Abstract
Fornire una nozione di “credito d’imposta” che non abbia valenza meramente descrittiva è impresa di non facile soluzione. Il tema è particolarmente complesso al punto che lo studio della materia, a tutt’oggi, ancora non permette un compiuto inquadramento sistematico del fenomeno. In questa sede, si valuterà l’opportunità di fornire una definizione e si cercherà, altresì, di dar conto dell’evoluzione del significato che tale locuzione ha subito nel corso degli anni, anche in ragione delle più recenti tendenze giurisprudenziali e normative in materia.
La locuzione “credito di imposta” è stata tradizionalmente utilizzata per designare fenomeni fra loro molto diversi (cfr. Ingrosso, M., Il credito d’imposta, Milano, 1984; Id., Credito d’imposta, in Enc. Giur., 1988, Roma, 1; Turchi, M., Credito d’imposta, in Dig., comm., 1989, 203).
Il tema è ancora ben lungi dall’aver trovato una definitiva collocazione sistematica ed è tutt’oggi oggetto di studio essendo stato ulteriormente complicato, tra l’altro, dalla complessa evoluzione normativa, giurisprudenziale e di prassi amministrativa cui si è assistito negli ultimi anni in materia.
Ciò dipende, a ben guardare, dalla tardiva attenzione prestata dalla dottrina allo studio di quelle posizioni cd. “creditorie” vantate dal contribuente nei confronti del fisco diverse dal diritto al rimborso che deriva da un versamento indebito ab origine e che è riconducibile, tout court, alla logica del cd. indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., ai sensi del quale «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato». Ma, a rigor di termini, neppure si potrebbe parlare di interesse “tardivo” della dottrina al tema, dato che queste posizioni creditorie – diverse, cioè, da quelle riconducibili alle ipotesi di indebito oggettivo – si sviluppano solo a seguito della riforma fiscale dei primi anni settanta del secolo scorso, allorché nel sistema tributario italiano viene introdotta la cd. fiscalità di massa, che si caratterizza per la collaborazione e l’adempimento spontaneo del contribuente tramite la procedura di autoliquidazione del tributo e, soprattutto, per la fisiologica anticipazione del prelievo rispetto al verificarsi del presupposto impositivo.
Prima di allora, infatti, il credito di imposta individuava esclusivamente la situazione giuridica attiva dell’ente impositore – titolare di un diritto soggettivo di credito assistito da una forma di garanzia specifica e qualificata e, cioè, dal privilegio di cui godono i tributi dello Stato e degli enti locali – a fronte della quale si collocava la situazione giuridica soggettiva passiva del contribuente, debitore del tributo ed obbligato al versamento della somma dovuta.
Solo con la riforma tributaria degli anni settanta del secolo scorso – con l’introduzione della procedura di autoliquidazione del tributo e l’espandersi del fenomeno della riscossione anticipata rispetto al verificarsi del presupposto d’imposta – la locuzione ha finito per assumere una valenza di segno contrario: essa ha perso progressivamente l’originario significato indicativo di una posizione creditoria dell’ente impositore nei confronti del contribuente ed è stata sempre più spesso impiegata per designare la situazione giuridica soggettiva attiva del soggetto debitore del tributo nei confronti dell’ente pubblico impositore.
In via di prima approssimazione, sembra corretto affermare che la locuzione “credito di imposta” individui, in via di principio, il fenomeno in base al quale il contribuente – solitamente debitore dell’erario, in quanto soggetto passivo dell’obbligazione tributaria – è titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva nei confronti dell’ente impositore. In questa prospettiva, peraltro, si evidenzia che «la principale situazione soggettiva attiva del contribuente è il credito d’imposta, che può derivare, oltre che dalle situazioni di indebito e di restituzione», anche «dall’operare dei meccanismi che assolvono a specifiche esigenze nell’attuazione del tributo (tipico è il caso dell’IVA) oppure dalla tendenza, sempre più accentuata, ad anticipare la riscossione dell’imposta rispetto al verificarsi del presupposto» (cfr. Paparella, F., Le situazioni giuridiche soggettive e le loro vicende, in Fantozzi, A., a cura di, Diritto tributario, Torino, 2012, 487).
