Governo, forme di
Sin dal suo primo manifestarsi il pensiero politico ha costruito grandi tipologie per mezzo delle quali classificare le unità politiche esistenti: dato che i fenomeni politici assumevano sempre forme diverse, per orientarsi nella realtà era necessario usare ben precise tassonomie costruite con un metodo analitico-comparativo, per poi magari passare dai generi individuati alle diverse sottospecie.In questa sede ci interessano soltanto le tipologie costruite dalla scienza politica, la quale, proprio perché empirica, cerca di descrivere, in modo comparato, la fenomenologia politica esistente. Vi sono anche altre tipologie costruite con criteri formalmente giuridici o nelle quali la filosofia dell'autore è prevalente, che dovranno essere tenute più sullo sfondo, perché fuoriescono dalle scienze sociali. La scienza empirica della politica si caratterizza perché parte sempre da referenti storici forti.
Le tipologie si costruiscono in base a dei fundamenta divisionis; per le forme di governo - per il periodo da noi trattato - ne possiamo indicare essenzialmente due: innanzitutto 'chi governa' e, in secondo luogo, 'come governa'. Ma vi sono pensatori che, passando dalla scienza alla sociologia politica, indicano anche il ruolo delle forze sociali nei diversi generi (e anche specie) di governo. Tutta questa letteratura, per quanto ambisca a un'empirica descrizione della realtà esistente, non dimentica però mai il momento prescrittivo, animata com'è dall'esigenza di indicare il governo migliore. E proprio per questo - non raramente - forme di governo corrotte appaiono come 'non governi'.
Questo lemma ha dei limiti cronologici ben precisi: inizia ovviamente con i Greci, le cui tipologie permarranno - salvo un affievolimento nell'età medievale - fino all'età della rivoluzione democratica, quando mutano radicalmente i referenti storici da cui partire. In realtà i referenti storici mutano anche all'inizio dell'età moderna, nella quale è protagonista lo Stato e non la pólis. Ma, in modo variamente articolato, si resta pur sempre debitori della tassonomia greca.Ancora una precisazione, perché questa storia della tipologia delle forme di governo ha sullo sfondo, nell'età greca, una nuova realtà politica - l'impero - con cui poi si interseca in età tardoromana e medievale. Questo termine è usato in modo indiscriminato dagli storici, in più scaltrite tipologie dagli scienziati della politica: esso, in via generale, indica un'aggregazione di diverse società, nella quale una soltanto esercita il suo controllo politico sulle altre. I Greci la chiamavano egemonía, e il re, che concentrava il potere nelle sue mani, despótes. Il termine 'impero' ha un'origine relativamente recente: deriva da imperium, il potere proprio del magistrato romano, poi da imperator, titolo del princeps (con Ottaviano Augusto), ma, per indicare una vera e propria forma di governo, appare solo in età carolingia.
L'unità politica fondamentale nel mondo greco è la pólis: gli storici oggi ne annoverano per il V secolo circa 150, se ci limitiamo alla Grecia. Esse erano profondamente gelose della propria autonomia e fiere della propria indipendenza, spesso rissose fra loro, ma, una volta alleate, capaci di sconfiggere nel 480-479 a.C., a Platea e a Salamina, l'Impero persiano.
La parola pólis viene generalmente tradotta con città-Stato, ma il nostro linguaggio è del tutto incapace di rendere il significato più profondo di pólis e il termine moderno di Stato è del tutto fuorviante. Infatti, in primo luogo, la pólis è una koinonía, una piccola comunità dove si vive insieme, sottoposta sempre al rischio di perire e di soccombere in guerra; in secondo luogo il termine pólis è strettamente connesso alle cose politiche (ta politiká) per cui, se non si vuole ricorrere alla definizione medievale di civitas sibi princeps, bisognerebbe forse parlare di 'città politica'.
Politéia è generalmente tradotto con 'governo' o con 'costituzione'. Sono traduzioni esatte, ma si debbono fare due osservazioni marginali. Come osserva Aristotele, l'uso di questa parola è duplice: serve a indicare sia qualsiasi forma di governo (Politica, III, 6), sia il governo migliore, che può essere una democrazia rispettosa delle leggi (III, 7) come una mistione di oligarchia e democrazia (IV, 7). Per quanto riguarda la nostra parola 'costituzione', essa sarebbe del tutto incomprensibile ai Greci. Infatti per i Greci la costituzione è l'anima della koinonía, un principio vitale che rende vivo il corpo politico, "perché la costituzione è la vita (bíos tis) della pólis" (IV, 11), essa è il suo políteuma.Il primo accenno a tre forme di governo lo troviamo nel poeta Pindaro (ca. 518-446 a.C.): "ma sotto ogni forma di governo [nómos] un uomo franco emerge, sia alla corte di un tiranno, sia dove vi è la moltitudine [stratós] violenta, sia dove i saggi [sophói] si prendono cura della città" (Pitica, 2, vv. 86-88). Tuttavia questa osservazione ha una scarsa rilevanza concettuale. L'approfondimento di queste tre forme di governo si ha, per la prima volta, con Erodoto (ca. 484-426 a.C.), il quale nelle Storie (III, 80-82) introduce il tema del lógos tripolitikós, riferendo i discorsi di tre nobili persiani dopo l'uccisione dei Magi: i protagonisti sono persiani, ma i contenuti dei loro discorsi esprimono - quasi certamente - la riflessione politica della sofistica. Sono tre discorsi paralleli: Otane, difensore della democrazia, inizia polemizzando contro il governo di uno solo, insolente, arrogante, invidioso, che può fare quello che vuole, senza renderne conto a nessuno. Nel governo del popolo, invece, le magistrature sono estratte a sorte, tutti i decreti vengono approvati dall'assemblea e, infine, regna l'isonomía, l'eguaglianza giuridica dei cittadini (ma questo valore, per il pensiero posteriore, sarà anche di altre forme di governo). Megabizo condivide la polemica di chi l'ha preceduto contro il governo di uno solo, ma nel contempo attacca duramente la moltitudine, priva di intelligenza, insolente, buona a nulla. Conclude Dario, che approva la polemica di Megabizo contro la democrazia, ma critica anche il governo dei pochi, l'oligarchia, perché anch'essa è fonte di inimicizie come la democrazia, ed esalta invece il re come vera guida del popolo.
Da questi tre discorsi possiamo facilmente evincere tre cose. Innanzitutto il fundamentum divisionis delle tre forme di governo è empiricamente accertabile: l'uno, i pochi e i molti che sono al governo della città. In secondo luogo i tre nobili parlano non per intendersi, ma per fraintendersi: per Otane il governo di uno solo è quello tirannico, per Megabizo il governo dei molti è quello della democrazia sfrenata, per Dario il governo dei pochi è soltanto una oligarchia. Ma, quando difendono il loro governo, parlano in realtà di democrazia isonomica, di aristocrazia, di monarchia. Però - e questa è la terza osservazione che si deve fare - ciascuno coglie bene la virtù della forma di governo a cui dà la sua preferenza: la democrazia permette il consenso e la partecipazione dei cittadini, l'aristocrazia favorisce che nelle deliberazioni contino soltanto i migliori, la monarchia consente l'unità e la segretezza del comando soprattutto in politica estera.
