farmacologia
Un 'universo' di sostanze per la cura del corpo malato
Tutte le civiltà, dall'antichità ad oggi, si sono poste il problema di guarire dalla malattia. La natura offre una grande varietà di sostanze che hanno capacità curative e l'uomo nel tempo ha imparato a riconoscerle e usarle. La farmacologia è la scienza che studia l'effetto su un organismo vivente di tali sostanze. È nata osservando che certe erbe avevano effetto purgativo, altre favorivano la guarigione delle ferite, altre ancora potevano attenuare il dolore. I principi attivi capaci di curare possono essere di origine vegetale, animale o minerale. Al giorno d'oggi però gran parte delle medicine sono prodotte per sintesi nei laboratori di industrie specializzate
Le malattie sono sempre esistite e fin dai tempi più remoti l'uomo ha ricercato rimedi utili alla guarigione. Uno dei più famosi medici del passato è stato il greco Ippocrate. Egli descrisse in circa 60 testi malattie e relativi rimedi di origine vegetale; la sua opera influenzò per secoli la medicina di altre civiltà, tra cui quella romana. Secondo la sua teoria, un organismo è sano se gli elementi che lo compongono, detti umori, sono tra loro in uno stato di equilibrio. Ogni causa che sconvolge tale armonia interna genera una malattia. Dolore, infiammazione, febbre non sono altro che segnali che qualcosa nel nostro corpo non va, e compaiono quando tali umori sono mal mescolati. Il medico deve conoscere bene i segni della malattia per riportare il malato a uno stato di benessere con la cura più adatta: medicamenti normalmente derivati da piante, corretta dieta alimentare, esercizio fisico.
Dioscoride Pedanio, nato ad Anazarba, nel sud dell'attuale Turchia, fu naturalista, farmacologo e medico militare sotto gli imperatori romani Nerone e Domiziano nel 1° secolo d.C. Considerato da molti il più importante autore di testi medici dell'antichità, descrisse nel suo De materia medica oltre 600 piante curative.
Claudio Galeno, vissuto nel 2° secolo a Pergamo, nell'odierna Turchia occidentale, studiò filosofia e medicina a Smirne, Corinto e Alessandria per poi trasferirsi a Roma, dove la sua fama di medico non tardò ad affermarsi. Da semplice medico dei gladiatori, quale era a Pergamo, divenne a Roma medico degli imperatori Commodo e Settimio Severo. Nella sua opera ‒ circa 500 volumi che descrivono 473 medicamenti ‒ raccolse quanto di più importante era stato tramandato dalla medicina dei secoli precedenti, ricavandone una dottrina ampiamente ispirata a Ippocrate. Nel corso dei secoli successivi, la tradizione della medicina greca giunse quasi immutata attraverso il Medioevo fino alla fertile cultura del Rinascimento.
Dal 1530 al 1560 la Val di Non, in Trentino, era percorsa passo passo dal medico naturalista senese Pierandrea Mattioli che ricercava, per prati e boschi, nuove erbe curative. Aveva studiato le piante dai libri antichi e la sua ambizione era quella di scrivere un'opera enciclopedica, che comprendesse tutte le piante curative conosciute all'epoca. La sua prima edizione uscì nel 1544 ed era la traduzione moderna dell'opera di Dioscoride. In tempi successivi Mattioli ‒ che fu medico a Trento e Gorizia, e poi nel 1555 divenne medico personale dell'arciduca Ferdinando alla corte di Praga ‒ arricchì e completò il suo lavoro grazie ai numerosi viaggi nelle valli e montagne del Trentino, Veneto e Lombardia per 'erborizzare' (erbario), cioè raccogliere piante medicinali, oltre a quelle da lui coltivate nel proprio giardino. Se il riconoscimento delle piante spontanee descritte nei testi di Dioscoride non era facile, ancor più difficile era quello delle piante che gli provenivano da luoghi lontani, per scambio con altri medici o portate da viaggiatori che tornavano dall'Oriente, già secche e spesso malandate.
