevole del totale delle aziende, così come occupano una parte notevole delle terre coltivate: il 49% delle aziende è costituito da tenute che vanno da 1 a 10 ettari e rappresentano il 12% delle aree coltivate. Le proprietà comprese fra 10 e 20 ettari costituiscono il 22% del totale e coprono il 19% delle aree coltivate, mentre quelle di oltre 50 ettari costituiscono il 5,5% del totale e coprono il 25% delle aree coltivate. In breve la piccola unità familiare è ancora una tipica caratteristica dell'agricoltura europea.
Questi puri dati numerici nascondono il fatto che l'attuale società contadina è formata da categorie socioeconomiche molto diverse fra loro, emerse dalle classi contadine del passato. Lasciando da parte le grandi aziende capitalistiche, si possono distinguere oggi cinque tipi di aziende familiari.
1. Al livello più alto si situano le aziende familiari più grandi, più moderne e a uso più intensivo di capitale, guidate da un capo esperto di contabilità, capace di servirsi di computer, molto preparato professionalmente. Il capo d'azienda moderno di solito non assume una forza lavoro salariata permanente: aiutato in maggiore o minor misura dalla moglie, svolge egli stesso la maggior parte del lavoro, avvalendosi di macchinari ed, eventualmente, dei servizi offerti da organizzazioni di mutua assistenza di cui sia membro; il bestiame riveste un ruolo importante nell'economia di queste aziende. Il titolare di questo tipo di azienda vive meglio dei suoi antenati, perché ha notevolmente accresciuto le dimensioni dell'impresa (fondata dai suoi genitori o da quelli di sua moglie), anche indebitandosi, e ha intensificato la coltivazione; inoltre egli gode delle agevolazioni e delle sovvenzioni previste dalla Politica Agricola Comunitaria: i Guarantee funds of the Community (FEOGA), provvedendo a un massiccio sostegno dei prezzi, gli garantiscono redditi elevati.
2. Al livello immediatamente inferiore rispetto alla moderna azienda familiare a tempo pieno si colloca l'azienda familiare marginale, il cui capo dovrebbe realizzare gli stessi standard commerciali raggiunti dal suo più fortunato 'collega', ma non vi riesce perché la sua azienda è troppo piccola, le sue capacità organizzative sono un po' carenti, la sua preparazione professionale non è abbastanza elevata, la sua scelta dei prodotti non è in linea con le tendenze del mercato e l'ubicazione della sua tenuta non è fra le migliori; anche la sua età può costituire un fattore negativo. La soglia della marginalità tende a salire col passar del tempo, estromettendo migliaia di addetti dal settore agricolo o relegandoli fra i lavoratori a tempo parziale.
3. L'azienda a tempo parziale, una volta così caratteristica dell'agricoltura tedesca e svizzera, è diventata una realtà diffusa in tutta la Comunità e anche nell'Europa orientale. Il capo famiglia vi lavora durante i fine settimana, per integrare i redditi derivantigli dalla sua attività principale nel settore industriale, mentre sua moglie bada alla terra e agli animali quotidianamente. In alcuni casi il capo famiglia è diventato imprenditore e ha fondato una fabbrica propria. Questa penetrazione dell'industria nella campagna ha prodotto alcune delle più solide economie rurali del mondo, con elevati livelli di vita, un buon sistema scolastico, un buon contesto culturale e ampie possibilità di successo per le persone capaci, in un ambiente che resta rurale e largamente intatto.
4. L'azienda del quarto tipo può essere facilmente confusa con quella a tempo parziale, in quanto è di piccole dimensioni e il suo capo può anche svolgere un'attività lavorativa al di fuori del settore agricolo, per esempio in campo turistico. La vera natura di questo tipo di azienda è rivelata dall'età (avanzata) dell'agricoltore e di sua moglie, dall'assenza di giovani e dal fatto che vi si pratica ancora la policoltura, una forma di coltivazione decisamente non moderna. Si tratta, sostanzialmente, di 'aziende di pensionati', che costituiscono una fonte di, sia pur limitata, sicurezza psicologica ed economica per persone che hanno trascorso tutta la vita nell'agricoltura e che non possono o non vogliono trasferirsi in città. Spesso l'attività dell'azienda cessa con la morte del titolare, perché gli eventuali eredi non intendono proseguirla, anche se si rifiutano di vendere la proprietà (questo atteggiamento ostacola notevolmente il processo di razionalizzazione dell'agricoltura). Nell'ambito della Comunità gli agricoltori di più di 65 anni sono il 21%; essi controllano il 21% di tutte le aziende e il 13% dell'area coltivabile totale. Sinora il programma volto a incoraggiare la cessazione dell'attività agricola da parte degli anziani e a ridistribuire le loro terre fra imprenditori più giovani e dinamici ha dato scarsi risultati.
