Coscienza
di Hans Wagner, Donald O. Hebb, Carlo Loeb
COSCIENZA
Coscienza
di Hans Wagner
sommario: 1. Introduzione. 2. Le difficoltà specifiche della teoria della coscienza: a) difficoltà dovute alla pluralità dei metodi; b) difficoltà dovute alla specifica struttura della coscienza; c) principali problemi e controversie. 3. Passi verso la soluzione dei problemi principali: a) la funzione biologica della coscienza; b) la struttura della coscienza non mentale degli animalli; c) l'unità psicofisica e la totalità degli esseri viventi; d) conscio, inconscio, subconscio. 4. La coscienza mentale: a) le quattro capacità fondamentali della coscienza mentale; b) l'uomo tra coscienza non mentale e coscienza mentale. 5. La coscienza collettiva. 6. Due problemi specificamente filosofici intorno alla coscienza. 7. Osservazione conclusiva. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Una trattazione del problema della coscienza che rispecchi lo stato odierno della ricerca scientifica deve senza dubbio essere centrata sugli aspetti filosofici. Deve però, nello stesso tempo, misurarsi anche con la natura peculiare e i risultati principali dello studio psicologico della coscienza. E siccome in definitiva la coscienza, almeno nella misura in cui è accessibile alla nostra esperienza, è sempre associata a un organismo, dalla cui esistenza l'esistenza della coscienza dipende, ma il cui comportamento è in larga misura diretto e determinato dalla coscienza, una trattazione di quest'ultima deve tener conto anche della natura peculiare e dei risultati principali delle discipline che studiano la coscienza in una prospettiva oggettivizzante e, per così dire, nei suoi aspetti esterni: la fisiologia, la biologia, lo studio del comportamento, la psichiatria (inclusa la psicanalisi).
La necessità di riunire i risultati principali di campi così diversi della ricerca scientifica pone alla trattazione della ‛coscienza' un problema oltremodo difficile.
2. Le difficoltà specifiche della teoria della coscienza
a) Difficoltà dovute alla pluralità dei metodi
Infatti, non è assolutamente possibile sommare semplicemente quei risultati: anzi, tra di essi esiste da sempre, e ancor oggi continua, un certo conflitto, che appare talvolta assai grave. La ragione di ciò è da cercare in certi fatti e sviluppi relativi alla storia della filosofia e delle scienze, ma in ultima analisi risale a un fondamentale contrasto di metodi. E noto che quasi sempre, quando conflitti tra posizioni teoriche si basano su una fondamentale concorrenza di metodi contrapposti, ci troviamo di fronte a un conflitto tra posizioni metafisiche, ideologiche, a un conflitto tra concezioni del mondo. E appunto riguardo alla coscienza è sempre esistito un simile conflitto di ideologie e di concezioni del mondo: sono cioè sempre esistiti concetti di coscienza di impronta empiristica e razionalistica, realistica e idealistica, trascendentale e naturalistica, soggettivistica e oggettivistica, concetti orientati in senso religioso o in senso antireligioso. Ora, mentre per un lato bisogna lasciare aperta la questione di quanto uno studio complessivo della coscienza rispecchiante la pluralità dei metodi sia in grado, grazie ai loro risultati, di mitigare il conflitto delle ideologie e delle concezioni del mondo; dall'altro lato non c'è alcun dubbio che una trattazione adeguata del problema della coscienza deve prendere in considerazione non soltanto i risultati principali derivanti dai vari metodi e il conflitto, sotto certi aspetti rilevante, che tra essi si constata, ma deve anche caratterizzare brevemente i metodi sui quali i risultati si basano, e nello stesso tempo mettere in rilievo i contrasti metodologici che spiegano il conflitto dei risultati.
b) Difficoltà dovute alla specifica struttura della coscienza
La molteplicità dei metodi e i loro contrasti hanno la loro radice non solo nella diversità degli obiettivi a seconda dell'impostazione (filosofica, psicologica, fisiologica, ecc.) - e dunque all'interno dello stesso lavoro teoretico - ma anche, in buona parte, nell'effettiva struttura di quel singolare oggetto che è la ‛coscienza'. Questa struttura, opponendo difficoltà notevoli all'elaborazione teorica, è responsabile in non piccola misura della molteplicità dei metodi e dei loro contrasti. La caratteristica fondamentale di tale struttura della coscienza è ben nota: ovunque si presenti all'esperienza, la coscienza è sempre associata alla materia. Noi possiamo dire con tutta la possibile certezza empirica che esistono formazioni materiali sfornite di coscienza: nel campo organico appartengono a tale classe tutte le piante. Del tutto certo è anche che l'uomo è fornito di coscienza, e difficilmente si può dubitare che molte specie animali siano anch'esse fornite di coscienza.
Circa la coscienza umana, così come si presenta sia in generale sia negli individui, possiamo sapere molte cose, perché è la nostra propria coscienza. Ma ci imbattiamo subito in una difficoltà. A rigore, ciascun individuo sa qualcosa (certamente non tutto), in modo immediato, soltanto della propria coscienza; sapere qualcosa della coscienza di altri uomini è difficile e, seppure è possibile, lo è soltanto in modo assai mediato. La scienza ha trovato, è vero, il modo e i mezzi per acquisire, anche su un piano generale, conoscenze circa la coscienza umana; non si tratta affatto, però, di conoscenze immediate, ma di prodotti dell'elaborazione teorica e, in quanto tali, non scevri di quegli aspetti ipotetici che caratterizzano ogni elaborazione teorica che si basi su dati empirici.
Per quanto riguarda la coscienza animale, la situazione è ancor meno soddisfacente. Se difficilmente si può dubitare che nel regno animale la coscienza sia sempre meno sviluppata man mano che si scende verso ‛il basso', non sappiamo però se esista un confine oltre il quale la coscienza manchi del tutto e, ammesso che tale confine esista, dove occorra porlo. Abbiamo tutte le ragioni di supporre che, all'interno di quella parte del regno animale in cui la vita è associata alla coscienza, ci siano specie e gradi diversi di coscienza; ma neppure in un solo caso una data specie o un dato grado di coscienza ci sono noti in quanto tali: non possiamo andare al di là di ipotesi analogiche assai malcerte. Nei casi in cui abbiamo motivo di supporre, in certe specie animali, l'esistenza di singole operazioni della coscienza, superiori per un verso o per l'altro alle operazioni della coscienza umana, non possiamo farcene alcuna rappresentazione positiva; e quando abbiamo motivo di ritenere la coscienza animale, per un verso o per l'altro, inferiore, non possiamo fare altro che ricorrere all'analogia con la coscienza umana, immaginando la coscienza animale come, per così dire, una varietà difettosa di quella umana (il che è destinato a rimanere abbastanza vago). Questi dati strutturali basilari della coscienza animale costituiscono la ragione del fatto che la psicologia animale (e la psicologia animale comparata), i cui inizi avevano suscitato grandi speranze, da lungo tempo non progredisce nel modo sperato. E se negli ultimi decenni la psicologia è spesso diventata (anche se per fortuna non in modo esclusivo) teoria e studio del comportamento, la cosa dipende certo, per la psicologia umana, dall'inclinazione odierna verso il neopositivismo; ma, nel campo della psicologia animale trova il suo solido fondamento nei dati strutturali della coscienza animale: gli animali non ci dicono nulla; non ci è possibile scrutare nella loro coscienza; possiamo però osservare quel che ha effetto su di essi (sulla loro presumibile coscienza) e il modo in cui (sempre in base alla loro presumibile coscienza) si comportano. Possiamo così osservare, ad esempio, l'acquisizione di un mutamento (miglioramento) di comportamento di fronte a una certa situazione data, fenomeno che viene denominato, con un termine diventato oggi abituale, apprendimento; possiamo accertare che (qualcosa) è stato ‛appreso' e che cosa è stato ‛appreso': rimane però fuori dell'osservazione il come è stato ‛appreso', almeno finché si suppone, nel processo di apprendimento, l'esistenza di un qualche processo di coscienza. Se la psicologia animale diventa quindi studio del comportamento, una tale scelta è più o meno obbligata; un vero comportamentismo, invece, si dà solo nel caso in cui la psicologia umana si esaurisca, in modo analogo, nello studio del comportamento (v. psicologia del comportamento).
Esiste un'altra difficoltà, altrettanto fondamentale, in cui s'imbatte lo studio della coscienza, e dovuta anch'essa all'effettiva struttura della coscienza; e anche in questo caso non possiamo immaginare alcun progresso scientifico che sia in grado di eliminarla completamente. Consiste nel fatto che la coscienza, se è vero che non è un dato materiale (fisico, chimico o simili), dipende però in modo decisivo, come risulta da tutta la nostra esperienza, da dati materiali (fisici, chimici e simili): si trova associata a organismi viventi, e il corso della sua vita è determinato in modo decisivo, dall'inizio alla fine, dalla vita e dal destino dell'organismo, del quale è appunto la coscienza. E come la struttura dell'organismo, al quale appartiene, è un prodotto della filogenesi (dell'evoluzione della relativa specie), così anche la struttura della coscienza è un prodotto di un'analoga filogenesi (anche se estremamente difficile da illuminare). Nell'uno e nell'altro caso si pone subito, naturalmente, l'ulteriore difficile questione del come nell'individuo singolo (sia nella sfera della coscienza sia in quella somatica) si delimitino reciprocamente da un lato l'eredità filogenetica e dall'altro l'unicità, vale a dire ciò che non è nè ereditato nè ereditabile. Vediamo qui contemporaneamente in azione le due leggi seguenti: a) come nella sfera somatica così anche in quella della coscienza la struttura di base passa identica da una generazione alla successiva; b) in ogni individuo la coscienza incomincia da zero, cosicché i genitori non possono dargli nulla del loro sapere e delle loro esperienze, e allo stesso modo l'individuo nulla può trasmettere ai suoi discendenti: con la sua morte, il suo sapere e le sue esperienze vanno definitivamente perdute.
c) Principali problemi e controversie
Se poniamo da una parte la non-materialità della coscienza e dall'altra il suo essere associata alla materia, questa duplicità reca con sé una serie di difficili problemi, il primo dei quali riguarda questa duplicità stessa: non è forse essa una mera apparenza? Non deve forse risolversi in una mera apparenza? Possono davvero i due dati essere pensati come reciprocamente compatibili? È del tutto naturale che un simile problema abbia suscitato, e tuttora susciti, posizioni contrapposte. Tra queste annoveriamo anzitutto quelle che vogliono, più o meno, spiegare la duplicità come una mera apparenza, e a tal fine indeboliscono o eliminano l'uno o l'altro lato del rapporto. Per poter negare l'associazione della coscienza con la materia, si può negare in modo più o meno radicale la realtà materiale (varie forme di spiritualismo e di idealismo); oppure si può tentare, all'inverso, di negare la non-materialità della coscienza, concependo quindi quest'ultima come un mero epifenomeno o come una mera funzione di processi materiali (fisici, chimici, ecc.), soprattutto di quelli cerebrali (materialismo di vecchio e nuovo stampo). Si deve certo all'eccezionale difficoltà del problema se sono emerse siffatte posizioni, più o meno estreme, se sopravvivono in questa o quella forma modificata e raffinata, e infine se il contrasto tra di esse dura tuttora. Se, invece, consideriamo la duplicità non già come una mera apparenza, ma come una duplicità reale, ci troviamo dinanzi a problemi non minori. Come potremo infatti venirne a capo? L'impostazione più decisa e radicale sfocia in un rigoroso dualismo: la duplicità dei dati viene riconosciuta senza riserve. Scompare però in tal modo ogni vera possibilità di riconoscere, tra i due dati, rapporti reali (unilaterali o reciproci): anche il fondamentale rapporto della coscienza con l'organismo cui è associata, testimoniato da tutta l'esperienza, diventa incomprensibile e deve di conseguenza essere negato. Di fronte a un risultato teoricamente così insoddisfacente, si comprende come di rado l'impostazione dualistica sia stata sostenuta nella sua forma rigorosa. Volendo evitare il dualismo, ma volendo d'altra parte rendere giustizia alla duplicità, ci sono tre tipi principali di approccio teorico alla soluzione del problema.
1. Siccome la fondamentale associazione di ogni tipo di coscienza con un organismo (alla quale non corrisponde un'associazione di tutte le specie di organismi con la coscienza) sembra essere un rapporto di dipendenza unilaterale, allora anche tutto ciò che accade nella coscienza di un individuo vivente potrebbe trovarsi in un nesso di causalità unilaterale (anche se difficilmente accertabile) con ciò che accade nell'organismo, e specialmente nel sistema nervoso periferico e centrale (soprattutto in quest'ultimo). È chiaro che una tale posizione non si distingue molto, nella pratica della ricerca, dalla suaccennata posizione di un materialismo più o meno monistico; rimane tuttavia altrettanto chiaro che nei principî teoretici delle due posizioni esistono differenze degne di nota, e soprattutto la seguente: la posizione di un nesso causale unilaterale può render giustizia alla duplicità fondamentale, almeno nel senso che è in grado di riconoscere e di tener ferme l'eterogeneità e la peculiarità basilari dei processi di coscienza (di fronte a tutti i processi materiali: fisici, chimici, ecc.).
2. Il nesso causale potrebbe essere reciproco: i processi materiali potrebbero cioè mettere in moto o produrre i processi della coscienza e viceversa (all'incirca come i processi ottici dalla periferia al centro ottico del cervello suscitano l'esperienza coscienziale della visione e, inversamente, il fatto coscienziale del desiderio di una delle mele che stanno sul tavolo dinanzi a me suscita il movimento fisico del braccio e della mano che afferra la mela). Questa seconda impostazione ha a suo favore soprattutto il fatto che sembra corrispondere completamente all'esperienza generale che gli uomini hanno quotidianamente di sé. Se tuttavia essa non è riuscita a trovare generale riconoscimento nell'elaborazione teorica della scienza e della filosofia, ciò si deve principalmente a una difficoltà teorica, la quale inerisce del resto anche alle suaccennate posizioni affermanti l'esistenza di un nesso causale unilaterale: come potremo immaginare la possibilità di un influsso causale di fattori e processi fisici su processi di coscienza, e di fattori e processi psichici su processi fisici?
3. La terza impostazione cerca appunto di evitare questa grave difficoltà. Mentre si riconosce non solo la duplicità fondamentale, ma si sottolinea altresì la peculiarità sia della sfera fisica che della coscienza, si nega la possibilità di un influsso causale, o anche solo funzionale, della sfera fisica sulla coscienza e viceversa. Ciò che si ammette è semplicemente un parallelismo più o meno completo tra i processi fisici e i processi di coscienza; per il lavoro di ricerca, questo significa che si auspica un sistema di coordinazioni tra classi determinate di processi fisici e classi determinate di esperienze coscienziali, sistema in cui il rapporto di coordinazione è da intendersi nel senso che ogni volta che nella sfera fisica si verifica l'accadimento A, nella sfera della coscienza si verifica l'accadimento B (la relazione non è necessariamente reciproca); e ogni volta che nella sfera della coscienza si verifica l'accadimento E, nella sfera fisica si verifica l'accadimento F (anche questa relazione non è necessariamente reciproca). Per la ricerca, questo approccio ‛parallelistico' è di grandissimo valore: proibendo, per la spiegazione di un fenomeno in una sfera, il ricorso a fattori e rapporti nell'altra, esso rimanda alla necessità di cercare la spiegazione, e quindi di promuovere la ricerca, in ciascuna delle due sfere: la necessità cioè di condurre innanzi la ricerca coordinando bensì le due sfere, ma in condizioni di autonomia e ‛purezza' metodologica.
Un'analisi più penetrante dell'approccio ‛parallelistico' richiama l'attenzione su un ulteriore problema fondamentale, un problema che, verosimilmente, è del tutto insolubile. Esso emerge soprattutto in relazione con il moderno studio macroscopico e microscopico del cervello: i sorprendenti progressi in questo settore rendono purtroppo il problema non già più facile, ma ancora più intricato. Noi conosciamo settori sempre più ampi del sistema delle coordinazioni - a livello macroscopico come a quello microscopico - tra il versante fisico e quello psichico dei processi vitali. Noi sappiamo sempre meglio quali siano le corrispondenze, sul versante fisico, dei fenomeni della vita cosciente, nei suoi aspetti normali e sani come in quelli anormali e morbosi; abbiamo imparato a influenzare, modificare e dirigere variamente la vita cosciente per il tramite di stimolazioni fisiche (chimiche, ecc.) del sistema nervoso centrale o periferico, e tutto questo, in parte, già nel corso di esperimenti che secondo ogni apparenza meritano fiducia. E in parte sulla base dei risultati di tali esperimenti, in parte anche grazie ai metodi statistici (dei quali in medicina non si può fare interamente a meno) abbiamo imparato - in modo certo non del tutto soddisfacente, ma tuttavia sorprendente - a contrapporre alle alterazioni e malattie della vita cosciente, attraverso interventi fisici (chimici, ecc.), una terapia in grado di lenire anche se non sempre di guarire (dalla neurochirurgia alla psicofarmacologia). Ma il problema suaccennato non è diventato di più facile soluzione in seguito a tutti questi progressi in fatto di conoscenze e di possibilità di intervento; non solo, ma esso, secondo ogni verosimiglianza, rimarrebbe parimenti insolubile anche se il sistema di coordinazioni tra il fisico e lo psichico, sinora noto solo in parte, ma che i progressi della ricerca chiariscono sempre meglio, finisse con l'essere svelato interamente. È vero che molti studiosi pensano, a questo proposito, esattamente il contrario; né questo è un caso, ma dipende anzi in buona parte dalla struttura metodologica, che necessariamente caratterizza questo tipo di ricerca, e che, altrettanto necessariamente, rende più difficile e oscura la valutazione e l'importanza dei risultati in riferimento al nostro problema fondamentale. Soltanto un'accurata analisi epistemologica può chiarire in qualche modo la situazione. Attraverso tale analisi scopriamo che l'approccio denominato, con cautela teoretica, ‛parallelistico' - il quale rende possibile e autorizza, sul piano epistemologico, tutta questa specie di ricerche - nell'effettiva pratica della ricerca non viene mantenuto nella sua purezza soggiacendo sempre di più all'‛ovvio' pericolo del riduzionismo: i fenomeni della coscienza, ‛secondo verità' e ‛secondo i risultati della scienza', non sarebbero nulla di diverso dalle loro corrispondenze sul versante fisico; e in vari casi questo modo di pensare riduzionistico va tanto oltre da esprimere la convinzione che i progressi (soprattutto a livello microscopico) nello studio del versante fisico saranno un giorno in grado di spiegare come prodotto (o mero fenomeno) di processi microfisici processi che ancora oggi riteniamo di spettanza della sfera psichica. Poiché la forza esplicativa delle scienze naturali è dovuta in larga misura al pensiero riduttivo, non c'è nulla di più ‛naturale' del pericolo di un siffatto riduzionismo. Ma non per questo esso è in alcun modo giustificato: la coscienza, con tutti i suoi fenomeni, ha una struttura categoriale peculiare, univocamente distinta dalla struttura categoriale dell'intera sfera fisica; e se è vero che questa differenza strutturale si concentra in un piccolo numero di differenze categoriali basilari, queste ultime non sono però passibili di alcuna specie di riduzione alla sfera fisica, la quale d'altro canto presenta almeno in parte una struttura esattamente opposta e contraria (per es. spazialità/aspazialità). È possibile naturalmente tentare, come è stato fatto recentemente (v. Dennett, 1969), di semplificare (apparentemente) il problema psicofisico attribuendo alla coscienza i caratteri, certo non fisici, del contenuto e dell'intenzionalità, e ammettendo anche l'irriducibilità, ma affermando nello stesso tempo che la differenza tra la coscienza e i processi fisici (nel sistema nervoso) è semplicemente una differenza tra due modi di interpretazione e di spiegazione (prima a livello personale e poi a livello subpersonale) - con la specificazione che il linguaggio col quale parliamo della coscienza non si riferisce in verità a nulla di reale (è non-referenziale). Questo tentativo di Dennett è ingegnoso, ma può sembrare riuscito soltanto a chi ignori quelle determinazioni fondamentali della coscienza, le quali non hanno - è vero - alcun punto di riferimento sul versante fisico, ma non possono averlo proprio perché costituiscono nella effettiva struttura della coscienza alcunché di completamente nuovo sul piano categoriale: entities che, sotto il profilo meramente fisico, non sono ‛nulla'. Questo tentativo, quindi, non fa che eludere il problema. Ma se il pensiero riduzionistico è in torto (e non può non esserlo), e se perciò non è possibile spiegare la peculiarità della coscienza attraverso lo studio del versante fisico, allora il problema risulta effettivamente insolubile: come potrebbero infatti due campi della realtà essere nello stesso tempo da un lato così diversi l'uno rispetto all'altro e dall'altro così strettamente associati?
Come si vede, dall'esame della ‛coscienza' scaturisce una quantità di problemi assai difficili. Si tratta, a quanto sembra, di problemi assolutamente basilari, che l'elaborazione teorica della scienza si trova di fronte già nel momento in cui comincia a occuparsi della questione; essi ineriscono evidentemente, per così dire, alla cosa stessa. Ma, in parte, i problemi sembrano derivare dall'elaborazione teorica della scienza, e più esattamente dalla situazione che si verifica inevitabilmente sul piano metodologico: dalla molteplicità dei metodi e dalla loro concorrenza. Ovunque si presentino difficoltà e problemi siffatti, e si rivelino ostinati, ci si aspetta non senza ragione - un certo aiuto da parte della filosofia. Senonché la filosofia non ha a disposizione alcun mezzo in grado di fornire un aiuto diretto: il suo unico contributo consiste in una certa analisi della situazione sotto il profilo ontologico come sotto quello metodologico. A tal fine essa ha a disposizione tre strumenti: in primo luogo l'analisi logico-formale delle diverse posizioni, delle relazioni logiche che intercorrono tra queste, come anche delle premesse e conseguenze associate logicamente alle posizioni (‛se vale la posizione P, allora da un lato deve sussistere questa o quella conseguenza'); in secondo luogo, l'analisi epistemologica e l'esame sia della struttura metodologica dei singoli indirizzi di ricerca sia delle relazioni intercorrenti tra le strutture metodologiche di tali indirizzi tra loro in concorrenza; in terzo luogo, infine, talune indicazioni (non in grado di condurre molto lontano), che può ricavare dai propri tentativi di vedere e di trattare, possibilmente, ogni singolo gruppo di problemi (come in questo caso i problemi della coscienza) nel quadro di una generale costruzione teoretica del mondo. La filosofia, poi, può oltrepassare, in varie direzioni e con esiti propri, i risultati derivanti dall'analisi, dall'esame e dalla comparazione delle conquiste delle singole scienze, ma in linea di principio non dispone che dei tre strumenti di lavoro menzionati.
3. Passi verso la soluzione dei problemi principali
a) La funzione biologica della coscienza
Indipendentemente dalla questione della misura in cui si possano o non si possano risolvere i problemi sopra indicati, bisogna ora tentare di sviluppare - appunto sul loro sfondo, sempre tenuto presente - una teoria della coscienza corrispondente all'odierno stadio della ricerca. Quanto segue valga come primo passo.
L'interrogativo cosmologico-cosmostorico circa l'origine della coscienza nel mondo è un interrogativo che non ammette risposta. Quello circa la funzione originaria della coscienza, al contrario, sembra ammettere una risposta chiara la quale, per essere fornita piuttosto dalle scienze empiriche che dalla filosofia, non per questo presenta minor interesse filosofico. Anticipando, il suo nocciolo è il seguente: come la dotazione somatica delle specie animali è comprensibile soltanto quando vien considerata come un meccanismo, acquisito filogeneticamente, avente lo scopo di assicurare la conservazione - più breve o più lunga, a seconda del tempo occorrente al raggiungimento della maturità riproduttiva - degli individui e della specie, allo stesso modo anche in quelle specie viventi che nella loro filogenesi hanno acquisito una qualche forma di coscienza, quest'ultima, originariamente, non serve a nient'altro che a un miglioramento del loro ‛adattamento', cioè alla necessaria conservazione degli individui e delle specie; essa rappresenta un'acquisizione biologica di importanza assolutamente straordinaria. Nel seguito utilizzeremo un frammento della corrente teoria dell'apprendimento, andando poi al di là di essa. Se un essere vivente (anche, ad esempio, un lombrico), quando giunge alla biforcazione di un tubo a T, svolta regolarmente non più a sinistra, dove viene colpito ogni volta da una scarica elettrica, bensì a destra, dove trova nutrimento e adeguata protezione, è perché deve avere ‛appreso' un tale comportamento. E, se lo ha appreso, ciò significa che, nel momento in cui giunge alla biforcazione, dispone di un qualcosa che de- termina la sua ‛scelta' nel senso per lui biologicamente favorevole. Ora, per biologicamente favorevoli che possano essere le condizioni dell'estremità destra del tubo, esse non possono, dato che non si verificano nel punto in cui l'animale si trova, determinare il suo comportamento. Così come la situazione è costruita, il suo comportamento (la svolta a destra) può essere determinato soltanto da qualcosa che ha luogo in quel dato momento ed è presente in lui stesso, e ciò perché ha compiuto (ripetutamente) le suddette esperienze. Il comportamento non è certo determinato da qualcosa che non ha luogo in quel dato momento, e non può perciò essere sperimentato, bensì da qualcosa che l'animale ha (temporalmente) dietro di sé, ma che è (ancora) operante in lui. Ora, per la nostra attuale riflessione è del tutto indifferente che, nel caso del nostro animale può trattarsi, come dicevamo, di un lombrico), si voglia vedere questo fattore in una condizione acquisita riguardante unicamente la sua dotazione fisiologica, ovvero si voglia attribuire al nostro animale una qualche forma di coscienza, sia pure povera e rudimentale. Il nostro attuale interrogativo è infatti limitato a quest'unico punto: quali sarebbero le conseguenze sul suo comportamento nella situazione data ‛se' il nostro animale facesse le proprie ‛esperienze' dotato di una qualche forma di coscienza. Ora: a) esso non avrebbe soltanto provato dolore o piacere, ma oltre a ciò avrebbe avuto in sé, nell'uno come nell'altro caso, una qualche ‛immagine' delle situazioni; b) potrebbe quindi (alla biforcazione) avere a disposizione riproduzioni di quelle ‛immagini'; c) mentre è impossibile che le condizioni che si verificano alle due estremità del tubo operino sull'animale al momento della svolta, ed è perciò impossibile che determinino la sua ‛scelta', questa potrebbe essere resa possibile dalle immagini riprodotte. Avremmo in realtà a che fare senz'altro con la funzionalità biologica della coscienza, ed è questo che qui ci interessa. E possiamo vedere subito che si tratta di una funzionalità di importanza rilevantissima, giacché l'‛apprendimento' (cioè l'acquisizione di un comportamento biologicamente funzionale), quando si tratta di un apprendimento attraverso la coscienza e per mezzo di 'immagini', risulta enormemente abbreviato e straordinariamente accelerato. E, nella stessa misura in cui si accelera l'apprendimento di qualche cosa, aumenta considerevolmente ciò che può venire appreso in un unità di tempo. Questo enorme guadagno (per così dire quantitativo) dal punto di vista della funzionalità si basa naturalmente sul fatto che si tratta in realtà di qualcosa di qualitativamente nuovo, della conquista di qualcosa di nuovo e di superiore sul piano categoriale.