A sciogliere l'ambiguità terminologica che abbiamo rilevato nel testo di Erodoto è stato Platone (ca. 428-347 a.C.), quando nel Politico (291d-292c, 293c-294c, 302c-303c), dopo aver a lungo insistito sulla "settima forma di governo", quella in cui governa il politico-filosofo, procede a una distinzione di specie fra i tre generi di governo: così abbiamo la monarchia (basiléia) e la tirannide (tyrannís), l'aristocrazia (aristokratía) e l'oligarchia (oligarchía), la democrazia (demokratía) e la democrazia corrotta (ma Platone confessa la difficoltà di trovare la parola appropriata). Il fundamentum divisionis è chiaro: governare secondo o contro le leggi, forme di governo rette o degenerate. Fra parentesi, il pensiero greco mostra incertezze nel trovare le parole per distinguere quelle che noi oggi chiameremmo 'democrazia costituzionale' e 'democrazia populista': di Platone si è or ora detto; Aristotele contrappone la politéia alla democrazia, mentre Polibio la democrazia alla oclocrazia.
Platone ama anche le sequenze, per gerarchizzare le diverse forme di governo. Nel Politico enuncia questa, relativa alle forme inferiori: monarchia, aristocrazia, democrazia, democrazia populista, oligarchia, tirannide. Nella Repubblica, dove affronta il problema della corruzione o della decadenza della pólis, parla dell'inevitabile passaggio, dopo il governo dei sapienti, per l'errore da essi compiuto nello stabilire il tempo dovuto per gli accoppiamenti, dalla timocrazia laconica alla oligarchia, alla democrazia populista, alla tirannide. Ma descrive questa decadenza, in base alla corrispondenza fra l'anima e la pólis, in termini squisitamente psicologici: essa consisterebbe cioè nel corrompersi dell'anima dei cittadini dovuto alla discordia o, meglio, all'insaziabilità con cui perseguono il loro particolare bene (la ricchezza, la libertà); e ogni eccesso produce una naturale reazione. Cosa che gli rimproverò Aristotele (Pol., V, 12), il quale mostra con ragione come quelle sequenze sul piano empirico non reggano assolutamente. Ma Platone non aspirava a essere uno scienziato politico, come lo fu Aristotele; ubbidiva soltanto alla logica della sua metafisica.
Nelle Leggi Platone forse è più realistico, ma continua a interessarlo il problema della corruzione e della decadenza politica, dovute a mancanza di saggezza e di temperanza (688b-693e). Egli si sofferma sullo "sviluppo politico" (metabolé, 681d), anticipando un tema di Aristotele (Pol., I, 1-2). Lo sviluppo politico si articola in tre momenti, anche se a prima vista sembrano due. Dopo il diluvio gli uomini sulle montagne conoscevano la famiglia patriarcale (dynastéia), poi l'unione di più famiglie diede origine al ghénos, cioè - in termini moderni - alla tribù, infine si formò una comunità (pólis, 680c) più numerosa, una vera e propria città, perché cinta da sassi: le mura, infatti, sono il simbolo della città (680b-681c). Interessante è anche l'uso della dicotomia, che tanto successo raccoglie nei nostri tempi: "Fra le costituzioni ve ne sono due che sono come madri, ché, non a torto si può dire, da esse sbocciano tutte le altre" (693d); la monarchia e la democrazia, però, degenerando producono o dispotismo o licenza. I tipi ideali sono astratti, in concreto abbiamo diverse mescolanze dei diversi tipi: così, parlando di Sparta e di Creta, afferma che esse sono un misto di democrazia, oligarchia, aristocrazia e monarchia (712c-713a).
Sarà Aristotele (384-322 a.C.) a darci nella Politica il più completo e sistematico esame comparato delle forme di governo del suo tempo. Egli parte da una ricognizione empirica, l'esame di 158 costituzioni, delle quali ce ne resta soltanto una, l'Athenáion Politéia. Ma questa indagine descrittiva è sempre congiunta al problema della giustizia, qual era stato affrontato soprattutto nel quinto libro dell'Etica Nicomachea. Il fine ultimo della pólis è la "vita migliore", il "vivere bene" (Pol., VII, 1) e la vera pólis "è una comunità di uomini liberi" (III, 6).
Aristotele parte dall'ormai consolidato lógos tripolitikòs di Erodoto e distingue le forme rette e quelle corrotte o deviate: abbiamo così da un lato il regno, l'aristocrazia, la politéia e, dall'altro, la tirannide, l'oligarchia, la democrazia populista (Pol., III, 7). Ma questo è solo il punto di partenza o un omaggio alla tradizione, e non certo una gabbia in cui incasellare tutte le costituzioni. Per procedere a un esame più attento alla realtà Aristotele introduce tre variabili esplicative. La prima è sociologica, perché è attenta alle classi che stanno dietro a ogni forma di governo: nell'oligarchia comandano i ricchi, nella democrazia i poveri (III, 8). È una distinzione semplice ed elementare, ma in altri passi Aristotele dimostra di essere consapevole che la realtà sociale è assai più complessa: così parla di agricoltori, operai meccanici, commercianti, teti e militari (IV, 4); di agricoltori e pastori come base sociale ottima per una vera politéia (VI, 4); di contadini, artigiani, militari, benestanti, sacerdoti e giudici (VII, 8). La seconda variabile esplicativa riguarda la partecipazione politica all'assemblea, che può essere di tutto il popolo assieme o - a turno - di una sua frazione, e l'accesso alle diverse cariche, che può essere limitato dal censo (III, 1, 12; IV, 14-15; VII, 9). La terza variabile esplicativa è il rispetto del principio del nómos basiléus ovvero della sovranità della legge (III, 11, 16), che per Aristotele riveste un assoluto valore, perché "dove le leggi non imperano non c'è costituzione" (IV, 5). Sulla base di queste variabili Aristotele classifica cinque forme di monarchia (III, 14), cinque forme di democrazia (IV, 4), quattro forme di oligarchia (IV, 5-6) e tre forme di aristocrazia (IV, 7). Le forme più deviate di questi quattro tipi di governo si misurano essenzialmente sul loro rispetto della legge e per questo presentano fra loro un'estrema affinità. Infatti al tiranno assomiglia il demagogo, e le 'dinastie' oligarchiche si comportano come i primi due (IV, 4, 5).
La miglior forma di governo è un misto di oligarchia e democrazia (IV, 8): questa è la vera politéia. Essa riesce a mescolare nel governo gli agiati e i disagiati (IV, 8, 9), ha alla sua base il ceto medio (IV, 11), un ceto di "lavoratori e non di oziosi" (IV, 6). La politéia deriva i suoi principî dall'etica, la cui virtù è la medietà (IV, 11): oligarchia e democrazia hanno una visione parziale della giustizia (III, 9 e anche II, 2), che deve essere superata in una superiore sintesi. La vera giustizia deve saper armonizzare l'eguaglianza aritmetica, in base alla quale tutti sono trattati come eguali, con l'eguaglianza geometrica, in base alla quale gli uomini, in quanto di fatto diseguali, vengono trattati in modo diseguale secondo i loro meriti (V, 1). Rispetto alla politéia, le forme di governo corrotte appaiono prive di costituzione: la democrazia populista non ha "una costituzione, perché dove le leggi non imperano non c'è costituzione". E questo vale anche per le altre forme di governo, che non riconoscono il principio del nómos basiléus.