5. Nascosto fra le statistiche convenzionali, che si limitano a rilevare le dimensioni delle aziende, c'è un ultimo gruppo di aziende, che, per quanto poco estese, tuttavia impiegano ingenti capitali e danno lavoro a tempo pieno a tutta la famiglia nonché a lavoratori esterni. Si tratta di aziende agricole specializzate che traggono vantaggio dalla propria posizione particolarmente favorevole e dal fatto di produrre per un mercato volto a soddisfare i gusti più dispendiosi dei consumatori.Quest'ultima tipologia esaurisce il panorama delle aziende che compongono la 'comunità' contadina europea occidentale.
Ciò che ha veramente contraddistinto i contadini dell'Europa meridionale rispetto agli altri contadini europei è stata la presenza, nel cuore stesso della loro comunità, di un proletariato numeroso e permanente; questa peculiarità va aggiunta agli altri tratti distintivi tradizionali: colture e tecniche agrarie tipiche, particolarità del suolo e del clima, impiego sistematico dell'irrigazione. Questi elementi, uniti ad altri fattori - uno sconcertante apparato di affitti e subaffitti, una perpetua carenza di capitali, una disperata ricerca di terre da parte di una popolazione in aumento - hanno creato un legame tra strutture agrarie e interessi di classe, che ha influenzato tutto il processo di integrazione nazionale, essendo stato sfruttato, in particolare, per destabilizzare le nascenti democrazie parlamentari e per favorire l'affermarsi di regimi fascisti. Questo legame non poté certo essere spezzato quando la contrazione del commercio internazionale costrinse ad adottare politiche autarchiche; esso è stato finalmente incrinato quando prima l'Italia e poi la Spagna e il Portogallo sono state coinvolte nella divisione internazionale del lavoro, nel dopoguerra, e quando è iniziato il massiccio esodo dalle campagne.
In Spagna la riforma agraria ha seguito tre direttrici distinte, ma raramente efficaci: la bonifica (e qualche volta la colonizzazione), che si sperava avrebbe migliorato la produttività senza alterare la distribuzione delle proprietà; il miglioramento dei sistemi di affitto iniqui nei distretti caratterizzati da poderi piccolissimi, come la Galizia; l'adozione di una nuova legislazione del lavoro nelle zone dei latifondi, dove scioperi periodici, sollevazioni e l'occupazione temporanea delle terre avevano suscitato nei grandi proprietari terrieri il timore crescente di una rivoluzione contadina. Verso la metà degli anni trenta la disoccupazione nel settore agricolo raggiunse il livello di mezzo milione di unità. I politici della Seconda Repubblica risposero con una legislazione che interferiva con il funzionamento del mercato del lavoro agricolo e introduceva nuove incongruenze e nuovi abusi. Nel 1932 fu approvato un disegno di legge di riforma agraria, frutto di compromessi fra interessi contrastanti. La sua applicazione fu in un primo tempo ostacolata da un governo di destra e poi realizzata sotto il governo del Fronte Popolare. Sempre più in fermento, i contadini costituirono un proprio esercito forte di 60.000 uomini e occuparono oltre 3.000 proprietà nella provincia di Badajoz tre mesi prima della sollevazione militare. Avvenimenti del genere rafforzarono l'appoggio dato ai franchisti dalle classi dei proprietari terrieri.In Italia le grandi masse di lavoratori senza terra erano confinate principalmente, anche se non esclusivamente, nelle regioni meridionali. Durante la prima guerra mondiale i politici avevano promesso ai contadini un miglioramento delle loro condizioni, a malapena avviato nell'immediato dopoguerra, ma sotto Mussolini il potere fu ripreso dalle classi dei proprietari terrieri. I programmi di bonifica, benché largamente pubblicizzati, interessarono un numero relativamente basso di famiglie. Le politiche autarchiche, per esempio la battaglia del grano, dominavano il panorama degli interventi nel settore agrario. Cartelli favoriti dal regime controllavano il prezzo degli inputs necessari alla modernizzazione dell'agricoltura, prefigurando situazioni destinate a divenire comuni nei paesi del Terzo Mondo dopo la guerra. Come in Spagna anche in Italia, nelle zone dei latifondi, i contadini erano in fermento; ma due fattori impedirono che si giungesse a una ribellione su vasta scala: da una parte l'enorme varietà di condizioni agrarie nella penisola, con i contrasti fra Nord e Sud e quelli all'interno delle due ripartizioni geografiche, dall'altra l'acquisizione di terre da parte delle piccole imprese familiari.