Per grande che sia in un animale la differenza, anche dal punto di vista categoriale, tra il tipo di coscienza e il tipo di dotazione fisica (somatica), rimane però certo che per l'animale la funzione originaria della coscienza è quella di un ‛aiuto per la vita', di un enorme contributo all'attrezzatura biologicamente funzionale di quegli esseri viventi che ne siano diventati partecipi nel corso della loro filogenesi.
Nel seguito dovremo tenere continuamente presente il fatto che esiste da un lato la coscienza non mentale (degli animali) e dall'altro la coscienza mentale (degli uomini). Quest'ultima è contraddistinta da alcune caratteristiche categoriali nuove, sulle quali torneremo più tardi; in forza di tali caratteristiche la coscienza (umana) si apre a certi interessi ‛superiori', tali cioè da oltrepassare la cerchia dei meri interessi vitali degli individui e delle specie viventi. Questa circostanza non toglie però nulla al fatto fondamentale che la funzione originaria della coscienza nell'animale e nell'uomo rimane quella di essere, nell'accezione suindicata, un ‛aiuto per la vita'.
b) La struttura della coscienza non mentale degli animali
L'animale esiste nel mondo, nella luce e nel buio, sulla terra, nell'acqua e nell'aria, circondato da una materia organica e inorganica; vive di ciò che esiste nel mondo; dal mondo si procura, in modo più o meno attivo, ciò di cui ha bisogno. Nel mondo sperimenta il pericolo, ma trova anche protezione; subisce il mondo, ma contribuisce anche a formarlo, sia pure in minima parte. Questi processi sono in gran parte regolati ab antiquo dal patrimonio ereditario della specie, da meccanismi utili alla conservazione, sviluppati e sperimentati nella selezione, da riflessi e istinti. In tutto ciò la coscienza come tale non è in gioco. Ma non appena questa fa la sua comparsa, l'animale impara a distinguere le cose che sono nel mondo insieme con lui, e delle quali i suoi organi sensoriali gli forniscono una quantità di impressioni: oggetti, piante e animali del proprio ambiente, condizioni, avvenimenti, il luogo dove cerca e trova il cibo, il pascolo, i luoghi di cova, il rifugio invernale, la tana per la notte, il nido, ecc. Non si limita più a reagire agli stimoli fisici; possiede un frammento di coscienza di ciò che lo stimola e a cui reagisce, e ce l'ha, per così dire, dinanzi a sé nel proprio interno. Ha imparato a distinguere, ha in sé immagini, di tipo aspaziale, di ciò in cui si imbatte nel mondo spaziale.
Sono tre le acquisizioni decisive alle quali perviene in tal modo l'animale. Anzitutto, un enorme accrescimento dei contatti con il mondo circostante: anche ciò che è meno vicino spazialmente e, in generale, anche ciò che non può stimolare per via direttamente organica viene recepito insieme col resto; e anche dalla fonte di stimoli direttamente organici l'animale può ora recepire e distinguere, divenendone ‛cosciente', qualcosa di più dello stimolo stesso: nasce un intero mondo di sensazioni e di immagini. Se A. Gehlen (v., 1942) ha ragione, la quantità di immagini risultanti dai gradi superiori di coscienza conduce addirittura a un ‛inondazione di stimoli di proporzioni tali da rendere necessari meccanismi di sgravio per la coscienza. In secondo luogo, la coscienza è a un tempo coscienza in grado di conservare: si rende cioè possibile la riproduzione delle immagini. Diventa così disponibile per l'animale una parte dell'ambiente sempre più ampia di quella da cui proviene il singolo stimolo, e gli elementi di cui può disporre in questo modo sono non di rado più utili (per es. segnalando un pericolo incombente) di quelli che gli vengono sul momento da una data fonte esterna di stimoli. È così possibile raccogliere la propria ‛esperienza di vita', e accrescere e ampliare la propria capacità. In terzo luogo, diventa ora possibile una maniera di cercare e acquisire qualità idonee alla vita che risulta immensamente superiore a ogni procedimento non cosciente ‛per prove ed errori': l'animale è infatti in grado di trovare o di apprendere ciò di cui abbisogna nel momento in cui il bisogno si manifesta.
Tutto ciò è ancora e sempre limitato alle esigenze del padroneggiamento della vita e della conservazione dell'esistenza. E null'altro, propriamente, che il rovescio di questo fatto noi constatiamo quando possiamo osservare che quei processi vitali, per i quali la coscienza sarebbe superflua o addirittura un fattore di disturbo, di regola non sono accompagnati dalla coscienza.
L'esistenza degli animali dipende da un tale numero di condizioni esterne, sulle quali essi non hanno potere, che vivono sempre sotto una minaccia incombente, anche quando non si trovino in una condizione di bisogno o di pericolo: non possono perciò essere indifferenti verso il proprio ambiente. Questo non significa altro che essi sono necessariamente forniti di specifici impulsi e tendenze: nei confronti di ciò che può giovare come di ciò che è fonte di danno e di pericolo. Originariamente, tali impulsi e tendenze non hanno nulla a che fare con la coscienza; ma il campo di ciò che può costituire, in ogni singolo caso, il loro oggetto viene enormemente accresciuto dalla coscienza, con la sua sovrabbondanza di impressioni e di immagini. Ma non di mero accrescimento si tratta quanto piuttosto della nascita di una specie nuova di possibili mete degli stimoli, tali cioè che non possono operare direttamente, in quanto assenti momentaneamente dall'ambiente, ma che compaiono e motivano l'animale perché questi ne reca l'immagine in sé: gli impulsi nascono quindi dalle immagini interne. E nuovamente, se A. Gehlen ha ragione, il fatto che molte di tali immagini abbiano la forza di motivare e di suscitare impulsi provoca una tale abbondanza di impulsi mutevoli e spesso contraddittori, che si rendono necessarie nella coscienza stessa misure preventive di sgravio, le quali riducano l'eccesso degli impulsi a una quantità utile e sopportabile; in forza di tali misure, da un lato una gran parte degli impulsi deve diventare indifferente e priva di interesse, e dall'altro certe motivazioni debbono poter diventare dominanti (senza di che la domesticazione non sarebbe assolutamente possibile).
Con la coscienza entra nel mondo qualcosa di radicalmente (categorialmente) nuovo; questo qualcosa, se da una parte è associato all'organismo (e dunque alla materia e allo spazio), non è d'altra parte ad essi riconducibile: non è in sé nulla di materiale o di spaziale. Quest'asserzione, meramente negativa, potrebbe essere contestata da un punto di vista materialistico, se un'osservazione più ravvicinata della struttura categoriale della coscienza non rivelasse nuove caratteristiche, antitetiche a ogni elemento spaziale-materiale-organico. Di tali caratteristiche tratteremo ora brevemente.
Come ogni realtà, anche la coscienza è qualcosa di temporale-processuale; esiste nel tempo reale che la comprende, e solo in quanto soggetta a un mutamento incessante: l'espressione ‛flusso di coscienza' è quindi pienamente espressiva e del tutto legittima. La coscienza, però, è simultaneamente esperienza vissuta di temporalità, coscienza temporale, e ciò in modo, almeno in parte, assai autonomo. Noi non abbiamo un orologio interno, come ha detto una volta O. Bumke. La coscienza temporale è coscienza di un tempo e di un ritmo mutevoli: tempi oggettivamente eguali possono essere vissuti come notevolmente diseguali. Il flusso di coscienza ha, in parte, un proprio ritmo naturale ed endogeno (vivacità, stanchezza; veglia, sonno) e ha le proprie specifiche anomalie (sogno, ipnosi, allucinazioni) e forme morbose; e ha infine gradi variabili di chiarezza. Mentre in sé, come ogni realtà, la coscienza si muove nel tempo in modo rettilineo, nella sua intenzionalità essa si mantiene liberamente mobile - nei confronti del tempo oggettivo - tra il presente oggettivo, il passato oggettivo (memoria, ricordo) e il futuro oggettivo (previsioni, preoccupazioni, programmi). Questa libera mobilità della coscienza intenzionale dipenderà naturalmente dal grado di differenziazione della rispettiva coscienza; al pari di quest'ultimo, anche la libera mobilità può differire notevolmente da specie a specie. Anche il ritmo dell'esperienza vissuta del tempo è, certamente, spesso diverso a seconda della specie; dovrebbe essere di norma una funzione della durata media della vita nelle diverse specie. Non v'è alcun dubbio che la coscienza temporale procura agli esseri viventi una sorta di trionfo sul tempo reale, una sorta di dominio del tempo e dell'accadere, che rappresenta una conquista enorme ai fini del padroneggiamento della vita. L'essere associata a un organismo significa, per la coscienza, essere contemporaneamente associata allo spazio, essere limitata all'ambiente; ma lo spazio vissuto nella coscienza non coincide affatto con lo spazio oggettivo, che l'essere vivente stesso occupa: entro l'ambiente la coscienza, nella sua intenzionalità, ha nei confronti dello spazio una libera mobilità analoga a quella che ha nei confronti del tempo. E come contribuisce in modo sostanziale al padroneggiamento della vita, così la coscienza spaziale dipende anch'essa dalla specie: non è affatto identica in tutte le specie ed è lungi dall'essere ‛oggettiva' (prospettiva rettificata solo con l'esercizio, necessità di riferirsi al luogo che di volta in volta si occupa, diminuzione di omogeneità e di continuità, mancanza di isometria).
Il carattere individuale della coscienza è cosa unica. È vero che normalmente la struttura della coscienza, come la struttura dell'organismo, si tramanda in ciascuna specie di generazione in generazione: ed è anche vero che ogni organismo ha la propria nascita individuale, la propria vita individuale e la propria morte individuale; ma è sotto un profilo determinato che il carattere individuale della coscienza presenta una qualità unica: ogni coscienza è rigorosamente isolata da ogni altra coscienza; è rigorosamente privata; l'individuo costruisce il proprio mondo di ‛immagini' prescindendo dall'eredità dei genitori, cominciando da zero; e insieme con lui il suo mondo di immagini, non ereditabile, si dissolve. Non esiste al mondo processo reale che, al pari della storia di una coscienza, sia così del tutto privo tanto di una preistoria come di una storia successiva.
È vero che la coscienza è in misura decisiva orientata verso l'‛esterno' e che, riguardo ai suoi contenuti, viene determinata in massima parte dall'‛esterno'; ma si conferma nello stesso tempo anche qui l'autonomia della coscienza: qualunque sia l'elemento di cui diventiamo coscienti, esso entra in una certa disposizione della coscienza, in un certo stato di umore, in una certa costellazione di tendenze, in un certo grado di chiarezza e vigilanza della coscienza: soltanto nella totalità della coscienza esso diventa capace di esistere e di agire. Che questo valga già per l'attimo in cui avviene l'ingresso nella coscienza, è cosa nota da lungo tempo grazie ai risultati della psicologia della forma; ma vale anche per l'intero successivo destino dei contenuti entrati nella coscienza: mai, neppure nell'ambito della propria ricettività, la coscienza è soltanto ricettiva; ciò che essa integra in sé lo integra secondo le sue proprie leggi generali, secondo la propria individuale impronta, il proprio individuale destino, secondo la propria situazione globale, così com'è data di volta in volta. E anche le immagini del mondo e le immagini dell'ambiente, persino là dove c'è obiettivamente eguaglianza - o quasi - di ambiente, sono non soltanto considerevolmente diverse da specie a specie, ma differiscono anche, entro la stessa specie, da individuo a individuo. Finché la coscienza è solo coscienza (cioè coscienza non mentale), non esiste un mondo identico per le specie viventi e per i singoli esseri viventi.
L'autonomia e l'originalità della coscienza è infine documentabile anche in un altro complesso di fenomeni: il settore delle anomalie e malattie specifiche della coscienza. Senza dubbio, solo da pochissimo tempo stiamo imparando, lentamente, a comprendere questo settore nelle sue caratteristiche particolari. Se da una parte è vero che facciamo considerevoli progressi sia nella conoscenza della dipendenza di queste specifiche anomalie e malattie dalla sfera somatica che nel loro trattamento clinico (la microfisica e la microchimica renderanno possibili ulteriori progressi in questa direzione), d'altra parte in questo settore viene alla luce con chiarezza affatto particolare la fondamentale eterogeneità della coscienza (con le sue capacità e i suoi difetti). Quelli che, in modo assai sommario e impreciso, vengono spesso contrassegnati come fenomeni di disgregazione della personalità e come alterazioni della vita mentale, costituiscono per lo più, essenzialmente, la disgregazione più o meno estesa di quei domini e di quelle funzioni della coscienza nei quali appare in modo particolarmente chiara la diversità categoriale e la fondamentale autonomia della coscienza stessa nei confronti di tutta la sfera somatica.
c) L'unità psicofisica e la totalità degli esseri viventi
Sulla base delle chiarificazioni date finora, possiamo ormai chiederci in che misura sia possibile chiarire il cosiddetto problema psicofisico: il problema del rapporto tra corpo e coscienza, sistema nervoso (centrale) e coscienza. Volendo caratterizzare le principali posizioni odierne per mezzo del concetto filosofico di sostanza, esse risultano le seguenti: la posizione oggettivista (e più o meno materialistica), che concepisce come sostanza solo il somatico, mentre tende a ridurre la coscienza al rango di un epifenomeno o di un accidente; le cosiddette teorie dell'influsso reciproco che sono definite da un modello di due sostanze che si influenzano reciprocamente; il modello delle due sostanze è non meno determinante anche per la teoria del parallelismo, solo che tale posizione parte da un'eterogeneità così radicale delle due sostanze da escludere ogni relazione di causalità (sia unilaterale che reciproca) e da ritenere pensabile unicamente una coordinazione fra ordini paralleli. Ora, è proprio il modello delle sostanze (in tutte le sue varianti) che rappresenta, per il nostro problema, l'errore di fondo. É evidente che bisogna piuttosto ragionare in questo modo: tra i vari tipi basilari di formazioni che si trovano nel mondo c'è quello dell'organismo dotato di coscienza, il quale è, essenzialmente, una formazione totalmente integrata. Non dobbiamo lasciarci confondere, circa questo punto, da abitudini di pensiero derivanti dalla storia della filosofia e della scienza e confermate (effettivamente o apparentemente) dai nostri metodi di ricerca. Ciò che ci sta effettivamente davanti e che finora, evidentemente, ci è riuscito difficile comprendere, è il fatto di avere a che fare con due diversi strati di realtà, che si collegano però in modo tale da formare in tutto e per tutto una unità. Ed è solo questa unità in quanto ‛totalità' che può sperimentare il proprio modo di esistere nel mondo e gli influssi che le vengono dal mondo, e che può a sua volta influire sul mondo. Ciascuna di queste due relazioni è ‛psicofisica', e ciò risulta vero in ogni caso singolo. Tutto ciò che è somatico (prendiamo per esempio un colpo su una spalla) è anche psichico (l'essere vivente viene infatti colpito nella sua totalità categorialmente stratificata); e tutto ciò che è psichico (ad es., l'angoscia al pensiero di correre il pericolo di perdere il posto di lavoro o il coniuge) è anche somatico (anche in questo caso, infatti, l'essere vivente viene necessariamente colpito nella sua totalità categorialmente stratificata). E neppure si verifica che la prima volta il somatico agisca sullo psichico e la seconda lo psichico sul somatico; ogni subire e ogni agire di un organismo di coscienza è psicosomatico. La ricerca psicosomatica (soprattutto nella medicina teorica e in certi rami della medicina pratica) è quindi un progresso fondamentale. Se cionondimeno essa incontra, in parte a ragione, un forte scetticismo, questo non dovrebbe riguardare in nessun caso la sua idea di fondo, anche se, d'altra parte, l'elaborazione teorica (e di conseguenza anche la pratica, col suo procedere a tastoni) presenta carenze considerevoli. Sarebbe necessario riconoscere che all'idea della psicosomatica si deve collegare un riorientamento teorico piuttosto radicale, che abbisogna da un lato di chiarificazione e di certezza sul piano epistemologico e filosofico, e dall'altro di ricerca empirica ponderata ma ostinata: un campo attraente quanto urgente di lavoro di ricerca interdisciplinare.
d) Conscio, inconscio, subconscio
In modo affatto analogo starebbero le cose in un altro ambito di problemi, quello del rapporto tra la coscienza e ciò che ci si è abituati a designare come subconscio. E un ambito di problemi che non ha certo ricevuto, nelle forme finora assunte dalla psicanalisi teorica, una chiarificazione teoricamente soddisfacente, e che anzi non potrà mai essere trattato con successo solo attraverso la psicanalisi teorica, senza cioè una collaborazione interdisciplinare. Due punti sembrano anzitutto abbisognare di una parziale revisione e, in ogni caso, di un approfondimento teorico. Si tratta in primo luogo delle questioni accennate a proposito del rapporto psicosomatico (a questo riguardo la psicanalisi teorica sembra oscillare tra una concezione invecchiata del rapporto corpo-psiche e approcci più recenti, e sembra voler operare una mescolanza di fattori teoricamente incompatibili, nel tentativo certo lodevole, ma poco promettente dal punto di vista teorico, di adattare nella misura più larga possibile certi dogmatismi di scuola a vedute nuove). Alcune differenziazioni nel dominio dell'inconscio e/o del subconscio possono aiutare a fare qualche passo avanti, per condurre infine alla seconda revisione che l'odierna psicanalisi teorica dovrebbe porsi come compito. Si dovrebbe distinguere chiaramente: a) ciò che è stato vissuto coscientemente in passato, ma di cui non si ha ricordo nel presente, e rimane tuttavia, in linea di principio, richiamabile alla memoria; b) ciò che preme per oltrepassare la soglia della coscienza, diventa magari in un modo o nell'altro operante, ma rimane fuori del cerchio dell'attenzione, cosicché può passare del tutto inosservato; c) ciò che è stato vissuto coscientemente in passato, ed è ora - forse per sempre - dimenticato, ma rimane operante nella coscienza, determinando o contribuendo a determinare inconsciamente abitudini cognitive, atteggiamenti valutativi e affettivi e complessi di motivazioni; d) le azioni cosiddette inconscie, che possono avere cause esterne alla coscienza, ma anche motivazioni interne a questa, coperte però da altri contenuti di coscienza; e) operazioni della coscienza o operazioni guidate dalla coscienza, che finiscono con l'essere apprese così bene da poter essere eseguite senza l'accompagnamento della coscienza (sgravio della coscienza attraverso l'‛automatizzazione', che la coscienza stessa si procura); f) contenuti e processi parziali che rimangono ‛inconsci', come ad esempio quelli che, nel lavoro mentale e soprattutto in quello artistico, non accedono alla coscienza, ‛incatenata' alla rappresentazione del progetto nella sua totalità o della meta da raggiungere, ma vengono per così dire ‛saltati'; g) la rimozione semicosciente di elementi coscienti (immagini, pensieri, desideri, ecc.) dalla coscienza in base a motivi rimoventi semicoscienti; in questo caso si possono verificare fenomeni somatici, fisici o psicosomatici (sia normali che patologici) che rimangono enigmatici, in quanto è difficile scoprire il nesso con la rimozione e i suoi motivi. Ora, bisogna tener ben presente questa molteplicità di tipi di inconscio e/o subconscio, per poter identificare il tipo di cui la psicanalisi si occupa in prevalenza, se non in modo esclusivo.
Si direbbe proprio che già a questo riguardo sia necessario fare qualche precisazione. Ci sarebbe anche di grande aiuto poter riconoscere in modo realmente sicuro in qual misura effettivamente si verifichi una particolare rimozione (che faccia temere l'insorgere di future nevrosi) in luogo di un processo nel quale, col passare degli anni, i contenuti coscienti pericolosi perdano semplicemente la loro importanza e vengano quindi dimenticati in modo naturale e ‛sano' (in altre parole: per quanti di noi sono effettivamente validi i teoremi psicanalitici sulle nevrosi?). E infine anche qui si pone - come nel caso della psicosomatica - un problema teoretico-categoriale al quale - di nuovo, come nella psicosomatica - difficilmente si può dare una soluzione davvero soddisfacente senza una collaborazione scientifica interdisciplinare.
Basta sottoporre ad un'analisi un po' più stringente i principali concetti teorici della psicanalisi (dall'Es all'Io al Super-Io, dalla censura alla rimozione, dalla formazione dei simboli alla sublimazione, dall'identificazione alla proiezione), per vedere che un'elaborazione teoretica soddisfacente non è possibile se non si affrontano in modo nuovo due problemi. Anzitutto quello di tener conto in tutta la sua portata del fatto che la ‛psiche' umana, la coscienza umana - così come la coscienza non mentale (degli animali) - è soggetta, riguardo alla sua funzione originaria, alla fondamentale legge biologica dell'idoneità alla vita, e nello stesso tempo, in quanto coscienza mentale, dotata di mente, ha però tutta una serie di caratteristiche categoriali radicalmente nuove che, a proposito di ogni problema che riguardi l'uomo, obbligano a porre l'interrogativo: che cos'è la ‛psiche' e che cosa la ‛mente'? E come per la psicosomatica si poneva la questione del modo in cui bisognasse pensare il rapporto tra somatico e coscienza, così alla psicanalisi teorica si pone, ulteriormente aggravata, la questione: come si presenta, entro la totalità integrata dell'essere vivente ‛uomo', il rapporto tra i tre gruppi categoriali: quello del somatico, quello dello ‛psichico' e quello del ‛mentale'? (Si veda anche inconscio e psicanalisi).
4. La coscienza mentale
Consideriamo ora la struttura categoriale della coscienza mentale, dotata di mente. Anche l'approccio scelto a questo riguardo preferirebbe attirarsi il rimprovero di essere troppo empirico che quello di essere troppo filosofico. Partiamo quindi dal fatto che esiste nel mondo una specie unica e molto particolare di esseri viventi - quella degli uomini (homo sapiens) - la quale, come si può osservare, presenta certe capacità, che le sono peculiari in modo esclusivo. L'etichetta ‛mente' (o ‛ragione', ‛intelletto', e simili) non è altro che il nome adoperato per queste specifiche capacità; non trattandosi assolutamente di capacità somatiche (come la stazione eretta e simili), sarà consentito l'uso di tale etichetta o di quella di ‛coscienza dotata di mente' o ‛mentale'; l'etichetta deve, in primo luogo, abbracciare ciò che è omogeneo e la cui omogeneità è chiaramente intelligibile; e, in secondo luogo, deve contrassegnarlo nella sua irriducibile peculiarità. L'etichetta ‛mente' o ‛coscienza mentale' designerà quindi un caratteristico e in sé coerente fascio di capacità umane: il termine ‛mente' ('intelletto', ‛ragione') non ha nulla a che fare con uno ‛spettro nella macchina' (v. Ryle, 1949, pp. 15-16) e non offre alcun appiglio a un dualismo metafisico (sia questo sensato o insensato). Rispetto alla coscienza non mentale, la coscienza mentale ha in più qualcosa di fondamentalmente - categorialmente - nuovo. Si tratta di determinate capacità, determinate possibilità; che cosa, e specialmente quanto di tali capacità e possibilità sia effettivamente attualizzato nella vita dell'umanità, dei gruppi e dei singoli, cosicché le potenzialità esistenti in linea di principio vengano effettivamente messe in opera, è cosa che dipende da circostanze di vario genere; la coscienza mentale non ha la fortuna di essere una mente liberamente fluttuante, autarchica, pienamente autonoma: essa può attualizzarsi, con fatica e di norma lentamente, soltanto lottando contro resistenze e inerzie esterne; contro queste deve affermarsi, ciò che non le riesce mai in modo completo; può certo far progressi, ma mai conseguire un successo conclusivo; non è mai del tutto al sicuro da ricadute e sconfitte.
a) Le quattro capacità fondamentali della coscienza mentale
Le quattro capacità fondamentali della coscienza mentale sono essenzialmente le seguenti (come vedremo, su quelle fondamentali si fonda un certo numero di capacità derivate). La coscienza mentale è in primo luogo contrassegnata dalla capacità di associarsi all'autocoscienza. L'uomo (il singolo, il gruppo umano, l'umanità intera) non soltanto esiste, non soltanto è conformato così e così, fa e vuole questo e quello, si comporta così e così, ecc.; ha in più la capacità di saper qualcosa di tutto questo, di interrogarsi circa tutto questo, e infine di conoscerlo in misura sempre maggiore (anche se forse mai completamente). Ciò vale illimitatamente anche per la sua coscienza, per ciò che nella sua coscienza accade: analogamente agli animali (superiori), può avere nella propria coscienza sensibile immagini percettive dell'ambiente; ma, diversamente dagli animali, può anche saper qualcosa delle proprie percezioni e delle immagini delle proprie percezioni; e ciò che qui si dice della coscienza percipiente vale per tutte le operazioni della coscienza, siano esse cognitive, volitive, affettive, o di altra natura ancora. La coscienza umana può sapere qualcosa di se stessa, di ciò che è, di ciò che fa o patisce. Si ha allora la riflessione della coscienza mentale su se stessa, sui propri atti, i propri contenuti, i prodotti dei propri atti. E questa capitale qualità riflessiva della coscienza umana è la prima caratteristica fondamentale che distingue categorialmente la coscienza mentale dell'uomo da quella non mentale degli animali, e che obbliga - nonostante tutte le analogie sugli altri punti - a porre una differenza categoriale tra la coscienza non mentale degli animali e la coscienza mentale degli uomini. Tale caratteristica è connessa del resto in modo strettissimo alla capacità linguistica dell'uomo: è infatti evidente che le due capacità (quella riflessiva della coscienza e quella della lingua) si formano (e si sono formate filogeneticamente) in una strettissima connessione reciproca, all'interno della quale la capacità riflessiva rappresenta la condizione che la coscienza deve adempiere perché sia possibile la capacità linguistica (rapporto condizionale che non dovrebbe essere rovesciato; v. Monod, 1970, pp. 144 ss.). Gli animali non parlano già solo perché non hanno nulla da dire in una lingua che si possa definire veramente tale. La mera (cioè non riflessiva) coscienza può contenere molte cose e di vario genere; ma un contenuto di coscienza è comunicabile linguisticamente soltanto se la coscienza non solo percepisce, ecc., ma (sia pure in grado minimo) sa riflessivamente di percepire, ecc.; e se distingue se stessa come percipiente dal percepito almeno quanto basta per poter ‛dire', di ciò che ha distinto da se stessa (cioè il percepito) e in base alla percezione saputa riflessivamente, che il percepito è questo o quest'altro, è fatto così o così. Possiamo esprimerci anche in questo modo: solo la coscienza mentale - grazie alla sua qualità riflessiva - ha oggetti e rapporti tra oggetti circa i quali è possibile comunicare qualcosa linguisticamente; appunto per questa ragione non esiste, senza coscienza mentale, alcuna capacità di formare qualcosa che si possa seriamente definire come lingua.