I Commentarii di Mattioli sono una vera e propria opera di revisione di ciò che era stato scritto fino a quel momento in fatto di piante curative. A tale già abbondante quantità di erbe, Mattioli aggiunse anche le nuove specie che venivano scoperte e che lo indussero a preparare successive edizioni della sua prima opera, sempre più aggiornate ed esaurienti. La più bella edizione è quella del 1568 pubblicata a Venezia, ricca di oltre 1.000 figure di piante, animali e minerali.
La farmacia è la conoscenza e la tecnica di preparazione dei medicinali, divenuta nell'epoca contemporanea una vera e propria scienza: la farmacologia. Nel passato, le materie prime che servivano a produrre le medicine erano chiamate droghe, cioè prodotti con proprietà medicamentose appartenenti ai tre regni della natura (animale, vegetale, minerale) e usati allo stato grezzo. Dal 17° secolo i farmacisti scelsero come simbolo della loro professione una palma (regno vegetale) con una serpe attorcigliata (regno animale) che si eleva tra le rocce (regno minerale).
La conoscenza delle droghe e dei composti medicinali alla fine 15° secolo ha tratto grande vantaggio dall'avvento della stampa, che consentì un'ampia divulgazione delle opere di farmacologia, prima scritte a mano e quindi diffuse in numero limitato. È certo che i primi e più utilizzati medicinali furono le droghe vegetali, piante o derivati estratti da esse. In generale, infatti, non si utilizzava la pianta per intero, ma solo una sua parte: le foglia, le radici o i frutti, che venivano in vario modo lavorati per ricavarne un estratto attivo in grado di curare.
Il loro approvvigionamento era garantito tramite l'erborizzazione di piante selvatiche ‒ e quindi spontanee ‒ o di piante coltivate in luoghi appositamente predisposti, in genere esterni a conventi e a grandi ospedali. Solo alla fine del 16° secolo nasce l'orto botanico, terreno di proprietà delle università, organizzato per la specifica coltivazione di piante curative, dette semplici. Questi giardini erano luoghi dove gli studenti potevano facilmente imparare a riconoscere le piante medicinali, ma nel tempo diventarono spazi per la coltivazione anche di piante più o meno rare. L'orto botanico è un po' come il corrispettivo del giardino zoologico per il regno animale.
Oltre alle piante europee spontanee e coltivate, si cominciarono a conoscere anche quelle di provenienza asiatica o africana, introdotte con le invasioni degli Arabi. Cedri, limoni, aranci dolci e amari provenivano tutti dall'Oriente, mentre le melanzane, originarie dell'India, erano anticamente coltivate in Africa settentrionale; gli spinaci invece comparvero sulle mense italiane non prima del 15° secolo. A esse si aggiunsero poi nel Cinquecento altre novità: le piante di origine americana, di cui alcune si diffusero velocemente (fagioli, granturco, peperone piccante e pomodoro), mentre altre rimasero a lungo solo curiosità, come il girasole e il fico d'India. Con la conoscenza di così tante piante si estese anche il loro utilizzo come farmaci. Per esempio, il fumo del tabacco era ritenuto un antidoto ‒ vale a dire una sostanza che rende inefficaci tossine o veleni ‒ alla diffusione della peste e anche utile a liberare la testa dal muco eccessivo tramite gli starnuti provocati se aspirato; la corteccia di china, proveniente dal Perù, era somministrata contro la febbre intermittente della malaria; la coca, già nota dalla conquista spagnola del Messico e del Perù, veniva usata per le sue proprietà antidolorifiche.
Per lungo tempo lo studio delle proprietà medicamentose delle piante si sviluppò senza che fosse noto il meccanismo di azione, ma basandosi solo sull'osservazione dell'efficacia sul malato. Nacque così la farmacia, intesa quale arte di riconoscere, raccogliere, conservare le droghe semplici e preparare in vario modo i medicinali. In una fase successiva si comprese meglio il rapporto tra la composizione dei farmaci e il loro effetto sull'organismo, si riuscì a stabilire la giusta dose di farmaci da somministrare (posologia), a potenziarne l'efficacia mescolandoli con altre sostanze e, infine, a produrli per via sintetica in quantità sempre maggiori.