Com’è evidente, però, questa generica definizione ha valore meramente descrittivo: come correttamente evidenziato da taluni autori, infatti, sarebbe necessario «delimitare il concetto (di credito d’imposta) in modo tale da isolare una serie di fattispecie differenziandole da altre analoghe»; in primis, escludendo le ipotesi di indebito, posto che «se si dovesse allargare la definizione anche ai pagamenti indebiti vi rientrerebbero tutte le posizioni soggettive attive dei contribuenti verso il fisco, e la definizione perderebbe qualsiasi carattere identificante» (Turchi, M., op. cit., 206).
Per meglio definire l’ambito dell’indagine appare allora forse maggiormente utile ricordare alcune classificazioni tradizionali delle più importanti posizioni lato sensu “creditorie” vantate dal contribuente nei confronti dell’erario. In primis, merita segnalare la tradizionale distinzione tra:
a) crediti “da rimborso” o da “indebito”, che derivano – come anticipato – da un versamento indebito ab origine e sono riconducibili alla logica del cd. indebito oggettivo originario di cui all’art. 2033 c.c.;
b) crediti da “restituzione” o, secondo alcuni autori, da “indebito sopravvenuto”, che derivano da versamenti successivamente considerati indebiti alla luce di eventi ulteriori e successivi che la legge considera idonei a modificare ex post, dal punto di vista qualitativo e/o quantitativo, la configurazione del presupposto impositivo a suo tempo realizzata dal contribuente (come tipicamente accade nell’ambito dei tributi di registro e sulle successioni in caso, rispettivamente, di successivi nullità o annullamento dell’atto sottoposto a registrazione e di modifica della devoluzione ereditaria);
c) crediti “d’imposta”, intesi come posizioni creditorie del contribuente non collegate ad alcun versamento indebito del tributo – né originario, né successivo – che, quindi, non riguardano la “patologia” del sistema ma, anzi, sono espressione della (e si inseriscono perfettamente nella) fisiologica attuazione del tributo.
Nell’ambito di tale ultima categoria – e per meglio delineare i termini del problema che deve essere affrontato in questa sede – sia consentito ulteriormente distinguere tra:
i) crediti di imposta “in senso lato”, che rappresentano una conseguenza fisiologica degli ordinari meccanismi “autoliquidatori” del tributo. Tali posizioni creditorie nascono, per lo più, dai meccanismi di riscossione “anticipata” dei tributi (acconti, ritenute alla fonte a titolo di acconto, ecc.) e sono determinate dall’ordinario meccanismo applicativo tipico di determinate imposte;
ii) crediti di imposta “in senso stretto”, che sono espressione di specifiche discipline sostanziali perequative o che rispondono, per lo più, a logiche di tipo agevolativo e a finalità extrafiscali.
I rimborsi e le restituzioni di cui alle lettere a) e b) costituiscono, secondo la dottrina prevalente, rimedi alla carenza, rispettivamente, originaria e/o sopravvenuta, della giustificazione causale del prelievo tributario ed esulano dall’ambito proprio di questa indagine (sul tema si rimanda a Basilavecchia, M., Rimborso d’imposta, in Diritto online Treccani, 2014, che evidenzia comunque come non vi sia unanimità di vedute in ordine al fatto che si determini effettivamente un indebito, ancorché sopravvenuto, in caso di pagamento originariamente legittimo rivelatosi successivamente non giustificato), mentre la successiva analisi avrà ad oggetto esclusivamente l’approfondimento delle fattispecie qui definite come crediti di imposta “in senso lato” e “in senso stretto”, che si caratterizzano, come detto, per non essere collegate ad un pregresso pagamento “indebito” di tributi.