Nell'esame del lógos tripolitikós si è più volte accennato a una forma di governo - la tirannide - mentre ne è rimasta celata un'altra - il dispotismo orientale -; esse, in tempi e in modi diversi, saranno massicciamente presenti nella storia del pensiero politico europeo. La figura del tiranno è presente in tutta la storia della cultura greca: è il mortale nemico della pólis. Fra le tante prendiamo la fredda definizione di Aristotele: tiranno è chi "governa dispoticamente a proprio capriccio" o chi "irresponsabilmente impera su tutti i cittadini eguali o superiori per l'utilità propria e non dei sudditi" (Pol., IV, 10). Mentre il tiranno resta collegato alla pólis, il dispotismo è una forma di governo collegata all'Oriente. Dice Aristotele: nelle popolazioni barbariche i re "hanno tutti quanti un potere simile alle tirannidi, ma sono conformi alla legge ed ereditari giacché, avendo per natura i barbari il carattere più servile dei Greci, e gli Asiatici degli Europei, sottostanno al dominio dispotico senza risentimento" (III, 14, ma anche IV, 10). Un passo seguente approfondisce la distinzione: "Perché c'è uno che da natura è fatto per il governo dispotico [...] e un altro per la politéia" (III, 17). Insomma il despota ha un potere analogo a quello del padrone sugli schiavi (ma cfr. anche Platone, Leggi, 697c-698a): infatti fra i barbari non esiste la distinzione greca fra pubblico (agorá) e privato (óikos) né le diverse relazioni di potere che in essi si danno, per cui il despota considera il suo regno come un proprio dominio privato.Dopo la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e la guerra sociale l'Ellade, come mondo delle póleis, entra in decadenza per subire prima l'egemonia dell'Impero macedone, poi del nascente Impero romano. Aristotele, come precettore di Alessandro il Grande, è proprio il testimone del costituirsi di questa nuova unità politica, che ricade sotto il genere 'imperi'.
Roma, dopo la cacciata dei re (510 a.C.), venne definita una Res publica, la cui essenza era la libertas: la libertas civis romani che è insieme la libertas populi romani. Insomma la libertas è identificata con la stessa costituzione della civitas. I cives non sono schiavi, e la res publica è opposta al regnum (assoluto) o dominatio. Ma bisogna aspettare l'assai posteriore prassi legale per avere una definizione giuridica di libertas e Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) per avere una classica definizione di res publica, che rimarrà sino alla fine del Settecento. Ma sarà uno straniero, il greco Polibio da Megalopoli (ca. 200-120 a.C.), a dare un'interpretazione della Costituzione romana, che nei secoli avrà una grande fortuna.
Roma, dopo la cacciata dei re, era una piccola città cinta da mura, che conteneva diversi villaggi: circondata da altre rissose città, per lungo tempo ebbe una politica meramente difensiva, finché verso il 340 a.C., sottomessi i Latini, uscì dal Lazio e iniziò la sua politica di espansione: nel 282 a.C. era signora dell'Italia centro-meridionale e nel 220 a.C. dell'Italia settentrionale. Le tre guerre puniche la portarono alla conquista di un Impero che aveva il suo baricentro nel Mediterraneo (146 a.C.). Insomma: un secolo e mezzo combattuto per l'egemonia nel Lazio, 70 anni per la conquista dell'Italia peninsulare, un secolo per costruire l'Impero. Ma la cittadinanza agli Italici, che erano il nerbo delle truppe di Roma, venne concessa, dopo numerose lotte, solo nel 90-88 a.C. Sino a questa data Roma è ancora una città imperiale, e già in questo periodo si sta delineando la nuova forma politica del principato, che si concluderà poi, con l'avvento al potere di Diocleziano (284), nel dominato. La riflessione politica, che si svilupperà nel II e soprattutto nel I secolo a.C., non ha curiosità o interessi comparatistici; questo si spiega facilmente con il fatto che tutti gli imperi si considerano il centro del mondo e sono portatori di un messaggio universalistico: "Roma caput orbis terrarum" (Livio, Historiae, I, 16) o "Roma caput mundi" (Lucano, Farsaglia, II, 655) pensa soltanto a ricostruire la propria storia e la propria leggenda.
Chi 'razionalizzò' ai Romani la loro Costituzione fu appunto Polibio, che arrivò - come ostaggio di riguardo - a Roma nel 167 a.C. Storico per temperamento, nelle sue Istorie vede nascere la Costituzione romana come un prodotto della storia, del caso (I, 4), delle "lotte e agitazioni" (VI, 10). Essa però assomiglia a quella di Sparta - da lui ammirata - che fu creata, invece, dal legislatore Licurgo: entrambe realizzano un governo misto (la mikté politéia). Il libro sesto purtroppo è incompleto ed è stato scritto quando ormai Roma ha esteso il suo potere in Oriente: Polibio non si trova di fronte a una città-Stato, ma a un "impero universale" (VI, 1), perché ormai "tutto il mondo [è] sotto il dominio di Roma" (I, 5, 5).
Polibio è affascinato dalla durata del governo di Roma. Per interpretare la sua Costituzione, che ha consentito questa durata, parte dalle ormai classiche distinzioni greche fra le tre forme di governo rette, il regno (basiléia, che viene dopo e corregge i difetti della monarchia), l'aristocrazia, la democrazia, e, attento alla lezione di Platone, le combina con la loro forma corrotta, la tirannia, l'oligarchia, l'oclocrazia, in una teoria della storia, l'anacýclosis, secondo la quale la storia si muove seguendo un andamento ciclico, per cui alla fine si ritorna al punto di inizio. Le forme semplici di governo sono destinate a corrompersi nel volgere di pochi anni: così la monarchia degenera in tirannide, l'aristocrazia, che le subentra, si corrompe in oligarchia, infine la democrazia, nata dalla rivolta contro i soprusi dei pochi, degenera poi nell'illegalità e nella tracotanza della oclocrazia. Conclude Polibio: "Questa è la rotazione delle costituzioni; questa è la legge naturale per cui le forme politiche si trasformano, decadono e ritornano al punto di partenza" (VI, 3-9). Roma si è salvata da questa rapida corruzione, ha avuto una lunga durata, perché aveva realizzato un governo misto, cioè un equilibrio di poteri e di organi, ciascuno dei quali poteva esprimere al massimo la sua fisiologica funzione: i consoli erano l'elemento monarchico adeguato al potere esecutivo, il senato l'elemento aristocratico, che controllava l'erario e la politica estera, il popolo l'elemento democratico che dava il consenso ultimo sulle scelte più importanti.
Marco Tullio Cicerone riprende la tipologia di Polibio e la sua esaltazione del governo misto in funzione però del princeps che stava emergendo. Le forme semplici si corrompono, mentre il governo misto garantisce stabilità (De re publica, I, 45 e anche II, 23, 28). L'ideale di Cicerone è una situazione di equilibrio fra diritti, doveri e funzioni, in modo che possano coesistere la potestas (dell'uno), l'auctoritas (dei pochi) e la libertas (dei molti) (II, 33). Cornelio Tacito (ca. 55-117), più di un secolo dopo, riprende la consueta tipologia, ma poi afferma che "una forma di governo che le comprenda tutte è più facile da celebrare che da istituire, e quando la si realizza non può durare a lungo" (Annales, IV, 33, 1), colpendo così il mito della stabilità che era stato congiunto al governo misto. Forse, come storico del dominato, gli era più familiare la figura del tiranno, ma, quando rapidamente descrive le istituzioni dei Germani (la sola opera etnografica della cultura romana assieme agli scritti di Seneca sull'India e sull'Egitto), sembra ripetere lo schema dell'uno, pochi e molti: "De minoribus rebus principes consultant, de maioribus omnes, ita tamen, ut ea quoque, quorum penes plebem arbitrium est, apud principes praetractentur" (Germania, 11, ma anche 7). Un'affermazione che avrà la sua fortuna alla nascita della Francia moderna fra i sostenitori delle origini germaniche o franche della Costituzione del paese.
