Film
Una fotografia degli anni Venti ritrae il regista Sergej M. Ejzenštejn mentre guarda controluce ‒ presumibilmente davanti a una moviola ‒ una pellicola, con delle forbici in mano. L'immagine è emblematica, perché fornisce una prima accezione del termine film: è proprio il supporto concreto sul quale sono impressi i fotogrammi; è un oggetto, insomma, che diventerà proiettabile. Ma, naturalmente, quell'immagine significa molto di più, perché ritrae un'operazione: un soggetto, che chi osserva suppone sia un regista, controlla ‒ di fronte a un agente dinamico, la luce ‒ il proprio materiale espressivo, prima di compiere una scelta. Questa selezione è il montaggio. Il lavoro di costruzione, di cui le forbici sono il sintomo evidente, è l'atto terminale della regia; è una manipolazione del tempo che darà luogo a un prodotto definitivo, il f. appunto: non è più un semplice oggetto, ma un'opera. Questa seconda accezione appare subito assai complicata.
La scelta cui si è accennato e la combinazione che segue costituiscono un atto creativo che potrebbe, in un primo momento, far assomigliare il rapporto tra f. (opera) e cinema (campo di possibilità) a quello esistente tra libro e risorse linguistiche. Sarebbe però una similitudine semplicistica, perché il cinema ha proprie particolarità e differenti specificità. Le prime riguardano la complessità dell'apparato produttivo, del sistema o ‒ se si vuole ‒ della 'macchina' che sta dietro a ogni f.; il paragone potrebbe quindi essere, casomai, con una grande opera architettonica. La specificità sta nel fatto che il patrimonio cui attingere, il cinema, non è una lingua, un insieme definito, bensì un linguaggio, cioè un corpus non regolato.Occorre allora, per intendere la seconda accezione del termine film cui si è accennato, inoltrarsi in questo campo di possibilità non definibile, partendo magari dalle differenti vocazioni che quel campo è andato palesando. La prima divisione riguarda proprio il cinema come impianto spettacolare e il f. come invenzione; anime talora contrastanti, altre volte conciliabili, come il percorso della settima arte dimostra. Ci sono autori che alle costrizioni dell'apparato hanno sacrificato progetti e libertà espressiva, altri che, accettando le regole, non hanno rinunciato a imprimere al f. il marchio della loro individualità, altri che hanno richiesto e ottenuto spazi sottratti ai condizionamenti produttivi.Però già il riferimento all'individualità pone problemi, come dimostra la polemica protrattasi per lungo tempo e poi, si direbbe, risolta: si può parlare di creazione soggettiva per un'attività che sembra svilupparsi quasi necessariamente grazie a un lavoro di collaborazione? L'atipicità maggiore del cinema rispetto ad altre forme espressive starebbe proprio in questa matrice collettiva dell'opera-film, e finirebbe addirittura con il negarne qualità artistiche. Tale osservazione è emersa ogni volta che si è riaperto il dibattito sulla nozione di autore, a cui si farà riferimento in seguito. Di volta in volta si è data conferma di un'eventuale divaricazione: c'è spazio per prodotti a prevalente impianto spettacolare, in cui più forte è la presenza di molteplici competenze coordinate, e per opere invece in cui gli apporti parziali sono sopravanzati da una 'idea di cinema', vale a dire dalla proposta personale del regista. La divisione non è certo netta, l'intera storia del cinema indica la conciliabilità di opera e spettacolo.
Ci sono quindi differenze ma non separazioni. Lo stesso può dirsi per le 'vocazioni' cui si faceva cenno. F. come documento o f. come finzione? Mimesi o racconto? L'antitesi sembra porsi sin dall'inizio, e troverebbe il suo punto di riferimento nei 'padri fondatori', Auguste e Louis Lumière e Georges Méliès. Gli esempi potrebbero essere, da un lato, L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat (1895), dall'altro Le voyage dans la Lune (1902; Il viaggio nella Luna). Occorre però andare oltre queste fragili dicotomie. Perché è vero che la fotografia, e il cinema dopo, hanno, per molti versi, portato a compimento l'antica aspirazione alla duplicazione della realtà, ma ‒ una volta realizzata ‒ ci si è accorti che quella riproduzione non era copia inerte. D'altronde la concezione del cinema come doppio del reale partiva, non a caso, proprio dal rapporto con la fotografia, commettendo un duplice errore; il primo era quello di non intendere come essa stessa non fosse oggettiva, avendo invece capacità di trasformazione e larghi margini di arbitrarietà. Il secondo errore era una ricaduta, perché molti considerarono il nuovo linguaggio come una 'evoluzione' del precedente, con l'aggiunta del movimento; poco più tardi si arrivò a valutare non la mancanza di tempo della fotografia, ma la sua diversa concezione della temporalità.