La coscienza mentale è la capacità che l'uomo ha non solo di sapere qualcosa su se stesso, ma anche di sottoporre se stesso a esame e a critica. Uno studioso del comportamento (v. Lorenz, 1941), richiamandosi al fatto che il comportamento animale può essere talmente determinato da strutture psichiche immutabili che l'animale, senza mai rendersene conto, si comporta in modo costantemente contrario alla realtà (per es. quando apprende una strada più lunga e la adopera da allora in poi come se fosse oggettivamente la strada più breve), ha posto una volta questo problema: se noi uomini, di fronte alle strutture e alle categorie della nostra psiche, ci troviamo così impotenti come gli animali di fronte alle strutture e alle categorie della loro, come potremo rivendicare per noi stessi una validità oggettiva? Ora, il semplice fatto che un uomo possa pensare e scrivere ciò che pensa e scrive Lorenz rivela già l'essenziale: l'uomo può conoscere le ‛strutture' e le ‛categorie' della propria psiche, della propria coscienza, può studiarle, può metterne in dubbio l'oggettività, può esaminarle e criticarle sotto il profilo dell'oggettività. Nessun animale può avere pensieri del genere. La coscienza umana consente all'uomo l'autocritica: la consente al singolo, al gruppo, all'umanità nel suo complesso.
L'uomo può esaminare e indagare criticamente le proprie rappresentazioni e i propri pensieri, come anche il proprio modo di sentire, i propri scopi e le proprie intenzioni, gli atti compiuti, il proprio comportamento manifesto, i prodotti della propria creatività e del proprio lavoro, i propri meccanismi e persino il suo proprio essere. Questa capacità di autocritica, specifica della coscienza umana, impronta in modo fondamentale la società umana: il singolo critica se stesso, ma anche altri singoli, critica il proprio gruppo come anche gruppi estranei; il gruppo critica se stesso - anche se, naturalmente, più volentieri gli altri gruppi - e i propri membri, nella misura in cui deviano dal gruppo. È vero quindi che non sempre il soggetto criticante coincide con l'oggetto criticato: si tratta però sempre di critica fatta da uomini ad altri uomini, e quindi di autocritica umana. Essa si riferisce non solo al presente, ma anche al passato, alla storia (del singolo, del gruppo, dell'umanità tutta).
La coscienza umana, in quanto capacità di un'autocritica ampia e comprensiva, comporta a un tempo una terza capacità: quella cioè di fornire i principî (norme, criteri) dell'autocritica. Da un lato non possiamo dimenticare che l'uomo è, non meno degli animali, un essere vivente e che perciò, come abbiamo visto, anche per la struttura e la funzione della sua coscienza sono determinanti i principi dell'idoneità alla vita; d'altro lato però si dovrebbe ancor meno trascurare il fatto che, grazie al carattere mentale della coscienza umana - e sulla base del suddetto principio di idoneità alla vita -, nasce un tipo completamente nuovo di principî (norme, criteri). La loro funzione è duplice: da una parte funzionano come controistanze nei riguardi dei principî ‛naturali' di idoneità alla vita, e ciò in verità anzitutto nel senso (negativo) che implicano per l'uomo l'esigenza di una limitazione volontaria, in tutti i settori del proprio comportamento, dell'onnipotenza di tali principî, affinché gli interessi ‛naturali' dell'idoneità alla vita non vanifichino tutti gli altri interessi; d'altra parte essi sono (positivamente) i rappresentanti di altri interessi, ‛superiori', che vanno cioè al di là dei meri interessi vitali, e dei quali costituiscono la legittimazione. Si può contrassegnare questo tipo completamente nuovo di principî con diversi termini: si tratta in ogni caso di principî dai quali dipendono la validità e il valore di tutti i diversi campi della cultura e della civiltà (sul piano individuale come su quello collettivo), e che noi adoperiamo quindi come norme e criteri per distinguere, in tutti questi campi, il valido dal non valido, il valore dal disvalore. Sono principi di validità teoretica (scientifica), come anche di validità morale, estetica, giuridica, politica, sociale, economica. La coscienza mentale è naturalmente anche in questo caso, cioè in quanto fonte di principî di validità e di valore, anzitutto una semplice facoltà, ben lungi dal poter mai essere un'attualità pienamente dispiegata. Faticosamente, e non senza errori e insuccessi, noi uomini (il singolo, i gruppi, l'umanità) ricerchiamo in base a questi principî; senza dubbio, una certezza definitiva circa questi principî non ci è consentita che in limiti ristretti; noi siamo però gli unici esseri al mondo che possano ricercare, e lo facciamo non senza successo e non senza progressi. Nessun richiamo, per quanto giustificato, alla miseria o all'infamia della realtà umana (nel passato o nel presente), o alla relatività e limitatezza dei risultati dell'umano ricercare può celare il fatto decisivo che noi uomini e soltanto noi uomini possediamo questo privilegio; nel periodo classico della filosofia europea si è visto in ciò - e con pieno diritto - l'essenza della ragione.
La coscienza mentale è autocoscienza, autocritica, conoscenza dei principî di validità e di valore. Essa ha ancora una quarta capacità: rende possibile un agire specificamente umano. La coscienza mentale e la capacità di agire sono in un rapporto unico nel suo genere, nel quale l'una richiede l'altra. Grazie alla capacità umana di agire, la coscienza non è condannata all'impotenza nei confronti delle cose, delle condizioni e degli avvenimenti del mondo reale: all'impotenza di un esperire, di un sapere, di un prender posizione sul piano effettivi che siano meramente ricettivi; essa può, invece, fare qualcosa, mandare a effetto qualcosa. E, inversamente, la capacità di agire acquista, grazie alla coscienza mentale, possibilità di tipo radicalmente nuovo. Certamente, sussistono anche nell'uomo gli impulsi immediati, ‛naturali' della psiche animale, e certamente sono sempre (e necessariamente) determinanti per il comportamento e l'agire umano. Ma nello stesso tempo diventa possibile qualcosa di interamente nuovo, e ciò in due gradi diversi. Nel primo grado, possono ora emergere, accanto alle mete dettate dagli impulsi ‛naturali', mete di tipo nuovo, mete che non sono dettate, ma che possono essere o non essere scelte; mete, il cui contenuto è formato unicamente dal gioco capriccioso della coscienza che si apre sul mondo: libere mete, liberi fini, come, con ragione, sono stati spesso chiamati. E nel secondo grado, accanto alle mete dettate dagli impulsi ‛naturali' (che sottostanno senza eccezione al principio dell'idoneità alla vita) e alle ‛libere' mete e ai ‛liberi' fini, che certo rimangono anch'essi in primo luogo entro la cerchia dei meri interessi vitali, possono ora emergere anche mete e fini di un tipo categoriale nuovo: mete e fini, cioè, che sono positivamente determinati da quegli stessi principi di validità e di valore, i quali (v. sopra) funzionano come norme e criteri dell'autocritica umana. Nel quadro dell'agire umano determinato dalla coscienza mentale troviamo infatti entrambi gli aspetti: quello, negativo, della critica del presente, e quello, positivo, del progetto del futuro: formano insieme un tutto omogeneo inscindibile. Finché io mi trovo d'accordo con la situazione esistente così com'è (con me stesso e con gli altri, col mondo naturale e con quello mentale), non ho alcun motivo di agire (agire per mutare qualcosa); la critica, la valutazione negativa della situazione esistente sta all'origine di ogni agire; ma un'altra condizione preliminare dell'agire è il progetto: la coscienza anticipa nell'immaginazione ciò che dovrà essere realizzato nell'agire, e determina così il contenuto del progetto secondo gli stessi criteri di valore che hanno determinato la sua critica. Se agire significa mutare la situazione esistente, allora è la coscienza mentale che (con la critica) dà l'indispensabile avvio all'agire e (col progetto del futuro) guida in avanti l'azione. Quest'ultima operazione è duplice: prima si delinea la meta, e poi si scelgono i mezzi che dovranno gradualmente condurre ad essa. Agire significa sempre mutare e riplasmare (in me, negli altri, nel mondo naturale o in quello mentale) una porzione di realtà. È la coscienza mentale che rende questo possibile (dando l'avvio, delineando la meta, scegliendo i mezzi). E come la critica della realtà resa possibile dalla coscienza mentale è in definitiva una autocritica umana (v. sopra), così anche il mutamento e la riplasmazione della realtà, che la coscienza mentale rende possibile, sono sempre, in definitiva, un mutamento e una riplasmazione dell'uomo da parte dell'uomo (del singolo, del gruppo, dell'umanità), e riguardano quindi l'umano sapere (nelle scienze e nella cultura), l'umana moralità, la creazione estetica (nelle arti), le istituzioni e i comportamenti umani nella vita giuridica, politica, sociale ed economica.
b) L'uomo tra coscienza non mentale e coscienza mentale
Nella molteplice e comprensiva accezione da noi data al termine, ‛coscienza mentale' indica le quattro facoltà fondamentali dell'uomo: autocoscienza, autocritica, produzione dei principi di questa autocritica, autoplasmazione secondo questi stessi principi. Diciamo ‛facoltà', non attualità date; la loro attualizzazione dipende dallo sforzo degli uomini; rientra nella loro libertà; l'uomo non deve, se non vuole; e, anche se vuole, non per questo il successo è automaticamente garantito; dato che può andare avanti soltanto lottando contro considerevoli difficoltà ‛naturali', l'attualizzazione delle facoltà fondamentali corre costantemente il pericolo di sviarsi nell'errore, di soccombere. La ricaduta nella barbarie, e persino nella mera animalità, rimane un pericolo costante. D'altro canto, la coscienza mentale apre un infinito campo di possibilità: infinite possibilità di progresso (nelle scienze e nelle arti, nella vita morale, giuridica, politica ed economica), infinite mete di progresso. Mai verrà il sabato nel quale l'umanità avrà esaurito tutte le proprie possibilità e adempiuto tutti i propri impegni. E non altri che la struttura mentale della coscienza umana è il responsabile, nel nostro mondo, di questa infinità. Che ogni attualizzazione rimanga infallibilmente limitata, non è un'obiezione contro questa infinità; è infatti questa infinità che costituisce il presupposto di ogni progresso (finito), e ogni progresso si muove in essa (proprio come la numerazione rimane sempre finita, pur avendo come presupposto la serie infinita dei numeri ed essendo possibile solo all'interno di questa; se anche non si giunge mai a una fine, si procede però all'interno dell'infinità).
Da una parte è indispensabile distinguere in via di principio la coscienza non mentale dalla coscienza mentale; con quest'ultima, come abbiamo visto, emergono infatti facoltà della coscienza che nella coscienza non mentale non abbiamo potuto osservare neppure in forma rudimentale. Non si può d'altra parte eludere la questione del nesso esistente tra questi tipi di coscienza, dato che la coscienza umana presenta una strutturazione tanto singolare: le cose infatti non stanno semplicemente nel senso che la coscienza mentale non ha in sé assolutamente nulla della struttura propria della coscienza meramente animale, ma piuttosto nel senso che, essendo comunque l'uomo anche un animale, anche la coscienza umana, come è coscienza mentale, così è anche necessariamente coscienza animale. In che modo sono quindi associati i due tipi (o strati) di coscienza? In che rapporto stanno tra loro? Come nell'animale, anche nell'uomo la coscienza viene messa in opera, originariamente, nelle funzioni vitali dell'idoneità alla vita; è coscienza ‛al servizio': al servizio della vita in quanto tale e dei suoi urgenti interessi. Lo stesso vale anche per ciò che chiamiamo, a ragione, intelligenza animale; la cosa è evidente nel fenomeno della domesticazione degli animali superiori: la strada verso questa impressionante realizzazione comporta un graduale combinarsi delle mete della domesticazione con il soddisfacimento degli interessi degli animali. Fondamentalmente, risulta determinata in funzione degli interessi vitali già la porzione che viene ritagliata nella realtà oggettiva, porzione che non è il mondo, ma solo un ambiente, lo specifico ambiente; il resto del mondo non esiste per la coscienza, giacché è per lei privo di interesse. Il primo passo dalla coscienza non mentale alla coscienza mentale è per così dire una sorta di liberazione da quest'impegno eclusivo, un elementare prender le distanze dagli impulsi ‛naturali', che rende possibile alla coscienza il primo passo verso l'oggettività delle proprie percezioni e delle proprie esperienze. La coscienza non mentale è un centro di esperienza incapace di riflessione, all'interno del suo specifico ambiente: essa non può mai arrivare a pensare che le cose potrebbero essere, in se stesse, diverse da come sono per lei. La coscienza mentale ha in via di principio la capacità di pensare la possibilità di una simile discrepanza, la capacità di non prendere il proprio ambiente per il mondo (oggettivo); essa pone in dubbio se stessa anche sotto il profilo della propria oggettività e validità: ha la capacità di assumere una posizione ‛eccentrica' rispetto al mondo (v. Plessner, 1928). Già soltanto in forza dell'associazione a un organismo, sia la coscienza mentale che la coscienza non mentale risultano limitate a una parte del mondo; ma, mentre la coscienza non mentale nulla sa di questa condizione, la coscienza mentale la conosce: sottopone se stessa a critica riguardo alla casualità della sua posizione nel mondo e alla sua struttura specifica. Si forma così la distanza tra la coscienza concreta e le cose, le quali possono ora, con il proprio essere indipendente, contrapporsi effettivamente - come ‛oggetti' - alla coscienza e diventare mete di un conoscere obiettivo e valido. E anche le capacità affettive e volitive della coscienza vengono disciplinate dalla raggiunta oggettività: imparano a conoscere la durezza, la resistenza, l'autonomia del reale; e cominciano a comprendere che del reale debbono tenere costantemente conto. Naturalmente, già lo sappiamo, la coscienza mentale comincia come mera facoltà, la cui attuazione richiede tempo: nella vita dell'individuo come nella filogenesi dell'umanità. I primi passi di questa filogenesi mentale sono avvolti in un'oscurità profonda, e mai troveremo un metodo capace di gettare su di essi molta luce. Abbiamo però ogni motivo di supporre che gli inizi della coscienza mentale siano stati non solo miseri e incerti, ma anche pieni di angosce, timori e incubi. E non c'è dubbio che abbiano una buona parte di ragione coloro che dicono che anche noi - nella buia periferia o nel cupo sostrato della nostra coscienza - ci trasciniamo dietro ancora molto di quell'età remota; come anche non c'è dubbio che lungo sia stato il cammino dai primordi sino all'epoca in cui la coscienza umana raggiunse un grado di chiarezza, di estensione e di raffinamento tale da consentirci di sentire questi nostri antenati come in certo modo nostri simili. Il rafforzamento di ciò che si suole denominare la ragione (teoretica e pratica) ha rappresentato in questo processo il fattore principale: è questo fattore che - in parte in modo immediato, in parte mediatamente (questo secondo caso vale specialmente per le belle arti e le religioni superiori) - ha reso possibile quell'immensa compagine di realizzazioni specificamente umane, che chiamiamo cultura e civiltà. Senza la fondamentale influenza della ragione, che è andata rafforzandosi col tempo, senza cioè il rafforzamento della facoltà dell'oggettività, non saremmo mai arrivati a un tale risultato; ma la ragione dovette strappare con la lotta la facoltà dell'oggettività alle forze originarie e primitive della coscienza. Questo fatto importante non è mai tanto evidente come nel noto fenomeno che la nostra facoltà di essere oggettivi è sempre considerevolmente più debole e fragile quando sono in giuoco quei nostri interessi, che sono più strettamente legati agli interessi vitali elementari. Ci riesce considerevolmente più facile, ad esempio, essere oggettivi come scienziati, nel nostro lavoro scientifico, che nei campi della lotta politica, sociale ed economica (su grande come su piccola scala).
5. La coscienza collettiva
Da qualche tempo si parla spesso - non senza una giustificazione concreta, ma con insufficiente chiarezza concettuale - di coscienza collettiva (di gruppo, di classe, ecc.). In primo luogo: come mera coscienza, ogni coscienza è completamente isolata da ogni altra, è assolutamente individuale e privata: sotto questo aspetto, nessuno può scrutare in un altro. Rilke ha scritto una volta (Duineser Elegien, IV): ‟Noi non siamo come gli uccelli migratori, che s'intendono tra loro". Ma gli animali, pur disponendo certamente di forme di intesa reciproca, non raggiungono un'intesa tra le coscienze migliore della nostra: si tratta di un'intesa interamente mediata e priva di riflessione, filogeneticamente acquisita, racchiusa entro limiti strettissimi sia sotto il profilo dei contenuti (su che cosa) sia sotto quello del modo (come, per quale tramite). L'intesa di noi uomini è meno sicura ‛perché fondata piuttosto sulla libertà) di quella degli animali; abbiamo però la facoltà di intenderci praticamente su tutto e di sviluppare mille forme diverse di intesa. Lo strumento, in verità non unico, ma certo più importante dell'intesa fra gli uomini è la lingua, la quale non è soltanto manifestazione degli stati ‛interni della coscienza' (una mera emotive utterance), ma è manifestazione che verte ‛su' (su cose, persone, rapporti, stati, ecc.), dato che è manifestazione di ciò che a proposito di qualcosa intendiamo, sentiamo, crediamo, pensiamo, del modo in cui lo valutiamo, ecc. In una lingua cosiffatta non può manifestarsi una semplice coscienza, ma soltanto, necessariamente, una coscienza mentale, che esiste ‛nel mondo' nelle mille forme proprie di questo tipo di coscienza, è rapportata agli oggetti ed è caratterizzata dall'‛intenzionalità'. La semplice coscienza isola ed è isolata; soltanto la coscienza mentale, rapportandosi agli oggetti, rende possibili l'intesa e l'intersoggetività. Per questa ragione N. Hartmann (v., 1933) era pienamente giustificato quando parlava, invece che di coscienza collettiva - nozione che cancella una differenza importante - di spirito oggettivo (interindividuale, intersoggettivo, collettivo). La coscienza mentale, proprio per il fatto di essere mentale - rapportata agli oggetti, intenzionale - può comunicare se stessa (ciò che pensa, sente, vuole, ecc.), può farlo mentre che si manifesta all'esterno (soprattutto linguisticamente, ma anche attraverso i gesti, la mimica, la pittura, il canto, la musica, attraverso lavori e attività sia ordinari che specificamente determinati da idee, ecc.). Come una coscienza mentale si manifesta e comunica, così può essere compresa da una altra coscienza mentale che ne comprende le manifestazioni. È in questo modo che si costituisce, su grande come su piccola scala, quella comunità umana nella quale a noi tutti sembra ovvio vivere, quel secondo mondo - specificamente umano - in mezzo alla mera natura, nel quale ancora ci sembra ovvio vivere. Questo secondo mondo è un mondo interamente costituito dalla coesistenza dei vari portatori della coscienza mentale, dalla coscienza collettiva (intersoggettiva), dalla mente collettiva (oggettiva, intersoggettiva). Esiste un ampliamento non programmato (quasi spontaneo) della coscienza collettiva, ma ne esiste anche uno voluto e programmato (e intendiamo sia quello onesto e benintenzionato che quello ‛manipolato', e non ci riferiamo affatto solo alla pubblicità commerciale così come è stata descritta da V. Packard). La mente collettiva è ‛mente' altrettanto spesso che ‛non-mente': vale a dire che esistono, all'interno della coscienza collettiva, tutti i gradi di valore e di disvalore, e ciò è vero per tutti i suoi settori (v. sotto).
La coscienza collettiva essendo sempre coscienza di un ‛collettivo', si articola in modo analogo ai collettivi: esiste ad esempio la coscienza collettiva di una famiglia, di una città, di un paese, di un popolo, di un gruppo professionale, di una ‛classe', di un gruppo di credenti; e siccome i ‛collettivi' sono formazioni storiche, anche la coscienza collettiva presenta un'analoga articolazione storica: si parla ad es. di coscienza degli anni venti, del sec. XIX, dell'età moderna, dell'era cristiana. Qui non possiamo fare che un cenno al particolare modo di esistenza della coscienza collettiva: non è in nessun modo essa stessa un ‛collettivo', e neppure quindi l'aggregato delle varie coscienze singole; non può assolutamente esistere senza di queste e rappresenta pertanto l'associazione dei loro tratti comuni; ma, pur con tutta la sua dipendenza dalle coscienze singole, non si esaurisce in esse, ed esercita a sua volta un influsso su di esse: formando e determinando, guidando e seducendo. Ha di conseguenza una realtà propria; esercita un potere, ha la sua propria storia e i suoi propri e autonomi mutamenti, diversi da quelli del ‛collettivo', del quale è la coscienza; ha una propria nascita, una propria durata, e una propria fine (parliamo della ‛morte' di una cultura, di una morale, di una concezione giuridica, di una lingua, di una costumanza, di una religione, ecc.). Quando parliamo di vita mentale e di storia delle idee, si tratta in larga misura (in tutti i casi, cioè, in cui non si tratti delle obiettivazioni storiche della mente, come le ‛opere' della poesia, ecc.) della vita e della storia dei vari tipi e settori della coscienza collettiva.
È un intero sistema di settori che costituisce la coscienza collettiva. I più importanti sono forse i seguenti: a) il settore della lingua, o meglio delle lingue, e delle lingue reali e concrete, così come sono o sono state parlate e scritte. Le lingue hanno la proprietà di non essere soltanto uno dei settori della coscienza collettiva, ma di essere a un tempo il principale strumento mediante il quale si formano, nella coscienza collettiva, tutti gli altri tratti comuni; b) il settore della morale volta a volta vigente (valutazioni e modi di comportamento morali); c) il settore del gusto estetico volta a volta dominante sia nella vita quotidiana (come ad es. nei vari campi della moda) sia nei modelli cui si ispirano le diverse arti; d) il settore della vita religiosa, dell'esperienza vissuta della devozione e della fede, il quale comprende anche l'irreligiosità e le concezioni del mondo ormai secolarizzate; e) il settore delle usanze quotidiane (nella vita pubblica, nella vita privata, nei rapporti interumani); f) il settore della vita giuridica, come si manifesta nelle concezioni giuridiche volta a volta vigenti, nelle valutazioni giuridiche e nell'effettiva prassi giuridica; g) il settore della vita politica, come si realizza nelle concezioni politiche, nelle valutazioni e nelle finalità dei cittadini e dei governanti, nella forma reale di governo, nel modo di agire degli organi e delle istituzioni politici; h) il settore della vita economica, incluse le idee o le ideologie-guida, le finalità più generali e quelle più concrete, i conflitti e le frizioni immanenti, il modo di funzionare delle aziende, il modo di lavorare di coloro che sono economicamente attivi, il comportamento dei consumatori, ecc.; i) il settore della vita e dell'attività tecnica, strettamente associato a quello della vita economica; 1) e infine il settore della vita scientifica, dell'attività di ricerca, della diffusione delle conoscenze scientifiche, della formazione delle nuove leve di scienziati (nelle scuole e nelle università).
Due cose, che l'espressione ‛coscienza collettiva' maschera, anziché chiarire, meritano un'ulteriore osservazione. La prima è questa: la coscienza collettiva è sempre la coscienza di un ‛collettìvo'. Ora, i collettivi sono assai di rado omogenei; i loro membri si differenziano sotto molti riguardi, esistono sottogruppi e così via. Anche la coscienza collettiva è quindi assai di rado omogenea; ed è di importanza vitale che non lo sia: solo così può rimanere una coscienza vivente e dinamica, in grado di progredire e di adempiere i propri impegni. Naturalmente, i potenti (politicamente o economicamente) vedrebbero non di rado volentieri un'uniformità della coscienza, che servisse i loro interessi, e adoperano a questo scopo i mezzi usuali e talvolta senza scrupolo, persino la perfidia e la violenza. L'esperienza ci dà motivo di sperare che sia sempre più difficile conseguire a questo proposito un successo duraturo. In secondo luogo, è decisiva la mancanza, nella coscienza collettiva, di ciò che caratterizza la coscienza umana individuale: la facoltà di autocoscienza e di autocritica, e quindi anche la coscienza della responsabilità; non di rado la coscienza collettiva percorre senza scrupoli morali il proprio cammino omicida (o suicida). Nella misura in cui esiste una coscienza (critica) di ciò che accade in una coscienza collettiva, esiste soltanto in una forma secondaria e insufficiente: nella coscienza individuale dei membri che tengono gli occhi e le orecchie aperti, e sono in grado di conservare intatta la propria capacità di giudizio. Ma anche così non nasce una coscienza veramente adeguata. Certo è che non è mai possibile che tutta la molteplicità (e la contradditorietà) di una coscienza collettiva sia interamente presente in un individuo singolo, e di conseguenza nessun individuo singolo può render giustizia a una coscienza collettiva in tutti i suoi aspetti. Non esiste quindi che un surrogato: la pubblica discussione critica, nella quale ogni voce seria deve trovare udienza. Anche questo, certo, è solo un surrogato; ma, essendo tutto ciò che si può ottenere in fatto di critica e di autocritica, la sua possibilità deve essere difesa con ogni mezzo e con ogni sacrificio. Quando un collettivo non tollera la pubblica discussione critica, o i suoi capi (o i suoi istigatori) tentano di escluderla, ci troviamo di fronte a una decisione contro l'umanità: contro la facoltà umana dell'autoconoscenza, della responsabilità e della coscienza morale.
6. Due problemi specificamente filosofici intorno alla coscienza
Esistono ancora due problemi, di natura filosofica nel senso stretto del termine. Uno è il problema del rapporto ontologico tra coscienza e persona, che in età recente si è nuovamente acuito, specialmente per opera di G. Ryle. Almeno finché si ha a che fare soltanto con il comportamento empiricamente accessibile, non si può che convenire, nel complesso, con le principali posizioni di Ryle. Egli si oppone a ogni dualismo ontologico, il quale affermi che colui che qui e ora respira e digerisce, riflette e ha desideri, non è la singola persona vivente, bensì l'uomo, un'incomprensibile dualità di corpo e mente, o anche di processi corporei e, separati da questi, di processi mentali. Ryle (v., 1949, p. 22) non nega in nessun modo il fatto dei processi di coscienza (mental processes); e ovviamente riconosce l'impossibilità di descrivere tali processi unicamente nella lingua della fisica, della chimica e della fisiologia (ibid., p. 18). E tuttavia egli si oppone a ogni dualismo, come anche a certi errori categoriali nelle teorie della coscienza: si oppone alla tesi che i processi di coscienza (ed essi soli) siano coscienti in modo diretto e persino immuni da errori (ibid., p. 154), e ciò unicamente per il fatto di essere appunto processi di coscienza, i quali non potrebbero aver luogo affatto se non nella luce della ‛riflessione' e ‛introspezione' (ibid., pp. 155 ss.).