Cicerone - in realtà - resterà famoso per un'altra sua definizione, quella di res publica, che viene tramandata nonostante la sua opera sia stata scoperta solo all'inizio dell'Ottocento. Scrive Cicerone: "Est igitur, inquit Africanus, res publica res populi; populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus" (De re publica, I, 25); e a questa definizione bisognerebbe farne seguire un'altra, spesso tralasciata: "Omnis ergo populus, qui est talis coetus moltitudinis, qualem exposui; omnis civitas, quae est constitutio populi; omnis res publica, quae, ut dixi, populi res est, consilio quodam regenda est, ut diuturna sit" (I, 26), dove si evince che la civitas è la costituzione del popolo, e che Cicerone fa un uso moderno del termine constitutio (I, 45; II, 21), da avvicinare a politéia, quando indica una legge più alta. Tenendo fede a queste definizioni, Cicerone in quest'opera deve ammettere che, dove tutti subiscono l'oppressione crudele di uno solo, non può esistere una res publica (III, 31). Ma in un'altra opera (De officiis, II, 11, 40) afferma che esiste un diritto anche fra le bande dei briganti, seguendo il principio ubi societas, ibi ius.
Nel settembre del 476, con la deposizione di Romolo Augustolo, l'Impero in Occidente cadde 'senza rumore'. Una cronaca del tempo ricorda che erano passati 1.303 anni dalla fondazione di Roma da parte di Romolo; ma il secondo cognome è altrettanto significativo. Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.) era sembrato incarnare per molti l'ideale ciceroniano del princeps; ma ormai l'Impero si era profondamente trasformato: con l'avvento al potere di Diocleziano (284) e ancora più con Costantino (306) era divenuto una forma di governo che tecnicamente si chiama dominato. Era una monarchia di tipo militare con un enorme apparato burocratico, la quale aveva instaurato un forte dirigismo economico, e gli antichi cittadini erano divenuti schiavi del proprio lavoro. In questo impero di tipo orientale l'eco dell'antica libertas si era ormai spenta, anche se Giustiniano (482-565), con la redazione del Corpus iuris, ha salvato per il mondo l'eredità del diritto romano. Romolo Augustolo cadde - come si è detto - 'senza rumore': gli echi dell'antica libertas erano spenti e, nella durezza dei tempi, gli animi - sotto l'influsso del cristianesimo - erano ormai rivolti a un'altra patria, la patria celeste. Nasceva però una nuova res publica, che verrà poi chiamata res publica christiana, una repubblica universale ed ecumenica fuori della quale non c'era salvezza. Roma tornava a essere caput mundi.
Era stato Agostino (354-430) - l'Agostino antipelagiano - a segnare questo distacco del cristiano dalle cose del mondo, quando nel De civitate Dei (IV, 4) aveva affermato: "Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?". Se interpretiamo la parola iustitia non nel senso di Cicerone, che Agostino conosceva bene, ma nel senso cristiano, cioè di quell'assoluta giustizia che è soltanto in Dio, vedremo una totale indifferenza verso le diverse forme politiche. Si perde persino il concetto di 'politica', inteso nel senso greco e romano, in quanto è una categoria mondana. Il potere politico è accettato solo perché è un remedium peccati o un remedium concupiscientiae, ed è un potere che deriva da Dio.
Fermo restando questo primato del momento religioso nella vita dell'uomo, col XIII secolo assistiamo a un maggior interesse per le forme politiche, già preparato dallo Studio bolognese, che dal 1088 venne riscoprendo il diritto romano e poi conferendo maggior rigore al diritto canonico. La vera svolta si ebbe con la traduzione in latino - verso il 1260 - da parte di Guglielmo di Moerbecke della Politica di Aristotele, il cui pensiero venne poi diffuso in primis da Tommaso d'Aquino: tutta la riflessione medievale sulle forme politiche ha il suo punto di partenza nel testo aristotelico, ma ha un taglio più giuridico, dato che il vero problema allora era quello della iurisdictio, della giustizia che il re, in quanto vicario di Dio in terra, doveva rendere ai suoi sudditi. Naturalmente l'impianto del discorso resta ancora teologico.
Costante in tutti è la ripetizione delle tre forme di governo e si parla quindi di status regalis, optimatorum, popularis. Citiamo solo due autori che sono all'inizio e alla fine di questa riflessione: Tommaso (ca. 1225-1274) nel De regimine principum, dopo la consueta tipologia, difende la monarchia (rex) perché è il governo di uno solo (I, 1-6); Marsilio da Padova (ca. 1275-ca. 1342) nel Defensor pacis (I, 8, 1-4) parla delle tre forme di governo (chiamate politie), ma poi enuncia una tesi embrionalmente democratica quando, citando Aristotele, afferma che "legislatorem seu causam legis effectivam primam et propriam esse populum seu civium universitatem, aut eius valentiorem partem per suam electionem seu volontatem in generali civium congregatione per sermonem expressam" (I, 12, 3). I seguaci di Tommaso, in verità, non si interessavano tanto della vecchia tripartizione, quanto della distinzione tra forme di governo rette e forme degenerate, perché la loro attenzione era rivolta al pericolo che queste ultime rappresentavano. In fondo Tommaso, guardando alla realtà, vede soltanto la civitas (per altri la res publica) o il regnum (o anche principatus) come communitas perfecta.
Tutta la discussione sulle forme di governo parte da un commento della Politica di Aristotele; ma ora è necessario ricordare altri tre punti. In primo luogo Dante Alighieri (1265-1321) nella sua Monarchia estende assai il concetto di "sviluppo politico" di Aristotele, mirando a ribadire l'unità dell'impero e della communitas christiana. Esiste la famiglia, poi l'insieme di più famiglie dovuto alla loro vicinanza, poi - come comunità politiche - vengono la città, il regno e l'impero, in un preciso ordine gerarchico che consente alle prime due solo una relativa autonomia, perché l'impero (o monarchia) ha il compito di garantire la pace (Monarchia, I, 5-8). In Dante l'impero ecumenico diventa anche un impero cosmologico, data l'armonia che deve esistere fra il microcosmo e il macrocosmo; e l'armonia presuppone l'unità. Il sogno, sulle orme di Carlomagno, dell'impero universale di Ottone III (980-1002), di Federico I (ca. 1125-1190) e di Federico II (1194-1250), un sogno che attraversa tutto il Medioevo e ha la sua ultima espressione in Carlo V (1500-1558), ha un'impronta più germanica che romana.In secondo luogo, si tenga presente che a preoccupare e a ossessionare gli autori medievali è il tiranno, come era già stato per i Greci e per i Romani del tardo Impero. E del tiranno viene data una ben precisa definizione giuridica: tiranno è colui che viola la legge o meglio quel diritto consuetudinario che è patrimonio della comunità, perché le sue norme sono approbatae consensu utentium. Oltre Tommaso d'Aquino possiamo ricordare, fra gli altri, alcuni autori, che ribadiscono lo stesso concetto: Isidoro di Siviglia (560-636) con le sue Sententiae, Giovanni di Salisbury (ca. 1110-1180) con il suo Policraticus, Henry de Bracton (ca. 1216-1268) con il suo De regimine principum. Ed è doveroso concludere con Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), che nell'importante trattato De tyranno (V-VIII) distingue il tiranno ex defectu tituli da quello che tale è ex parte exercitii: il primo conquista in modo illegittimo il potere, il secondo lo esercita illegalmente.