La distanza della riproduzione cinematografica dalla fedeltà della copia venne già sottolineata nel 1916 da Hugo Münsterberg: "da tutti i punti di vista il cinema è più lontano del teatro dalla realtà fisica" (1916; trad. it. 1980, p. 96). Il f., allora, parte dalla realtà ma tende alla finzione; a considerarli attentamente anche i primi, brevissimi brani documentari di Lumière contengono, in nuce, una storia, come se la riproduzione avesse una spinta interna alla narrazione. Méliès la liberò del tutto, svincolandola da un aggancio 'fisico' obbligato; ma più che un'altra anima era un'anima complementare a quella di Lumière. Anche se in alcuni periodi o a opera di taluni autori le differenze tra 'realismo' e 'invenzione' si sono accentuate, al fondo le interferenze sono state continue. "L'ideale ‒ ha scritto Claude Chabrol ‒ era mescolare le due correnti: Lumière e Méliès. Tutti i creatori di cinema hanno cercato di farlo in ogni tempo" (1976, p. 113). Béla Balázs lo ha detto in altro modo, ma in analoga direzione: "questa è la caratteristica fondamentale del cinema: non riproduce le immagini, le produce" (1949; trad. it. 1952, p. 51).
In questa sua produzione di immagini, come nella costruzione di un racconto, il cinema si è dovuto, e voluto, confrontare con gli altri linguaggi. In un primo momento, all'inizio della sua storia, i f. denotavano chiaramente la loro presa a prestito, la loro derivazione da forme rappresentative o impianti di racconto collaudati; il teatro, più ancora che la letteratura, sembrava costituire il punto di appoggio: era la garanzia di una forma consolidata; era soprattutto una rassicurazione di accettabilità da parte dello spettatore. Ma in breve (il cinema è passato in tempi molto stretti da una sorta di protostoria a una storia vera e propria) il processo di emancipazione si è compiuto e si è raggiunta un'evidente autonomia. Lo si dimostrò nella pratica: The birth of a nation (Nascita di una nazione) di David Wark Griffith, considerato il primo grande racconto cinematografico, è del 1915; lo si sostenne presto anche nella teoria: "col nascere del cinema ‒ scriveva ancora Münsterberg ‒ si è creata un'arte nuova e completamente indipendente, che deve sviluppare le sue proprie condizioni di vita" (1916; trad. it. 1980, p. 31). Indipendenza non voleva dire certo chiusura, anzi; diventato 'adulto', cioè autonomo, il cinema si rese subito conto che il confronto con altri linguaggi poteva arricchirlo, che l'incursione in campi altrui mantenendo fermo il proprio territorio poteva essere prova di forza e non di debolezza. Almeno dalle avanguardie storiche in poi (v. avanguardia cinematografica e avanguardia sovietica) il lavoro intenzionale di scambio fu frequente e fecondo, dimostrando che specificità e circolazione dei linguaggi possono ben accordarsi. Anzi, si può dire di più; il cinema non fu solo recettore di cambiamenti espressivi, fu anche agente: la mobilità dello spazio, il mutamento dei punti di vista, la fluidità della percezione, e soprattutto la manipolabilità del tempo, esercitarono influenze decisive sulle altre arti. Questi effetti di rimbalzo spinsero verso definitive 'liberazioni' per quanto riguarda i linguaggi tradizionali, o contribuirono a definire aperture ai linguaggi più recenti. Il riferimento è a pittura e fotografia, forme espressive che hanno a che fare con il concetto di riproduzione. Nel primo caso si può affermare con una certa sicurezza che il processo di affrancamento da un'ipotetica funzione di rapporto necessario con il reale sia stato favorito dall'avvento del cinema, cui ‒ sempre in via ipotetica ‒ venivano delegati compiti di duplicazione. Per la fotografia è avvenuto qualcosa di simile e al contempo di opposto; non appena si intuì che al cinema potevano essere affidati non soltanto compiti di riproduzione, si venne a sancire definitivamente che anche la sua 'base' era complessa; si cominciò insomma a intendere che la visione fotografica è essa stessa 'percorso', momento attivo che isola e collega, che mette in moto un procedimento temporale.