Questo non significa, naturalmente, che Ryle neghi la possibilità dell'autocoscienza, la possibilità di sapere, nella ‛retrospezione' (ibid., pp. 166 ss.), ciò che in precedenza si è pensato, desiderato, ecc. Ryle sostiene essenzialmente, a modo suo, la stessa posizione da noi avanzata sopra, anche se in lui il rapporto categoriale affermativo non è definito in modo molto preciso: quando noi parliamo della ‛mente' o della coscienza di qualcuno, non ci riferiamo a un qualche organo ‛mentale', che questo qualcuno possiederebbe, bensì soltanto e unicamente a questa persona stessa, alla sua inclinazione e capacità di fare certe cose, quelle appunto che denominiamo i suoi atti di coscienza e i suoi processi di coscienza (ibid., pp. 167 ss.). Se si vuole obiettare qualcosa contro la teoria ryliana della coscienza e della mente, bisogna badare meno a ciò che dice, e richiamare piuttosto l'attenzione su ciò che non dice e di cui, pure, una teoria soddisfacente dovrebbe parlare: da un lato la sorprendente capacità dell'uomo di autocriticarsi, di scoprire i principi di validità necessari a tal fine, e di autoplasmarsi e automutarsi in conformità alla propria autocritica; e dall'altro il fenomeno della coscienza collettiva. Ryle tiene d'occhio troppo esclusivamente l'individuo; e trascura troppo - oltre al carattere di atto e di processo, proprio del mentale - il problema della differenza, immancabilmente associata a ogni operazione mentale, tra validità e non validità, valore e disvalore.
Di specifica importanza filosofica è poi un problema gnoseologico collegato al concetto di coscienza; problema che sorge ogni volta che si sostiene l'opinione secondo la quale è la coscienza il fattore che bisogna porre come soggetto della conoscenza, e ciò unicamente perché la conoscenza ha luogo nella coscienza, o anche perché è ‛opera' della coscienza. Il concetto di coscienza riveste un importante ruolo teoretico solo nel quadro del dualismo, diventato dominante a partire da Cartesio (corpus/mens; body/mind): analogamente cioè a quanto accade alla mens e al mmd, anche la coscienza (cogitatio=perceptio=conscientia in Cartesio; consciousness=perception of what passes in a man's own mind, in Locke) viene contrapposta al mondo fisico. Questo dualismo comporta subito decisive conseguenze sul piano gnoseologico.
Per dirla con due formulazioni, una radicale e un'altra piuttosto moderata: a) nel vero senso del termine, ognuno può sapere qualcosa soltanto di se stesso, della sua propria coscienza (ovvero, la coscienza sa qualcosa solo di se stessa, il che per lo più significa: delle sue rappresentazioni, delle sue ‛idee'). Circa il mondo, le ‛cose', non si può, almeno nel senso proprio del termine, sapere nulla (così per es.Hume); b) non si pone in dubbio l'esistenza del mondo, delle ‛cose', nè che l'uomo, insieme con la sua coscienza, appartenga al mondo, e neppure che le cose operino sugli uomini in modo tale da far nascere nella coscienza ‛idee' (sensations, impression); ma la coscienza, appunto, non conosce che queste sue ‛idee' e non le cose in sé; ancora Kant, nelle prime pagine della Critica della ragion pura, parte da questa concezione. Nella gnoseologia degli ultimi decenni del sec. XIX e dei primi del XX, questo dualismo - anche, da ultimo, per ragioni metodologiche - ha ancora esercitato una forte influenza: da un lato nei movimenti del ‛realismo critico' e dall'altro nella formazione della ‛fenomenologia trascendentale' di Husserl. Le ragioni metodologiche di questa forte quanto tardiva influenza del dualismo sono in connessione con l'imponente sviluppo, nel periodo menzionato, della psicologia, la quale concepiva se stessa come scienza empirica e, in quanto tale, si decise a entrare in concorrenza con le scienze naturali. Di fronte al fondamentale compito metodologico di definire il proprio oggetto in modo tale da farlo entrare in rapporto univoco con quello delle scienze naturali, e al contempo di stabilirne la pari dignità epistemologica, risultò che in definitiva erano possibili soltanto caratterizzazioni del tipo di quelle adoperate in passato dalla gnoseologia dualistica: tutte sfociavano nell'opposizione tra un ‛mondo interno' aspaziale e dato immediatamente, e un ‛mondo esterno' spaziale e accessibile solo mediatamente (grazie al ‛mondo interno'). Ogni volta che la gnoseologia si lasciò traviare da questo tentativo della psicologia di definire il proprio oggetto (attribuendo in certo modo un'importanza gnoseologica a ciò che, per la psicologia, poteva essere una necessità metodologica), il vecchio concetto di coscienza ebbe di nuovo il potere di dettare il problema gnoseologico fondamentale, e precisamente in questa forma specifica: come giunge la coscienza alla conoscenza del mondo delle cose, che sta al di là di essa? Il realismo critico tentò di rispondere a questa domanda con un procedimento relativamente semplice: ricercò nella coscienza, in modo per così dire empirico, elementi e rapporti che sembrassero autorizzare una qualche sorta di deduzioni circa il mondo che sta al di là della coscienza. Più ambiziosa fu la svolta impressa al problema dalla fenomenologia trascendentale (Husserl): se esiste una coscienza (sia essa una coscienza ordinaria ovvero scientifica) del mondo, di settori e porzioni del mondo, quali sono le operazioni della coscienza mediante le quali, nel singolo e nella collettività, tale coscienza si costituisce? Come si arriva, nell'immanenza della coscienza, alla coscienza della trascendenza del mondo?
È facile vedere che una filosofia della coscienza non può bastare a risolvere realmente il problema gnoseologico. Si può ritenere il contrario soltanto se si considera la coscienza come ciò che è dato immediatamente e in modo sicuro, che non costituisce per sé un problema gnoseologico; e se si ritiene che un problema gnoseologico si ponga soltanto in riferimento al rapporto tra coscienza e ciò che sta al di là della coscienza. Ma si può sostenere tale opinione solo finché la riflessione gnoseologica rimane, per così dire, ferma a mezza strada, in quanto trascura il fatto fondamentale che, in gnoseologia, non la coscienza, ma solo la teoria della coscienza costituisce l'uno dei termini del rapporto gnoseologico; ovvero che in gnoseologia la coscienza non assume il ruolo di soggetto teoretico, bensì, in quanto termine del rapporto gnoseologico tra coscienza e ciò che trascende la coscienza, non può presentarsi - in una con tale rapporto - se non come l'‛oggetto' dell'indagine gnoseologica. La coscienza diventa così un problema della gnoseologia, e la questione decisiva (quella circa il valore e la validità di ciò che vorremmo considerare come conoscenza) ricade in modo particolarmente energico proprio sulla coscienza, e ciò è tanto più vero quanto più la filosofia della coscienza vorrebbe farne il soggetto della conoscenza (v. anche epistemologia e fenomenologia).
7. Osservazione conclusiva
La coscienza è ancora e sempre un oggetto difficile per le teorie scientifiche e filosofiche. I problemi e le controversie derivano in misura decisiva dal fatto che sono in gioco metodi concorrenti; il che del resto si verifica necessariamente, in quanto quel singolare oggetto che è la ‛coscienza' offre tutta una serie di aspetti difficili da unificare. Le controversie non sono destinate a sparire tanto presto, né si annuncia prossima la soluzione dei problemi. Ma un'analisi accurata da un lato dei diversi aspetti, e dall'altro del possibile rapporto di tali aspetti tra di loro, come anche un'altrettanto accurata riflessione sulla struttura dei diversi metodi e sul loro rapporto reciproco, fanno tuttavia sperare che la teoria della coscienza potrà compiere ulteriori reali progressi.
bibliografia
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Gehlen, A., Der Mensch, seine Natur und seine Stellung in der Welt, Berlin 1942, Bonn 19504.
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Plessner, H., Die Stufen des Organischen und der Mensch, Berlin-Leipzig 1928.
Ryle, G., The concept of mind, London 1949 (tr. it.: Lo spirito come comportamento, Torino 1955).
Tinbergen, N., L'étude de l'instinct, Paris 1953.
Coscienza e comportamento
di Donald O. Hebb
sommario: 1. Introduzione. 2. L'evoluzione della mente. 3. L'ambiente e lo sviluppo della mente. 4. Sensibilità emotiva. 5. L'ambiente sensoriale nel periodo della maturità. □ Bibliografia.
1. Introduzione
I problemi che nascono nello studio del comportamento sono straordinariamente complessi, specialmente nel caso del comportamento dell'essere umano conscio. I progressi in queste ricerche, invero molto lenti fino a poco tempo addietro, si sono tuttavia accelerati notevolmente in questo secolo per merito prima di tutto delle acquisizioni della neuroanatomia e della neurofisiologia, e poi per il fatto che tali acquisizioni hanno reso possibile alla psicologia di adottare sistematicamente metodi biologici, anche nello studio del comportamento umano. Principali esponenti di questo orientamento furono, circa nel 1914, John B. Watson e K. S. Lashley. La mente, la coscienza e il comportamento vennero considerati come fenomeni biologici, senza presupporre l'intervento di fattori non fisici (l'ammissione di un' anima che agisca sul cervello sarebbe una forma di vitalismo, inaccettabile in biologia).
Questo significa che la coscienza è una particolare forma o un particolare livello di complessità dell'attività cerebrale, e la ‛mente' è la capacità di funzionare a tale livello. Si ritiene che la coscienza non sia propria esclusivamente dell'uomo, ma sia piuttosto un prodotto dell'evoluzione, al pari di strutture fisiche quali l'occhio o la mano, e che possa trovarsi (sia pure in grado minore) anche in altri animali. Come vedremo in seguito, i dati in nostro possesso favoriscono l'ipotesi che alcuni animali abbiano la coscienza e altri no. Il fatto che l'animale non sia capace di introspezione e che non possa dirci che è cosciente non nega questa conclusione, poiché l'idea che l'uomo possa essere capace di introspezione è erronea; per sapere che gli esseri umani sono coscienti non è necessario basarsi sui loro resoconti verbali.
Il significato essenziale di queste idee sta nelle conseguenze sperimentali e nell'aumento di conoscenze a cui hanno dato luogo. Ritorneremo su questo punto, ma è bene fare fin d'ora qualche osservazione preliminare. Innanzitutto, al buon senso queste idee possono sembrare poco plausibili, ma questa impressione non può essere accettata come critica di una concezione scientifica. Alcune idee fondamentali della scienza apparivano incredibili quando furono proposte per la prima volta (Galileo: gli oggetti pesanti non cadono più velocemente di quelli leggeri; Newton: la luce bianca è fatta di tutti i colori dell'arcobaleno) e alcune di esse non sono del tutto accettabili neppure ora (l'antimateria, per esempio, o l'idea ormai accettata dai geologi che i continenti vanno alla deriva attraverso gli oceani come banchi di ghiaccio). Queste idee, per strane che possano sembrare, trovano posto nella ‛scienza perché ‛funzionano', cioè introducono ordine in fenomeni già conosciuti e conducono a nuove scoperte. Se è poi arduo accettare le ipotesi della psicologia biologica, se esse sembrano incredibili, questi non sono elementi sufficienti per rigettarle: la vera prova deve consistere nella misura in cui contribuiscono ad arricchire la nostra conoscenza degli animali e in particolare dell'animale uomo.
Una seconda osservazione è altrettanto importante. Non si suggerisce che queste idee teoriche debbano essere credute, tutt'altro: un'altra cosa che abbiamo imparato dalle scienze fisiche è che le teorie debbono essere sostenute con elasticità, e non credute. L'idea che la coscienza consista interamente in processi elettrochimici - la miriade di impulsi nervosi che corrono qua e là nei complessi circuiti cerebrali - e un'ipotesi di lavoro e può o meno rispondere a verità; essa può essere presa in considerazione (e spesso lo è) anche dallo scienziato che non vi crede, con la speranza che quando la teoria sia stata interamente saggiata lasci ancora non spiegato qualche aspetto dell'uomo. Così si otterrebbe la prova che quella teoria è sbagliata e che nel fenomeno è implicata qualche altra entità, come l'anima. Noi possiamo, cioè, usare la teoria biologica del comportamento come si usa l'ipotesi del nulla in statistica, solo per confrontarla; nel frattempo è doveroso osservare che essa è stata molto più produttiva e chiarificatrice delle teorie precedenti.
L'ultima osservazione preliminare riguarda l'introspezione. L'idea che si è direttamente consapevoli dei propri processi consci (o di parte di essi) non è sostenibile secondo l'analisi moderna (v. Humphrey, 1951; v. Boring, 1953). Infatti, vi è una lunga storia di attestazioni da John Locke a William James che negano vi sia qualcosa da trovare nell'introspezione, se non semplici sensazioni; si sarebbe potuto senz'altro concludere da ciò che l'introspezione non esiste, per lo meno con un significato logico, ma forse questa conclusione sarebbe stata troppo radicale.
Senza dubbio conosciamo molto di quello che passa per le nostre teste in ogni particolare momento; ma si tratta di una conoscenza indiretta, del prodotto di una inferenza piuttosto che di una percezione diretta di se stessi. Non si è coscienti della propria coscienza.
A questo punto, per evitare confusione, dobbiamo notare l'uso diverso fatto in psicoanalisi dei termini conscio e inconscio, termini che derivano originariamente da Herbart. Freud, seguendo Herbart, considerò scontato (come del resto ogni altro a quel tempo) che si è direttamente consapevoli dei propri processi consci, o di parte di essi, e chiamo ‛coscienza' la parte di cui si è consapevoli e ‛inconscio' le altre attività mentali. Come abbiamo appena visto, è ora chiaro che non vi sono processi mentali di cui si è direttamente consci, perciò invece di rigettare la dottrina dell'inconscio noi ora la estendiamo a comprendere tutti i processi mentali, negando solamente l'esistenza di una mente ‛conscia' (nel senso freudiano del termine). Bisogna notare anche che Freud fu realmente un precursore della moderna psicologia biologica: quando elaborò il modo di studiare l'inconscio, non chiedendo al paziente i motivi del proprio stato ma deducendoli dall'insieme dei suoi discorsi e delle sue azioni, egli ci ha mostrato come procedere in modo oggettivo nell'analisi dei processi mentali e come rendersi indipendenti dall'autodescrizione.
2. L'evoluzione della mente
La natura delle prove da cui è possibile dedurre in ogni animale la presenza o l'assenza di coscienza appare nel modo più chiaro se si considera in via ipotetica il corso dell'evoluzione del comportamento più complesso. È evidente che l'uomo non discende da alcuna delle specie ora viventi; pertanto tracciare il corso della sua evoluzione comportamentale è necessariamente speculativo e teorico. I Roditori, i Carnivori, le Scimmie e i Primati antropomorfi hanno avuto, si può dire, un'evoluzione lunga come quella dell'uomo. Ciononostante possiamo fare uso delle nostre conoscenze sugli animali esistenti per fare qualche ragionevole supposizione sul corso della filogenesi che porta al comportamento umano, e, come vedremo, questo processo ha un effetto chiarificatore sulla natura della mente.
È evidente che il sistema nervoso è una rete di comunicazioni, con la funzione principale di condurre l'informazione (vale a dire di trasmettere minuscole eccitazioni) dagli organi di senso ai muscoli e alle ghiandole. Con lo svilupparsi durante l'evoluzione dei vari organi specializzati, l'animale divenne più sensibile agli eventi ambientali e più capace di risposte adeguate - trovare il cibo, accoppiarsi, sfuggire ai predatori - ma ciò poteva avvenire solo se l'informazione ricevuta dai recettori fosse stata in grado di raggiungere prontamente gli effettori. Il raggrupparsi di cellule sensibili alla luce a formare un occhio, di chemocettori nel naso e così via, come del resto l'unione di cellule contrattili a formare i muscoli, aumenta le capacità sensoriali e motorie ma rende inevitabile una separazione spaziale fra gli organi di senso e la muscolatura.
Questa linea di evoluzione non avrebbe potuto continuare senza lo sviluppo contemporaneo di qualcosa che colmasse questo divario. Il risultato è appunto il sistema nervoso. Una vecchia similitudine, che ha ancora una certa validità, paragona il sistema nervoso a un centralino telefonico che riceve costantemente messaggi dagli organi di senso e che costantemente li invia ai muscoli e alle ghiandole. Invece di andare direttamente da ciascun recettore a ciascun effettore, tutti i messaggi sono indirizzati tramite il sistema nervoso centrale - il cervello e il midollo spinale nei Vertebrati - con la stessa logica di economia di un sistema telefonico che non manda linee da ogni telefono della città a ogni altro, ma invece li collega tutti con una centrale di scambio.
Alcune delle connessioni senso-motorie nella centrale di scambio sono permanenti, già presenti alla nascita: queste sono la base dei riflessi incondizionati ('incondizionati' significa che non dipendono dall'esperienza precedente). L'aggiustamento automatico dell'occhio all'intensità della luce è controllato da connessioni innate fra la retina, sensibile alla luce, e la base del cervello e da qui in senso inverso al muscolo che controlla l'ampiezza della pupilla. In maniera simile la secrezione delle lacrime è controllata da fibre nervose che vanno dalla superficie dell'occhio al tronco dell'encefalo dove si mettono in connessione con altre che tornano alla ghiandola lacrimale. Queste e altre risposte riflesse sono determinate ereditariamente.
Vi sono inoltre riflessi acquisiti o condizionati che, come ci ha mostrato Pavlov, dipendono dall'esperienza passata (v. condizionamento, meccanismo del). Essi possono funzionare con altrettanta prontezza e sicurezza. Le palpebre si chiudono automaticamente prima che un oggetto in movimento raggiunga l'occhio, la mano si ritira indietro senza toccare quella superficie calda che in precedenza ha causato dolore. Tali riflessi condizionati hanno un grande valore, in quanto completano l'azione di quelli incondizionati aggiungendo speciali adattamenti all'ambiente basati sull'esperienza individuale. Essi sono tuttavia ancora di natura riflessa: non implicano un'autonomia di funzione da parte del cervello. È implicito in essi un processo di apprendimento (l'apprendimento è una modificazione di connessioni nel sistema nervoso centrale o l'aggiunta di nuove), ma la connessione fra organi di senso e muscoli o ghiandole è ancora relativamente diretta, cosicché una stimolazione sensoriale evoca ‛costantemente una risposta motoria. La risposta è perciò determinata dallo stimolo. Le risposte naturalmente variano con lo stato umorale interno (a seconda che l'animale abbia fame o no, oppure che abbia sete o che sia sessualmente recettivo) ma per ognuna di queste condizioni il comportamento è controllato dall'ambiente sensoriale.
L'evasione da un tale controllo fu un ulteriore passo a- vanti nell'evoluzione, e si può ritenere che a questo punto siano comparsi il pensiero, la volontà e la coscienza, come aspetti diversi di un'attività autonoma del cervello. L'autonomia non è completa, neanche nell'uomo, e varia di grado nelle altre specie: più chiaramente evidente e dimostrabile nei Mammiferi, è apparentemente una funzione della corteccia cerebrale o neocorteccia, che è di dimensioni ridotte negli Uccelli ma relativamente grande perfino nei Mammiferi meno evoluti. Il comportamento riflesso continua ad avere una sua grande importanza per tutti i Mammiferi, incluso l'uomo, ma l'organismo non è più programmato interamente dall'ambiente. Ogni tipo di comportamento naturalmente deve avere una guida sensoriale per essere efficace, ma il cervello ora collabora al controllo e non si limita semplicemente a trasmettere eccitazioni sensoriali.
Evidentemente il pensiero richiede una certa autonomia di funzione da parte del cervello, ma questa condizione può non essere sufficiente. Bisogna vedere quali altri fattori sono implicati. Da un punto di vista biologico, il problema ha due aspetti. C'è prima di tutto il problema delle unità di pensiero, variamente definite come idee, rappresentazioni, processi di mediazione. Fondamentalmente si può dire che un animale è capace di pensiero se è in grado di avere un'idea o una rappresentazione di un oggetto che non è presente ai suoi sensi. Al tempo dei primi studi sul comportamento Watson avanzò l'ipotesi che una tale capacità non esista, neppure nell'uomo. Egli sostenne che il pensiero, che a noi sembra del tutto distinto dall'attività motoria, non consiste altro che in una sottile concatenazione di riflessi condizionati e di movimenti muscolari minimi, troppo piccoli per essere facilmente riconosciuti come tali: il feedback da uno di questi movimenti, specialmente dal movimento degli organi della fonazione, poteva agire come stimolo condizionato per il contiguo, determinando così l'organizzazione temporale del pensiero. Sappiamo ora che l'ipotesi di base della teoria di Watson era sbagliata (veri e propri processi di rappresentazione esistono veramente), ma l'importanza da lui attribuita agli elementi motori e al feedback sensoriale era fondata e l'ipotesi ha avuto un effetto chiarificatore, in quanto ha obbligato coloro che avevano vedute diverse a fornire le prove indispensabili a sostegno delle loro tesi.
Ne seguì infatti la dimostrazione data da W. S. Hunter (v., 1913) della presenza d'ideazione negli animali, mediante un test di risposte ritardate, nel quale l'animale doveva rispondere a un segnale sensoriale dopo che tale segnale era stato allontanato. All'animale veniva mostrato in quale contenitore, fra i diversi presenti, veniva messo del cibo, ma poi non poteva raggiungere nè vedere i contenitori se non dopo un periodo di circa venti secondi. In tale situazione la scelta del contenitore giusto non può essere ascritta a un riflesso condizionato, perché una risposta riflessa o si verifica prontamente o non si verifica affatto. Il cervello dell'animale superiore - sia esso quello di un cane, di una scimmia, di un primate antropomorfo, come del resto quello dell'uomo - è capace in questo tipo di test di ricevere e trattenere un'informazione sensoriale, non in modo passivo (‛memoria') ma come promotore attivo di risposte.
Un'ulteriore prova dell'ideazione è individuabile nel comportamento finalistico, in quel tipo di comportamento cioè che implica un'attesa di eventi futuri (basata naturalmente sull'esperienza passata). Una prova formale di ciò si può trovare negli esperimenti di W. Köhler (v., 1927) sulla soluzione di problemi da parte degli scimpanzé: per esempio, nel caso in cui l'animale si serve di un bastone più corto per raggiungerne uno più lungo, che gli serve a sua volta per raggiungere una banana. La prima parte di questa sequenza comportamentale chiaramente anticipa la successiva. Una prova meno formale ma forse più chiara si osserva nel comportamento ingannevole dello scimpanzé che, vedendo sopraggiungere un visitatore al laboratorio, quando questi è ancora a una certa distanza si riempie furtivamente la bocca di acqua e si mostra amichevole e invitante; finché quando il visitatore è ormai vicino scompare l'atteggiamento amichevole e il visitatore viene investito da un getto d'acqua. In tale comportamento, specialmente la prima volta che viene messo in atto (prima cioè che possa essere considerato come acquisito lentamente con la pratica), il ruolo del pensiero è evidente.
I fenomeni di libero arbitrio hanno un significato simile: cioè il comportamento è sotto il controllo non solo dei concomitanti eventi sensoriali ma anche del pensiero. Generalmente si ritiene che il libero arbitrio implichi un concetto filosofico di indeterminazione, ma questa interpretazione è ingiustificata: essa è dovuta probabilmente a una mancata comprensione di che cosa realmente siano i fenomeni di libero arbitrio, forse a causa di un approccio troppo strettamente antropocentrico. La complessità del comportamento umano nelle situazioni sociali può impedire di vedere cose che diventano ovvie guardandole nella prospettiva dell'evoluzione. Lo stesso tipo di imprevedibilità umana dal quale desumiamo la presenza di libero arbitrio si riscontra anche in altri Mammiferi superiori, ma in situazioni più semplici, nelle quali il suo significato è più evidente.
Vi sono due generi di imprevedibilità di comportamento. Il primo è una sorta di variazione d'errore: per esempio, non si può prevedere il momento preciso in cui, all'avvicinarsi dell'oscurità, uno scarafaggio uscirà in cerca di cibo, oppure l'esatto percorso di volo di una tarma maschio in risposta all'odore di una femmina, ma la forma di risposta in entrambi i casi è altamente prevedibile. Il comportamento è qui interamente controllato dall'ambiente sensoriale e dallo stato fisiologico dell'organismo. In entrambi i casi non c'è alcuna prova che ci permetta di ritenere che in tale controllo sia implicata un'altra variabile, cioè la volontà.
Il secondo genere di imprevedibilità, del quale ci occuperemo ora, è quello che richiede come postulato l'esistenza della volontà. Invece di essere una variazione accidentale d'errore, puramente attribuibile al caso, questo origina da cambiamenti sistematici nel tipo di comportamento attuato in relazione all'ambiente sensoriale e a bisogni primari dell'organismo come evitare il dolore, nutrirsi, avere un'attività sessuale periodica: un uomo affamato, per esempio, può rifiutare il cibo, e può agire così per evitare di aumentare di peso, o per dare il cibo ad altri, oppure perché si tratta di carne ed egli è vegetariano. Questo tipo di deviazione dalla norma di comportamento ordinario è un fenomeno ben noto, e sappiamo che deriva dalla presenza di ‛idee': idee di salute, del proprio dovere nei confronti di altri, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.
Un comportamento con un significato simile, che mostra cioè il ruolo decisivo delle idee nella scelta fra due linee di azione, può essere visto anche nell'animale subumano. Questo è valido in certe occasioni anche per il ratto da laboratorio, ma l'esempio più chiaro è fornito di nuovo dallo scimpanzé in cattività. La maggior parte degli scimpanzé adulti in laboratorio non può essere controllata a scopi sperimentali con la fame: non è possibile infatti farli lavorare a compiti che a loro non piacciono offrendo a ricompensa soltanto del cibo, perfino quando siano digiuni da lungo tempo. Se però il compito ‛viene reso interessante, possono lavorare anche senza alcuna ricompensa. Un altro esempio è fornito da una femmina sessualmente esperta che, messa in gabbia con un maschio con cui era apparentemente in buoni rapporti, rifiutò per tre periodi di calore di accoppiarsi, ma che si accoppiò immediatamente quando fu messa in gabbia con un altro maschio. In un caso simile, un maschio trascurava una femmina recettiva che stava nella sua gabbia (una con cui si era accoppiato ripetutamente in passato) per masturbarsi alla vista di una giovane femmina inesperta che veniva fatta passare accanto alla gabbia. Questi sono fenomeni di libero arbitrio.