Il farmaco oggi non è più la droga, cioè la materia prima con proprietà medicamentosa usata allo stato grezzo così come si trova in natura. Una sempre maggiore quantità di prodotti sono messi a punto nei laboratori e poi prodotti dall'industria farmaceutica. Progressivamente le droghe sono state sostituite con sostanze chimiche pure, organiche o minerali, delle quali si può effettuare l'analisi qualitativa e quantitativa e controllare la purezza. L'insieme di questi metodi hanno indotto una sensibile trasformazione della farmacologia a partire dal 19° secolo, grazie anche alle nuove conoscenze in biologia, medicina e chimica.
Alle sostanze medicamentose chiamate anch'esse ‒ come le piante curative da cui erano ricavate ‒ semplici (anche perché non venivano mescolate ad altre) ‒ grazie alla ricerca in laboratorio si aggiungono nel tempo sostanze in cui compaiono elementi chimici come bromo, cloro, iodio, fosforo. Con scarsi mezzi e apparecchiature elementari, la ricerca fatta nel retrobottega della farmacia porta alla scoperta e all'isolamento di molte sostanze, come gli acidi urico, lattico e formico. Dall'inizio del 19° secolo la farmacologia si avvale dei procedimenti estrattivi della chimica, che si fanno sempre più efficaci. Vengono così isolate numerose sostanze naturali, molte delle quali trovano impiego terapeutico: la morfina dall'oppio, il chinino dalla corteccia di china, la nicotina dalle foglie di tabacco, la digitalina dalle foglie di Digitalis purpurea. Con il progredire delle conoscenze teoriche e pratiche in laboratorio si ottengono infine i preparati della chimica terapeutica, che produce per sintesi ‒ quindi senza estrarle da materie prime naturali ‒ sostanze dotate di elevata attività curativa. Queste sostanze a volte sono scoperte casualmente ma molto più spesso sono frutto di lunghe ricerche.
Oggi, nelle nostre farmacie si acquistano farmaci nelle più varie forme e confezioni. Un tempo era il farmacista stesso che preparava medicine da somministrare facilmente e dal gusto gradevole, racchiudendole in cachet, capsule o pillole. Adesso l'industria farmaceutica dispone a tal scopo di una vasta gamma di dolcificanti, aromatizzanti e coloranti. Ma anche la via di somministrazione della medicina è importante. Ci si preoccupa infatti di preservare il principio attivo del farmaco fino al suo punto d'azione nel corpo umano, evitando, per esempio, la distruzione a opera dei succhi gastrici. Inoltre, la scoperta di sostanze chimiche sempre più attive, ma spesso anche poco stabili, ha reso importante la presenza di sostanze stabilizzanti. L'insieme di questi additivi e del principio attivo costituisce la formula (o formulazione), costruita in modo da ottenere per ogni farmaco le caratteristiche di presentazione adeguate all'impiego terapeutico più efficace. Lo stesso farmaco può avere formulazioni diverse, a seconda che sia da somministrare per bocca, per iniezione o per applicazione esterna (come pomate e creme).
Nella moderna farmacologia, la nascita di un farmaco passa attraverso fasi di indagine e di ricerca.
La fase chimica inizia con l'isolamento o la sintesi del principio attivo e la sua caratterizzazione dal punto di vista chimico e fisico.
La fase farmacologica determina quale sia l'effetto del farmaco sull'organismo e la sua durata, quali le relazioni tra dose ed effetto, l'eventuale presenza di azioni indesiderate o dannose. I test per questa fase sono effettuati su animali (cavie, topi, ratti, scimmie), anche se oggi si tende a ridurre al minimo la sperimentazione animali sostituendola, per quanto è possibile, con metodi alternativi, come test su cellule coltivate in vitro ‒ cioè in appositi contenitori di vetro ‒ o simulazioni al computer (sperimentazione animale).