In terzo luogo, infine, sempre muovendo da Aristotele, si operano altre distinzioni nelle quali appare non il tiranno, ma il despota: prendiamo ad esempio Tolomeo da Lucca (ca. 1236-1327), il quale nel suo De regimine principum (II, 8-9) distingue il governo "politico" dal governo "dispotico": quest'ultimo è caratterizzato dal fatto che i sudditi sono trattati come schiavi. Lo stesso ripete Guglielmo da Ockham (ca. 1295-1350) nel suo Dialogus (II, 6). Ancora Coluccio Salutati (1331-1406) nel suo Tractatus de tyranno (I, 7) parla di tre forme di principatus, quello regius, nel quale il re governa come il padre sui figli, quello politicus, in cui governa come il marito sulla moglie, e infine quello despoticus, in cui governa come il padrone sugli schiavi. Queste affermazioni riecheggiano le pagine di Aristotele sulla famiglia, sull'óikos (Pol., I, 3, 12), forzando lievemente il testo aristotelico. La tripartizione è interessante perché la ritroveremo in John Locke (Two treatises of government, II, 159-174), ma riempita di tutto un altro contenuto, perché quel politicus ha un significato assai più radicale e si oppone agli altri due termini. John Fortescue (ca. 1409-1476) già aveva distinto nel De laudibus legum Angliae (9) il dominium regale e il dominium politicum et regale, la monarchia assoluta (francese) e la monarchia limitata (inglese). Esplicitamente si ricollegava a Tommaso per la distinzione fra regimen regale e regimen politicum, ma allora questa distinzione non aveva un significato radicale perché si riferiva alla distinzione fra res publica (o civitas) e regnum. Con la parola 'politico' si comincia a riscoprire un concetto smarrito per secoli.
Alla fine del Quattrocento in Europa c'erano civitates sibi principes, regna nei quali il rex est imperator in regno suo: parliamo dell'Inghilterra, della Francia, della Spagna e anche della Germania, anche se l'Impero era ormai una confederazione di province tedesche. Restava l'Impero (romano) bizantino, ma con la caduta di Costantinopoli (1453) apparve un nuovo impero, l'Impero ottomano, le cui radici erano totalmente estranee a questa storia della res publica christiana. Tale era la geografia politica che si presentava alla riflessione politologica all'inizio dell'età moderna.
Con l'Umanesimo e il Rinascimento, con la lettura o la rilettura dei classici greci (soprattutto la Politica di Aristotele e le Istorie di Polibio) e dei classici latini (soprattutto il De re publica di Cicerone, ma anche il De beneficiis di Seneca) inizia l'età moderna, la quale inforca gli occhiali del passato per decifrare una realtà in profonda trasformazione e totalmente nuova.Il termine sotto il quale definire unitariamente le diverse unità politiche resta quello di res publica (e anche di civitas), che conserva talvolta quell'ambiguità che aveva la parola politéia nel testo aristotelico, colla quale si indicavano sia le tre forme di governo, sia la forma di governo migliore. A questa ambiguità se ne aggiunge un'altra: sotto questo termine non sempre possono essere annoverate le forme corrotte.In Italia usa questo termine Niccolò Machiavelli (1469-1527), ma non in modo rigoroso, dato che utilizza anche il termine 'Stato' e, per definire concrete unità politiche, i termini 'principato' e 'regno' in opposizione a 'repubblica' in senso stretto (v. cap. 5). Lo utilizza in modo sistematico e unitario Donato Giannotti (1492-1573) sia in Della repubblica fiorentina (I, 3), sia in Della repubblica de' viniziani, ed è anche presente nel lessico di Francesco Guicciardini (1483-1540) che lo usa però in senso stretto. In Europa, invece, vi sono meno incertezze: Jean Bodin (1529-1596) intitola la sua opera Les six livres de la République; Thomas Hobbes (1588-1679) usa, come sottotitolo al suo Leviathan, il termine common-wealth, e nell'edizione latina, quello di civitas; John Locke (1632-1704), che pur intitola la sua opera Two treatises of government, usa anche (II, X, 133) come termine generale common-wealth, per lui del tutto analogo a quello di political or civil society usato dai giureconsulti, ma respinge quello di civitas, intraducibile nell'inglese city, perché questa è una comunità subordinata. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) fu tentato di mettere come sottotitolo al suo Contrat social: Essai sur la forme de la République. Per finire Immanuel Kant (1724-1804), il quale, riprendendo lo iuris consensu di Cicerone, usa il termine res publica (Republik) in opposizione al dispotismo e lo utilizza per contrassegnare le tre forme rette di governo (Zum ewigen Frieden, II, 1): l'importante è che ci sia una costituzione civile, chiamata con Cicerone constitutio, che ci sia il diritto pubblico dello Stato che, fra parentesi, Kant chiama civitas (Metaphysik der Sitten, II, 43).
In realtà si pensava in base ai termini ereditati dall'antichità, ma con scarso o nessun interesse per comprendere e intendere le nuove realtà politiche che stavano emergendo: all'inizio dell'età moderna ci sono ancora le antiche piccole repubbliche, ma c'è anche il pulsare forte dei nuovi Stati. In base alla tipologia greca, si pensava soltanto a prescrivere la miglior forma di repubblica. Questo è assai evidente in Italia, dove, avendo come referenti storici Firenze e Venezia, è comune l'esaltazione - sulla scorta soprattutto di Aristotele e di Polibio - del governo misto, anche se poi le soluzioni variano nell'equilibrio politico degli organi che rappresentano l'uno, i pochi e i molti.
Per Firenze si tratta di individuare una soluzione costituzionale che dia stabilità alla repubblica, raggiunta poi solo nel principato di Cosimo I (1532). Fra i molti autori: Niccolò Machiavelli, col suo Discursus florentinarum rerum, Francesco Guicciardini col suo Dialogo del reggimento di Firenze, Donato Giannotti con la sua Repubblica fiorentina, e tanti altri. Ma si tratta di scritti che interessano soltanto la storia politica fiorentina in un periodo di grave crisi. Venezia, invece, viene esaltata come un modello di governo misto da Donato Giannotti col suo Della repubblica de' viniziani, da Gasparo Contarini (1483-1542) col suo De magistratibus et republica Venetorum, da Paolo Paruta (1540-1598) con i suoi Discorsi politici. Ma si trattava di lanciare un mito, il mito di Venezia, che in Europa ebbe un largo successo, anche se venne demolito prima da Machiavelli e poi da Montesquieu. L'autore più sistematico è, forse, Giannotti, ma non va oltre Aristotele nel cogliere i governi semplici e misti, le forme "buone" e quelle "malvagie".Se passiamo in Europa dobbiamo tener presente che gli scrittori politici erano tutti impegnati a costruire lo Stato moderno e la scienza o la sociologia politica descrittiva non li interessavano. Infatti il nuovo grande spartiacque teorico è il concetto di sovranità, che, essendo indivisibile come il punto della matematica, non consente un governo misto. Così, da un lato, abbiamo l'asse assolutista con Bodin e Hobbes, il quale si conclude in Rousseau, che però ritiene che la sovranità spetti solo e soltanto al popolo. Dall'altro, l'asse insulare che esalta il governo misto inglese: esso inizia con Thomas Smith (1513-1577) con il suo De republica Anglorum per arrivare a John Locke, passando attraverso la prova cruciale delle guerre civili durante le quali si discusse proprio della particolare natura del governo misto inglese. La soluzione insulare venne diffusa per tutta l'Europa da Montesquieu con il suo Esprit des lois.Il debito nei confronti del lógos tripolitikós greco è in quasi tutti, ma solo per un'esigenza sistematica in ossequio alla tradizione: a loro non interessavano le aristocrazie o le democrazie, ma solo la forma monarchica della res publica. L'asse assolutista di Bodin e di Hobbes accetta tre forme (éstats per Bodin, II, 1; per Hobbes species o kinds of government nel De cive, VII, 1 o kinds of common-wealth nel Leviathan, XIX), ma poi con rigore essi respingono la distinzione fra forme di governo rette e degenerate, perché introduce criteri meramente soggettivi, e naturalmente il governo misto, perché la sovranità sarebbe indivisibile. Sembra quasi che non possa esistere una non res publica. Anche Locke tratta di sfuggita nel secondo Treatise (X, 132-133) delle diverse forms of a commonwealth o di government, che dipendono dalla collocazione del legislativo: nei capitoli seguenti però privilegia il governo misto nel quale il Re, i Lord e i Comuni sono compresenti nel Parlamento. A inquietare John Locke sono piuttosto le forme di non res publica.