Per vedere la luce il programma italiano di riforma agraria dovette attendere la formazione di un governo democratico cristiano nel secondo dopoguerra e l'inizio di un'epoca di liberalizzazione del commercio e dell'economia. Il suo impatto fu diverso a seconda delle zone geografiche, dei settori sociali e, secondo alcuni, anche dei settori elettorali. Quali che fossero i risultati cui mirava e quelli che effettivamente raggiunse, la riforma italiana risultò battuta in partenza in quanto era anacronistica: quando venne completata i presupposti sui quali si fondava non avevano ormai alcuna importanza; l'espansione industriale del Nord, la massiccia emigrazione dal Sud, la domanda di manodopera sui mercati comunitari avevano alterato radicalmente la situazione.I contadini mediterranei si trovarono ad affrontare circostanze del tutto nuove: dovevano soddisfare le richieste di un mercato comune di merci agricole. Per essere competitivi si doveva superare decisamente il regime di semisussistenza. All'interno della stessa società rurale non tutti i gruppi dimostrarono la stessa capacità di far fronte ai cambiamenti; alcune regioni si trovavano in posizione più favorevole delle altre. I vecchi problemi agrari non sono mai stati risolti; sono semplicemente caduti in prescrizione o sono stati riclassificati come problemi regionali. Sono stati sostituiti da problemi diversi e più urgenti. Le zone di montagna si sono spopolate, quelle di collina hanno perso intere famiglie di agricoltori, guadagnando, in cambio, turisti e ricchi cittadini in cerca di residenze estive. Le pianure sono diventate il centro della modernizzazione. In poco più di due decenni si è registrato un tasso di mutamento senza precedenti. Anche quando sono misurati con gli indici più grossolani, i cambiamenti risultano enormi. Nel 1970 l'output lordo per ettaro e il capitale investito per ettaro, calcolati a prezzi costanti, avevano superato nell'Italia meridionale i valori raggiunti nel 1950 nell'Italia nordoccidentale, allora come oggi l'area italiana più produttiva dal punto di vista agricolo. L'Italia insulare si stava avvicinando agli stessi livelli. Tra il 1951 e il 1970 l'Italia nordoccidentale, da parte sua, aveva incrementato il suo output lordo per ettaro del 70%, triplicato l'input di capitale e ridotto l'input di manodopera per ettaro del 59%. Ma nessun indice quantitativo rende altrettanto bene l'idea dei mutamenti avvenuti quanto queste parole di P. Sylos Labini: "Sessant'anni fa [...] per Gramsci la 'questione contadina' era la questione centrale per il Mezzogiorno. [Oggi] la questione contadina è stata in gran parte risolta, non tanto a causa delle trasformazioni agrarie e del miglioramento delle condizioni economiche e sociali di chi vive in agricoltura, quanto con la scomparsa di buona parte dei contadini" (L'evoluzione economica del Mezzogiorno negli ultimi trent'anni, in "Studi SVIMEZ", 1985, XXXVIII, 1, pp. 5-25).
Dopo la prima guerra mondiale i leaders politici degli Stati dell'Europa orientale dovettero affrontare il duplice compito di realizzare l'integrazione economica nazionale e di tener testa a una rivoluzione sociale di origine agraria. I reduci di guerra e i membri delle classi impoverite dalla guerra avevano dato vita a un movimento di espropriazione delle grandi proprietà terriere, alcune delle quali appartenevano a cittadini stranieri. I dirigenti politici si posero alla guida di questo movimento dandogli come obiettivo una serie di ampie riforme agrarie, allo scopo di evitare una rivoluzione politica.
Oltre 10 milioni di ettari di terre coltivabili, l'equivalente di tutta l'area coltivabile dell'Inghilterra e del Galles, vennero ridistribuiti nel periodo fra le due guerre, nell'intento di fondare la base sociale dei nuovi Stati democratici. I partiti contadini diventarono rapidamente importanti nella vita politica e alcuni dei loro dirigenti divennero figure di spicco a livello nazionale e persino internazionale. Tuttavia questi partiti erano destinati a impegnarsi in manovre parlamentari anziché nella creazione di un solido movimento rurale capace di concepire e di realizzare un programma di sviluppo nazionale; di conseguenza i loro dirigenti finirono col trovarsi coinvolti in conflitti regionali, religiosi e nazionalistici, conflitti che vanificarono i loro sforzi e portarono alla trasformazione dei sistemi parlamentari in regimi dispotici. Spossessati delle loro terre, i precedenti proprietari terrieri sciamarono verso le capitali, andando a rafforzare la base sociale dei movimenti militaristi e fascisti, che misero in prigione o mandarono in esilio molti dirigenti dei partiti contadini. Le pesanti tasse pagate dai contadini, su cui finì per concentrarsi la pressione fiscale, servivano per finanziare grandi apparati burocratici e militari. Lo Stato, divenuto un importante operatore economico, favorì la borghesia nazionale proteggendone gli investimenti finanziati con capitale internazionale. Le capitali delle nuove nazioni si disinteressarono sempre più dei problemi dei contadini, e questo atteggiamento rafforzò il risentimento viscerale che i contadini nutrivano nei confronti dei capitalisti, della finanza internazionale, delle città e delle loro classi marginali. In particolare queste ultime risultavano composte da figli di contadini, immigrati nelle città, che ritornavano nelle circoscrizioni rurali come piccoli funzionari oppressivi, gendarmi e soldati.