Come detto, lo studio dei rapporti giuridici nell’ambito dei quali il privato assume la veste di “creditore”, anziché di debitore dell’ente pubblico, è ancora in pieno fermento e tutt’altro che giunto a conclusione. È stato peraltro evidenziato che, al fine di delimitare l’uso (e l’abuso) della locuzione “credito d’imposta”, essa dovrebbe essere limitata a quei crediti che scaturiscono «da situazioni particolari, le più disparate tra di loro, ma accomunate tutte da un minimo comun denominatore: quello dell’emersione del credito a seguito della corretta (fisiologica, si direbbe) liquidazione del tributo. Si tratta, tra gli altri, dei crediti attribuiti per risolvere fenomeni di doppia imposizione economica, interna ed internazionale, o di quelli attribuiti con finalità di incentivo» (così Cipolla, G.M., Crediti d’imposta e tutele processuali: si rafforza la tesi del consolidamento del credito esposto in dichiarazione e non rettificato dal Fisco, in Riv. giur. trib., 2011, 506).
Anche in questa più limitata accezione, tuttavia, la categoria dei cd. crediti d’imposta “in senso stretto” non si mostra unitaria, annoverando al suo interno fattispecie tra loro fortemente eterogenee. Volendo delimitare l’analisi alle ipotesi più rilevanti è opportuno menzionare:
a) i crediti d’imposta volti ad eliminare la doppia imposizione – economica e/o giuridica – che il legislatore introduce per esigenze sistematiche e per realizzare finalità perequative;
b) i crediti d’imposta con carattere di incentivo (oggi molto spesso comunemente definiti dalla stampa specializzata anche in termini di “bonus” fiscale), che hanno carattere premiale o agevolativo e, per lo più, natura extrafiscale.
Nell’ambito dei crediti d’imposta volti ad eliminare la doppia imposizione deve essere innanzitutto annoverato il credito per le imposte pagate all’estero (cd. foreign tax credit) che è volto ad eliminare il fenomeno della doppia imposizione internazionale e che è attualmente previsto, in ambito IRPEF ed IRES, rispettivamente, agli artt. 11 e 165 del t.u.i.r. Com’è noto, tale credito d’imposta è, in realtà, strutturato come una vera e propria detrazione d’imposta: in sostanza, le imposte pagate all’estero a titolo definitivo sui redditi ivi prodotti sono ammesse in detrazione dall’imposta dovuta al fisco italiano secondo le tassative condizioni previste dall’art. 165 del t.u.i.r., come modificato ad opera del cd. decreto internazionalizzazione (cfr. art. 15 d.lgs. 14.9.2015, n. 147). Esso costituisce, quindi, un rimedio contro la doppia imposizione che viene a crearsi in presenza di redditi transnazionali assoggettati a tassazione, in capo al medesimo soggetto, sia nel Paese in cui il reddito è prodotto (Stato della fonte), sia nel Paese di residenza (Stato della residenza) e compete solo fino a concorrenza dell’imposta italiana relativa al reddito estero perché «quando l’imposta estera, rispetto a quella dovuta in Italia (Paese di residenza del contribuente) è: - inferiore, occorre versare all’Erario italiano la differenza; - superiore, non si dà luogo a “restituzione” dell’eccedenza» (cfr. circ. Agenzia delle Entrate, 5.3.2015, n. 9/E; per approfondimenti sul tema, amplius, Burelli, S., Doppia imposizione interna e internazionale (dir. trib.), in Diritto online Treccani, 2015; Contrino, A., Credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero, in Dig. comm., Aggiornamento, Torino, 2007, 207; Melis, G., Commento all’art. 165, in Fantozzi, A., a cura di, Commentario breve alle leggi tributarie, III, TUIR e leggi complementari, 2010, 805; Ardito, F., Art. 165, in Tinelli, G., a cura di, Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, 1402).