Il rapporto con la fotografia si potrebbe definire genetico; entrambi i linguaggi nascono direttamente da un'invenzione tecnica. La riproduzione del reale è stata una tendenza costante, una 'richiesta' anche sociale ampliatasi soprattutto nel corso dell'Ottocento; ma la sua concretizzazione si è avuta grazie alla messa a punto di un apparato 'materiale', la pellicola fotosensibile. E. Panofsky ha sottolineato questo sviluppo senza precedenti nella storia dell'arte: "Non è stata una necessità artistica a provocare la scoperta e il graduale perfezionamento di una nuova te-cnica, ma un'invenzione tecnologica a provocare la scoperta e il graduale perfezionamento di una nuova arte" (1934; trad. it. 1978, p. 241). Ogni fotografia, come ogni f., nasce da uno sfruttamento di questo apparato: riprova ne è che si è più volte constatato come tecniche diverse producano f. diversi. Si può fare anzi un'affermazione ulteriore: un mutamento nella riproduzione della realtà ha cambiato un'estetica, perché ‒ come ha ricordato Balázs ‒ "il film sonoro non è un'evoluzione organica del film muto, ma una nuova forma d'arte" (1949; trad. it. 1952, p. 259). Questo legame con una tecnica riproduttiva, legame che è cosa diversa da subalternità o dipendenza, ha posto un problema e sancito una caduta. Il problema è quello che nasce dal rapporto che ogni f. stabilisce con il suo referente; tra immagine ed esperienza non c'è infatti un rapporto mimetico ma una complessa 'impressione di realtà', che significa somiglianza ambigua o rivelazione di una ambiguità intrinseca alle cose. A questa conclusione sono arrivati molti teorici, ma anche autori che direttamente, con le loro opere, si sono interrogati sulla natura del proprio linguaggio espressivo. Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni è in questo senso un film-cardine.Il legame con la tecnica decreta pure una caduta, quella dell''aura', secondo la nota tesi di Walter Benjamin. Un f., ogni f., non solo tende a riprodurre la realtà, ma è esso stesso riprodotto, in più copie di cui ciascuna è un originale. L'antica concezione dell'unicità dell'opera d'arte, della sua irripetibilità concreta, è venuta meno. Conseguentemente gli aspetti cultuali, di rito secolarizzato che l'accompagnavano hanno lasciato il posto a una fruizione che non prende in considerazione l'autenticità: "di una pellicola fotografica, per esempio, è possibile tutta una serie di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso" (Benjamin 1936; trad. it. 1966, p. 49). Analogamente, come è logico, si può ragionare per un f., il quale, proprio perché oggetto riproducibile, è destinato alla fruizione di un vastissimo pubblico; non si tratta di una questione di quantità (maggior numero di destinatari), bensì di qualità (diverso rapporto con l'opera d'arte, che ha perso la sua distanza). Il mutamento è profondo, perché l'estensione incide nel momento della produzione, ogni f. è nato per la riproduzione: "la riproducibilità tecnica del prodotto non è, come nel caso delle opere letterarie o dei dipinti, una condizione di origine esterna della loro diffusione tra le masse. La riproducibilità tecnica dei film si fonda immediatamente nella tecnica della loro riproduzione" (p. 49).
Se anche altri modi di espressione artistica si sviluppano per l'apporto o l'intersezione di più forme, il cinema lo fa con ampiezza più consistente, dal momento che alla creazione di un f. contribuiscono una pluralità di linguaggi: iconico, verbale, gestuale, musicale. Si potrebbe anche notare che già la genesi della maggior parte dei f., la sceneggiatura, si configura come elaborazione di un linguaggio (la parola scritta) che diventerà altro da sé. E questo pone un primo problema, sia pur di non difficile soluzione: se la sceneggiatura abbia una struttura autonoma rispetto al f. realizzato; e inoltre se essa possa avere dignità d'arte se la si prende in considerazione senza il riferimento al f. cui ha dato luogo. È certo che un f. non è la 'traduzione' di una previsione antecedente; ciò non toglie però che, in alcuni casi, questa previsione 'altra' abbia una sua autonoma qualità.