La speranza suscitata dai programmi populisti, che si potesse giungere a una soluzione dei problemi dei contadini evitando gli aspetti peggiori del capitalismo e del socialismo, andò delusa, in quanto basata sul presupposto erroneo che il villaggio come unità sociale e il mondo contadino nel suo complesso fossero economicamente e socialmente omogenei. Al contrario, come ha sostenuto J. Tomasevich (v., 1955, p. 258), la differenziazione economica e sociale all'interno del villaggio e fra i contadini era profonda e, soprattutto, tendeva ad accentuarsi di anno in anno. Tomasevich ha effettuato un'analisi socioeconomica dettagliata del mondo contadino iugoslavo nel periodo compreso fra le due guerre mondiali (nelle stesse condizioni dei contadini iugoslavi versavano quelli di quasi tutti i paesi dell'Europa orientale, eccettuata l'Ungheria). Attraverso la sua analisi Tomasevich ha individuato due gruppi principali di famiglie contadine. Al primo gruppo appartenevano le famiglie proprietarie di aziende abbastanza grandi (per quei tempi) da offrire lavoro a tutti i membri della famiglia nonché i generi necessari al loro sostentamento (consumati direttamente o scambiati con altri prodotti). Queste famiglie costituivano il 30% di tutte le famiglie contadine e controllavano il 49% delle terre, suddivise in proprietà che andavano dai 5 ai 20 ettari. Al secondo gruppo appartenevano le famiglie i cui poderi non erano abbastanza grandi da garantire il lavoro a tempo pieno o di che vivere a tutti i loro membri. Questo gruppo possedeva il 64% delle aziende agricole e il 28% dell'area coltivabile. In condizioni ancora più disperate versava il 10% della popolazione contadina, costituita dai senza terra (ibid., pp. 392-397). Poiché il 23% della terra restava suddiviso in tenute di oltre 20 ettari, si giunse a pensare che la miseria dei senza terra e dei piccoli e piccolissimi proprietari potesse essere alleviata tramite un'ulteriore ridistribuzione delle terre. Questa prospettiva suscitò lo spettro di una struttura agraria dominata da proprietà marginali e perciò inadatta a costituire la base di un'economia consona alle potenzialità delle tecnologie agricole moderne. Si andava facendo strada la consapevolezza del fatto che, oltre un certo punto, le riforme agrarie, di per sé, erano inutili. Come scrisse un economista polacco, "il problema generale della sovrappopolazione rurale può essere risolto definitivamente soltanto con un'industrializzazione molto rapida della Polonia" (v. Jalowiecki, 1938).
Quando i comunisti presero il controllo dell'Europa orientale, nel 1948, la soluzione consistente in una rapida industrializzazione fu adottata in pieno.In Russia la rapida industrializzazione sovietica aveva portato alla decimazione della classe dei kulaki (i contadini benestanti), mentre quasi tutti i contadini erano stati ridotti al rango di lavoratori agricoli cui era concessa soltanto una quota residuale del reddito del collettivo. La situazione non migliorò fino all'epoca di Brežnev, quando ai membri del collettivo fu garantito un sia pur minimo salario. La produzione familiare su piccola scala, tuttavia, non scomparve mai dalla campagna russa. La concessione di piccoli appezzamenti privati ai contadini dei kolchoz, nonché del diritto di pascolare gli armenti sulle terre del collettivo, stimolò la produzione di prodotti caseari, frutta e ortaggi da parte del settore privato.
Questo modello misto, in cui la collettivizzazione su larga scala non escludeva la presenza di un settore privato specializzato nella produzione di particolari prodotti, è stato adottato da quasi tutti i paesi a guida comunista. Ma in due democrazie popolari, la Iugoslavia e, soprattutto, la Polonia, una consistente classe contadina è sopravvissuta all'industrializzazione dell'economia e alla socializzazione dei mezzi di produzione. L'esperienza polacca è forse la più interessante.
La Polonia che uscì dal disastro della seconda guerra mondiale era un paese quasi interamente cattolico e largamente contadino, due caratteristiche che portarono Gomułka a respingere una collettivizzazione su vasta scala come presupposto per realizzare il socialismo nel paese. La collettivizzazione fu però introdotta dagli stalinisti dopo il 1948, per poi essere abbandonata nel 1956, quando Gomułka tornò al potere. Un'indagine condotta nei territori riconquistati tra i contadini che avevano ripreso a praticare l'agricoltura privata ha rivelato le ragioni essenziali del loro rifiuto della collettivizzazione: la cattiva organizzazione dell'azienda, la trascuratezza nel lavoro, i conflitti tra membri della stessa famiglia dovuti al fatto che spesso i ruoli in ambito lavorativo non coincidevano con quelli in ambito familiare, le dimensioni troppo ampie delle aziende in rapporto alla manodopera disponibile. Ma soprattutto i contadini polacchi ritenevano che l'impresa privata garantisse un grado più elevato di sicurezza personale e che il miglioramento delle condizioni individuali fosse possibile solo nell'ambito di un sistema di aziende private.