Sempre nell’ambito dei crediti volti ad eliminare la doppia imposizione merita segnalare, per la sua importanza storica, l’abolito credito d’imposta per gli utili distribuiti da società ed enti residenti, vigente nel contesto della ormai soppressa IRPEG (cd. credito IRPEG, introdotto dalla l. 16.12.1977, n. 904 e previsto dai previgenti artt. 14 e 92 del d.P.R. 22.12.1986, n. 917). Il legislatore riconosceva al socio percettore del dividendo un “credito” da utilizzare in diminuzione della propria imposta personale e di importo sostanzialmente equivalente all’imposta sul reddito applicata dalla società sugli utili da cui traevano origine i dividendi. Il credito di imposta in esame era volto a correggere il fenomeno della doppia imposizione economica (gravante prima sul reddito prodotto dall’ente e, poi, sull’utile distribuito al socio) ma si poneva in potenziale contrasto con i principi europei di non discriminazione e di libera circolazione dei capitali in quanto non era riconosciuto per gli utili distribuiti da società ed enti non residenti (cfr. C. giust., 6.6.2000, C-35/98, Staatssecretaris van Financiën c. B.G.M. Verkooijen). Con la riforma del 2003 e l’introduzione dell’IRES il metodo del credito di imposta è stato eliminato ed al suo posto, a decorrere dal 1° gennaio 2014, il legislatore ha introdotto il metodo di parziale esenzione del dividendo, di modo che il regime impositivo dei dividendi percepiti da soggetti fiscalmente residenti in Italia prescinde ora dalla residenza fiscale della società che li eroga. In questo modo, il legislatore ha realizzato l’equiparazione del regime impositivo dei dividendi di fonte estera con quello dei dividendi di fonte italiana (cfr. Ludovici, P.-Conidi, L., La qualificazione dei dividendi di società emittenti estere e il credito per tributi assolti all’estero, in Maisto, G., a cura di, La tassazione dei dividendi intersocietari, Milano, 2011, 277; per approfondimenti in merito alla nuova disciplina impositiva cfr. Padovani, F., Dividendi (dir. trib.),in Diritto online Treccani, 2016).
I crediti di imposta a carattere di incentivo configurano, invece, posizioni creditorie che il legislatore attribuisce al contribuente in ragione di scelte discrezionali sostanzialmente con finalità di ausilio finanziario, per scopi promozionali o di incentivo e che, in genere, non determinano il diritto al rimborso né consentono la riportabilità a nuovo del credito, al punto che – anche per essi – è stata evidenziata la sostanziale natura di “detrazioni d’imposta” (Fregni, M.C., Crediti e rimborsi d’imposta, in Cassese, S., diretto da, Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 1672).
Tra i tanti crediti di imposta di questo tipo, che peraltro variano di anno in anno, meritano di essere segnalati, per la loro importanza, i crediti d’imposta per le assunzioni di personale; il credito d’imposta per ricerca e sviluppo; il credito d’imposta per le imprese che acquistano beni strumentali; i vari crediti previsti per potenziare la produzione cinematografica e audiovisiva e, più di recente, i cd. “bonus”, tra i quali possiamo annoverare il cd. School bonus e l’Art bonus.
La maggior parte dei crediti d’imposta che appartengono a questa categoria sono disciplinati in modo piuttosto simile dal legislatore: di norma e salvo eccezioni specifiche, infatti, essi devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi del periodo in cui maturano; non concorrono alla formazione del reddito né della base imponibile dell’IRAP; non rilevano ai fini del rapporto di deducibilità degli interessi passivi e degli altri componenti negativi di cui agli artt. 61 e 109, co. 5, t.u.i.r.; sono utilizzabili esclusivamente in compensazione ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 9.7.1997, n. 241. A volte la compensazione incontra dei limiti (il limite annuo di 250.000 euro, stabilito all’art. 1, co. 53, della l. 24.12.2007, n. 244 e quello di 700.000 euro fissato, a decorrere dal 2014, dall’art. 34, l. 23.12.2000, n. 388). Alcuni di essi possono, in casi particolari, essere oggetto di trasferimento (si pensi, ad esempio, alle detrazioni previste per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici, per le quali il legislatore ammette una limitata “circolazione”; cfr. art. 16-bis, co. 8, t.u.i.r.).