Ma la natura plurilinguistica del f. (la parola era già presente nel cinema muto, se non altro come didascalia) è questione più complessa. E ha alimentato, nel corso della storia, aperture e attese; in particolare ha alimentato l'ideale della fusione delle arti. Ricciotto Canudo già nel 1911 affermava che il cinema avrebbe conciliato "i Ritmi dello Spazio (le Arti plastiche) e i Ritmi del Tempo (Musica e Poesia)" (1911; trad. it. 1973, p. 361). Già si intravedeva, sotto l'apparenza, il problema dell'intersezione di più elementi formali. In seguito, si sarebbe sentito il bisogno di precisare che la sintesi non doveva porsi come somma di codici, cioè come un'improduttiva presa a prestito; un regista sensibile a questi problemi come Dziga Vertov scriveva: "noi protestiamo contro l'aggregato di arti che tanti vogliono far passare per sintesi. Un miscuglio di cattivi colori, pur se scelto in conformità con le sfumature dello spettro, non darà mai il bianco, ma lo sporco" (1922; trad. it. 1975, p. 27). Un f. fa coesistere, crea rapporti, e non necessariamente gerarchie; persino il rumore può avere il valore di un'immagine, e magari sostituirla, o darle il cambio: "non bisogna che immagine e suono si diano man forte, ma che lavorino uno per volta dandosi il cambio" (Bresson 1975; trad. it. 1986, p. 58). Un f. è l'esito di quest'attività di distribuzione e fusione di elementi inizialmente eterogenei.
C'è quindi una soggettività, prevalente sugli apporti collaborativi, che imprime caratteristiche particolari al singolo esito di un apparato produttivo; al concetto di f. si è progressivamente collegato quello di autore. Progressivamente però, perché agli inizi il regista (termine introdotto tardivamente nel lessico italiano) era considerato o un organizzatore o colui che sapeva padroneggiare la tecnica, o entrambe le cose. Tale rimase prevalentemente sino alla fine degli anni Dieci del 20° sec.: "Il cinema hollywoodiano è stato[…] il primo a porre sistematicamente il nome del regista nei titoli di testa e a dedicargli il cartello unico, directed by, fatto che si consoliderà poi un po' dovunque fra la fine degli anni dieci e l'inizio degli anni venti" (Albano 1999, p. 83). Man mano, insomma, che si passava dal prodotto all'opera si riconosceva la presenza di un'attività qualificata come creativa.La nozione di autore ha conosciuto periodici rilanci; particolarmente fortunato, sul piano della risonanza, quello provocato da una parte avanzata della critica francese alla fine degli anni Cinquanta. Per cercare di individuarne i connotati è opportuno partire dalla generale, ma efficace, definizione di François Truffaut, secondo il quale capace di imprimere un marchio personale a un'opera è colui che ha "un'idea del mondo e un'idea del cinema"; più specificatamente si riconosce a un soggetto unico la scelta delle strategie comunicative che qualificano un singolo film. Dietro all'opera, insomma, c'è una capacità di coordinamento espressivo, quella del regista, il quale, pertanto, non è più solo un esecutore, ma un produttore di stile: "dal momento che domina tutti gli elementi di un film e impone a ogni fase della lavorazione delle idee personali, Alfred Hitchcock possiede realmente uno stile e tutti ammetteranno che è dei tre o quattro registi attualmente produttivi che si possono riconoscere guardando qualche minuto di uno qualsiasi dei loro film", scriveva ancora Truffaut nella prefazione all'edizione definitiva della sua lunga intervista al regista inglese (Le cinéma selon Hitchcock, 1975; trad. it. 1977, p. 19). Il f. di un autore, quindi, denota uno stile che lo rende riconoscibile: l''idea del cinema' in fondo è proprio questa.Questa idea ‒ e quella del mondo che sottintende ‒ conosce spesso un percorso travagliato, perché il f. è un prodotto di rilevante peso economico, che deve avere quindi tendenzialmente una risposta di mercato, e un altrettanto rilevante peso sociale, che lo porta a incidere sui gusti, sulle richieste, persino sui comportamenti dei destinatari. Le censure nascono da qui; e la distanza tra il progetto e la concreta realizzazione è spesso notevole, alle volte snaturante l'ipotesi di partenza. Le censure sono di vario tipo (v. censura). C'è quella produttiva che esige adattamenti della storia raccontata, che impone presenze di attori, che chiede omissioni, fino a imporre il diritto di una conclusiva approvazione dell'opera; nel cinema americano, in particolare, il final cut è spettato spesso, soprattutto in un certo periodo, al finanziatore di un film. D'altro canto i meccanismi sociali di controllo hanno sempre stimato necessario un intervento a tutela di regole, o valori, reputati importanti per il mantenimento di forme di equilibrio consolidate. La storia del cinema è ben ricca di episodi di manomissioni, tagli, bocciature imposte d'autorità. E si sa che entrambe queste censure, quella del mercato e quella amministrativa e penale, provocano spesso meccanismi autocensori. Molte volte il f. ha un suo percorso accidentato e la libertà dell'autore risulta condizionata.