Il significato del libero arbitrio sta in due ordini di fenomeni: da una parte la cessazione del predominio assoluto esercitato dalla situazione ambientale momentanea, dall'altra il ruolo decisivo assunto dal pensiero nel controllo del comportamento. Questo tipo di comportamento non è prevedibile nè in linea teorica, nè in pratica, ma non implica un concetto filosofico di indeterminazione. Non è prevedibile in linea teorica, perché non c'è modo di accertare qual'è il tipo di attività presente in un dato momento nelle operazioni enormemente complicate del cervello dei Mammiferi. Né l'osservatore, né lo stesso soggetto (come abbiamo visto sopra) possono conoscere quale sia la configurazione ‛inconscia' del pensiero finché essa non si estrinseca in comportamenti. Da un punto di vista fisiologico, diecimila elettrodi nel cervello, anche se sapessimo dove collocarli, non ci direbbero abbastanza da permetterci di determinare quale sia tale configurazione a ogni dato momento. Perciò il corso del pensiero è imprevedibile, ma niente di tutto ciò esclude il determinismo. L'avere libero arbitrio significa che il pensiero è libero di seguire il proprio corso secondo il proprio ordine interno (sulle cui regole ancora conosciamo troppo poco) ma non che manchi di tale ordine.
Appare quindi chiaro che nel corso dell'evoluzione è comparsa, specialmente nei Mammiferi con cervello di grandi dimensioni, una serie di caratteristiche quali l'ideazione, la finalità, la volontà. Le prove di cui disponiamo indicano che esse, insieme alla sensibilità emotiva (della quale parleremo in seguito) non sono comparse all'improvviso nell'uomo ma si sono evolute gradualmente. (La sola chiara differenza fra l'uomo e gli altri animali, per quanto risulta dalle prove in nostro possesso, è rappresentata dalla capacità dell'uomo di parlare). L'ideazione, la finalità e la volontà sono caratteristiche essenziali della coscienza e quindi si può concludere in via teorica che la coscienza stessa è un prodotto dell'evoluzione, del tutto assente nelle specie più semplici come la mosca e il verme, ma chiaramente presente nei Mammiferi. Presumibilmente, tuttavia, lo sviluppo della coscienza è avvenuto, nel corso della filogenesi, per tappe molto graduali e non è quindi possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra le specie esistenti che separi quelle provviste di coscienza e quelle che coscienza non hanno.
L'idea che l'animale inferiore, che è attivo e reattivo all'ambiente, non sia conscio, può sembrare ancora una volta non troppo plausibile e tale da non poter essere seriamente presa in considerazione. Ma l'attività e la reattività non sono sufficienti per dimostrare la presenza di coscienza, neanche nell'uomo. Nell'uomo infatti la respirazione e le altre attività riflesse continuano anche nel sonno più profondo, nel coma o sotto anestesia generale. Non si ritiene poi che vi sia coscienza nella parte inferiore del corpo, nel paraplegico per sezione del midollo spinale, sebbene rimanga la reattività riflessa (reattività riflessa che del resto è presente anche nel corpo di un serpente decapitato, del quale anche si nega l'esistenza della coscienza). il fatto che il verme sia attivo in via riflessa, non vuol dire che sia capace di pianificare, di decidere, di avere paura o di provare dolore al pari dell'uomo, capacità queste che, con l'unica eccezione dell'ultima, sono tutte caratteristiche essenziali dello stato conscio.
3. L'ambiente e lo sviluppo della mente
La dipendenza della mente e della coscienza dall'ambiente fisico è ovvia sotto certi aspetti, dal momento che la vita è possibile solo in una ristretta gamma di temperature, che l'ossigeno deve essere sempre disponibile, e via dicendo. Non è altrettanto ovvio che lo sviluppo della mente e il suo mantenimento alla maturità possano dipendere interamente da un ambiente sensoriale normalmente variato: dal vedere, udire, toccare il mondo circostante nelle sue manifestazioni più complesse. Lo sviluppo di una intelligenza e di una personalità umana dipendono dalla qualità di questa variata esperienza durante l'infanzia e la fanciullezza, e anche nella maturità l'efficacia della funzione mentale continua a dipendere da essa.
Prenderemo ora in esame l'influenza dell'ambiente durante il periodo della crescita, ritornando poi a considerarne l'importanza alla maturità come è dimostrato dagli esperimenti sulla cosiddetta ‛deprivazione sensoriale'.
È noto da tempo che la mancata esposizione di un bambino a un ambiente normale, comprendendo in questo sia le attenzioni materne sia quell'insieme di suoni e di immagini appartenenti normalmente all'ambiente degli adulti, può produrre un evidente ritardo di sviluppo. Una prova chiarissima di questo fatto si è avuta in certi orfanotrofi nei quali l'assistenza fisica ai bambini è eccellente ma quella psicologica, a causa presumibilmente di carenza di personale, è quasi inesistente: il bambino viene nutrito, tenuto pulito, ma nessuno gioca con lui. Egli giace quasi sempre di fronte a un soffitto spoglio, completamente circondato dalle tende bianche che rivestono i lati del lettino (per un panorama riassuntivo della letteratura sull'argomento, v. Hunt, 1961).
In un caso limite, W. Dennis (v., 1960) rilevò come soltanto l'otto per cento dei bambini, giunti all'età di tre anni, fosse in grado di camminare da solo. Questa deficienza di sviluppo motorio è accompagnata da apatia e da un'esagerata tendenza a evitare qualsiasi cosa nuova. Per quanto riguarda l'effetto sull'intelligenza, W. Goldfarb (v., 1945) ha rilevato una differenza di 23 punti nel quoziente di intelligenza (Q.I.) di due gruppi di bambini: quelli che avevano passato i tre primi anni di vita in un orfanotrofio e quelli che erano stati sistemati presso genitori adottivi fin dal primo anno. I due gruppi erano omogeni per quanto riguarda le altre variabili e i test vennero effettuati all'età di circa 12 anni.
Numerosi esempi tratti da studi su animali confermano la conclusione che lo sviluppo dell'intelligenza e delle caratteristiche motivazionali ('personalità', o ‛temperamento') richiede l'esposizione all'ambiente normale - o a un ambiente normale - della specie. Alcuni Terriers scozzesi furono allevati individualmente in piccole gabbie senza poter vedere o avere contatto alcuno né con gli altri cani (di cui potevano però udire il rumore e sentire l'odore) né con i loro guardiani (v. Thompson e Heron, 1954; v. Melzack e Scott, 1957). Alla maturità perciò non avevano nè esperienza sociale né esperienza di relazioni spaziali o delle comuni situazioni in cui si viene a trovare normalmente un cane. Altri cuccioli della stessa figliata, come gruppo di controllo normale, furono anch'essi allevati individualmente ma come cani domestici presso privati. Alla maturità i cani in esperimento (allevati in gabbia) mostrarono una persistente inferiorità nella capacità di risolvere semplici problemi (fra cui le ‛risposte ritardate') e nell'apprendimento del test del labirinto: essi non potevano essere allevati e addestrati, il loro comportamento era così strano da essere difficilmente descrivibile e del tutto dissimile da ciò che esperti allevatori di cani avevano visto prima di allora. Simili sorprendenti risultati sono stati ottenuti da H. F. Harlow (v., 1958) con scimmie allevate in isolamento: il comportamento sociale, l'interazione con le altre scimmie erano profondamente disturbati, e il comportamento sessuale e materno del tutto inadeguati.
Questi studi su animali dimostrano che i dati umani (i citati difetti di comportamento in bambini allevati in semi-isolamento) non sono artefatti dovuti a una disattenta selezione. Precedenti critiche a questi risultati sostenevano che i bambini provenivano da famiglie povere e che avrebbero mostrato i difetti in questione in qualsiasi modo fossero stati allevati. Se qualche dubbio di questo tipo fosse rimasto, i dati ottenuti dagli studi condotti sugli animali lo hanno fugato. E questo ci porta ora al problema eredità-ambiente. Un ulteriore merito delle ricerche descritte è quello di indicarci come analizzare più logicamente e intelligentemente i rapporti fra l'eredità e le variabili ambientali, specialmente l'apprendimento.
Consideriamo un caso specifico. R. C. Tryon (v., 1940) ha dimostrato, con una lunga serie di ricerche condotte all'Università di California, che si possono selezionare ceppi di ratti da laboratorio rispetto alle loro buone o scadenti prestazioni nel labirinto, in modo da ottenere rispettivamente linee di animali intelligenti e linee di animali torpidi. Egli fece accoppiare fra di loro per varie generazioni i maschi e le femmine con punteggi migliori e i maschi e le femmine con punteggi peggiori e osservò che alla settima generazione quasi ogni animale della linea intelligente otteneva nel labirinto un punteggio migliore di ogni animale della linea torpida. Si ritenne che questi risultati dimostrassero ampiamente che l'intelligenza è ereditata e che l'esperienza esercita su di essa una scarsa influenza.
In seguito però fu reso noto un risultato apparentemente in contraddizione, proveniente da esperimenti su ratti eseguiti alla McGill University (v. Hymovitch, 1952; v. Forgays e Forgays, 1952) prima degli esperimenti già ricordati sui cani. Ora sembrava che fosse l'ambiente a determinare il livello d'intelligenza, non l'eredità: ratti cresciuti in condizioni favorevoli erano costantemente superiori, nell'apprendimento del test del labirinto, a ratti cresciuti in condizioni di restrizione. Condizioni favorevoli al loro sviluppo erano ottenute allevando i ratti, invece che nelle solite piccole gabbie, in una grande scatola contenente oggetti posti in modo tale da permettere agli animali di fare esperienze varie, come andare da un punto all'altro percorrendo cammini diversi, o come uscire fuori da un vicolo cieco, e via dicendo. L'ambiente ristretto, o sfavorevole, consisteva in piccole gabbie individuali, molto comode, con cibo e acqua sempre a disposizione, ma tali da non porre alcun problema all'animale e da fornirgli scarsissime opportunità d'imparare qualche cosa. In test fatti alla maturità, dopo che entrambi i gruppi erano stati allontanati dai loro ambienti speciali, i ratti allevati nell'ambiente favorevole (o ‛arricchito') commettevano circa la metà degli errori commessi da quelli allevati in condizioni di restrizione. Si constatò anche che l'effetto era duraturo: se infatti gli animali allevati nell'ambiente favorevole, giunti alla maturità, venivano trasferiti in quello sfavorevole per un periodo della stessa durata, non si cancellavano gli effetti delle migliori condizioni d'allevamento; e, parallelamente, se pervenuto alla maturità il gruppo allevato in restrizione veniva posto nell'ambiente arricchito, non si annullavano i danni causati dall'ambiente sfavorevole.
A prima vista i due risultati sperimentali sembravano in contraddizione: l'esperimento fatto in California indica che l'intelligenza viene ereditata, quello della McGill University che è acquisita. In realtà non c'è contraddizione: nel primo esperimento i ratti erano stati tutti allevati nelle solite gabbiette, con un ambiente praticamente identico, e quindi senza alcuna possibilità che questo esercitasse un influsso; nel secondo, il fatto di usare ratti della stessa figliata impediva all'eredità di manifestare un effetto, dal momento che i due gruppi avevano in media lo stesso patrimonio ereditario. Quello che in realtà dimostrano i due esperimenti è che sia l'eredità sia l'ambiente sono importanti nel determinare l'intelligenza. Inoltre una logica elementare ci dimostrerà che non si può dire che uno dei due fattori è più importante dell'altro: per esempio è errato affermare che l'intelligenza umana è determinata per l'80% dall'eredità e per il 20% dall'ambiente (come è stato detto). L'errore qui sta nel considerare le influenze dovute ai due fattori come additive, come cioè se uno di essi potesse da solo produrre una frazione della normale intelligenza umana. Entrambi sono invece essenziali: senza un'eredità umana non vi potrebbe essere una intelligenza umana, senza l'ambiente favorevole fornito dall'utero prima della nascita e senza un ambiente favorevole dopo la nascita non potrebbero esistere esseri umani e quindi non potrebbe esistere un'intelligenza di alcun genere. Se si dovessero quantificare questi fattori allora dovremmo dire che ciascuno di loro è importante al cento per cento, e che il loro modo di operare è moltiplicativo piuttosto che additivo, vale a dire che se entrambi i fattori sono bassi anche il prodotto sarà tale.
Incidentalmente, ci sono state molte inutili discussioni sulla differenza d'intelligenza esistente fra popoli diversi, effettuando dei paragoni specialmente fra bianchi e negri negli Stati Uniti. Tali discussioni si sono dimostrate infruttuose perché - ripetendo l'errore or ora discusso - ci si è chiesti se l'intelligenza sia ereditata, o in che misura lo sia, e anche perché non ci si rende generalmente conto di quale grande effetto possa avere sul Q.I. un tipo di allevamento effettuato in un ambiente che, pur favorevole alle condizioni di sopravvivenza, non lo è affatto da un punto di vista psicologico. Come abbiamo visto, i dati di Goldfarb mostrano che tre anni in un orfanotrofio possono abbassare il Q.I. di 23 punti (bambini allevati da genitori adottivi, media: 95; bambini allevati in orfanotrofio, media: 72). Questo risultato è in accordo poi con l'abbassamento del Q.I. che si riscontra in bambini più grandi, oltre i cinque anni, mantenuti in ambienti che erano stati più o meno adatti fino a quell'età ma che sono poi divenuti insufficienti: Q.I. 87 a sei anni; Q.I. 60 a dodici anni (v. Gordon, 1923; dati ottenuti esaminando bambini che vivono su battelli fluviali in Inghilterra). Non c'è modo al momento di valutare di quale entità sia l'effetto degli ambienti inadatti nei quali la maggior parte dei bambini negri è costretta a crescere, e d'altra parte non si può ritenere che tale effetto consista soltanto in un abbassamento di qualche punto nel Q.I. Un'altra fonte di confusione è credere che l'entità di tale effetto possa essere stimata dal valore della varianza nel Q.I. attribuibile a cause ambientali. Ciò è completamente illogico, come si può vedere facendo un esempio ipotetico. Se tutti i bambini di ceto X fossero fatti crescere in ambienti egualmente deficitari, con conseguenti bassi Q.I., la varianza attribuibile ai loro ambienti sarebbe O e quindi la conclusione sarebbe che l'ambiente deficitario non è un fattore determinante l'abbassamento nel Q.I.: il che è evidentemente una sciocchezza. Non c'è modo, a meno di condurre un esperimento su un campione molto grande (e del tutto poco pratico), di stabilire se il bambino negro medio, la cui madre abbia avuto un nutrimento adeguato durante la gravidanza, sia nato con un cervello efficiente come quello del bambino bianco medio (o con uno migliore o peggiore), che è poi in fin dei conti il nocciolo della questione.
Queste acquisizioni sullo sviluppo dell'intelligenza nella filogenesi e nell'ontogenesi sono state presentate come dati di fatto riguardanti la natura e le origini della mente e della coscienza. Il genere di apprendimento di cui l'uomo o l'animale sono capaci e il genere di problemi che essi possono risolvere forniscono un indice del livello di complessità a cui funziona il loro cervello: tuttavia possono apparire limitati come indici della qualità di coscienza, per cui possiamo ora allargare la base della nostra discussione guardando allo sviluppo dell'emozione in parallelo a quello dell'intelligenza.
4. Sensibilità emotiva
È naturale ritenere che un'evoluzione del comportamento si debba manifestare come uno sviluppo dell'intelligenza che permetta all'animale superiore di affrontare più efficacemente l'ambiente. Tuttavia gli esempi che ci permetterebbero di tracciare una tale linea di sviluppo sono discontinui e frammentari. Si è rivelato molto difficile escogitare test che permettano un valido raffronto dell'intelligenza di specie diverse, eccetto che per i suoi aspetti più generali. Inoltre il divario intellettivo fra l'uomo e i suoi parenti più vicini, le grandi scimmie, è molto notevole. Nel campo dell'emozione invece la linea di sviluppo appare assai più chiara e non vi è divario che separi l'uomo dalla scimmia.
Il quadro comparativo dell'ira fornisce un primo esempio. Negli animali da laboratorio con cervello di piccole dimensioni, topo, ratto e porcellino d'India, non c'è niente che permetta di postulare l'esistenza di questo speciale atteggiamento aggressivo; vi può essere lotta, ma mai quella temporanea ostilità, in genere fra membri della stessa specie o dello stesso gruppo sociale, che si riscontra nell'uomo (o nello scimpanzé) per torti anche minimi (o addirittura senza una ragione apparente). In questi roditori poi, non c'è segno di gelosia o di quelle peculiari forme di comportamento quali il ‛mettere il broncio' e gli infantili scoppi di collera. Il cane può mostrare gelosia e qualcosa che ricorda molto il mettere il broncio. Tuttavia lo scimpanzé mostra l'intera gamma umana di risposte - gelosia, imbronciamento, scoppi di collera e la rabbia (aggressione improvvisa e violenta ma transitoria) - e per di più mostra un tale comportamento in risposta a provocazioni caratteristicamente umane.
La peculiarità dell'atteggiamento imbronciato consiste nel rifiuto di accettare qualcosa che l'animale desiderava e che gli è stato negato: in un caso, una femmina di scimpanzé a cui era stata negata una razione di latte in più rifiutò tutto il latte per due o tre giorni, ma lo rifiutò addirittura per tre settimane dallo stesso inserviente che le aveva negato la razione in più. Questa è un'osservazione insolita, ma suggerisce che per quanto riguarda il mettere il broncio, lo scimpanzé differisce dall'uomo solo nella frequenza di attuazione di questo sorprendente comportamento. Per quanto riguarda poi gli scoppi di collera infantili non sembra esserci alcuna differenza, e chiunque abbia avuto a che fare a lungo con bambini riconoscerà subito la collera del giovane scimpanzé per quello che è: uno stizzito tentativo di modificare il comportamento dell'adulto. Se gli è stato rifiutato qualcosa da parte della madre, il piccolo scimpanzé sembra intenzionato a farsi del male fino a ottenere ciò che vuole: batte la testa contro il pavimento, si strappa o tenta di strapparsi manciate di peli dal corpo o fa finta di soffocare, tutto questo mentre tiene furbescamente d'occhio la madre per vedere che effetto sta ottenendo.
Anche per quello che riguarda la cause scatenanti l'accesso d'ira lo scimpanzé è di nuovo indistinguibile dall'uomo. Un maschio era adirato solo perché la femmina in calore in un'altra gabbia non voleva sedere dove lui se la potesse rimirare. Anche fare rumore può essere causa di collera (perfino quando il rumore è rappresentato soltanto dal continuo lamentarsi della compagna di gabbia che è stata derubata del cibo e ora viene percossa per le sue lamentele). Un rimprovero dello sperimentatore per una risposta sbagliata può avere lo stesso effetto; anche il solo fatto di sbagliare la risposta può essere sufficiente, ma il rimprovero è più efficace. Ciò che causa la collera non è la frustrazione di per sé ma essenzialmente la frustrazione intenzionale: cioè, non è tanto la privazione di qualcosa o il male subito in sé ma il fatto che qualcuno è responsabile di queste azioni. Ad esempio, uno scimpanzé non venne disturbato emotivamente da uno scroscio di acqua dal tetto in seguito a un acquazzone, ma si arrabbiò quando un altro scimpanzé gli sputò dell'acqua addosso, anche se non venne colpito. La percezione di un intento contrario a ciò che si desidera o dell'intenzione di recare disturbo è un fattore di prima importanza in un tale tipo di comportamento. Da ciò appare evidente che l'adattamento dello scimpanzé al suo ambiente implica una fondamentale coscienza delle relazioni sociali a un livello di una certa complessità. La percezione delle intenzioni altrui non è sempre esatta - una femmina ad esempio era considerata dai suoi guardiani come ‛facile a immaginare sgarbi' - comunque anche una percezione erronea di questo tipo è certamente ad alto livello. È proprio questo elemento cognitivo che separa lo scimpanzé dal cane e che, d'altro canto, ne fa quasi una caricatura dell'emotività umana.
Per quanto riguarda la paura, reazioni di fuga irrazionali sono comuni sia nell'uomo sia nello scimpanzé, e notevolmente simili. Il raffronto ci obbliga ad avere una visione più realistica dell'emotività umana: un altro punto sul quale l'approccio biologico al comportamento umano apre nuove prospettive. L'uomo, specialmente l'uomo ‛civilizzato', si considera un essere razionale, di regola calmo e imperturbabile; ma egli sistema costantemente le cose in modo da limitare il rischio di doversi esporre a qualsiasi situazione che incuta paura, orrore o disgusto, ed è solo questo che gli permette di ritenersi meno emotivo degli animali selvaggi. È sorprendente come nel descrivere la natura e la società umana si siano sistematicamente taciute le paure e le avversioni irrazionali dell'uomo adulto. Noi ci consideriamo tranquilli per natura eccetto quando accade qualcosa d'insolito, mentre lo scimpanzé è considerato un animale selvaggio con cui è pericoloso avere a che fare. Ma anche lo scimpanzé, quando viene osservato nel suo ambiente naturale, è tranquillo; questo presumibilmente perché può evitare il più delle volte tutto ciò che è fonte di pericolo e di terrore. Lo scimpanzé in gabbia non controlla il suo ambiente e come risultato talvolta sembra essere un groviglio di paure e di antipatie: cioè, in altri termini, un animale selvaggio. Ma alcune delle cose che lo disturbano ricordano cose che disturbano anche l'uomo, e ciò induce a ritenere che bisogna rivedere il concetto dell'apparente stabilità emotiva dell'uomo.
Ci si accorge allora di quanto emotivo sia l'uomo, dopo tutto, e di quanto necessaria sia la protezione resa possibile da ciò che chiamiamo civilizzazione: protezione non solo dai pericoli fisici ma, attraverso le regole del comportamento sociale, delle buone maniere, della cortesia e della morale, protezione anche da tutto ciò che può provocare collera, paure irrazionali e disgusto. Così protetto, l'uomo può essere tranquillo. Ma i segni di suscettibilità a un'ampia gamma di disturbi emotivi sono ancora presenti, quando uno li cerca. La paura dei topi, dei ragni, dei pipistrelli; il disgusto all'idea di qualche cibo ‛impuro' (l'avversione degli Ebrei per la carne di maiale è pari a quella di altri popoli verso altri cibi, per non citare poi un comune atteggiamento verso il cannibalismo); e inoltre la frequenza di depressioni, ansietà, fobie; la forza dei tabù rappresentati da certe parole e azioni di per sé insignificanti; la xenofobia, la facilità a ritenersi offesi, le guerre combattute per idee religiose, tutti questi fenomeni devono essere considerati come esempi di una caratteristica fondamentale della specie, per quanto grande possa essere la variazione nei dettagli da una persona all'altra. L'uomo è un animale razionale e non emotivo purché non venga esposto ad alcuna tra le tante situazioni di vario genere capaci di eccitare la sua emotività.
Una particolare suscettibilità presentata dallo scimpanzé ci ricorda un altro aspetto dell'emotività umana, dimenticato da tutti i trattati: i disturbi causati dalla vista di un corpo morto o di corpi mutilati o smembrati. Lo scimpanzé adulto è terrorizzato alla vista di un modello di testa di scimpanzé, come anche di vari oggetti in relazione ad esso. (Il genere di emozione suscitata può non essere la paura ma l'orrore, in certi casi comunque è di estrema intensità). Lo scimpanzé allevato in gabbia non ha alcuna conoscenza della morte, e difficilmente confonde un modello di testa in gesso, grande la metà di una testa naturale, con una testa vera. Da ciò sembra che si possa dire che si tratta di qualcosa di essenzialmente percettivo: presumibilmente una sorta di conflitto fra l'esperienza passata dell'aspetto che ha uno scimpanzé vivo e ciò che viene visto ora. Tutto questo si accorda con quanto accade nell'uomo. Si pensa talvolta che le reazioni umane nei confronti del cadavere siano di natura appresa, cioè spiegabili in base a insegnamenti ricevuti e alla paura della morte. Ma disturbi strettamente collegati ai precedenti, quali quelli dipendenti dalla vista di un'operazione chirurgica, che avendo lo scopo di prolungare la vita ha un significato opposto, dimostrano che questo tipo di reazione rappresenta qualcosa di più fondamentale. Non è sorprendente che il film di un'operazione sul cuore umano possa causare nausea e svenimenti nel pubblico. Queste sono semplici percezioni dirompenti lo stato di coscienza.
Una considerazione finale: proprio come l'emotività e l'intelligenza sono correlate nella filogenesi, in quanto l'animale più in alto nella scala è il più emotivo, così esse sono correlate anche nell'ontogenesi. È proprio il genitore umano, l'adulto invece del bambino, a essere turbato alla vista del sangue e al racconto di storie di orchi che mangiano i bambini e ne macinano le ossa per fare il pane. Nell'esperimento con gli scimpanzé riferito prima, i più piccoli non prestavano alcuna attenzione al modello di testa staccata di scimpanzé, quelli di età media (cinque-sei anni) erano affascinati e attratti da esso, mentre proprio gli adulti urlavano, defecavano e correvano via visibilmente terrorizzati. È appunto l'alto grado di sviluppo della coscienza, l'elaborato processo mentale dell'adulto di una specie più evoluta che rivelano questa fragilità di organizzazione e che vengono così facilmente turbati. È comprensibile, dopo tutto, che un'organizzazione più complessa possa venire più facilmente disorganizzata. Una sveglia di poco prezzo sopporta un cattivo trattamento meglio di un cronometro di gran pregio. I meccanismi più semplici mancano di precisione ma sono più robusti. È forse quindi ragionevole pensare che gli elaborati processi del pensiero dell'uomo adulto abbiano bisogno di un ambiente sensoriale che fornisca un certo grado di protezione, senza discostarsi di molto dalla forma in cui abitualmente è percepito.
5. L'ambiente sensoriale nel periodo della maturità
Dobbiamo prendere ora in considerazione alcuni problemi che sorgono a proposito della relazione esistente fra la mente o la coscienza e l'ambiente sensoriale. L'analisi delle emozioni ha mostrato che certi avvenimenti apparentemente di scarsa importanza - come la vista di un pezzo di argilla modellato a forma di testa, nel caso dello scimpanzé, o la vista del sangue per l'uomo - possono essere talmente sconvolgenti da causare panico o svenimento; e c'è ragione di ritenere che le comuni arrabbiature e paure della vita di tutti i giorni lo siano altrettanto nei riguardi del pensiero, sebbene i loro effetti sul comportamento, se sono tali da por fine alla stimolazione sconvolgente, possano avere un valore energizzante e organizzante. Vale a dire che l'ira può fornire energia per l'attacco (o per la minaccia d'attacco), la paura può fornire energia per la fuga. D'altronde abbiamo visto in un capitolo precedente (v. cap. 3) che l'ambiente sensoriale del bambino ha una funzione importantissima nello sviluppo, nel senso che la presenza di un ambiente stimolante è necessaria allo sviluppo dell'intelligenza; vedremo poi che questa necessità non cessa neanche alla maturità. Quindi possiamo dire che l'ambiente sensoriale ha in certe circostanze un effetto favorevole, in altre un effetto di disturbo e di sconvolgimento.