Peraltro, negli ultimi anni, si è assistito ad un uso “massiccio” e, in taluni casi, distorto di tale strumento giuridico: il legislatore sembra, infatti, preferirlo rispetto a forme di sovvenzione ed erogazione diretta di contributi ma, da più parti, si lamenta un abuso di tale strumento.
Alcuni crediti d’imposta prevedono un peculiare meccanismo di determinazione (si pensi ai crediti di tipo “incrementale”, la cui esatta determinazione dipende da complesse operazioni matematiche che fanno riferimento, tra l’altro, alla media di un periodo di più anni). In alcuni casi la loro spettanza e/o fruibilità è condizionata alla presentazione di una previa domanda di accesso all’agevolazione; domanda, di norma, da trasmettere in via telematica e, non di rado, la cui tempestiva presentazione si dimostra dirimente ai fini dell’effettiva possibilità di accedere al beneficio. Sono ben note, infatti, le polemiche connesse all’utilizzo del metodo del cd. click day per selezionare i contribuenti cui spetta o meno il credito di imposta; metodo che si traduce in una sorta di “gara di velocità” per i contribuenti e che appare, ex se, piuttosto iniquo, dato che premia i contribuenti che inviano via internet, nel minor tempo possibile, la domanda al credito, escludendo tutti gli altri – che pur avrebbero i medesimi requisiti giuridici per accedere al beneficio – dimostratisi, rispetto ai primi, meno tempestivi nell’invio.
In effetti, a ben guardare, questa categoria di crediti d’imposta annovera fattispecie che sono riconducibili tout court all’ambito delle cd. detrazioni d’imposta, ovvero al novero delle vere e proprie sovvenzioni pubbliche. Al di là dei crediti di imposta strutturati come vere e proprie detrazioni, peraltro, nei restanti casi, di norma, essi non incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta, in quanto non concorrono a individuare il differenziale, positivo o negativo, che emerge nella dichiarazione, ma rilevano esclusivamente nella fase della riscossione e, precisamente, come modalità di estinzione del debito.
In definitiva, quindi, la categoria dei crediti di imposta “in senso stretto” contempla al suo interno posizioni giuridiche attive tra loro molto diverse e che non possono essere ricondotte ad unità né da un punto di vista strutturale né sotto il profilo delle finalità.
Anche la categoria dei crediti di imposta “in senso lato” indica posizioni giuridiche tra loro molto diverse, per struttura e finalità, sicché appare davvero arduo costruire su di essa una categoria giuridica unitaria.
La fiscalità “di massa” introdotta dalla riforma degli anni settanta del secolo scorso – con la generalizzazione della dichiarazione tributaria e del procedimento di autoliquidazione e riscossione frazionata e anticipata dei tributi – ha determinato, come effetto principale, la generazione in capo al contribuente di fisiologiche “eccedenze” di imposta derivanti dal peculiare meccanismo applicativo di alcuni tributi (principalmente nel comparto delle imposte sui redditi, ma anche in quello dell’IVA (imposta sul valore aggiunto).
In particolare, nell’ambito delle imposte sui redditi il prelievo è strutturato in modo da garantire nel corso del periodo di imposta – e ben prima della chiusura dello stesso e della conseguente esatta quantificazione dell’imposta effettivamente dovuta dal contribuente – una pluralità di prelievi e di riscossioni “anticipati”, di per sé satisfattivi della futura ed eventuale pretesa impositiva, ma privi del carattere della “definitività”, perché oggetto di specifico e successivo “utilizzo” nell’ambito del singolo procedimento di liquidazione del tributo. È sempre nell’ambito del procedimento di autoliquidazione del tributo, inoltre, che il contribuente è legittimato a far valere una serie di posizioni “creditorie” che non originano da versamenti anticipati ma che si sostanziano in detrazioni, soggettive e/o oggettive, destinate a rilevare ad abbattimento e a “scomputo” dell’imposta dovuta.