Il f. non è soltanto opera singola, ma di frequente si inserisce nel contesto dei f. similari, che presentano analogie, riprese, ripetizioni. Ci sono opere che si somigliano per la costruzione narrativa (la conquista di nuove terre, o la vendetta, il ristabilimento della 'giustizia' nel western), oppure per elementi formali (gli spazi fortemente contrastati dei gangster film), o per intrecci molto tipizzati (la contrapposizione dei personaggi nel melodramma), oppure per scansioni di racconto (il viaggio nei f. di avventure: v. avventura), o per ruoli, situazioni, elementi ambientali, periodi storici. Il cinema insomma, come altri linguaggi, conosce i generi (v. generi cinematografici); con alcune particolarità, però. I tempi brevi del cinema, infatti, comportano un'accelerazione nella formazione e nel rafforzamento dei modelli (inizialmente presi a prestito, in seguito autonomi) cui la singola opera è spinta ad adeguarsi. In secondo luogo, è forte la pressione di un apparato industriale che stimola l'adeguamento ai modelli rispondenti alle diverse esigenze del pubblico: il genere tende a garantire o a contenere il rischio economico del f. prototipo.
Proprio per questa maggiore regolamentazione dei 'codici forti' si pone il problema della loro conciliabilità con la presenza di un autore; lo sviluppo storico del cinema sta a confermare che, malgrado l'estensione e il peso tendenzialmente limitanti dei generi, l'originalità può qualificarsi come rapporto tra regole e variazioni. Alcuni generi attraversano interi periodi o grandi cinematografie (basti pensare, per es., a cosa ha significato proprio il western per il cinema statunitense), e la presenza di autori al loro interno si rivela come capacità di conciliare il già visto con il nuovo. I soli nomi di John Ford e di Alfred Hitchcock possono costituire una prova. Il piacere della ripetizione, nelle opere 'alte' di genere, conferma le attese dello spettatore ma gioca anche sugli scarti e sulle deviazioni. Si può anche ipotizzare la creazione di un genere 'proprio' da parte di un singolo regista; non sono più regole esterne a essere accettate, ma una sorta di autoregolamentazione, il cui scopo è quello di proporre una sottile e complessa variazione su schema, un modo particolare di 'seguire un'idea' in più f., ognuno dei quali si configura come una sorta di quadro di un polittico. È il caso di Eric Rohmer e delle sue 'serie': i sei Contes moraux, gli altrettanti Comédies et proverbes, i Contes des quatre saisons; ogni opera si pone come esempio di permanenze e modifiche, ogni f. provoca rimandi ad altri f., i ritorni si conciliano con la novità.