Tuttavia Bodin era partito da una definizione assai restrittiva di république, di chiaro sapore ciceroniano: essa è "un droit gouvernement" (I, 1). Per cui, in base a una sottile distinzione fra forma di éstat e forma di gouvernement (II, 2) (v. cap. 6), può collocare a fianco della monarchia regia (II, 3) quella tirannica (II, 4) e quella seigneuriale (II, 2), che però sono poi in realtà forme corrotte del regime (éstat), nel quale la sovranità spetta a uno solo, cosa che poco prima (II, 1) aveva escluso. Fra le ultime due non c'è grande differenza, perché in entrambe il re si ritiene "signore dei beni e delle persone stesse dei sudditi". Hobbes non conosce questa importante distinzione, perché il diritto del padrone sui servi e quello dei genitori sui figli (De cive, II, 8, 9) fuoriescono dall'ambito del politico.
Più complessa (e più disordinata) la classificazione di John Locke: alla fine del secondo Treatise (capp. XVI-XVIII) ci parla "della conquista", "dell'usurpazione" e "della tirannide", ma nei primi due casi si tratta di concetti antichi, che provengono dalla distinzione medievale fra ex defectu tituli ed ex parte exercitii, mentre la definizione del tiranno ha un sapore greco: "la tirannide è l'esercizio del potere oltre il diritto". Più interessanti sono le osservazioni sul potere paterno all'inizio del secondo Treatise (VI, 52-76), poi riprese in seguito (159-174), quando lo paragona al potere politico e al potere dispotico. C'è l'eco della polemica del primo Treatise con il Patriarcha di Robert Filmer, polemica diretta a ricondurre il potere paterno nell'ambito del solo privato; c'è la difesa del potere politico, che può essere fondato solo sul consenso; ma c'è anche l'attacco contro un potere assoluto e arbitrario sulla vita e sugli averi dei governati. Riemerge anche in Locke la polemica contro la monarchia seigneuriale, condivisa nel tempo da tanti giuristi, contro questa forma realmente esistente di corruzione della monarchia. Il principio di Seneca, secondo il quale "ad regem potestas omnium pertinet, ad singulos proprietates" (De beneficiis, VII, 4, 2 e 5, 1), resta ancora valido per identificare la non res publica. Ci si muove pur sempre sulla scia della distinzione aristotelica fra pubblico e privato.
La vecchia tipologia greca, che aveva come principale referente la pólis, era del tutto inadatta, sul piano descrittivo, alla nuova fenomenologia politica che si stava affermando in Europa. Vi furono, però, scrittori politici che la ripensarono e la innovarono radicalmente: sono Machiavelli e Montesquieu, i quali, pur essendo fra loro assai diversi, giungono a tipologie assai simili. Machiavelli non ha alcuna intenzione di sviluppare sistematicamente un'indagine comparata fra i diversi tipi di governo, ma nelle sue riflessioni politiche, che spaziano dagli antichi ai moderni, possiamo ritrovare alcuni concetti fondamentali sulle forme politiche che più lo interessavano. Montesquieu non solo è più sistematico, ma introduce anche nuove distinzioni analitiche di indagine.
L'attenzione di Machiavelli è sempre rivolta agli "ordini", cioè alle relazioni di potere rilevabili nei diversi sistemi politici, e nelle sue analisi più approfondite egli pone una correlazione - oggi diremmo sociologica - fra la forma di governo e la stratificazione sociale. Ovviamente egli cerca di individuare i "buoni ordini". La vecchia tipologia di Polibio (con il tema dell'anacýclosis) appare soltanto all'inizio dei Discorsi (I, 2) ed è presto abbandonata. La prima distinzione forte è quella fra repubblica (il termine è usato in senso stretto) e principato (o regno), come forma di governo espressiva la prima e repressiva la seconda: dalle esemplificazioni risulta che sono cose diverse e che pertanto non si possono mescolare. Ma questa distinzione subito si complica perché Machiavelli è perfettamente consapevole della radicale differenza fra gli antichi e i moderni: le repubbliche moderne, come Firenze e Venezia, non reggono al paragone con Roma, mentre invece la monarchia dei moderni è superiore a quella degli antichi. Inoltre appare un'altra forma di governo, di cui avevano parlato gli antichi, il dispotismo.
I principali referenti storici sono la Repubblica romana (e in subordine quelle di Venezia e di Firenze) e il Regno di Francia. Nella sua esaltazione del governo misto romano Machiavelli è lontano da Polibio e dai nostri umanisti, che esaltavano in esso la durata, l'ordine e la pace. A Roma fino alle riforme gracchiane ci fu un duro conflitto fra il senato (o il patriziato) e la plebe, finché questa ebbe l'organo o il canale istituzionale attraverso il quale esprimersi legalmente: sono i tribuni della plebe (definiti la "guardia della libertà"), e non i comizi. Machiavelli è lontano dalle vecchie e dalle nuove oleografie. Non fu, infatti, la collaborazione fra i tre organi di governo a rendere grande la Repubblica, ma il conflitto fra il senato e la plebe: "tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione" del popolo e dei grandi; "i tumulti intra i Nobili e la Plebe [...] furono prima causa del tenere libera Roma" (Discorsi, I, 4). Inoltre Roma riuscì a scaricare le tensioni interne adoperando "la plebe in guerra", perché "sanza gran numero di uomini e bene armati non mai una repubblica potrà crescere" (I, 6) e Machiavelli privilegiava questo fine. L'aristocratica Venezia e la democratica Firenze non sono paragonabili a Roma: nella prima non c'è un governo misto, perché tutto il potere è detenuto da una sola classe, quella dei "gentiluomini" (I, 6); nella seconda la degenerazione della democrazia porta a un conflitto fra "sette e partigiani", fra le varie famiglie con i loro clienti, che volevano soltanto imporre il proprio esclusivo potere e procedevano con mezzi straordinari, cioè con esili e uccisioni (Istorie fiorentine, Proemio; II, 21; III, 1, 2, 5, 8; IV, 1; VII, 1): erano soltanto repubbliche repressive.
La moderna monarchia francese è assoluta, ma non arbitraria o dispotica: "e principati, de' quali si ha memoria, si truovano governati in dua modi diversi: o per uno principe, e tutti li altri servi, e' quali, come ministri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno; o per uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità di sangue, tengano quel grado [...]. Li esempli di queste dua diversità di governi sono, ne' nostri tempi, el Turco et il re di Francia. Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore, li altri sono sua servi [...]. Ma el re di Francia è posto in mezzo d'una moltitudine antiquata di signori, in quello stato riconosciuti da' loro sudditi et amati da quelli: hanno le loro preeminenzie: non le può il re tòrre loro sanza suo periculo" (Il principe, IV). Non è un'affermazione isolata: ancora nel Principe (XIX) afferma: "Intra regni bene ordinati e governati a' tempi nostri è quello di Francia; et in esso si truovano infinite constituzione buone, donde depende la libertà e sicurtà del re; delle quali la prima è il parlamento e la sua autorità". Nei Discorsi ritorna lo stesso tema: il regno di Francia "vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro regno. Delle quali leggi et ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel di Parigi" (III, 1, ma anche I, 16, 19, 58).