In questo complesso contesto attuativo del tributo, la locuzione “credito di imposta” è impropriamente utilizzata per individuare tutte queste diverse situazioni giuridiche soggettive attive “di vantaggio” del contribuente che non si traducono nella titolarità di un vero e proprio diritto di credito certo, liquido ed esigibile e che mostrano almeno due profili comuni, in quanto si tratta di posizioni che:
i) sorgono per diverse ragioni e, in molti casi, anche a prescindere da un effettivo versamento all’erario (si pensi, oltre alle detrazioni, anche alle ritenute subite che il sostituto non ha versato all’erario, ovvero al “credito” per le imposte pagate all’estero che, per definizione, non sono versate al fisco italiano);
ii) sono mature e perfette, ma non possono ex se essere autonomamente liquidate e monetizzate; non possono cioè essere oggetto di rimborso, perché destinate ad essere utilizzate nell’ambito dello specifico procedimento attuativo del tributo cui accedono, secondo le modalità, anche temporali, previste di volta in volta dal legislatore.
In definitiva, si tratterebbe di posizioni attive del contribuente diverse dal diritto di credito vero e proprio – e antecedenti e prodromiche rispetto a quest’ultimo – da utilizzare esclusivamente nell’ambito del procedimento di autoliquidazione del tributo in diminuzione (a scomputo, in detrazione, ecc.) dell’imposta risultante in dichiarazione e che, eventualmente, a seconda dei casi, possono determinare il sorgere di una cd. “eccedenza a credito” del contribuente nei confronti del fisco.
Proprio il peculiare meccanismo attuativo delle imposte sui redditi (ma in un certo qual modo, come detto, anche dell’IVA) determina quello che, ad avviso di chi scrive, è l’unica posizione giuridica soggettiva meritevole di essere definita quale credito d’imposta e, cioè, la cd. “eccedenza a credito”: il contribuente, infatti, a volte “si trova a credito” nei confronti del fisco perché, a seguito dell’autoliquidazione delle imposte e della presentazione della dichiarazione, emerge a suo favore una posizione attiva nei confronti dell’erario e questa posizione “attiva” – detta anche “eccedenza d’imposta a credito” o “imposta negativa” – non è altro che quello che può essere definito, a buon diritto, il vero e proprio “credito d’imposta”.
A ben guardare, infatti, solo l’eccedenza di imposta nei termini sopra indicati configura un vero e proprio diritto di credito certo, liquido ed esigibile per il contribuente, il quale può, alternativamente, scegliere di utilizzarlo in compensazione, chiederne il rimborso – rimborso che, in questo caso, è certamente fisiologico o “strutturale” e che nulla ha a che vedere con il fenomeno dell’indebito – ovvero riportarlo a nuovo. In questa prospettiva, è stato anche chiarito che le “eccedenze d’imposta” si distinguono sia dai “rimborsi” che dalle “restituzioni” in quanto «sono determinate (non da situazioni originarie di indebito, né dal venir meno dei fatti giustificativi del tributo originariamente dovuto, ma) dalla coesistenza di situazioni soggettive attive e passive nella struttura interna dei singoli tributi»; in altri termini, le eccedenze costituiscono «il risultato di una differenza tra un dovuto ed un detraibile» (cfr. La Rosa, S., Differenze e interferenze tra diritto e restituzione. Diritto di detrazione e credito da dichiarazione, in Riv. dir. trib., II, 2005, 149 e 153, ove l’autore definisce i diversi fattori che compongono l’eccedenza in termini di “diritto di detrazione” e sottolinea che tale diritto ha «natura e struttura sicuramente diversa dal diritto di credito, perché consiste nell’attribuzione al contribuente della facoltà di operare decurtazioni dei versamenti dovuti»).
L’eccedenza di imposta (i.e.: il credito di imposta), quindi, pur derivando geneticamente da una molteplicità di fattori causali configurabili, in via generale, in termini di posizioni creditorie o situazioni giuridiche soggettive attive o di vantaggio, se ne discosta notevolmente, rappresentando, in estrema sintesi, il risultato della “sommatoria” dei predetti fattori. Tale eccedenza ha natura autonoma e contenuto unitario, configurando un “differenziale” di segno positivo per il contribuente, che soggiace ad una propria specifica disciplina e rimane distinto dai diversi fattori che lo hanno originato.