Pur ritornati all'attività privata, i contadini polacchi subirono un inarrestabile processo di modernizzazione, molto simile a quello che si stava verificando nell'Europa occidentale. Una massiccia ondata migratoria di contadini diretti verso le nuove città industriali in cerca di lavoro determinò un'alterazione della struttura demografica della popolazione rurale, che finì per risultare composta in prevalenza da vecchi, bambini e donne, tranne in quelle regioni dove divenne possibile il lavoro agricolo a tempo parziale e dove, quindi, si formò una vasta classe di lavoratori-contadini, malvisti dal regime. Nelle campagne il tenore di vita si elevò, ma mai abbastanza da annullare le differenze tra popolazione urbana e popolazione rurale. In realtà il regime ignorava le esigenze produttive e sociali dei contadini, il cui malcontento, sfociando nel mancato rifornimento di carne alle città, determinò tumulti che culminarono nella rivolta del Baltico del 1970. Gierek cercò di correggere i difetti della politica economica del partito nei confronti del settore agricolo privato, sopprimendo le quote statali sui prezzi fissi e promettendo di migliorare i rifornimenti di derrate agricole. Egli si rendeva anche conto che la popolazione rurale era svantaggiata, rispetto a quella urbana, sotto il profilo dell'assistenza sanitaria, dell'assistenza agli anziani, dell'assistenza all'infanzia, delle strutture scolastiche, ma la sua amministrazione non riuscì mai a superare la ripugnanza del comunismo e l'ambiguità della politica comunista nei confronti dell'attività agricola privata (in fondo tale politica prevedeva l'eliminazione di ogni attività privata). Nel 1980 scoppiarono nuovi tumulti e l'anno dopo fece la sua comparsa il movimento Solidarietà rurale, i cui dirigenti chiesero una serie di garanzie a tutela della proprietà privata e della sua ereditabilità. Inoltre essi chiesero la restituzione dei terreni confiscati dallo Stato, la soppressione delle restrizioni sulla compravendita dei terreni agricoli privati, un maggiore e migliore rifornimento di carburante, macchinari, materiali da costruzione e inputs agricoli, la concessione di crediti da parte dello Stato, una maggiore partecipazione a tutti i livelli di governo - locale, regionale e centrale - e il diritto di mantenere un sistema di autogoverno. Infine essi posero la questione del riconoscimento del loro status storico. L'agricoltura - sostenevano - è un'occupazione antica, indissolubilmente legata alla storia e alla sopravvivenza della nazione e dello Stato: si trattava di una concezione del mondo contadino che era stata espressa spesso in molte società occidentali prima e dopo la guerra (v. Ash, 1983, pp. 110-134).
Contrariamente all'Europa, dove ormai la classe contadina si è enormemente ridotta sia in termini percentuali sia in termini assoluti, nel Terzo Mondo i contadini costituiscono ancora la principale categoria sociale e il loro numero è destinato a crescere ulteriormente nel corso del prossimo secolo. Naturalmente i contadini del Terzo Mondo non costituiscono una classe omogenea, indifferenziata, e tuttavia condividono un insieme di caratteristiche - destinate anche a ripercuotersi sul loro futuro - che li distinguono dai contadini del passato.
Diversamente dai contadini europei, quelli del Terzo Mondo devono adattarsi a un tasso di incremento demografico senza precedenti nella storia dell'umanità, particolarmente accentuato nelle campagne. Per fortuna la diffusione della medicina moderna è stata accompagnata dalla diffusione di tecniche di coltivazione moderne, sicché, se si esclude il caso dell'Africa, la produzione alimentare ha tenuto il passo della crescita demografica. Le tecniche di recupero e di sfruttamento intensivo dei terreni hanno determinato un aumento della produzione complessiva e della produzione per unità di area. Tuttavia la vittoria nella battaglia della produzione è stata spesso ottenuta a prezzo di una crescente sperequazione sociale, determinata, fondamentalmente, dalla caduta della produttività marginale del lavoro. In tutta l'Asia il valore del lavoro è diminuito rispetto al valore dei generi alimentari.In un primo momento gli unici a trarre vantaggio dalla rivoluzione verde sono stati gli agricoltori più abbienti; col passare del tempo, però, le innovazioni tecnologiche si sono rivelate un fattore neutrale rispetto alla ricchezza. Ma anche quando persino i contadini più poveri hanno adottato le nuove tecniche, il rapido incremento della popolazione ha portato al proliferare di aziende irrimediabilmente troppo piccole e al moltiplicarsi dei lavoratori senza terra. Si è calcolato che in Indonesia la popolazione impiegata nel settore primario sia diminuita dal 74 al 56% fra il 1961 e il 1980; tuttavia un quarto dei 20 milioni di famiglie contadine era senza terra e il 70% di quelle che avevano accesso a un qualche appezzamento coltivava meno di 1 ettaro di terreno; il 45% coltivava meno di mezzo ettaro.