Paradossalmente si può affermare che, nei casi appena citati, il testo rohmeriano è costituito dall'insieme dei f. appartenenti a ciascuna serie. Se però questa è la viva eccezione, la regola è che il concetto di testo sia applicabile a un singolo f.; e l'accezione del termine è la stessa che si applica in altri campi, a cominciare dalla letteratura: ogni f. è un insieme coerente, in cui i singoli codici espressivi (immagini e parole, suoni, musica, colore) si integrano grazie allo sforzo di coesione operato dal regista. Già S.M. Ejzenštejn, parlando di "composizione" a proposito della regia, tendeva a mettere in luce come la pluralità di elementi significanti del linguaggio si organizzasse in un insieme; aveva dunque ben presente che non si trattava di giustapporre gli stessi elementi (operando, in altre parole, una somma delle parti), oppure di "fonderli" facendo perdere la loro specificità, ma di porli in relazione nella costruzione. Panofsky, a proposito del sonoro ma non solo, definì la convergenza dei fattori come principio di coespressibilità (1934; trad. it. 1978, p. 246).
Christian Metz, riprendendo e allargando il problema con pertinenza semiologica, ha sottolineato il modo di integrazione di codici non specifici nella forma filmica, mettendo in guardia dagli equivoci di una forma "sincretica": "una opinione corrente vuole che la caratteristica del film sia di organizzare diversi materiali non-cinematografici in una costruzione cinematografica. Quel che si sostiene qui è che la caratteristica del film è di integrare dei codici cinematografici e dei codici non-cinematografici in una costruzione d'insieme che conserva questa dualità, superandola nell'unità logica e strutturale di un sistema singolo" (1971; trad. it. 1977, p. 80). Ciò non toglie, è chiaro, che nel processo di "superamento" alcuni codici, interagendo fra di loro, si modifichino.
È altrettanto chiaro che, così concepito, un testo, pur coerente, non è chiuso, ma contiene molteplici rimandi. Ogni f. ha rapporti con i precedenti, sia nel caso di evidenti derivazioni, filiazioni, influenze, sia ‒ più in generale ‒ perché il già visto costituisce un patrimonio da cui implicitamente si attinge, una memoria collettiva con cui è necessario confrontarsi. Ciascuna opera, inoltre, rimanda a un contesto, storico, sociale, persino comportamentale. Ciò avviene in un duplice modo: da un lato direttamente, per i riferimenti che ogni narrazione ha con il momento in cui è stata inventata, dall'altro ‒ indirettamente e più sottilmente ‒ perché chiama in causa il visibile di un periodo, cioè "quel che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un'epoca data". Questo sfondo è naturalmente mobile, ma "le fluttuazioni [...] non hanno niente di aleatorio: rispondono ai bisogni, o al rifiuto di una formazione sociale" (Sorlin 1977; trad. it. 1979, p. 69). Il cinema contribuisce a solidificare e ad ampliare questo visibile; un autore tende a forzare i limiti di questo sfondo, e deve fare i conti non solo con il proprio linguaggio (basti pensare alla televisione). L'orizzonte di confronto di ogni f. tende ad allargarsi.
Con questo rimando per molti versi oggettivo si interseca comunque quello soggettivo dello spettatore. Ogni f. chiama in causa il già visto di ciascuno, il suo patrimonio di conoscenze. Ciò permette la conferma o la smentita delle sue attese. È questo il più ristretto, ma non perciò meno importante o impegnativo, contesto con cui il testo-film si misura.
È nota, dal punto di vista storico, la lunga persistenza di remore nei confronti del cinema da parte di alcuni settori intellettuali, propensi all'inizio a considerarlo riduttivamente come una semplice tecnica di riproduzione, scettici in seguito sul fatto di poterlo ascrivere alla creatività artistica, inclini infine a considerarlo un elemento di punta dell'alienante mondo dello spettacolo. Ma con altrettanta, o quasi, frequenza si andarono ampliando ‒ almeno a partire dagli anni Dieci del 20° sec. ‒ i consensi, le aperture alle novità anche estetiche che comportava, la spinta a proporre strumenti di indagine appropriati. Non è stato tuttavia un cammino facile; dal momento che come nella pratica si cercava appoggio in una tradizione consoli-data, così nella teoria si faceva ricorso non occasionale a punti di sostegno esterni (le "teorie affermate" che Balázs vedeva negativamente). Certo, non mancarono 'ingenuità' nelle prime teorizzazioni sul cinema, ma in esse si annidavano anche elementi di disturbo nei confronti di categorie generali tradizionalmente accettate (v. teorie del cinema). La stessa tendenza asistematica, caratteristica della scrittura 'a caldo' di talune elaborazioni, si scontrava con un assetto culturale consolidato, e per giunta consolidato su una base 'umanistica' diffusa e garantita. Questa veniva messa a repentaglio soprattutto dal bisogno, per chi si occupava criticamente di cinema, di affrontare problemi di produzione, di diffusione, in definitiva di mercato.