Le relazioni esistenti fra ambiente sensoriale da un lato e mente o coscienza dall'altro, un tempo difficilmente inquadrabili in una visione unitaria, sono divenute chiare in seguito alla scoperta fatta da G. Moruzzi e H. Magoun nel 1949. Con metodi fisiologici questi ricercatori dimostrarono l'esistenza nel tronco dell'encefalo di una struttura la cui attività è necessaria al mantenimento della coscienza ma che probabilmente, se diventa iperattiva, può disturbare la coscienza stessa (v. sistema reticolare ascendente).
La formazione reticolare mesencefalica, insieme ad altre strutture collegate, mantiene il livello generale di eccitabilità della corteccia e facilita la trasmissione intracorticale. Pertanto, presumibilmente, rende possibili tutte quelle complesse forme di attività che costituiscono il pensiero. La stimolazione della formazione reticolare in un gatto che dorme produce un'espressione elettroencefalografica di attivazione corticale e, dal punto di vista comportamentale, lo stato di veglia. Le onde ampie e lente dell'elettroencefalogramma scompaiono, sostituite da onde più piccole e rapide e, contemporaneamente, il gatto si sveglia. In condizioni normali l'attività in questo sistema responsabile dello stato di veglia (noto anche come sistema reticolare attivatore ascendente) si alterna con quella di un sistema antagonista responsabile del sonno, situato nel tronco dell'encefalo nelle vicinanze del primo. Durante la fase di veglia, l'attività nel sistema attivatore viene mantenuta dalle varie stimolazioni sensoriali e da un feedback discendente dalla corteccia (cioè il sistema attivatore eccita la corteccia, e la corteccia a sua volta rieccita il sistema attivatore). Una stimolazione sensoriale quindi ha due effetti del tutto distinti: da una parte l'eccitazione va direttamente alla corteccia, dove può così guidare il comportamento; dall'altra, attraverso una branca della via sensoriale, va anche a raggiungere il sistema attivatore, mantenendone l'attività e tenendo così l'animale sveglio e responsivo all'ambiente. Possiamo chiamare queste due funzioni di un evento sensoriale l'una ‛funzione di guida' (poiché dirige e controlla il comportamento), l'altra ‛funzione di attivazione'. Ovviamente quest'ultima è indispensabile. Sebbene sia la funzione di guida che in effetti dirige il comportamento, è indispensabile anche, infatti, che vi sia uno stato di attivazione, altrimenti il messaggio dall'organo di senso si spegnerebbe non appena raggiunta la corteccia. Per guidare il comportamento, qualsiasi messaggio deve essere trasmesso al sistema motorio; per dar luogo a una percezione dell'ambiente deve penetrare e modificare l'attività sia corticale che sottocorticale che costituisce la coscienza; per avere un effetto non solo momentaneo deve infine lasciare traccia della modificazione che porta dando luogo a una memoria. Quindi l'ambiente sensoriale ha due effetti distinguibili: una funzione di guida del comportamento e una funzione di mantenimento di quello stato di attività corticale e di responsività all'ambiente che chiamiamo coscienza.
Se poi, come sembra avvenire, il livello di attività nel sistema attivatore può variate da valori molto bassi a valori molto alti, rimanendo normalmente a un livello intermedio nelle ore di veglia, diventa allora possibile un quadro teorico che ci rende ragione delle variazioni, altrimenti inesplicabili, nella relazione fra coscienza e ambiente. Quando il livello d'attivazione è basso - cioè quando c'è scarsa attività nel sistema attivatore - il soggetto è inconscio ed è possibile solo una responsività riflessa, a meno che non sopraggiunga una stimolazione ambientale abbastanza forte da portare il livello di attivazione ai valori della veglia. A livelli moderati di attivazione, invece, il soggetto è conscio e gli eventi sensoriali possono avere i loro propri effetti, fra cui lo sviluppo del pensiero nel bambino e quello di risposte comportamentali modulate dal pensiero. Ad alti livelli, tuttavia, l'attivazione può produrre attività corticali fra di loro contrastanti e che si annullano a vicenda, danneggiando drammaticamente sia la coscienza sia l'adattamento all'ambiente. Un esempio: un pedone, all'improvviso, senza che nessuno lo abbia avvertito, si accorge di attraversare la strada mentre sopraggiunge un'auto a forte velocità. L'alta attivazione causata da questa percezione facilita sia l'idea di fare un balzo in avanti per mettersi al sicuro, sia di farlo all'indietro. L'effetto netto, per un momento, è un movimento mancato. Questa spiegazione teorica è solo teorica e anche se coglie nel segno richiederà senza dubbio qualche correzione nei dettagli; ma i fenomeni comportamentali descritti sono ben noti ed è soltanto il sistema attivatore di Moruzzi e Magoun che ne ha suggerito una spiegazione intelligibile e un modo per collegare questi fenomeni con altri aspetti del comportamento.
In questo modo di considerare tali fenomeni si può parlare di ‛funzione di guida' intendendo l'efficacia della stimolazione sensoriale nel guidare la risposta, particolarmente quel tipo di risposta che dipende dalla percezione e dal pensiero. La funzione di guida è bassa quando il livello di attivazione è basso (a sinistra nel diagramma), sale al livello più alto con l'aumentare del livello di attivazione, a mano a mano che il soggetto si sveglia completamente, ma poi cade di nuovo quando il livello di attivazione diventa troppo alto (a destra nel diagramma). La funzione di guida non è a livello zero nemmeno nel sonno profondo, poiché una certa responsività riflessa è sempre presente; ma sale rapidamente non appena si aprono gli occhi, al momento del risveglio. È allora possibile a questo punto un comportamento modulato dal pensiero. Un certo tipo di attività, come ad esempio risolvere un problema difficile o maneggiare un'apparecchiatura complessa, può essere possibile solo quando la funzione di guida è al suo massimo, in una ristretta zona ottimale di attivazione; ma altri generi di attività che richiedano un grado minore di pensiero e di coordinazione motoria possono aver luogo sotto un'ampia gamma di livelli di attivazione, dai più bassi fino ai più alti. L'essere assonnato, o arrabbiato, o impaurito potrebbe senz'altro impedire di accorgersi che un amico è preoccupato oppure di rispondere a una critica con il tatto che sarebbe possibile in altre circostanze; ma né il basso livello di attivazione tipico della sonnolenza né l'alto livello di attivazione della collera potrebbero interferire con l'ordinare e pagare una tazza di caffè o con il dare un'occhiata all'orologio e vedere che ora è.
Il punto basso della curva sulla destra significa che una risposta efficace all'ambiente può quasi scomparire quando il livello di attivazione è molto alto: si tratta del caso della ‛paralisi da terrore' e altri stati relativi. Studi condotti su soldati in battaglia (v. Marshall, 1947) e su civili in situazioni di emergenza (v. Tyhurst, 1951) rivelano che sia un pericolo prolungato sia un'improvvisa minaccia di morte possono ridurre quasi a zero l'efficacia del pensiero e del comportamento. In un reparto di fanteria ben addestrato, probabilmente meno di un quarto degli uomini riesce a sparare con il fucile quando si trova di faccia al nemico, e tanto meno a mirare accuratamente. In improvvise situazioni di emergenza, anche nella vita civile, si può contare solo su una medesima piccola proporzione di persone che siano capaci di agire in modo intelligente e organizzato. All'altro estremo di comportamento, delle persone a cui venga detto che la loro vita dipende da una pronta azione, un 15-25 per cento può essere del tutto incapace di muoversi; o può mostrare, tramite azioni irrilevanti e senza scopo, che il proprio pensiero è disorganizzato. L'impedimento non è né momentaneo né superficiale, poiché queste persone muoiono se non vengono prese per mano (talvolta addirittura sollevate e trasportate) e condotte fuori pericolo.
Quindi, in linea teorica, un alto livello di attivazione è capace di disorganizzare in maniera grave la coscienza umana. Guardiamo ora a una diversa causa di disorganizzazione, anch'essa relativa all'ambiente sensoriale: la sottoattivazione, teoricamente prodotta dall'isolamento sensoriale.
È importante sottolineare che queste interpretazioni, in entrambi i casi, sono teoriche. Non si può essere sicuri al momento che la paralisi da paura sia semplicemente causata da una sovrattivazione, né che i disturbi che si verificano con l'isolamento siano causati da sottoattivazione. Tuttavia, le condizioni sperimentali nelle quali è stato studiato l'isolamento comportavano in generale un alto grado di monotonia, ed è noto che una stimolazione monotona perde rapidamente la sua capacità di produrre un'attivazione. In mancanza di altre spiegazioni, possiamo ragionevolmente concludere che gli effetti disorganizzanti dell'isolamento sensoriale sono causati da un livello di attivazione anormalmente basso durante le ore di veglia (naturalmente un basso livello di attivazione è normale durante il sonno).
Diamo ora la descrizione di alcuni fenomeni osservati e delle condizioni in cui furono ottenuti (esperimenti condotti alla McGill University: v. Bexton e altri, 1954).
Studenti universitari vennero pagati 20 dollari al giorno (7.300 dollari l'anno era, a quel tempo, lo stipendio di un professore associato) per non fare niente. Il soggetto giaceva su un comodo letto in una piccola cabina con aria condizionata e gli occhi venivano coperti con un plastica traslucida capace di lasciar filtrare la luce ma tale da non consentire la visione delle forme. (Le luci venivano tenute accese 24 ore al giorno e questa può essere stata una delle cause della riscontrata frequenza di allucinazioni visive). Agli avambracci dei soggetti venivano applicati lunghi tubi che si estendevano oltre la punta delle dita, in modo da impedire o comunque minimizzare le percezioni tattili. Anche gli orecchi erano coperti da un cuscino di gommapiuma nel quale era collocato un piccolo altoparlante per comunicare con il soggetto: con questo mezzo si potevano sottoporre al soggetto problemi orali come calcoli aritmetici e anagrammi mentali, mentre le risposte potevano essere ricevute tramite un microfono sospeso sopra il torace; allorché l'altoparlante non era in uso, emetteva un ronzio basso e costante allo scopo di ridurre al minimo la percezione dei rumori del laboratorio.
La monotonia di questa situazione veniva interrotta oltre che dalla presentazione dei problemi, dai periodi in cui il soggetto, sempre con gli occhi coperti ma con le mani libere, era occupato a mangiare (il cibo era fornito su richiesta del soggetto stesso). I soggetti poi potevano andare, a richiesta, alla toilette. Quindi a parte la restrizione visiva, che era costante, si può calcolare che il soggetto fosse tagliato fuori da un normale ambiente sensoriale per 22 ore al giorno, e non per 24. Cionondimeno per qualcuno dei soggetti queste condizioni sperimentali si rivelarono intollerabili dopo un brevissimo periodo di esposizione, mentre su quei soggetti che le tollerarono più a lungo esse provocarono drammatici cambiamenti. Nonostante una generosa retribuzione e il bisogno di denaro, alcuni soggetti non poterono sopportare queste condizioni per più di qualche ora e non furono molti quelli che riuscirono a sopportarle per più di due giorni. In coloro poi che resistettero più a lungo si verificarono marcati disturbi dell'intelletto e della motivazione.
La maggior parte degli studenti intraprese gli esperimenti con l'intenzione di programmare o di rivedere i propri piani di studio universitari. Per molti di loro la cosa più sorprendente di questa esperienza fu la perdita della capacità di pensare chiaramente: questo deficit era presente non solo per gli argomenti concreti ma anche per i sogni a occhi aperti e venne chiaramente dimostrato da un abbassamento della prestazione nei test di intelligenza. Il soggetto accoglieva con piacere ogni stimolazione verbale da parte dello sperimentatore, compresi i test, ma trovava anche che gli mancava l'energia per concentrarsi su un problema, una volta che gli veniva presentato. Infine i soggetti che sopportarono le più lunghe permanenze in isolamento, da tre a sei giorni, riferirono notevoli allucinazioni, per lo più visive (ad es., vedere una processione di occhiali marciare lungo la strada, o animali preistorici aggirarsi per la giungla), ma anche delle allucinazioni corporee che qui rivestono un valore altamente significativo.
Le allucinazioni corporee riguardano la coscienza di sé. Fu riferito da alcuni che due corpi sembravano occupare il cubicolo, e in un caso il soggetto era incerto circa quale dei due fosse il proprio. Un soggetto riferì che sentiva la testa staccata dal corpo. Altri riferirono una sensazione di ‛essere un altro' oppure di ‛estraneità corporea' che era difficile classificare ulteriormente. Per qualche soggetto sembrava che la mente stesse lasciando o avesse lasciato il corpo (‟sembrava che qualcosa stesse succhiandomi via la mente attraverso gli occhi", ‟la mia mente era come una palla di cotone che galleggiava sopra il mio corpo"). Il concetto di sé e la coscienza di sé sono al centro del pensiero organizzato e resoconti come questi indicano una disorganizzazione a un livello profondo.
In effetti la mente e la coscienza dell'uomo sono più intimamente funzione del suo ambiente sensoriale (delle luci, dei suoni, dei sapori, degli odori e delle sensazioni cutanee della vita di tutti i giorni) di quello che si sarebbe mai sospettato. Da un punto di vista biologico ed evolutivo abbiamo considerato la mente, con la sua capacità di pensiero e di volontà, come una proprietà emergente del sistema nervoso, e l'abbiamo vista come un meccanismo che permette ai Mammiferi dotati di cervello di grosse dimensioni, e specialmente all'uomo, di sfuggire al rigido controllo da parte dell'ambiente. Tutte queste considerazioni restano ancora valide, ma dobbiamo riconoscere che neppure l'uomo è riuscito a sfuggire di molto a questo tipo di controllo.
Il sistema nervoso primitivo deve essere stato semplicemente un meccanismo di pronta ed efficace risposta a cambiamenti ambientali. Esso continua ad avere questa funzione nell'attività riflessa degli animali più altamente sviluppati, ma con lo sviluppo di un cervello di grandi dimensioni, e di una corteccia cerebrale, è comparso un meccanismo di controllo di ordine più elevato: il meccanismo cerebrale del pensiero. Era sembrato che il pensiero avesse reso l'uomo particolarmente indipendente, dal punto di vista psicologico, dall'ambiente attuale, da cui invece dipende dal lato fisico. L'uomo è capace mediante il pensiero di ritardare la risposta, di integrare stimolazioni passate e presenti, di anticipare il futuro, di trasportarsi con il pensiero in altri tempi e in altri luoghi, e ancora, mediante il pensiero, di dominare a volontà i comandi biologici primitivi, per lo meno quelli del dolore non troppo intenso, o della fame, o i bisogni sessuali. Ma questa apparente autonomia del pensiero è soltanto una semiautonomia. Il pensiero non è in realtà indipendente dall'ambiente presente. Si era sempre saputo che la chiarezza e l'efficacia del pensiero sono compromesse in situazioni di eccitamento eccessivo, di paura o di collera, ma si poteva pensare che si trattasse di situazioni atipiche. Quando però si osserva che la chiarezza e l'efficacia del pensiero vengono menomate anche in una situazione di scarso eccitamento, e quando si consideri per di più che gli esempi disponibili dimostrano come la capacità di pensiero del bambino non si sviluppi in ambienti limitati sensorialmente, allora bisogna riconsiderare il problema. I processi consci umani sono funzione di un moderato livello di attivazione, che a sua volta dipende dall'esposizione a situazioni moderatamente eccitanti. L'uomo adulto conscio ha fatto un lungo cammino nell'evoluzione ma continua, sia psicologicamente sia fisicamente, ad essere la creatura del suo ambiente.
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Alterazioni della coscienza
di Carlo Loeb
sommario: 1. Introduzione. 2. Modificazioni fisiologiche della coscienza. 3. Alterazioni della coscienza: a) alterazioni episodiche o transitorie; b) alterazioni prolungate o durature; c) il coma. 4. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La prima e inevitabile difficoltà che si incontra nell'affrontare argomenti connessi con le alterazioni della coscienza è rappresentata dal significato che si attribuisce a questo termine.
Nessuna definizione del termine ‛coscienza' può infatti ritenersi soddisfacente se si vuole intraprendere lo studio della coscienza quale ‛entità'. Limiteremo pertanto la trattazione al significato clinico dei termini ‛coscienza e ‛incoscienza' o meglio ealterazioni della ‛coscienza'. Pur con questa precisa delimitazione, la definizione del termine ‛coscienza' non appare certo agevole: basti pensare che alle ben diciassette definizioni raccolte da J. C. Miller (v., 1950) molte altre se ne sono successivamente aggiunte e che l'argomento delle alterazioni della coscienza è stato discusso in un vasto numero di simposi e congressi internazionali in questi ultimi quindici anni (v. Frederiks, 1969).
In via preliminare, prima di affrontare il problema con maggiori particolari, e seguendo l'opinione condivisa da molti autori, può essere utile indicare, come punto di riferimento, la definizione di S. Cobb (v., 1958), il quale intende la coscienza come ‛consapevolezza di se stessi e dell'ambiente che ci circonda". Ma se ci spostiamo nell'ambito psicopatologico, la definizione di coscienza può diventare confusa e indeterminata per gli influssi che alla psichiatria classica derivano da concezioni filosofiche diverse e alla psichiatria attuale anche da dottrine sociologiche. La coscienza, pertanto, ritenuta ‟fenomeno fondamentale e irriducibile" può assumere il significato di ‛mente', di ‛attività psichica generale', o, per i materialisti, di ‛astrazione', di ‛illusione', oppure, per Freud, di ‟semplice percezione passiva del reale" (per ulteriore discussione v. Ey, 1954; v. Kuhlenbeck, 1957). Altrimenti, seguendo Bleuler (v., 1963), bisogna addivenire a una dicotomia, separando le alterazioni degli stati di coscienza (Bewusstlosigkeit) associate a lesioni cerebrali organiche, dai disturbi di coscienza in senso lato (Bewusstseinsverschiebungen) pertinenti alla psicopatologia vera e propria.
La trattazione che segue sarà limitata, come abbiamo detto, ai problemi clinici posti dai disturbi di coscienza che implicano la consapevolezza di se stessi e del proprio corpo e i rapporti tra il soggetto e il mondo esterno, cioè le modalità di conoscere soggettivamente il mondo intorno a noi. Accanto a questi aspetti è stato proposto di includere anche i disturbi dell'‛ego', inteso come ‛proiezione della personalità', vale a dire i disturbi dell'esperienza cosciente che provengono dalle modalità con cui il soggetto vive il proprio esistere nel mondo. Il problema da affrontare sarebbe allora costituito dalla disorganizzazione della personalità o psicopatologia dell'ego che dovrebbe comprendere l'ego neurotico, l'ego paranoico, l'ego schizofrenico, ecc. Con questa impostazione, alterazioni della coscienza esistono in pressoché tutte le malattie, e per questa discussione, non certo definita al momento attuale e che non sarà affrontata in questa sede, si rimanda al lavoro di H. Ey (v., 1969).
In via preliminare, appare utile fornire un rapido cenno sulle differenze di terminologia nelle diverse lingue. In inglese e in tedesco esistono vocaboli diversi per ‛coscienza morale' (conscience, Gewissen), e coscienza in senso psicologico e clinico (consciousness, Bewusstsein), ma nelle due lingue altri termini vengono comunemente usati con significato psicologico e clinico: awareness, Erlebnis, Benormmenheit, ecc. Viene inoltre spesso utilizzato oggi, anche in francese, italiano e spagnolo, il termine ‛vigilanza' introdotto nel 1923 da H. Head col significato di ‟state of high grade physiological efficiency". Termini come ‛vigilanza', ‛coscienza grossolana' (crude consciousness), ‛veglia attiva' possono essere considerati sinonimi e definire un particolare stato di coscienza, cioè una particolare modalità attuale dell'esperienza cosciente, ma possono generare confusione se usati senza le necessarie precisazioni.
Le modificazioni delle funzioni della coscienza nell'uomo possono essere distinte in due gruppi: a) modificazioni fisiologiche e, b) modificazioni patologiche o meglio alterazioni della coscienza.
2. Modificazioni fisiologiche della coscienza
Questo capitolo in fisiologia umana e animale viene identificato, almeno per gli aspetti più importanti e noti, con lo studio del sonno. Nel sonno, infatti, si interrompono fino all'abolizione le funzioni della vita di relazione, per cui si realizza un'abolizione circadiana delle funzioni di coscienza e subiscono importanti e frequenti fluttuazioni anche funzioni della vita vegetativa (frequenza del ritmo cardiaco, del respiro; valori della pressione arteriosa, secrezione gastrica, ecc.). La trattazione del sonno e dei meccanismi nervosi implicati in questa funzione è svolta nell'articolo relativo (v. sonno); alcuni particolari, tuttavia, possono essere qui illustrati per il loro valore indicativo nel contesto del fenomeno della perdita di coscienza e del problema generale dei meccanismi nervosi che entrano in gioco nel determinare la perdita di coscienza nel sonno.
Il sonno umano può essere distinto in due fasi essenziali: a) sonno lento o sonno non-REM o sonno ortodosso e, b) sonno rapido o sonno REM o sonno paradosso.
La denominazione lento o rapido è in rapporto con la concomitante attività elettroencefalografica che è, nel primo caso, costituita da attività lenta e nel secondo da attività rapida a basso voltaggio. La definizione REM o nonREM si riferisce esclusivamente alla presenza o meno di movimenti oculari rapidi (REM = rapid eyes movements) che si registrano in questa fase associati ad attività rapida a basso voltaggio. La definizione di sonno paradosso, introdotta da M. Jouvet (v., 1967), sta ad indicare le particolarità elettroencefalografiche e le modificazioni del tono muscolare e della motilità oculare del sonno REM in antitesi con quelle del sonno non-REM, da più lungo tempo conosciuto e studiato e per contrasto denominato da alcuni sonno ortodosso.
Il sonno lento o non-REM si distingue poi in 4 stadi, che si diversificano, per i diversi tipi di attività elettrica cerebrale, in stadio 1, 2, 3, 4.
La definizione di ‛sonno leggero' per il sonno lento (stadio 4) e ‛sonno profondo' per il sonno rapido nasce dai rilievi sperimentali (specialmente studi sul sonno del gatto) e non può essere sostenuta, al momento attuale, per il sonno dell'uomo.
È interessante rilevare, a proposito dello studio della coscienza nel sonno, che, malgrado l'apparente perdita completa della funzione di coscienza, persiste un certo tipo di attività mentale, anche se con modalità operative particolari che al momento non è possibile precisare ulteriormente. E infatti si ritiene dimostrato che: alcuni stimoli sensoriali, anche se usualmente deformati, possono essere incorporati nel sogno senza provocare risveglio; stimoli della stessa natura e intensità provocano risveglio solo quando possiedono - come è esperienza comune - un contenuto emotivo e un significato personale per il soggetto; i sogni si manifestano esclusivamente durante il sonno paradosso o sonno REM; un certo tipo di attività mentale, pure se con minore certezza, è da alcuni autori ammessa anche nel sonno ortodosso o non-REM sotto forma di ‛pensiero' degli eventi del giorno precedente (vedi ad esempio il fenomeno del ‛parlare nel sonno').
Al contrario le possibilità di apprendimento nel sonno - frequentemente postulate specie in comunicazioni non scientifiche - sarebbero limitate solo allo stadio 1 del sonno lento, mentre il ricordo di eventuali informazioni trasmesse nello stadio 2 sarebbe del tutto trascurabile.
Qualche altra considerazione può essere sollecitata dal complesso di turbe sensoriali (uditive e visive) che non infrequentemente, in un certo numero di soggetti normali, si manifestano nel periodo dell'addormentamento, e che sono definite ‛allucinazioni ipnagogiche'. Occorre ricordare che si intende per allucinazione il fenomeno psichico della rappresentazione soggettiva di una percezione sensoriale, insorgente in assenza di stimoli sensoriali obiettivi.
Le allucinazioni ipnagogiche visive sono particolarmente ricche e variate: spesso si manifestano come visioni geometriche, brillanti e colorate, come visioni di facce e figure, spesso grottesche e minaccianti, oppure come scene naturali spesso mobili e complesse e trasformabili le une nelle altre. Le allucinazioni ipnagogiche uditive consistono in voci che chiamano il proprio nome e che producono risveglio, oppure in brevi frasi poveramente costruite e bizzarramente delineate. La ricostruzione di tali frasi ha permesso a E. Kräpelin (v., 1906) di trovare analogie con il pensiero schizofrenico. Il fatto che molte persone non denuncino esperienze di questo tipo sarebbe semplicemente dovuto al mancato ricordo di tali avvenimenti.
La parentela fra allucinazioni ipnagogiche e sogni può oggi essere suggerita dagli studi sulla narcolessia (v. sotto, cap. 3, § a, Le ipersonnie): le allucinazioni che precedono il sonno sono seguite nel soggetto narcolettico dal sogno, senza discontinuità; e inoltre movimenti oculari, analoghi a quelli del sonno rapido, sono stati registrati nel corso delle allucinazioni ipnagogiche.
Le allucinazioni ipnagogiche, associate a uno stato di coscienza sufficientemente conservato (inizio dell'addormentamento), potrebbero quindi essere considerate una espressione dissociata di attività da sonno rapido, così che possiamo ritenere giustificata l'ipotesi che le diverse strutture nervose impegnate nel determinare lo stato di sonno siano eventualmente in grado di funzionare indipendentemente.
3. Alterazioni della coscienza
Una classificazione delle turbe di coscienza necessita di chiarezza espositiva e ciò, considerato il gran numero di teorie e interpretazioni su questo tema, non è facilmente raggiungibile.
Al fine di coordinare e descrivere le alterazioni di coscienza, e quindi con finalità esclusivamente pratico-descrittive, può tuttavia essere prospettata la seguente classificazione: a) alterazioni episodiche o transitorie; b) alterazioni prolungate o durature. A questo secondo tipo di alterazioni appartiene il coma, al quale, per la sua importanza, dedicheremo un intero paragrafo (v. sotto, § c).
a) Alterazioni episodiche o transitorie
In questo paragrafo vengono descritte le alterazioni della coscienza dovute a diversi quadri morbosi, caratterizzati da una durata molto breve (da qualche secondo a decine di secondi o pochi minuti), e che possono ripetersi con frequenza varia e disordinata, in certi casi anche per molti anni o per tutta la vita del soggetto. Tra i principali quadri morbosi che possono dare origine a tali alterazioni ricorderemo: a) le epilessie; b) le ipersonnie parossistiche; c) le sincopi primitive o secondarie; d) la commozione cerebrale.