L'accentuarsi delle sperequazioni sociali nelle campagne è dipeso anche dai programmi di sviluppo tesi a favorire il progresso delle città, adottati dalle classi dirigenti di queste 'nazioni contadine' con l'intento di modernizzare la società. Per promuovere l'industrializzazione si è imposta una sostituzione delle importazioni che contrastava con gli interessi economici dei contadini, mentre favoriva, spesso, i proprietari terrieri e le cerchie clientelari dei vari esponenti politici. Solo pochi paesi, da considerarsi casi eccezionali, hanno attuato programmi di riforma agraria radicali e coronati da successo, riuscendo a realizzare un'equa distribuzione delle terre dei latifondisti fra i contadini, accompagnata da un'accettabile distribuzione del reddito. Questi paesi, in particolare la Corea del Sud, governata da militari di origine contadina, e Taiwan, hanno adottato programmi di industrializzazione basati sulle esportazioni. Ciò non solo ha prodotto una ricchezza che consente di sostenere il settore agricolo, ma ha anche ridotto il numero degli agricoltori a livelli paragonabili a quelli dell'Europa occidentale negli anni cinquanta.Altri paesi asiatici non sono progrediti altrettanto. In India la stessa struttura agraria costituiva un ostacolo politico alla riforma. La numerosa e politicamente influente classe dei piccoli proprietari terrieri, che cedevano in affitto la terra ed erano i principali datori di lavoro del villaggio, controllava i voti dai quali dipendeva il Partito del Congresso. Perciò "il [Partito del] Congresso sosteneva sia la spinta a realizzare la riforma agraria sia l'opposizione a essa, come una testa socialista con un corpo conservatore" (v. Warriner, 1969, p. 139). Oggi l'India rurale presenta grandi contrasti tra lo sviluppo del Panjab, dove anche i molto poveri vivono un po' meglio, e la media e la bassa pianura del Gange, dove, in termini reali, i salari dei lavoratori agricoli giornalieri hanno subito un ristagno o sono crollati. Nelle condizioni semifeudali del Bihar i grandi proprietari terrieri, che hanno rafforzato la propria posizione, sfruttano mezzadri e braccianti in un clima di violenza crescente (v. Étienne, 1985).
Nelle Filippine il progresso della riforma agraria è stato intermittente e insufficiente a porre termine alla rivolta contadina, mentre la comparsa dell'agribusiness ha condotto a un deterioramento dei livelli di vita di alcune classi rurali. I più recenti ritrovati della rivoluzione verde, per esempio la semina diretta e gli erbicidi chimici, comportano, secondo alcuni esperti, un minor impiego di manodopera rispetto alle tecnologie iniziali.Secondo Y. Hayami, l'Asia rischia di avviarsi verso una stagnazione ricardiana, con un decremento delle entrate dei lavoratori fino a livelli minimi di sussistenza, mentre tutto il surplus economico verrà raccolto dai proprietari terrieri aumentando gli affitti dei terreni. Un futuro un po' più roseo dipenderà, sempre secondo Hayami, dalla capacità della comunità di villaggio di creare nuove istituzioni in grado di effettuare un'efficace allocazione delle risorse, tenuto conto della crescente scarsità di terra rispetto all'offerta di manodopera (v. Hayami, 1981, pp. 11-63). La comunità di villaggio asiatica deve contribuire alla formazione di una classe contadina moderna, svolgendo un ruolo più importante di quello svolto dalla comunità di villaggio europea in uno stadio di sviluppo analogo. In Asia esiste una tradizione secondo cui anche i senza terra hanno un certo diritto di sfruttarla e di goderne i frutti. La possibilità che nelle campagne dell'Asia si mantenga una certa pace dipenderà dal modo in cui la comunità riuscirà a tener testa alle pressioni esercitate dai sempre più numerosi contadini senza terra, attraverso la creazione di apposite istituzioni. Fra lo Stato e i contadini asiatici si sono stabilite quelle interdipendenze che ne caratterizzano il rapporto anche in Europa. Tuttavia, diversamente dal suo omologo europeo degli anni cinquanta, lo Stato asiatico, con l'accentuarsi delle sperequazioni economiche e sociali, deve, nello stesso tempo, fronteggiare il massiccio flusso migratorio dei contadini verso le industrie delle città e occuparsi dell'incremento demografico nelle campagne. Perciò la dipendenza dello Stato dalla comunità di villaggio, incaricata di attuare la riforma, sarà sempre maggiore.
Gli esperimenti di riforma agraria socialisti hanno dato risultati eterogenei.I comunisti cinesi hanno dimostrato che era possibile dare a una rivoluzione una base nelle campagne, purché l'avanzata degli eserciti rivoluzionari fosse accompagnata da programmi di distribuzione delle terre. In un primo momento i Cinesi hanno fatto grandi progressi con i loro piani e molte delle loro conquiste nella sfera sociale si sono rivelate durature, ma la collettivizzazione si fondava sull'esortazione anziché su incentivi materiali, per cui, alla fine, il Partito è stato costretto a reinstaurare un sistema agrario di ispirazione individualistica, basato sull'iniziativa dell'impresa privata familiare. Lo Stato è rimasto responsabile dell'approvvigionamento di inputs non tradizionali, necessari alla produzione di raccolti più grandi. Nel 1983 i fertilizzanti chimici rappresentavano la metà di tutti i fertilizzanti impiegati e in cinque anni il loro quantitativo è raddoppiato. L'area irrigata è raddoppiata tra il 1952 e il 1978, la percentuale di terra lavorata con moderni mezzi meccanici è oggi pari al 25%. La motorizzazione dell'agricoltura ha proceduto rapidamente dall'inizio degli anni settanta. Sono comparse le prime sperequazioni sociali fra la popolazione rurale.Il XIX secolo è stato il periodo della liberazione nazionale in America Latina, ma al processo di fondazione dello Stato nazionale non ha corrisposto un processo di integrazione della nazione. Nelle aree rurali il potere politico è sempre rimasto associato alla proprietà terriera. In Messico, dopo un'ennesima alienazione di terre indie da parte delle nuove classi dirigenti, si è cercato di attuare l'integrazione nazionale mediante un movimento agrario che restituiva la terra ai coltivatori, ma la speranza riposta dai riformatori nell'organizzazione comunitaria indigena dell'ejido non è mai stata pienamente realizzata. Altrove il potere dei latifondisti non è stato minimamente intaccato dalla riforma agraria fino al dopoguerra. I latifondi, coltivati estensivamente da una classe di lavoratori dipendenti, con le stesse tecniche arcaiche che impiegavano per coltivare i propri minuscoli poderi, costituivano la base di un'economia rurale largamente non monetizzata, che presentava le caratteristiche di una società semifeudale in decomposizione, isolata, sotto tutti gli aspetti, dalle élites dell'economia industriale emergente.