L'errore iniziale era però di prospettiva, e nasceva da una sorta di ripiegamento di comodo, verso un oggetto ipoteticamente unitario, anche se variegato: l'oggetto presente era sempre il cinema, senza le distinzioni radicate per altri linguaggi, senza almeno quelle delle varie funzioni (documentazione o narrazione, riproduzione o creazione) e dei vari modi di fruizione che ben presto si andarono precisando. È la stessa differenza che si presenta, in altro ambito, tra il libro d'autore, il romanzo a dispense, il diario di viaggio, tutte le forme in qualche modo ascrivibili alla nozione di letteratura. Si andarono però progressivamente affermando esigenze precise e diverse; da un lato, appunto, si sentì il bisogno di distinguere i f. all'interno del cinema, dall'altro si affermò la convinzione che la specificità del linguaggio cinematografico, come d'altra parte la specificità di ogni linguaggio, esigesse strumenti idonei. Si andò anche oltre, perché ci si accorse che, attraverso il cinema, si potevano mettere in discussione e problematizzare categorie estetiche di carattere generale, come quella del rapporto tra mimesi e creazione, o quella tra invenzione e riproduzione (v. estetica del cinema).
La tentazione, in ogni caso, di prendere da altri campi metodologie di interpretazione del testo torna non infrequentemente, e si può discutere su quanto si tratti di ricambio, di confronto, di apertura oppure di un piano adattamento a strumenti collaudati o magari culturalmente affermati. Nei casi in cui di effettivo e proficuo ricambio si è trattato, si è potuto comunque constatare che il moto era pendolare, dalle altre discipline al cinema ma anche viceversa.
Punto terminale del percorso di un f. è naturalmente lo spettatore, come succede per gli altri processi comunicativi e artistici, ma ‒ ancora una volta ‒ con alcune particolarità. La prima, più evidente, è costituita dal percorso di 'lettura' di un'opera cinematografica, rigido ed eterodiretto (ci si riferisce al consumo in sala), a differenza di quanto avviene, per es., per un libro o un quadro. Ma non è qui il punto qualificante: esso sta piuttosto nel modo in cui "il film si dà a vedere" (Casetti 1986, p. 17), e nei processi che attiva, nelle risposte che la strategia del regista si attende. "Vogliamo studiare il diritto del film, fin qui ignorato nell'estetica, di essere qualificato un'arte in se stessa, sotto condizioni mentali di vita completamente nuove" scriveva nel suo 'precoce' saggio H. Münsterberg (1916; trad. it. 1980, p. 31). Ci sono dunque mezzi mentali diversi che vengono sollecitati: è un lavoro di decifrazione della storia e dei segni che ogni spettatore sviluppa, attingendo alle sue competenze, alle sue propensioni, alla conoscenza della specificità del linguaggio. Parlare di istituzione cinematografica, ha ricordato Metz (1977; trad. it. 1980), vuol dire non soltanto riferirsi all'apparato produttivo ma anche, su un altro piano, ai meccanismi che gli spettatori "abituati al cinema" hanno storicamente interiorizzato e che li rendono atti a consumare film. L'istituzione è quindi fuori dello spettatore e dentro di esso; perciò ogni f. sviluppa pure modalità di coinvolgimento, mezzi emozionali che rispondono a bisogni profondi, che inducono lo spettatore a una particolare partecipazione favorita anche dai luoghi e dai modi di fruizione. L'originaria commistione di realtà e finzione produce a questo punto i suoi effetti conclusivi.
R. Canudo, Naissance d'un sixième Art. Essai sur le cinématographe, in "Les entretiens idéalistes", 25 ott. 1911 (trad. it. in "Cinema nuovo", sett.-ott. 1973, 225, pp. 361-71).
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L. Albano, Il secolo della regia: la figura e il ruolo del regista nel cinema, Venezia 1999.