Ne consegue, in ultima analisi, che è ancora possibile – ad avviso di chi scrive – assegnare alla locuzione “credito di imposta” una propria specifica rilevanza e, quindi, una valenza definitoria unitaria e giuridicamente significativa in termini di autonoma situazione giuridica soggettiva, solamente se la si circoscrive – sotto il profilo genetico – alla cd. eccedenza di imposta a credito, quale risultato ultimo del procedimento amministrativo di autoliquidazione del tributo e di presentazione della dichiarazione periodica.
Occorre, infine, dar conto anche delle più recenti evoluzioni giurisprudenziali e normative intervenute in materia e, a questo proposito, è opportuno, innanzitutto, fare riferimento alla ben nota sentenza 7.6.2016, n. 13378, nella quale le Sezioni Unite hanno preso espressa posizione in ordine alle modalità – anche temporali – entro cui il contribuente può far valere le proprie posizioni creditorie nei confronti del fisco e, in particolare, entro cui emendare la dichiarazione dei redditi a proprio vantaggio. I giudici di legittimità – esprimendosi sulla portata dei co. 8 e 8-bis dell’art. 2 d.P.R. 22.7.1998, n. 322 nel testo vigente ratione temporis – hanno, tra l’altro, affermato che:
a) la possibilità di emendare la dichiarazione in bonam partem concessa al contribuente dal co. 8-bis «per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito» è stata prevista per garantire «una tutela distinta dalla domanda di rimborso e dai rimedi esperibili in sede giurisdizionale»;
b) la procedura di rimborso dei versamenti diretti di cui all’art. 38 d.P.R. n. 602/1973 «è esercitabile entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento, indipendentemente dai termini e modalità della dichiarazione integrativa di cui all’art. 2 comma 8-bis», perché siamo in presenza di due discipline del tutto autonome e non confondibili. A questo proposito, è precisato che «ove il contribuente opti per la presentazione dell’istanza di rimborso di cui all’art. 38 cit., verrà introdotto un autonomo procedimento amministrativo (in cui l’istanza di parte costituisce l’atto di impulso della fase iniziale) del tutto distinto dall’attività di controllo automatizzato – formale ed in rettifica – originato dalla mera presentazione della dichiarazione fiscale»;
b) in ogni caso, il contribuente «in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria». Per le Sezioni Unite, «oggetto del contenzioso giurisdizionale è, infatti, l’accertamento circa la legittimità della pretesa impositiva, quand’anche fondata sulla base dei dati forniti dal contribuente», di modo che il contribuente può sempre fornire la dimostrazione «anche di errori o omissioni presenti nella dichiarazione fiscale» ed opporsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal Fisco.
È stato ancora più chiaramente affermato, in altra sede, che «dinanzi alla posizione del contribuente quale titolare di diritti soggettivi perfetti derivanti dalla legge nazionale e dal diritto dell’UE, è il processo tributario, infatti, il contesto privilegiato nel quale l’esigenza della giusta imposizione trova la sua armonica realizzazione a prescindere da moduli procedimentali diretti a garantire ed agevolare l’azione amministrativa» (Cass., S.U., 8.9.2016, n. 17757, in tema di omessa presentazione della dichiarazione IVA).
Specularmente, per le S.U., l’Amministrazione finanziaria ha un’ampia possibilità di contestare la sussistenza di una propria posizione debitoria nei confronti del contribuente in quanto i termini decadenziali previsti dall’ordinamento tributario «sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito dell’Amministrazione e non a quelle con cui l’Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito». Per i giudici di legittimità, «decorso il termine per l’accertamento, all’Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente all’Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione»; tale conclusione non lascerebbe «senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale» (cfr. Cass., S.U., 15.3.2016, n. 5069, nonché Cass., 20.5.2016, n. 10479).