Nella fase terapeutica il prodotto, già farmacologicamente testato in laboratorio e sul modello animale, viene sperimentato sull'uomo, sotto controllo medico. Si passa dalle verifiche sulla tossicità del prodotto in esame all'analisi della sua efficacia nel curare una determinata malattia, allo studio delle dosi ottimali, alle eventuali controindicazioni per l'uso. Se i risultati di queste sperimentazioni cliniche sull'uomo saranno positivi ‒ la qual cosa può richiedere molti anni per alcuni farmaci ‒, dopo avere ottenuto i nulla osta previsti dalla legge l'ultimo passo sarà l'immissione del farmaco sul mercato.
La farmacologia si sta orientando verso l'utilizzo di sostanze chimicamente sempre più complesse da sintetizzare. La risposta a tale esigenza viene più spesso dalla biologia, perché è più facile 'insegnare' a un organismo semplice, come un batterio, a produrre un certo principio attivo, piuttosto che sintetizzarlo per via chimica. La produzione di principi attivi tramite coltura in vitro di organismi non è nuova: già nel 1928 il britannico Alexander Fleming scoprì che colture di muffe del genere Penicillium producevano una sostanza biologicamente attiva nei confronti dei batteri delle più comuni infezioni: la penicillina. Questo primo antibiotico portò una svolta determinante nella cura delle infezioni batteriche, causa di importanti patologie anche mortali. Così, molti principi attivi di origine vegetale, in passato estratti dalle piante, oggi sono ottenuti da colture di cellule vegetali in vitro.
Le attuali conoscenze di genetica hanno poi permesso di inserire nuovi geni,nel patrimonio genetico (DNA e RNA) di batteri cosicché questi possa sintetizzare il principio attivo che si vuole ottenere. Grazie a tali tecniche, le cosiddette biotecnologie, è possibile la produzione su scala industriale di importanti farmaci, come l'insulina e l'interferone.
Una promettente frontiera della farmacologia è l'impiego di anticorpi monoclonali nella terapia di certe patologie. Gli anticorpi (immunitario, sistema) sono proteine che vengono prodotte da particolari globuli bianchi del sangue, i linfociti B, con il compito di difendere l'organismo dall'attacco di agenti esterni, come virus e batteri. Gli anticorpi monoclonali sono prodotti in laboratorio e hanno un'altissima specificità, che permette loro di riconoscere, all'interno della stessa famiglia di microrganismi, quello specifico da combattere e neutralizzare. Questa caratteristica li rende quindi molto interessanti in campo diagnostico e terapeutico, anche come farmaci antitumorali, perché risultano in grado di riconoscere e distruggere le cellule malate da quelle sane. La loro produzione si basa sulla manipolazione del DNA di cellule in coltura. Nel caso degli anticorpi monoclinali antitumorali si tratta di ottenere incroci da linfociti produttori di anticorpi e cellule tumorali di topo. Tali cellule ibride vengono clonate, cioè si seleziona una cellula singola da cui deriva una popolazione di cellule tutte uguali, i cloni, che coltivati in vitro producono l'anticorpo, detto per tale motivo monoclonale.
Importanti industrie internazionali stanno già effettuando numerosi investimenti in un nuovo campo di ricerca che potrebbe avere notevole impatto nella cura delle malattie: quello basato sulle nanotecnologie. Si tratta della costruzione di molecole complesse, funzionanti come robot intelligenti di minuscole dimensioni - circa un millesimo di millimetro! -, in grado, una volta inserite nel flusso sanguigno, di raggiungere specifici bersagli costituiti da zone malate o danneggiate nel corpo umano. Un numero sempre maggiore di aziende risultano impegnate in questo settore di avanguardia, facendo prevedere che il futuro della farmacologia sia nella robotica!