Queste élites "fanno del dualismo sociale e del mantenimento degli anacronismi del latifondo uno degli strumenti della loro politica di sviluppo economico e sociale" (v. Lambert, 1963, p. 109). I programmi di industrializzazione sono stati basati sulla sostituzione dell'import, un sistema che favorisce lo sviluppo ma non crea posti di lavoro. Imprese agricole ad alta intensità di capitale, destinate a produrre per l'export, hanno offerto possibilità di lavoro extra a migliaia di contadini sottoccupati. I conflitti all'interno delle varie élites - sfociati nell'espropriazione di alcuni grandi proprietari terrieri - e le occupazioni spontanee delle tenute da parte delle classi lavoratrici dipendenti hanno portato a una ridistribuzione delle terre. Ma la campagna resta ancora carente di infrastrutture e segnata da disparità sociali sempre più accentuate, basate in gran parte sulle differenti possibilità di accesso al lavoro e alla terra. (V. anche Agricoltura; Coltivatori, società di; Economia e politica agraria; Industrializzazione; Latifondo; Servaggio; Società contadine; Sottosviluppo).
Abel, W., Agrarkrisen und Agrarkonjunktur: eine Geschichte der Land- und Ernährungswirtschaft Mitteleuropas seit dem hohen Mittelalter, Berlin 1935, Hamburg-Berlin 1978³ (tr. it.: Congiuntura agraria e crisi agraria: storia dell'agricoltura e della produzione alimentare nell'Europa centrale dal XIII secolo all'età industriale, Torino 1977).
Abel, W., Geschichte der deutschen Landwirtschaft vom frühen Mittelalter bis zum 19. Jahrhundert, Stuttgart 1967, 1978².
Ash, T.G., The Polish revolution: Solidarity 1980-1982, London 1983.
Augé-Laribé, M., La révolution agricole, Paris 1955.
Ban, S.W. e altri, Rural development: studies in the modernization of the Republic of South Corea, Cambridge, Mass., 1980.
Bandini, M., Cento anni di storia agraria italiana, Roma 1957.
Bloch, M., Les caractères originaux de l'histoire rurale française, Oslo 1931 (tr. it.: I caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973).
Blum, J., Noble landowners and agriculture in Austria, 1815-1848: a study in the origins of the peasant emancipation of 1848, Baltimore 1948.
Blum, J., Lord and peasant in Russia, from the ninth to the nineteenth century, Princeton 1961.
Blum, J., The end of the old order in rural Europe, Princeton 1978.
Blum, J. (a cura di), Our forgotten past: seven centuries of life on the land, London 1982.
Bois, G., Crise du féodalisme: économie rurale et démographie en Normandie orientale du début du XIVe siècle au milieu du XVIe siècle, Paris 1976.
Caballero, J.M., Agriculture and the peasantry under industrialization pressures: lessons from the Peruvian experience, in "Latin American research", 1984, XIX, 2, pp. 3-41.
Čajanov, A.V., Organizacija Krest'janskogo chozjajstva, Moskva 1925.
Cole, J.W., Wolf, E., The hidden frontier: ecology and ethnicity in an Alpine valley, New York 1974.
Deenen, B. van e altri (a cura di), Lebensverhältnisse in kleinbauerlichen Dörfen 1952-1972, Münster 1975.
Deenen, B. van e altri (a cura di), Materialien zur Arbeitswirtschaft, Bonn 1984.
Doehaerd, R., Le haut Moyen-âge occidental: économies et sociétés, Paris 1977.
Duby, G., L'économie rurale et la vie des campagnes dans l'Occident médiéval: France, Angleterre, Empire, IXe-XVe siècle, Paris 1962 (tr. it.: L'economia rurale nell'Europa medievale: Francia, Inghilterra, Impero, secoli IX-XV, Bari 1966).
Duby, G., Les trois ordres ou l'imaginaire du féodalisme, Paris 1978 (tr. it.: Lo specchio del feudalesimo: sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Roma-Bari 1980).