Il riferimento alla "monarchia del Turco" apre il passaggio dalla diade alla triade, cioè al dispotismo orientale. Bisogna leggere quanto Machiavelli scrive nell'Arte della guerra (II): l'Africa e l'Asia "hanno avuto uno principato o due, e poche repubbliche; ma l'Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite repubbliche". Ancora: "Quella provincia [Asia] era tutta sotto un regno", mentre l'Europa "è stata piena di repubbliche e di principati". Appaiono da questi passi due cose: non soltanto una chiara definizione del dispotismo orientale, già colto dai Greci, ma anche la consapevolezza della diversità del sistema politico europeo da quello orientale. Nei Discorsi invece ricorre sovente anche il termine 'tirannide', usato quasi sempre quando tratta della storia antica, che non viene mai approfondito.
È da notare la stretta correlazione che Machiavelli pone fra forma di governo e stratificazione sociale. Lasciando da parte il dispotismo orientale, dove c'è un principe e tutti gli altri sono servi, la scelta fra monarchia e repubblica non può essere dettata da mere preferenze ideali: infatti dove c'è relativa eguaglianza non si può ordinare un regno, dove c'è relativa ineguaglianza non si può istituire una repubblica (Discorsi, I, 55), perché la prima richiede una partecipazione al governo, la seconda la forza del re per contenere il potere della nobiltà e impedire l'anarchia feudale. Nella prima ci sono i tribuni "guardia della libertà", nella seconda i parlamenti, un "freno" al potere del re.
Prima di concludere è necessario sottolineare un altro punto: per Machiavelli sono forme di non res publica, oltre al dispotismo (asiatico o non), l'anarchia feudale e la demagogia populistica basata sull'"invidia" (Discorsi, III, 16): sono queste le "pessime" e "ree" forme di organizzazione politica.
Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755), dopo un lungo viaggio (1728-1731) attraverso l'Italia, l'Europa continentale e l'Inghilterra, dopo vastissime letture degli antichi e dei moderni, utilizzando annotazioni e pensieri scritti precedentemente, iniziò la stesura dell'Esprit des lois, i cui libri iniziali (II-X) espongono una tripartizione delle forme di governo, del tutto simile a quella di Machiavelli: repubblica, monarchia, dispotismo. Rispetto all'iniziale tipologia greca, poi ripetuta - sulle orme di Bodin - dai giuristi francesi del Seicento, la sua è una tipologia qualitativa, perché non si fonda più sul numero delle persone che partecipano al sovrano potere. Per due motivi: da un lato, nella sua analisi sono presenti molti elementi valutativi, come l'elogio della monarchia (francese) e l'avversione radicale per il dispotismo; dall'altro lato nell'analisi dei diversi tipi di governo entrano in gioco moltissimi fattori, dall'ampiezza del territorio (già intuito dal Machiavelli) alla natura fisica del terreno, dalla situazione economica alla religione e, infine, al clima (quelli freddi favoriscono la libertà).
Lentamente matura il concetto unitario della sua opera, finché appare finalmente una chiara definizione dell'esprit: "molte cose guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di governo, le tradizioni, i costumi, le usanze: da ciò si forma uno spirito generale che ne è il risultato" (XIX, 4), spirito che il legislatore non deve assolutamente alterare.Montesquieu parte da una distinzione metodologica assai importante, quella fra la "natura" di un governo e il suo "principio": "la natura fa sì che ogni governo sia quello che è, mentre il suo principio è ciò che lo fa agire" (III, 1). Oggi potremmo parlare di forma di governo e di cultura politica. La definizione delle tre forme di governo è semplice: "il governo repubblicano è quello in cui il popolo tutto, o una parte di esso, ha il potere sovrano; il monarchico quello in cui uno solo governa, ma con leggi fisse e stabili; mentre nel governo dispotico uno solo, senza regola e senza legge, impone a tutti la sua volontà e i suoi capricci" (II, 1).
Più complessa è l'analisi del "principio", cioè delle "passioni umane che lo fanno muovere" (III, 1). Nella repubblica democratica è la virtù, intesa nel senso machiavelliano come totale dedizione alla cosa pubblica; nella repubblica aristocratica (e cita Venezia) è lo spirito di moderazione di chi governa, per cui non si opprime chi è governato. Nel dispotismo fra i sudditi c'è un solo stato d'animo, la paura: il tema è stato ripreso in questo dopoguerra, correlando totalitarismo e angoscia persecutoria. Le idee sul dispotismo Montesquieu le attinge dai governi orientali turchi e persiani, seguendo in questo ancora Machiavelli e preparando la moderna concettualizzazione del dispotismo orientale. E ancora con Machiavelli c'è la consapevolezza che in Europa vi è una molteplicità di Stati, piccoli e medi, ma tutti moderati, mentre in Asia c'è solo l'uniformità di grandi imperi.
Più complessa è l'analisi della monarchia (francese), che si muove secondo le rapide osservazioni di Machiavelli e la descrizione di Bodin. Il re ha il potere legislativo e quello esecutivo, ma deve governare secondo leggi fisse e stabilite e in conformità con le leggi fondamentali del regno. Esistono per questo i parlamenti (organi giudiziari), che sono il "deposito delle leggi": nei parlamenti, appunto, il re deve registrare i suoi editti, che possono essere rifiutati se sono contro le leggi fondamentali del regno. Così il potere sovrano viene posto nella condizione di non poter fare il male. Poi ci sono i poteri intermedi, organi "subordinati e dipendenti", come le città, con i loro privilegi, e soprattutto la nobiltà, animata dal suo senso dell'onore (questo è il "principio" della monarchia), per cui si aspira a distinzioni e onori, ma non si è disposti a giocare la propria reputazione nel servire il re. E Montesquieu ripete una massima già enunciata da Machiavelli: "senza monarca non esiste nobiltà; senza nobiltà non esiste monarca, ma si ha un despota" (II, 4).
Questa fu l'analisi politologica, che si ebbe e si approfondì fra l'inizio del Cinquecento e la prima metà del Settecento, delle nuove realtà politiche che si stavano affermando in Europa, sempre suffragata da esempi antichi, che continuavano ad avere (ma ancora per poco) un'indiscussa auctoritas. Siamo completamente al di fuori della mera ripetizione della tipologia greca, che si ebbe in questi secoli, e ci troviamo invece di fronte a un poderoso sforzo di innovarla per comprendere le nuove realtà, uno sforzo di analisi e di sintesi pari a quello di Aristotele.
Alla fine del Settecento la grande tipologia costruita dai Greci entra definitivamente in crisi anche nella forma attenuata recepita nelle classificazioni di Machiavelli e di Montesquieu. Le ragioni sono essenzialmente due: in primo luogo alla fine del Settecento - in seguito alle rivoluzioni democratiche - la geografia politica dell'Europa cambia radicalmente; in secondo luogo appaiono nuove distinzioni concettuali, che rendono più problematica la parola governo.