Alterazioni della coscienza nell'epilessia. - Poiché l'epilessia rappresenta un modello tipico della patologia della coscienza, come già affermò H. Jackson (v., 1958), ne esamineremo alcuni aspetti che risultano di notevole importanza per la comprensione del fenomeno ‛perdita di coscienza' (v. epilessia).
L'epilessia gran male, caratterizzata da perdita di coscienza improvvisa, seguita da uno spasmo tonico generalizzato e successivamente da contrazioni cloniche, rappresenta un tipico esempio di destrutturazione globale dello stato di coscienza. La profonda e completa disorganizzazione funzionale del sistema nervoso centrale è associata a una attività bioelettrica consistente in punte ritmiche bilaterali e simmetriche che diminuiscono di intensità a mano a mano che aumentano in ampiezza e che, nella fase clonica, sono interrotte da onde lente o da intervalli di silenzio elettrico. Ciò prova sufficientemente non solo che lo stato di coscienza può essere globalmente destrutturato, ma che esiste altresì una contemporanea particolare modalità di funzionamento cerebrale, onde l'assunto che lo stato di coscienza è una funzione in rapporto con l'attività di strutture encefaliche appare suffragato da dati di fatto.
Anche la perdita di coscienza nel piccolo male rappresenta un modello particolarmente idoneo per lo studio dello stato di coscienza: in questo caso l'alterazione si presenta in modo quasi isolato, con persistenza della statica e dell'equilibrio, e viene definita come breve sospensione delle funzioni di coscienza. In altre forme, la perdita di coscienza sembra meno totale e l'attività motoria automatica può essere continuata (piccolo male con automatismo); oppure si possono associare contrazioni cloniche (mioclonie in genere bilaterali e simmetriche, piccolo male con mioclonie), o una perdita del tono posturale con caduta a terra (piccolo male acinetico).
Nell'assenza piccolo male l'attività bioelettrica tipica è caratterizzata da punte-onde bilaterali simmetriche, sincrone, a 3 c/s e a prevalenza fronto-centrale; nel piccolo male mioclonico l'attività bioelettrica è caratterizzata da più scariche polipunta-onda.
Lo studio della funzione cosciente durante l'assenza piccolo male è stato abbastanza ampiamente e dettagliatamente approfondito sia sottoponendo il soggetto a stimo- li d'accessibilità e di contatto, sia attraverso la valutazione delle modificazioni del tono muscolare, del respiro e delle componenti vegetative.
Il disturbo di coscienza sembra in rapporto con l'organizzazione elettrica delle scariche di punta-onda (simmetria, ampiezza, attività di fondo preesistente) e, secondo alcuni autori, sarebbe addirittura la punta, piuttosto che l'onda lenta, a essere significativamente in relazione con la perdita di coscienza (v. Fischgold, 1957).
Tuttavia, secondo altri autori (v. Mirsky e van Buren, 1965), le risposte comportamentali possono anche essere indipendenti dall'attività elettrica, per cui viene postulato che i sistemi neuronali che regolano l'attività elettrica cerebrale siano indipendenti da quelli che regolano il comportamento e l'attenzione.
D'altra parte, nei casi in cui esiste correlazione tra attività elettrica patologica e perdita di coscienza, si può dimostrare che tra i diversi elementi valutati, e cioè recezione dell'informazione, processo integrativo, risposta motoria, quest'ultima può essere conservata.
Si può quindi ragionevolmente dedurre che la destrutturazione funzionale dell'attività cosciente nell'epilessia piccolo male è molto spesso, ma non sempre, in rapporto con una determinata attività elettrica, e che l'abolizione della coscienza può non essere completa, per cui può essere accettato il concetto di livello dello stato di coscienza quale espressione di maggiore o minore intensità della perdita di coscienza.
L'epilessia parziale, e in particolare l'epilessia temporale o psicomotoria, dimostra in maniera suggestiva i vari gradi e livelli di destrutturazione dello stato di coscienza. L'epilessia temporale è caratterizzata, dal punto di vista clinico, da alterazioni particolari, quali i fenomeni del déjà vu e jamais vu, il dreamy state, il pensiero forzato, le allucinazioni, ecc., cioè da tutta una serie di turbe a impronta psicopatologica, mentre le alterazioni elettroencefalografiche sono localizzate o diffuse, unilaterali o bilaterali.
Per quanto riguarda la perdita di coscienza assistiamo a una grande varietà di alterazioni: dalla coscienza normale, attraverso diversi livelli di destrutturazioni, fino all'assenza, tanto che Th. Alajouanine (v., 1957) parla di marcia jacksoniana della dissoluzione di coscienza.
L'epilessia temporale o psicomotoria propone quindi in maniera ancor più incisiva il tema della destrutturazione parziale della coscienza e dei patterns funzionali implicati nel fenomeno. In effetti nell'epilessia psicomotoria si osserva la perdita della facoltà di registrare durevolmente i ricordi, irresponsività e gradi variabili di comprensione, mentre il controllo motorio e la ricezione di stimoli sensoriali possono essere conservati. Se il soggetto parla, se il discorso non è adeguato alla situazione e se l'osservatore interferisce, spesso il comportamento può diventare aggressivo. In genere la turba di coscienza è associata a movimenti automatici (di masticazione, per es.) e a modificazioni respiratorie e vegetative.
Le lesioni anatomiche riscontrate negli epilettici psicomotori interessano la porzione antero-interna del lobo temporale e la parte postero-inferiore del lobo frontale, in particolare la parte anteriore del giro dell'ippocampo incluso il giro uncinato, l'amigdala, l'opercolo, la sostanza perforata anteriore e la parte posteriore del giro orbitale.
Le alterazioni spesso sono diffuse a tutto l'emisfero e anche all'emisfero controlaterale, ma talvolta non si osservano lesioni temporali o paratemporali per cui si ammette - specie sulla scorta di ricerche sperimentali - che l'attivazione avvenga indirettamente, a opera di lesioni situate a distanza che proiettano appunto nell'area temporoparatemporale. Dati desunti da ricerche sperimentali indicano che l'attività epilettica si propaga poco nella corteccia, ma notevolmente nelle strutture sottocorticali, e precisamente nei gangli basali, talamo, ipotalamo, mesencefalo, sistema reticolare attivante.
Numerose ricerche sperimentali sugli animali e studi sull'uomo hanno consentito di interpretare il significato funzionale delle strutture rinencefaliche fondamentalmente come capacità di integrare le esperienze emozionali e di registrare le tracce mnesiche, premessa essenziale per la selezione di patterns comportamentali e della esperienza cosciente. Per esempio, la stimolazione dell'amigdala nell'uomo produce frequentemente confusione (disturbi della coscienza), irresponsività, amnesia, e dimostra pertanto che l'attività amigdaloidea interferisce nel meccanismo della registrazione mnesica e nei processi integranti l'esperienza cosciente.
Per concludere converrà riassumere i dati e le deduzioni che può offrire lo studio dell'epilessia al problema dell'esperienza cosciente. La coscienza - intesa sul piano clinico - è una funzione cerebrale, o meglio i fenomeni di coscienza sono in relazione con l'attività di strutture del sistema nervoso centrale (v. Delafresnaye, 1954; v. Ey, 1954; v. Kuhlenbeck, 1957; v. Brain, 1958; v. Plum e Posner, 1972; v. Jouvet, 1967). Come ha affermato K. S. Lashley (v., 1952) la comprensione dei patterns strutturali del sistema nervoso centrale costituisce il fondamento, non ancora del tutto chiarito, per l'individuazione e la comprensione dei patterns d'attività funzionale. Se notevole è il divario tra patterns strutturali e patterns funzionali, enorme è la distanza tra patterns funzionali e patterns comportamentali, e questa problematica è particolarmente acuta nella trattazione delle turbe di coscienza.
La coscienza o esperienza cosciente (v. Eccles, 1966) rappresenta una funzione che esprime un alto livello di integrazione dell'attività del sistema nervoso centrale. In altri termini, l'esperienza cosciente di sé utilizza la coordinata organizzazione di differenti funzioni: la memoria, che fornisce la continuità dell'esperienza interna, l'immaginazione, le idee, la volontà, i sentimenti che caratterizzano l'esperienza cosciente interna. D'altro canto l'esperienza percettiva, attraverso l'organizzazione nervosa delle attività sensitive e sensoriali, le funzioni di attenzione e l'orientamento temporale e spaziale permettono di conoscere il mondo esterno delle cose e degli eventi e anche l'immagine del proprio corpo. Inoltre, l'esperienza cosciente interna, del proprio corpo e del mondo esterno sono tra di loro intimamente legate e coordinatamente organizzate. Il problema della lateralizzazione della coscienza è postulato da R. W. Sperry (v., 1966) nello studio di pazienti con sezione del corpo calloso e delle altre connessure. Esisterebbero in questi casi ‟due menti separate", cioè ‟due separate sfere di coscienza", con la conseguenza che ‟ciò che è esperito nell'emisfero destro" e sconosciuto per l'emisfero sinistro. Tuttavia si può osservare (McKay, nella discussione alla presentazione di Sperry) che nel caso in questione non esistono funzioni coscienti separate per i due emisferi, ma esiste soltanto un soggetto in cui il sistema di controllo è sezionato. Se così (almeno in linea di prima approssimazione, e sulla scorta di dati neurofisiologici e neurologici) si intende l'esperienza cosciente, appare possibile tentare una grossolana classificazione in due gruppi dei modelli di turbe della coscienza forniti dal gran male e dal piccolo male epilettico e soprattutto dall'epilessia psicomotoria.
1. Disturbi globali dello stato di coscienza: numerose funzioni cerebrali, che, attraverso la loro coordinata organizzazione, consentono un'esperienza cosciente, sono profondamente e globalmente sconvolte; la destrutturazione funzionale è elevata e globale, ma il disordine che ne consegue può essere clinicamente descritto, in quanto, anche se non è possibile un'analisi più approfondita volta a valutare singole funzioni, sono sempre individuabili tuttavia diversi gradi di destrutturazione globale in rapporto alla loro intensità che consentono di definire il livello dello stato di coscienza.
2. Disturbi parziali dello stato di coscienza: in questi casi, caratterizzati da una destrutturazione funzionale non così globale come precedentemente descritto, è possibile individuare e descrivere clinicamente di volta in volta alcuni o numerosi patterns di attività cerebrali alterati; in altri termini, se si ammette che il livello più elevato di integrazione tra i diversi patterns funzionali fornisce l'esperienza cosciente, sembra possibile cogliere stati clinici nei quali l'integrazione avviene senza l'apporto di alcuni patterns funzionali, per cui il disturbo di coscienza può essere definito parziale ed è semeiologicamente descrivibile.
Alcuni autori distinguono tra destrutturazione globale della coscienza, disordine globale dello stato di coscienza che va dallo stato di veglia attiva, al sonno e al coma (e anche definita crude consciousness o ‛vigilanza') e alterazioni dei contenuti di coscienza, espressione non accettata dagli studiosi di fenomenologia e scarsamente trattata dai behavioristi, anche se esser coscienti significa in sostanza esser coscienti di qualcosa. D'altro canto una distinzione tra stati di coscienza e contenuti di coscienza è certamente semplicistica e si adatta a qualche caso particolare: sonno e coma da un lato, estinzione sensoriale, anosognosia dall'altro (v. sotto, § b).
Non è tanto il contenuto della coscienza o la validità o meno dell'introspezione che qui si vuol discutere, quanto, molto più semplicemente, il rilievo clinico di alcune funzioni che, abolite o notevolmente e globalmente ridotte nella destrutturazione globale, possono essere rilevate e descritte clinicamente nelle turbe parziali.
Le ipersonnie. - Si distinguono due tipi di ipersonnie: le ipersonnie parossistiche di breve durata, di cui le narcolessie offrono l'esempio tipico, e le ipersonnie continue. Queste ultime non rientrano nella nostra trattazione, che riguarda i disturbi passeggeri di coscienza, e saranno quindi soltanto accennate.
La narcolessia è un disturbo caratterizzato sia dall'imperioso bisogno di dormire, preceduto o no da allucinazioni ipnagogiche (che, abbiamo visto, possono esistere anche in soggetti normali), sia da una perdita brusca di tono muscolare (cataplessia) e da paralisi da sonno.
L'apporto degli studi elettroencefalografici e poligrafici durante gli accessi di sonno e durante il sonno notturno ha condotto a importanti precisazioni circa questa malattia: a) il sonno di esordio dell'accesso narcolettico è nella maggioranza dei casi un sonno-REM, al contrario di quanto avviene nel soggetto normale; b) è turbata l'organizzazione del sonno notturno, che è leggero, lento e scarso, interrotto da periodi di insonnia; in più anche il sonno notturno è caratterizzato nella maggioranza dei casi da esordio con sonno-REM.
La cataplessia e le paralisi da sonno possono verificarsi isolatamente o associate alla presenza di accessi narcolettici.
Questi dati hanno suggerito la possibilità che il sonnoREM possa manifestarsi in ‛maniera dissociata o discordante: un ‛sonno corporeo', espresso da cataplessia e paralisi da sonno, e un sonno cerebrale', corrispondente agli accessi narcolettici e alle allucinazioni ipnagogiche.
Alterazioni del sonno si dimostrano anche in un'altra categoria di pazienti, e precisamente in quelli affetti da sindrome di Pickwick, nei quali gli accessi di sonnolenza sono associati a insufficienza respiratoria funzionale; anche in questi casi l'organizzazione del sonno è alterata per rarità di sonno-REM e di sonno lento (stadio 4). Contrariamente all'opinione corrente, non sembra che l'ipersonnia sia dovuta a ipossia e ipercapnia secondaria a ipoventilazione alveolare, per cui non è esclusa la possibilità di una alterazione centrale della regolazione ipnica.
In conclusione, l'unica informazione che l'ipersonnia parossistica, e in particolare la narcolessia, offre al nostro studio consiste nella dimostrazione che esistono nell'uomo alterazioni della coscienza dovute ad alterazioni del meccanismo del sonno, e principalmente del sonno rapido.
L'ipotesi che voleva il sonno dipendente esclusivamente della formazione reticolare ascendente, e rappresentante quindi un fenomeno passivo, cede oggi il passo all'altra secondo la quale il sonno è dovuto a centri ipnogeni attivi, localizzati uno nel bulbo e uno nel ponte e in grado di generare rispettivamente il sonno lento e il sonno rapido. Sembra pertanto accettabile l'ipotesi che nel tronco encefalico esistano due sistemi, dei quali uno attivante o desincronizzante l'elettroencefalogramma, l'altro ipnogeno attivo, costituito, come abbiamo visto, da due distinti centri.
Il sonno rapido, quindi, corrisponde a un processo attivo, con una componente tonica tradotta dall'attivazione corticale e dalla sincronizzazione ippocampica, dimostrata anche nell'uomo, e una componente fasica intermittente espressa dai movimenti oculari e somatici e dal sogno. Le vie ascendenti responsabili dell'attività tonica e fasica non sono ancora ben precisate, ma è possibile che siano costituite dal circuito tronco encefalico - sistema rinencefalico.
Il sonno narcolettico quindi corrisponde alla messa in gioco immediata dei meccanismi del sonno rapido, anche se la causa di questa attività non può essere individuata.
Le sincopi. - Con l'espressione ‛sincope vasovagale riflessa' si intendono perdite di coscienza con o senza convulsioni, dovute ad arresto cardiaco transitorio, a caduta pressoria o a inibizione respiratoria. A parte, quindi, devono essere considerate le sincopi dovute ad azione diretta sulle vie conduttrici intracardiache (blocco atrio-ventricolare) o sui centri cardiaci bulbari (poliomielite bulbare, ecc.).
La perdita di coscienza è caratterizzata elettroencefalograficamente da una scarica di onde lente bilaterali e sincrone della durata di 15-20 secondi; talora si hanno onde lente che durano pochi secondi, localizzate alla metà posteriore degli emisferi, in qualche caso non associate a segni clinici.
Le sincopi possono essere sintomatiche (da affezione cardiaca, respiratoria, epatica, renale, ecc.) o essenziali (sincopi emotive, ortostatiche, da sforzo), e in questo caso si riscontrano preferibilmente nei soggetti giovani.
La sincope è dovuta a un'anossia cerebrale determinata da una pausa cardiaca (8-10 secondi), da ipotensione marcata o da inibizione respiratoria importanti. Viene prospettata l'ipotesi che la cardioinibizione, la vasodepressione, la pneumoinibizione possano dipendere dall'alterazione di un meccanismo di tipo riflesso che mette in gioco, a livello centrale, la formazione reticolare ascendente: l'attivazione di quest'arco riflesso comporterebbe la comparsa di un'anossia che condurrebbe a un vero e proprio stato di decerebrazione funzionale (v. Gastaut e Gastaut, 1958).
La commozione cerebrale. - Da ultimo non può essere dimenticata, per la grande frequenza con cui può essere riscontrata, la ‛commozione cerebrale'. Non esiste in effetti un accordo sul significato dell'espressione ‛commozione cerebrale': transitoria perdita di coscienza senza evidenza di lesione cerebrale dovuta a un trauma cranico è forse la definizione più comune, ma non da tutti accettata. La causa della perdita di coscienza è ascritta a una lesione del tronco encefalico, o per transitorio aumento della pressione endocranica, o per lesione diretta dovuta alle forze di accelerazione-decelerazione, o per movimenti di torsione della massa encefalica.
b) Alterazioni prolungate o durature
Illustreremo ora una serie di complesse turbe della coscienza, e precisamente: 1) turbe della consapevolezza del proprio corpo (corporeal awareness) o ‟disturbi della coscienza dell'io" secondo K. Jaspers (v., 1959): estinzione sensoriale, sindrome ipercinetica, emiasomatognosia, agnosia spaziale unilaterale, anosognosia, autoscopia, depersonalizzazione; 2) turbe non facilmente definibili per la confluenza di differenti terminologie usate in psicopatologia e che, genericamente, possono essere indicate come ‛stati confusionali' (stati onirici, stati oniroidi, stato crepuscolare, sindrome di Korsakow, sindrome psicorganica, ecc.); 3) turbe globali della coscienza, prolungate o durature, rappresentate dal coma e stati affini (coma nei suoi diversi gradi; cosiddetta ‛morte cerebrale', o coma dépassé; stati definiti come mutismo acinetico, coma vigile, sindrome apallica, ecc.).
Turbe della consapevolezza del proprio corpo. - Si tratta di disturbi della consapevolezza del corpo come esperienza soggettiva e della consapevolezza del corpo come oggetto nello spazio, entrambe attività della coscienza che costituiscono un pattern funzionale fondamentale per l'esperienza cosciente.
Un primo grado di turba dell'esperienza soggettiva del proprio corpo è rappresentato dal fenomeno dell'estinzione sensoriale, cioè da un disturbo che appare con la stimolazione simultanea di due differenti aree dello stesso campo percettivo. Si riconoscono pertanto turbe di estinzione nel campo somestesico, visivo, uditivo, gustativo, stereognosico, barognosico.
Si rivela la presenza di estinzione somestesica (la meglio conosciuta e studiata) quando di due stimoli tattili, applicati simultaneamente in punti simmetrici del corpo o in punti distanti dello stesso emicorpo (faccia, mano, piede), il soggetto ne avverte uno solo, benché lo stimolo singolo portato in quelle stesse aree sia sempre avvertito.
Analogamente si descrive un'estinzione ottica o disattenzione emianoptica. Il fenomeno dell'estinzione si ritrova nelle lesioni del lobo parietale, dopo anestesia generale, dopo elettroshock ed emisferectomia, così come in pazienti psichiatrici, specie nelle sindromi cosiddette psicorganiche. Alcuni autori tuttavia descrivono il fenomeno anche in casi di lesioni del talamo e del midollo spinale. Il fenomeno dell'estinzione pertanto non sembra avere un significato localizzatorio preciso anche se, clinicamente, il disturbo percettivo più caratteristico di una lesione parietale è considerato appunto il fenomeno dell'estinzione sensoriale.
Malgrado i pareri non siano concordi, l'estinzione sensoriale viene attualmente inquadrata nei disturbi dell'attenzione. La patologia dell'attenzione distingue disturbi coscienti o incoscienti, rappresentati, i primi, dalla difficoltà soggettivamente lamentata di ‛concentrarsi' su un determinato compito e i secondi (disturbi inconsci o non-consci), dalle turbe di cui ora ci occupiamo. Anche se appare difficile isolare i disturbi dell'attenzione da altre attività superiori quali le percezioni, la memoria, l'apprendimento, il pensiero, sembra indubbio che lo stadio attentivo rappresenti una fase necessaria nel processo dell'elaborazione dell'informazione.
Appare quindi accettabile l'affermazione che una riduzione dei processi di integrazione cosciente consegue a una limitazione delle funzioni d'attenzione, percezione, memoria, pensiero, e viceversa.
La patologia dell'attenzione può essere distinta anche in turbe parziali e globali. Le turbe parziali o segmentali sono limitate a una sola modalità sensoriale o anche a una parte di questa (per es., un emicampo visivo, o anche un solo quadrante di un emicampo visivo) e sono dovute ad alterazioni della corteccia parietale (estinzione tattile) o a più vaste alterazioni corticali, parietali e occipitali associate (estinzioni tattili e visive).
I disturbi globali dell'attenzione si ritrovano nella sindrome ipercinetica dei bambini, caratterizzata da iperattività motoria, impulsività, irritabilità, distraibilità, scarsa prestazione scolastica. La genesi di tale sindrome viene riferita a un disturbo dell'attività della formazione reticolare, sia sulla base di ricerche sperimentali (v. Hernandez-Peon, 1969), sia perché la somministrazione di anfetamina, a fini terapeutici, ha notevole successo. La funzione attentiva, quindi, deve essere considerata espressione di un'attività cerebrale che costituisce una indispensabile base sia per lo stato di allerta sia per raggiungere un livello adeguato di esperienza cosciente.
Il problema dell'integrazione cosciente sorge nella discussione delle turbe dello schema corporeo. In effetti una distinzione, anche se in parte artificiale, dovrebbe essere fatta tra ‛schema corporeo', percezione cosciente del proprio corpo basata sulle precedenti e attuali informazioni somestesiche, e ‛esperienza corporea', per la quale lo schema corporeo è un prerequisito necessario, ma che rappresenta un'attività più globale e strutturata concernente l'esperienza del proprio corpo. Lo schema corporeo è un fenomeno di pertinenza neuropsicologica, l'esperienza corporea un concetto psicopatologico.
La possibilità di localizzare la funzione di rappresentazione dello schema corporeo non è da tutti accettata, ma è indubbio che per essa alcune strutture, quali il sistema somestesico afferente, il talamo e in particolare il lobo parietale, rivestono un'importanza fondamentale, come può rilevarsi dallo studio delle loro lesioni.
Tra le turbe dello schema corporeo le seguenti hanno particolare interesse per il nostro tema.
1. L'emiasomatognosia, l'agnosia spaziale unilaterale, la anosognosia, che rappresentano turbe della percezione cosciente del proprio corpo. L'emiasomatognosia che qui interessa non è l'emiasomatognosia conscia, cioè la cosciente esperienza di aver perduto la percezione di metà del corpo, ma la emiasomatognosia inconscia o non conscia, per cui il soggetto si comporta come se una metà del suo corpo fosse inesistente, e che spesso è associata all'agnosia spaziale unilaterale, cioè all'impossibilità di integrare stimoli somestesici e visivi provenienti da un emilato. Disturbi di questo tipo si ritrovano quando la lesione ha sede nell'area parietoccipitale dell'emisfero non dominante. L'anosognosia, cioè il mancato riconoscimento di un proprio difetto funzionale, in genere attribuito a una emiplegia, si trova in pazienti con lesioni parietoccipitali o talamiche o di ambedue le sedi, ma il problema localizzatorio non è agevole anche se vi è accordo sul fatto che è l'emisfero non dominante a essere leso. Nell'ambito dei disturbi anosognosici è possibile fare una distinzione tra l'anosognosia verbale (diniego verbale dell'emiplegia) e l'anosognosia comportamentale (mancato riconoscimento del lato paralizzato a livello comportamentale). In quest'ultimo campo si osservano anche fenomeni particolari, tra i quali ricordo la somatofrenia, consistente nella convinzione che il proprio arto paralizzato appartenga a un'altra persona, e la personificazione dell'arto paralizzato, caratterizzata dal fatto che il soggetto designa i propri arti con diminutivi e nomi propri.
2. L'autotopoagnosia (caratterizzata dall'impossibilità di denominare correttamente o di indicare su un disegno schematico o sul corpo dell'esaminatore parti del proprio corpo), che rappresenta la perdita della percezione e dell'immagine visiva del proprio corpo.
3. Disturbi del riconoscimento tra destra e sinistra e tra spazio corporeo ed extracorporeo, e l'autoscopia, che rappresentano turbe delle relazioni spaziali del proprio corpo e tra il proprio spazio corporeo, o interno, e lo spazio extracorporeo, o esterno. Le turbe del riconoscimento tra destra e sinistra, così come la macro o microsomatognosia, cioè percezione di parti del proprio corpo abnormemente grosse o piccole, sono spesso associate all'autotopoagnosia. L'autoscopia, cioè la percezione allucinatoria del proprio corpo proiettato nello spazio, si osserva nell'epilessia, nell'emicrania, nelle intossicazioni e infezioni (alcool, tifo, ecc.), nelle psicosi (melanconia e schizofrenia), e in varie malattie neurologiche (emorragia subaracnoidea, parkinsonismo, tumori parieto-occipitali sia destri che sinistri, ecc.), e anche in soggetti normali, specie nella fase di addormentamento; al momento attuale, essa può essere interpretata come un disturbo dello schema corporeo, per il quale assumono valore patogenetico turbe della coscienza e fattori visivi, vestibolari e psicogeni.
I rapporti tra turbe dello schema corporeo e alcuni disturbi psichici che vanno comunemente sotto il termine di ‛depersonalizzazione' sono piuttosto confusi: in questo campo forse sarebbe più corretto parlare di turbe dell'esperienza corporea. Caratteristico di questi disturbi sarebbe il sentimento di perdita dell'io o della consapevolezza della propria corporeità, espresso dai soggetti con modalità diverse, per cui classicamente si distinguono i seguenti fenomeni.
A. Depersonalizzazione autopsichica: alcuni o tutti i contenuti di coscienza sono vissuti come estranei, pensieri o sentimenti sembrano ‟strani , non appartenenti" al soggetto, e ciò viene espresso dai soggetti con frasi come: ‟mi sento strano", ‟mi sento diverso", ‟sono incapace di provare sentimenti normali", ‟come se non fossi io a pensare", come se parlassi recitando una commedia", ecc.
B. Depersonalizzazione somatopsichica e desomatizzazione: per il paziente parti del proprio corpo ‟non sono più sue", ‟sono staccate", ‟le membra sono diventate gigantesche", ‟sono costituite da sostanze estranee come metallo, pietra", ecc. Le analogie con le turbe dello schema corporeo possono, in questo caso, essere particolarmente intense. Il delirio di negazione (il soggetto afferma di non possedere più parti del proprio corpo, o di essere rimasto del tutto privo di sangue, o di ‟essere gia morto") rappresenterebbe il grado estremo di questa particolare condizione.