Duby, G., Wallon, A. (a cura di), Histoire de la France rurale, 4 voll., Paris 1975-1977.
Dumont, R., Voyage en France d'un agronome, Paris 1956.
Étienne, G., Évolution de la production vivrière dans l'Inde contemporaine, in "Études rurales", 1985, XXV, 99-100, pp. 73-85.
Franklin, S.H., The European peasantry: the final phase, London 1969.
Franklin, S.H., Rural societies, London 1971.
Franz, G., Geschichte des deutschen Bauernstandes vom frühen Mittelalter bis zum 19. Jahrhundert, Stuttgart 1970.
Gagliardo, J.C., From pariah to patriot: the changing image of the German peasant, 1770-1840, Lexington, Ken., 1969.
Glick, T.F., Islamic and Christian Spain in the Early Middle Ages, Princeton 1979.
Goubert, P., La vie quotidienne des paysans français au XVIIe siècle, Paris 1982.
Hallstein, W., Allocution, in Recueil des documents de la Conférence agricole des États membres de la CEE, Stresa 1958, pp. 19-35.
Hayami, Y., Asian village economy at the crossroads: an economic approach to institutional change, Tokyo 1981.
Herlihy, D., Medieval households, Cambridge, Mass., 1985 (tr. it.: La famiglia nel Medioevo, Roma 1989).
Hilton, R., Bond men made free: medieval peasant movements and the English rising of 1381, London 1973.
Jalowiecki, A., The population question and agriculture in Poland, in "International review of agriculture", 1938, pp. 359-369.
Kieniewicz, S., The emancipation of the Polish peasantry, Chicago 1969.
Lamartine Yates, P., Mexico's agricultural dilemma, Tucson 1981.
Lambert, J., Amerique Latine, Paris 1963.
Lefebvre, G., Les paysans du Nord pendant la Révolution française, 2 voll., Paris-Lille 1924.
Le Roy Ladurie, E., Les masses profondes: la paysannerie, in Histoire économique et sociale de la France (a cura di F. Braudel ed E. Labrousse), vol. I, De 1450 à 1660, t. 2, Paysannerie et croissance, Paris 1977, pp. 483-865.
Lütge, F., Deutsche Sozial- und Wirtschaftsgeschichte: ein Überblick, Berlin 1952, 1966³.
Lütge, F., Geschichte der deutschen Agrarverfassung vom frühen Mittelalter bis zum 19. Jahrhundert, Stuttgart 1963.
Luzzatto, G., Storia economica d'Italia. I. L'antichità e il Medioevo, Roma 1949.
Macartney, C.A., The Habsburg empire: 1790-1918, New York 1969 (tr. it.: L'impero degli Asburgo: 1790-1918, Milano 1976).
Mack Smith, D. e altri, A history of Sicily, London 1986 (tr. it.: Breve storia della Sicilia, Roma-Bari 1987).
Mendras, H., La fin des paysans: innovations et changement dans l'agriculture française, Paris 1967.
Perkins, D., Yusuf, S., Rural development in China, Baltimore 1984.
Postan, M. M. (a cura di), The Cambridge economic history of Europe, 7 voll., Cambridge 1966-1978 (tr. it.: Storia economica Cambridge, 7 voll., Torino 1974-1980).
Röhm, H., Soziale Bestimmungsgründe für die Entwicklung der landwirtschaftlichen Betriebsgrössen und der ländlichen Arbeitsverfassungen, in "Agrarwirtschaft", n. speciale 13, 1961, pp. 92-113.
Sereni, E., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961.
Shanin, T. (a cura di), Peasants and peasant societies, New York 1987².
Slicher van Bath, B.H., De agrarische geschiedenis van West Europa: 500-1850, Utrecht 1960 (tr. it.: Storia agraria dell'Europa occidentale: 500-1850, Torino 1972).
Sugar, P.F., South-eastern Europe under Ottoman rule: 1354-1804, Seattle 1977.
Thompson, E.A., The early Germans, London 1965 (tr. it.: Una cultura barbarica: i Germani, Roma-Bari 1976).
Thorner, D., Peasantry, in International encyclopaedia of the social sciences, vol. XI, New York 1968, pp. 503-511.
Tomasevich, J., Peasants, politics and economic change in Yugoslavia, Stanford 1955.
Turowski, J., Szwengrub, L.M. (a cura di), Rural social change in Poland, Wrocław 1976.
Turski, R. (a cura di), Les transformations de la campagne polonaise, Wrocław 1970.
Villari, R., Mezzogiorno e contadini nell'età moderna, Bari 1961.
Volin, L., A century of Russian agriculture: from Alexander II to Khrushchev, Cambridge, Mass., 1970.
Wallace-Hadrill, J.M., The barbarian West: 400-1000, London 1967.
Warriner, D., The economics of peasant farming, London 1964.
Warriner, D., Land reform in principle and practice, Oxford 1969.
Wolf, E., Peasants, Englewood Cliffs, N.J., 1966.
Wright, W.E., Serf, seigneur, and sovereign: agrarian reform in eighteenth-century Bohemia, Minneapolis 1966.