In conclusione, le S.U. hanno rilevato come sia il contribuente sia l’Amministrazione finanziaria possano contestare la dichiarazione «in via di eccezione» sine die (per una critica al principio della “perpetuità” dell’eccezione a fronte della “temporaneità” dell’azione e, più in generale, alla possibilità di emendare gli errori dichiarativi in sede processuale, cfr. Fransoni, G., La dichiarazione fra orientamenti amministrativi e giurisprudenziali, in Rass. trib., 2016, 973). Dall’altro, come anche in caso di omessa presentazione della dichiarazione, tali posizioni creditorie possano essere fatte valere dal contribuente dinanzi al giudice tributario in ogni tempo.
Tali conclusioni, com’è evidente, superano in un certo qual modo le varie classificazioni individuate dalla dottrina al fine di distinguere la natura e gli effetti delle diverse situazioni giuridiche soggettive attive vantate dal contribuente nei confronti del fisco.
In sostanza, secondo la Suprema Corte non vi può essere distinzione – sotto il profilo della tutela processuale – tra diritto di credito che sorge da un indebito oggettivo (originario o successivo) derivante da un pregresso versamento non dovuto e che è oggetto, di norma, di un’autonoma azione di rimborso e posizioni “creditorie” vantate dal contribuente nell’ambito della procedura di liquidazione dell’imposta ed emergenti dalla dichiarazione tributaria, che derivano dal fisiologico meccanismo applicativo di tributi quali le imposte sui redditi e l’IVA.
Ed in senso analogo, peraltro, sembra essersi mosso anche il legislatore che ha modificato la disciplina dei termini e delle modalità con cui emendare la dichiarazione. L’art. 5 d.l. 22.10.2016, n. 193 (cd. decreto fiscale) ha, tra l’altro, modificato l’art. 2, co. 8 e 8-bis del d.P.R. n. 322/1998 e ha introdotto due nuovi commi nell’art. 8 del medesimo decreto (co. 6-bis e 6-ter), prevedendo un termine unico per la rettifica della dichiarazione tributaria – tanto a favore che in danno del contribuente – che coincide con lo spirare del termine previsto per l’accertamento delle imposte a favore dell’Amministrazione finanziaria.
La modifica normativa in esame conferma, a livello legislativo, l’orientamento giurisprudenziale testé citato: in sede di conversione, infatti, è stata affermata la perdurante possibilità per il contribuente, a prescindere dalla presentazione o meno di una dichiarazione rettificativa a favore nei termini, «di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggiore debito d’imposta o, comunque, di un minore credito» (art. 2, co. 8-bis, ultimo periodo, d.P.R. n. 322/1998). Ne consegue che le situazioni giuridiche soggettive emergenti dalla dichiarazione e che dovrebbero essere utilizzate esclusivamente nell’ambito del procedimento amministrativo di autoliquidazione continueranno, presumibilmente, a formare oggetto di autonoma contestazione in sede processuale e senza limiti temporali (cfr. in senso analogo anche le successive Cass., 15.12.2017, n. 30172 e Cass., 30.1.2018, n. 2220, che tendono, peraltro, a rimarcare l’attualità, anche nel rinnovato contesto normativo, della tradizionale distinzione tra dichiarazioni di scienza – sempre emendabili – e dichiarazioni di volontà, ex se irretrattabili).
In conclusione, si ha la netta sensazione che il legislatore, sulla scia della giurisprudenza di legittimità, abbia voluto assicurare una tutela unitaria ed omogenea alle diverse posizioni “creditorie” del contribuente, prescindendo dalla natura di esse – in termini di diritto di credito vero e proprio o di mere posizioni attive di vantaggio “endoprocedimentali” – nonché dai corretti moduli procedimentali nell’ambito dei quali tali diverse posizioni creditorie si producono e/o possono essere fatte valere, al fine di assicurare in ogni caso – anche tramite l’emendabilità “processuale” della dichiarazione – la giusta tassazione del contribuente e la sua “armonica” realizzazione.
Fonti normative
Art. 2, co. 8 e 8-bis, d.P.R. 22.7.1998, n. 322.
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