C. Depersonalizzazione allopsichica o derealizzazione: rappresenta una turba nell'esperire il mondo esterno, che è visto in maniera insolita, come se tutto fosse ‛lontano, staccato, irreale". È interessante osservare come queste alterazioni possano essere paragonate a fenomeni che si manifestano per alterazioni cerebrali organiche (specie nell'epilessia) e note come déjà vu, jamais vu.
Tutti i disturbi dell'esperienza corporea descritti in questo paragrafo si riscontrano in diversi quadri morbosi, e in particolare, tra i più importanti, negli stati infettivi acuti, negli stati tossici esogeni ed endogeni (specialmente nelle intossicazioni alcolica, mescalinica e da LSD), nelle psicosi puerperali, in encefalopatie diverse (da traumi cranici, tumori cerebrali, ecc.), nell'epilessia, nelle psicosi endogene (specie nel gruppo delle schizofrenie, ma anche nelle psicosi distimiche), nelle nevrosi.
Stati confusionali. - Una serie di turbe della coscienza di non facile classificazione, riscontrabili in diversi quadri psicopatologici endogeni o associati a casi di lesione encefalica, ha dato luogo a molteplici discussioni.
Una generica denominazione che verrà qui usata è quella di ‛stato confusionale'; in effetti, con l'espressione ‛confusione mentale' o ‛psicosi confusionale' si indica una sindrome caratterizzata da allucinazioni, turbe del pensiero, disorientamento spazio-temporale, obnubilamento della coscienza, perplessità, turbe amnestiche, stato delirante onirico.
Tuttavia tra le diverse scuole psichiatriche l'accordo non è completo: per gli autori di lingua tedesca si fa più facilmente ricorso al termine di ‛reazione esogena' per gli stati tossinfettivi, e di psicosi di Korsakow per gli stati nei quali predomina la confusione amnestica con confabulazioni; la psichiatria anglosassone ha dato invece scarso rilievo a questi quadri, denominati nel passato acute insanity, acute confusional insanity, e oggi piuttosto infective psychoses oppure disorders caused by or associated with impairment of brain tissue function (American Psychiatric Association, 1952); autori francesi e italiani, infine, hanno abbondantemente studiato questi quadri, che oggi vengono generalmente se denominati ‛confusione mentale' o ‛psicosi confusionali' (il termine di ‛amenza' è attualmente in disuso, poiché nel mondo anglosassone ha significato di oligofrenia). Con il termine di ‛stato confusionale' intendo quindi un quadro caratterizzato da una destrutturazione parziale della coscienza, quale si ha nella psicosi confusionale, ma che comprende anche lo stato onirico, o stato crepuscolare disorientato, e lo stato oniroide: terminologie in auge nella psichiatria classica e oggi certamente più raramente impiegate.
Lo stato onirico o stato crepuscolare disorientato realizzerebbe un restringimento della funzione cosciente, per cui il soggetto può ancora operare nell'ambito di un determinato tema ideoaffettivo, ma le modalità operative sono incoordinate, perché la distinzione tra fantasia e realtà, tra percezioni normali e alterazioni psicosensoriali (illusioni, allucinazioni) è incerta e occasionale; sono presenti anche temi deliranti variabili, in genere persecutori.
Lo stato oniroide o alterazione oniroide della coscienza non è contrassegnato da uno stato di coscienza frammentato, nè ristretto a pochi temi, ma da una vivace produzione delirante fantastica e allucinatoria, per cui l'esperienza che vive il soggetto è mutevole, cangiante senza distinzione fra realtà e immaginazione. L'orientamento nel tempo, nello spazio e tra le persone è buono o discreto, per cui lo stato oniroide può essere paragonato all'esperienza vissuta in sogni, con raffigurazioni particolarmente vivaci e intense. Lo stato confusionale si può osservare in molteplici quadri morbosi, e in particolare nelle intossicazioni endogene ed esogene (da alcool, mescalina, LSD, ecc.; da uremia, diabete, ecc.), nella psicosi puerperale o post partum, negli episodi psicotici acuti nel periodo intercritico dell'epilessia temporale, nella malattia di Ganser, nelle lesioni cerebromeningee di diversa genesi (tumori, traumi cranici, lesioni vascolari, processi infettivi e infiammatori), negli stati emozionali, nello stato ipnotico. Negli stati crepuscolari, che rappresentano l'aspetto forse più particolare e comunque più frequente degli episodi psicotici acuti degli epilettici, l'alterazione della coscienza è peculiare poiché l'esperienza cosciente è limitata a un determinato contenuto ideoaffettivo con la possibilità di stabilire rapporti normali col mondo esterno; così che secondo H. Ey (v., 1955) il soggetto non ha che una coscienza confusa del mondo che lo circonda, una ‛coscienza onirica'. In effetti, la distinzione tra stato crepuscolare orientato o disorientato (o onirico) è forse fittizia, in quanto l'oscillazione dello stato di coscienza è la regola e il soggetto raggiunge spesso il ‛livello onirico', lo stadio cioè in cui il ‛sogno', il mondo percepito carico di illusioni, fantasmi e sogni, si sostituisce alla realtà.
Negli stati crepuscolari vengono vissuti comportamenti classicamente descritti come ‛automatismi epilettici coscienti e mnesici': peculiare di queste condotte crepuscolari è il carattere di violenza improvvisa, drammatica, forsennata che conduce ad atti suicidi o omicidi.
c) Il coma
Il coma può essere definito una condizione in cui, per cause patologiche cerebrali o extracerebrali, si rileva clinicamente una riduzione fino all'abolizione prolungata o duratura dello stato di coscienza e delle funzioni somatiche (motilità, sensibilità, linguaggio) con alterazioni, talora marcate, delle funzioni vegetative.
Nel coma quindi le funzioni motorie, sensitive, coscienti sono abolite o ridotte, per cui le risposte psicologiche e motorie agli stimoli di qualsivoglia natura sono completamente abolite o ridotte a risposte riflesse rudimentali o ad automatismi semplici o complessi, mentre le funzioni vegetative (specie respiratorie e cardiovascolari) sono talora anche profondamente alterate o più spesso modestamente ridotte.
Classificazioni degli stati di coma. - Il coma, per una utilità esclusivamente semeiologica, viene comunemente distinto in gradi, in rapporto con l'intensità della perdita di coscienza. In questi ultimi anni, studi clinici sul coma e rilievi critici a proposito della distinzione del coma in stadi o gradi, a opera di Plum e Posner (v., 1972), hanno condotto a un ripensarnento, attualmente ancora in atto. Plum e Posner sostengono infatti che il coma è una sindrome clinica complessa, rappresentata da quadri clinici diversi, individuabili attraverso una costellazione di segni semeiologici che si riferiscono al tipo del respiro, allo stato delle pupille, all'alterazione della motilità oculare e delle risposte oculocefaliche provocate, all'alterazione della funzione motoria non volontaria (riflesso di prensione, paratonia, rigidità decorticata e decerebrata) oltre che, ovviamente, alle alterazioni dello stato di coscienza. L'insieme di questi segni caratterizza un complesso di sindromi neurologiche che sono espressione di una lesione diretta o indiretta delle strutture diencefaliche e del tronco cerebrale. La sindrome è nell'insieme denominata ‛sindrome di deterioramento rostro-caudale' poiché i momenti diversi che si possono cogliere, anche nello stesso caso, esprimono la progressività della lesione dalle porzioni più rostrali (il diencefalo) a quelle più caudali (il bulbo). Si possono quindi osservare sindromi di deterioramento diencefalico (distinte in precoce e tardiva), mesencefalico, pontino e bulbare, e nello stesso caso cogliere la progressione della lesione in senso rostro-caudale.
Come abbiamo detto, il problema è ancora in discussione. Lo studio di Plum e Posner (v., 1972) pone l'accento su un aspetto essenziale del ragionamento neurologico clinico: riferire una determinata sintomatologia a una precisa sede di lesione. Tuttavia l'abolizione di una classificazione basata sull'intensità della perdita di coscienza (gradi o stadi del coma) presenta alcuni inconvenienti, forse non trascurabili. Infatti, l'individuazione della sindrome di deterioramento rostro-caudale non è praticamente valida per i comi metabolici e neppure per tutti i comi da lesione del sistema nervoso centrale, poiché in alcuni casi il disturbo di coscienza può debuttare del tutto improvvisamente (ad es. in caso di embolia cerebrale), rendendo difficile la ricerca dei segni che caratterizzano le diverse sindromi. Del resto gli stessi Plum e Posner (v., 1972) implicitamente utilizzano una gradazione, anche se elementare, quando impiegano i termini di ‛stupore' e ‛coma come stati di alterazione di coscienza di gravità diversa. È possibile che future più dettagliate osservazioni permettano di prospettare una corrispondenza clinicamente utile tra i due tipi di classificazione; attualmente, seguendo una classificazione (v. Fischgold e Mathis, 1959; v. Loeb, 1958) accettata da molti autori, facciamo le seguenti distinzioni.
1. Grado 1 o coma leggero: si suole designare questo stato con le espressioni di obnubilamento della coscienza, sonnolenza o ipersonnia continua, sopore, torpore. L'indeterminatezza di queste terminologie può essere, almeno in parte, chiarita dalle seguenti precisazioni descrittive: sopore, sonnolenza o ipersonnia continua sono rappresentati da stati in cui può esistere una transitoria possibilità di risveglio per stimoli dolorosi, in genere intensi, oppure da stati in cui la possibilità di risveglio manca del tutto; torpore o alterazione ipnoide della coscienza, obnubilamento indicano uno stato simile al dormiveglia caratterizzato da rallentamento delle operazioni mentali, attenzione labile, pensiero torpido e fluttuante nei temi, reazioni motorie rallentate: in una parola un abbassamento discreto di tutto il livello operazionale mentale, ma con mantenimento delle fondamentali caratteristiche dell'attività cosciente per cui la comprensione degli ordini appare incompleta e parziale, le risposte agli ordini sono inadeguate, e la cooperazione insufficiente. Non esistono, in genere, alterazioni del respiro, del diametro pupillare, della motilità oculare, della funzione motoria non volontaria. Questo stadio potrebbe corrispondere, in parte, alla sindrome diencefalica precoce di Plum e Posner.
2. Grado 2 o coma di grado medio: la perdita di coscienza dal punto di vista dell'ispezione clinica sembra completa, il soggetto non sembra comprendere le domande e gli ordini, cui non risponde; il respiro spesso è alterato (a tipo Cheyne-Stokes); le pupille sono miotiche, reagenti parzialmente a luce molto intensa; i riflessi oculo-cefalici sono conservati; a stimoli dolorosi può esistere risposta a tipo rigidità decerebrata o decorticata, o movimenti automatici elementari nel tentativo di allontanare lo stimolo. Questo stadio potrebbe corrispondere, in parte, alla sindrome diecefalica tardiva di Plum e Posner.
3. Grado 3 o coma profondo (coma carus): all'ispezione, la coscienza appare completamente abolita: la stimolazione dolorosa anche molto intensa non suscita risposta, il respiro è spesso a tipo di iperventilazione centrale neurogena o di tachipnea superficiale o di eupnea apparente; le pupille sono midriatiche, non reagenti alla luce; i globi oculari sono immobili in posizione centrale, o talora in deviazione laterale anche strabica; i riflessi oculo-cefalici sono aboliti; l'atteggiamento è in rigidità decerebrata, spesso parziale (solo agli arti superiori) o in progressiva flaccidità. Questo stadio potrebbe corrispondere in parte alla sindrome mesencefalica e ponto-bulbare di Plum e Posner.
4. A questi tre gradi si aggiunge, oggi, anche un grado 4 rappresentato dal cosiddetto coma dépassé (v. Mollaret e Goulon, 1959), o ‛coma irreversibile' 0 ‛morte cerebrale' degli autori anglosassoni, anche se la definizione di coma per questi stati clinici appare discutibile.
Le moderne tecniche di rianimazione, infatti, consententendo di mantenere artificialmente la funzione cardiaca e la tensione arteriosa a un livello adeguato, e di regolare il respiro meccanicamente anche quando le funzioni cerebrali vengono a cessare, hanno determinato la necessità di distinguere un nuovo quadro clinico in cui alla perdita di coscienza e all'abolizione delle funzioni della vita di relazione si associa anche l'abolizione delle funzioni vegetative. Questo stato clinico comporta essenzialmente tre segni peculiari: a) l'assenza di ogni risposta agli stimoli; b) la cessazione del respiro; c) il silenzio elettrico cerebrale.
L'intero problema della definizione di una condizione così peculiare, creata dai progressi dell'assistenza medica, appare per certi aspetti controverso. L'irreversibilità di questa condizione clinico-elettroencefalografica, o, in altre parole, della morte cerebrale, può essere affermata solo se si tiene conto di altri fattori, oltre ai dati clinico-elettroencefalografici, e precisamente di fattori eziologici, di evoluzione e di prognosi: l'intossicazione da CO o da farmaci depressori del sistema nervoso può essere la causa di una condizione in tutto analoga a quella descritta come ‛morte cerebrale', ma la reversibilità è ancora possibile. Anche la durata del coma dépassé è fondamentale per la sua definizione, in quanto per affermare l'irreversibilità di questa condizione è indispensabile che i sintomi sopraelencati durino un periodo conveniente di tempo.
In altri termini, per definire una condizione clinica come coma dépassé o ‛morte cerebrale' è indispensabile che esistano i tre segni peculiari già ricordati, che l'eziologia non sia da intossicazione da CO o da farmaci, che la durata del quadro superi un certo periodo di tempo variamente stabilito da diversi autori (v. Loeb, Clinical-electrographic..., 1974).
Poichè tutti questi elementi non possono essere a disposizione al letto del malato, si comprendono le proposte di definire un tale quadro come ‛sospetta morte cerebrale' o, sul piano descrittivo, con le dizioni di ‛coma con abolizione delle funzioni vegetative' o semplicemente di ‛coma vegetativo'.
Oltre ai segni sopraindicati, e precisamente assenza di ogni risposta agli stimoli, cessazione del respiro, silenzio elettrico cerebrale, sul piano clinico bisogna ricordare che la possibile ricomparsa dei riflessi tendinei o addominali non modifica la prognosi e indica solo una ridotta partecipazione spinale.
L'arresto circolatorio totale che duri oltre 15 secondi, dimostrabile con l'angiografia carotidea e vertebrale, è un segno coadiuvante di notevole valore per la diagnosi clinica, poiché è incompatibile con la vita.
Sul piano elettroencefalografico è opportuno sottolineare che il ‛silenzio elettrico' o ‛assenza di attività bioelettrica' significa che il tracciato non contiene potenziali al di sopra dei 2 microvolts se registrati dalla teca. Dal punto di vista tecnico, le registrazioni devono essere molto accurate e peculiari, per essere assolutamente certi di registrare un vero silenzio elettrico.
Lo stato di coma dépassé può manifestarsi in malattie cerebrali primitive (encefalopatie primitive di qualunque natura: tumorale, infiammatoria, vascolare, traumatica) e secondarie (arresto cardiaco e/o respiratorio durante anestesia o nel decorso post-operatorio, avvelenamento da barbiturici e da CO, encefalopatie metaboliche, ecc.) e il meccanismo con cui si realizza è rappresentato essenzialmente dall'anossia con susseguente edema e arresto circolatorio.
Dal punto di vista anatomo-patologico le lesioni che si osservano in questi casi sono diverse: dalla colliquazione totale del cervello ad alterazioni meno importanti, consistenti in autolisi intravitale con degenerazione rilevante e diffusa, ma predominante nelle strutture basali e nel tronco cerebrale (v. Loeb, Pathology..., 1974).
L'intervallo di tempo che deve trascorrere prima che il coma dépassé possa essere considerato veramente dépassé, e cioè irreversibile, è ancora in discussione, e viene osservato da molti che non è possibile accettare criteri assoluti (v. Silverman e altri, 1970).
Riassumendo le opinioni di numerosi autori si può sintetizzare la situazione nei termini seguenti: il coma dépassé è ‛irreversibile' quando le condizioni clinico-elettroencefalografiche caratteristiche si manifestano, protraendosi immutate per 12 o 24 o 48 ore. La soluzione di questo problema può essere agevolata dalla conoscenza dell'eziologia: allo stato attuale non sono stati ritrovati in letteratura casi di lesione cerebrale secondaria che si siano ripresi dopo 48 ore di coma dépassé, e d'altro canto non sono stati segnalati casi di lesione cerebrale primitiva che siano regrediti dopo 12 ore di coma dépassé.
Le frontiere tra la vita e la morte si sono notevolmente allargate e invece di una supposta linea di netta demarcazione sembra esistere una terra di nessuno dove può essere difficile stabilire se un uomo è morto oppure ancora vivente: solo quando le condizioni clinico-elettroencefalograficche qui indicate e discusse si osservano continuamente per un periodo di tempo che come abbiamo visto a seconda dell'eziologia - va da un minimo di 12 ore a un massimo di 48 ore (secondo l'opinione di diversi autori) sembra accettabile affermare l'esistenza della cosiddetta ‛morte cerebrale'. Ma ogni singolo caso va considerato nella sua peculiarità, al di fuori di ogni schematico preconcetto e di ogni generalizzazione statistica, e affidato al giudizio di una équipe medica con competenze diverse in ambiente qualificato.
5. Altre condizioni cliniche dovute ad alterazioni dello stato di coscienza hanno ricevuto denominazioni diverse: mutismo acinetico, parasonnia, disturbi prolungati di coscienza, sindrome apallica, coma vigile. Anche se i diversi termini sono stati usati per sindromi, in parte almeno, diverse, vengono oggi designati come ‛mutìsmo acinetico' (dagli autori di lingua anglosassone), ‛coma vigile' (dagli autori di lingua francese), ‛sindrome apallica' (dagli autori di lingua tedesca), quadri che possono essere ragionevolmente unificati almeno sul piano descrittivo: si tratta di stati caratterizzati da ‛acinesia', cioè da impossibilità di eseguire movimenti volontari, da impossibilità di parlare, con conservazione di movimenti oculari apparentemente diretti a seguire una mira. Questi stati clinici si osservano in prevalenza nei comi prolungati (specie post-traumatici), ma per breve tempo anche nelle oscillazioni e nei passaggi tra i diversi gradi di coma (v. Loeb, Clinical-electrographic..., 1974).
Elettroencefalograrmma negli stati di coma. - Le classiche ricerche di 20-25 anni fa sui rapporti tra coma ed elettroencefalogramma (EEG) nell'uomo portarono all'affermazione che la perdita di coscienza è sempre associata a una attività lenta (a 1-3 c/s) organizzata.
Poiché si riteneva che alla base del coma e del sonno vi fosse un meccanismo comune, si affermò che dal punto di vista elettroencefalografico il coma era equivalente al sonno profondo, e per molti anni quindi si sostenne che l'EEG potesse costituire un test valido per individuare il livello di coscienza sia nell'uomo che nell'animale. Più recentemente, e cioè da circa 10 anni, il problema è stato riconsiderato e approfondito e lo stato di coma descritto in associazione con tracciati elettroencefalografici di tipo diverso, inclusi tracciati apparentemente normali.
Le relazioni tra stato di coscienza e attività elettroencefalografica possono essere così sintetizzate: lo stato di coma di intensità diversa (coma di grado 1-2-3) può essere associato a tracciati normali, tracciati focalmente alterati, tracciati unilateralmente alterati, tracciati diffusamente alterati. Da valutazioni statistiche risulta che nello stato di coma in circa il 40-50% dei casi le alterazioni sono diffuse, mentre i tracciati normali o ai limiti della norma rappresentano una quota molto ridotta (circa il 3%). Benché l'approfondirsi dello stato di coma sia in relazione statistica con la comparsa di alterazioni lente diffuse, ciò non accade per le lesioni del tronco encefalico, alle quali possono essere associati stati di coma profondo (coma 3) e tracciati ai limiti della norma; questi, comunque, come è facilmente rilevabile, non presentano risposta elettrica a stimolazioni sensoriali, per cui un tracciato normale dal punto di vista della frequenza non lo è invece per quanto riguarda la risposta elettrica a stimoli sensoriali, anche se in alcuni casi è stata osservata una risposta alla stimolazione visiva (v. Loeb e Poggio, 1953; v. Loeb, 1964).
Eziologia e meccanisrni fisiopatologici del coma. - L'eziologia dei quadri morbosi responsabili dello stato di coma è quanto mai varia, e comprende praticamente una elencazione di tutta la patologia encefalica primitiva e secondaria: per un orientamento più preciso, anche se generico, vengono riportati nella tab. II tipi di lesione cerebrale sopra e sottotentoriale riscontrati in 310 casi di coma di Osservazione personale, e nella tab. II i quadri di encefalopatia metabolica in grado di indurre uno stato comatoso. Numerose ricerche neurofisiologiche condotte in questi ultimi venti anni hanno tentato di individuare le strutture e di chiarire i meccanismi nervosi responsabili dell'attività cosciente nelle sue modificazioni fisiologiche e patologiche.
Le ricerche sul sonno, alle quali già accennammo in precedenza, mostrano certamente alcuni limiti per poter essere assunte come ‛modello' di perdita di coscienza, quale si osserva in patologia; si può quindi affermare che, almeno nell'uomo, il primo gradino è neuropatologico. L'assunto che la coscienza dipenda da processi nervosi che avvengono a livello encefalico rende infatti accettabile, almeno fino a un certo punto, il tentativo di localizzare le strutture encefaliche in cui tale attività ha luogo. Il primo tentativo di stabilire una relazione tra localizzazione della lesione e stato di coscienza risale all'inizio del sec. XIX, con l'affermazione che l'integrità corticale rappresenta un elemento cruciale per il mantenimento della funzione cosciente. Ma dopo le prime considerazioni di J. E. Purkinje (v., 1846), i gangli basali, l'ipotalamo, il grigio periacquedottale, la regione infundibolare, le strutture situate intorno al 3° ventricolo sono ritenute aree criticamente connesse con la funzione della coscienza.
Molti autori della moderna era neurologica, di cui C. von Economo (v., 1917) può essere considerato il pioniere, sono in accordo nel ritenere la porzione rostrale del tronco cerebrale e il talamo mediale come le strutture più importanti nel determinare la funzione di coscienza. Lo stato attuale del problema può essere riassunto come segue: lesioni del diencefalo posteriore, del tegmento mesencefalico e pontino hanno un ruolo determinante nella modificazione di coscienza.
A questo punto bisogna sottolineare come il rapporto tra stato di coscienza e sede della lesione non possa essere visto semplicisticamente come una banale correlazione tra i due fattori: in effetti, molte lesioni sopratentoriali che apparentemente non ledono le strutture mesodiencefaliche provocano il coma mediante la compressione esercitata a livello del tronco encefalico e lo spostamento del cervello e di sue parti dalla sede naturale (ernia uncale, ernia transtentoriale), quindi attraverso un meccanismo di lesione indiretta sulle strutture ponto-mesencefalo-diencefaliche.
La conclusione finale che la porzione rostrale del tronco encefalico e il diencefalo rappresentano le aree critiche per il mantenimento della funzione cosciente e che quindi la lesione diretta o indiretta di queste strutture è la causa della riduzione o dell'abolizione della funzione di vigilanza, appare aperta a qualche obiezione: infatti, non solo alcuni autori mettono in evidenza come anche per lesioni estese unilaterali o per lesioni bilaterali della corteccia si possa registrare perdita di coscienza, ma altri sostengono addirittura che la coscienza non possa essere localizzata, rappresentando per l'appunto il risultato di un'attività globale e coordinata di diverse strutture o di tutto l'encefalo.
L'opinione corrente, comunque, pone l'accento sul fatto che l'area mesencefalo-diencefalica possa essere ritenuta cruciale per il mantenimento dell'attività cosciente che noi abbiamo definito globale.
Pur con le necessarie riserve sopra esposte, deve tuttavia essere posta in rilievo l'importante analogia esistente tra i casi di coma profondo con tracciato normale e i dati sperimentali durante la fase di sonno paradossale. Inoltre, gli stessi casi di stato di coma con tracciato normale suggeriscono l'ipotesi, già sostenuta più sopra a proposito dell'assenza del piccolo male epilettico, che le strutture nervose interessate alla regolazione dell'attività elettrica cerebrale e all'attività dell'esperienza cosciente, che sembrano in molti casi correlate, possano essere, in casi particolari, differenti anatomicamente o funzionalmente.
4. Conclusione
L'esperienza cosciente interna (di se stessi), del proprio corpo e del mondo esterno, rappresenta una funzione che è in rapporto con l'attività di complesse strutture encefaliche. Allo stato attuale delle conoscenze non possono essere tratte conclusioni generali, ma solamente proposte alcune considerazioni cliniche.
Le alterazioni dell'esperienza cosciente possono essere distinte in globali e parziali. Le alterazioni globali, o alterazioni dello stato di coscienza, o alterazioni della vigilanza o della crude consciousness, si osservano con modalità prolungata o duratura nel sonno umano normale e negli stati di coma, con modalità episodica nell'epilessia, nell'ipersonnia parossistica (narcolessia), nelle sincopi, nella commozione cerebrale. Esse rappresentano un tipo di turba della coscienza che può essere ragionevolmente ascritta a una lesione anatomica o funzionale dell'area mesodiencefalica. I meccanismi nervosi che sono alla base di tale disturbo non sono del tutto chiari, ma il modello sperimentale offerto dal fenomeno sonno può rappresentare una prima base per affrontare il problema, anche se le differenze tra sonno e alterazione globale della coscienza da malattie encefaliche o extracerebrali sono sostanziali.
Le alterazioni parziali della coscienza rappresentano delle turbe in cui è possibile individuare e descrivere alcuni o numerosi patterns di attività cerebrali alterati. Essi si riscontrano in un vario gruppo di quadri morbosi: con modalità episodiche nell'epilessia psicomotoria, con modalità prolungate o durature nella patologia dell'attenzione parziale o globale (fenomeno dell'estinzione sensoriale), nelle turbe dello schema corporeo (emiasomatognosia, agnosia spaziale unilaterale, anosognosia, autotopoagnosia, ecc.), nella depersonalizzazione, negli stati confusionali.
Non c'è dubbio che per alcuni di tali quadri le alterazioni anatomiche o funzionali sono dimostrabili a livello corticale, ma è possibile rilevare anche lesioni in altre sedi; in una parte di essi, poi, come negli stati confusionali e nella depersonalizzazione, appare pressoché impossibile tentare di stabilire una sede della lesione. Analogamente i meccanismi nervosi implicati nella genesi della turba cosciente rimangono oscuri e, al momento attuale, non facilmente indagabili.
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