Lo stesso Montesquieu si rese conto che nella sua tripartizione delle forme di governo non poteva rientrare l'Inghilterra; e così fu costretto a scrivere il famoso sesto capitolo dell'undicesimo libro dell'Esprit des lois. L'Inghilterra non poteva rientrare fra le monarchie moderate perché si fondava sulla divisione del potere esecutivo e del potere legislativo e il re era il detentore del solo potere esecutivo, anche se partecipava al legislativo con il potere di veto. Si riprendeva la costruzione costituzionale di Locke e di Bolingbroke (quest'ultimo è stato la principale fonte di Montesquieu): dal punto di vista concettuale appariva nell'ambito del 'governo' un suo momento specifico e distinto, quello esecutivo, sul quale lavorerà la giuspubblicistica dell'Ottocento. Ma, quando Montesquieu scriveva il sesto capitolo, questa forma di governo era già in fase di superamento, perché l'Inghilterra stava passando dalla monarchia costituzionale, in cui il re deteneva il potere esecutivo, al governo parlamentare, nel quale il premier doveva godere della fiducia del Parlamento.
I più profondi mutamenti nella fenomenologia politica si ebbero però con la Rivoluzione americana prima, poi con quella francese. Era un dogma del pensiero politico settecentesco, codificato da Montesquieu, che la repubblica in senso stretto fosse possibile solo in un piccolo Stato, e che non si potesse concepire altra forma di democrazia che quella diretta. Il problema si pose subito agli Americani: come definire i nuovi Stati, e poi il nuovo Stato, che non erano certo piccoli? Optarono per il termine repubblica, perché, anche se c'era un suffragio elettorale quasi universale, a livello di governo la democrazia diretta non c'era. John Adams (1735-1826), uno dei più profondi conoscitori delle forme di governo dell'antichità e dell'età moderna, in A defence of the constitutions of government of the United States of America (1788) appare come un difensore della continuità: non solo definisce republics anche alcune monarchie come l'Inghilterra, ma vuole interpretare le nuove Costituzioni americane con il vecchio ideale del governo misto: infatti c'è l'uno (il presidente), i pochi (il Senato), i molti (la Camera dei deputati), ma poi aggiunge che per i primi due organi le cariche non sono ereditarie (come in Inghilterra), ma elettive. Non si accorge che il governo misto, tanto difeso nell'età moderna, serviva soltanto a garantire l'equilibrio fra le classi sociali, mentre ora diventa una semplice tecnica per organizzare - in un sistema di checks and balances - i diversi poteri del governo, un problema che sarà affrontato solo dalla cultura giuspubblicistica posteriore.
Adams è un sostenitore della continuità: annovera, come si è appena detto, fra le republics anche il governo inglese, che conosce la separazione dei poteri e le assemblee rappresentative, perché ritiene questa la vera grande scoperta dei moderni nell'arte di costruire un governo libero. Adams nei suoi lunghi excursus storici si dimostra fiero avversario della democrazia diretta, tanto da accennare una sola volta a Rousseau. Ma la Rivoluzione francese radicalizza al massimo la distinzione fra monarchia e repubblica, per cui diventerà sempre più difficile vederle come diverse sottospecie di uno stesso genere. Erano necessarie distinzioni più radicali.
Nei Six livres de la République di Jean Bodin venne posta (II, 2), come si è visto, una distinzione radicale, quella fra éstat e gouvernement (o anche administration) di una repubblica (nel testo latino ricorrono le parole rei publicae status e gubernatio o ratio imperandi). Essa corrisponde, usando concetti moderni, alla distinzione fra titolarità ed esercizio del potere sovrano, per cui, forzando quello status rei publicae, si può anche usare il termine della moderna scienza politica, quello di 'regime'. La ragione di questa distinzione fra éstat e gouvernement è dovuta al fatto che per Bodin ci sono solo tre forme di res publica, ovviamente quella monarchica, quella aristocratica e quella democratica; non è possibile una repubblica mista, perché la sovranità è indivisibile; non si può parlare di forme rette e di forme degenerate perché questo introduce nel discorso elementi soggettivi di difficile concettualizzazione. Il gouvernement può essere aristocratico o democratico a seconda della partecipazione al governo dei nobili e del popolo (II, 7). Così Bodin può alla fine della République (VI, 4 e 6, ma anche II, 3) esaltare la vera monarchie royale che ha un governo misto, cioè armonico, che combina le aristoteliche giustizia distributiva e giustizia commutativa. Bodin si pone così sulla linea che va da Claude de Seyssel a Montesquieu. Non ci si può nascondere però che questa più complessa e più coerente tipologia è in contrasto con quella presente nel libro secondo - alla quale si è già accennato - che distingue fra monarchia regia, monarchia dispotica e monarchia tirannica.
Questa distinzione noi non la troviamo né in Hobbes, né in Locke, perché la forma di res publica e il governo coincidono. La utilizza invece Kant, che parla di costituzione repubblicana là dove c'è la separazione dei poteri, mentre poi riconosce ulteriori suddistinzioni in base alla forma imperii, per cui abbiamo la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia - mentre nella forma regiminis c'è l'opposizione radicale fra regime repubblicano e regime dispotico (Zum ewigen Frieden, II, 1). Questa distinzione è usata anche da Rousseau, ma in termini radicalmente nuovi. La sovranità (cioè il potere legislativo) è inalienabile e indivisibile e appartiene al corpo sovrano del popolo; il governo, ridotto a mero potere esecutivo, è un corpo intermediario fra i sudditi e il corpo sovrano: esso può assumere le tre antiche, classiche forme e anche quella mista (Contrat social, III). Ma la radicale premessa democratica gli impedisce di costruire più complesse tipologie, mentre a interessarlo è la riduzione del governo a mero potere esecutivo subalterno e subordinato: in questa accezione verrà inteso il governo nel linguaggio continentale durante la Rivoluzione francese. Ma Locke e poi Montesquieu avevano riservato all'esecutivo ben altri poteri.
Col XIX secolo la radicalmente nuova geografia politica non consente più di utilizzare - se non in sede storiografica - la tipologia dei Greci; e anche le complesse costruzioni di Machiavelli e di Montesquieu perdono il loro peso e vengono prese in esame soltanto nella storia della scienza e della sociologia politica.
Se la nostra parola chiave è 'governo', nell'Ottocento assistiamo a un mutamento degli usi linguistici di questa parola in rapporto al potere esecutivo e a una profonda differenziazione fra l'area angloamericana, ferma alla definizione di Locke che vede nel governo l'insieme dei tre poteri, e l'area continentale, che restringe l'uso della parola governo al solo esecutivo. La distinzione fra forme di Stato e forme di governo è - ma in modo assai debole - ripresa da Georg Jellinek (1851-1911) nella Allgemeine Staatslehre (1910) per distinguere fra due forme di Stato, quella monarchica e quella repubblicana.
Solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando l'orizzonte politico è diventato ormai planetario, è apparsa l'esigenza di nuove tipologie per orientarsi in una realtà assai diversificata. Il criterio più semplice è costituito dalla ripresa di un tema platonico: alludiamo alla classica dicotomia fra democrazia e autocrazia, che è alla base del pensiero di Hans Kelsen (1881-1973) con Vom Wesen und Wert der Demokratie (1929) e con la General theory of law and State (1945), e di Carl Schmitt (1888-1985) con la sua Verfassungslehre (1928), e che ha ancora moltissimi seguaci. Ma questa dicotomia, necessariamente fondata sull'opposizione, è assai debole dal punto di vista euristico, perché non consente tipologie più complesse fondate su termini non opposti, ma distinti. Con l'opposizione determiniamo soltanto un continuum, nel quale è poi possibile collocare empiricamente le diverse forme di governo, mentre l'uso delle tipologie ci consente di costruire una rete concettuale più idonea a classificare il diverso. Così la scienza politica e quella giuridica hanno ripreso la distinzione di Bodin fra éstat e gouvernement: usando termini moderni, la prima parla di regimi e di governi, la seconda di Stato e di governi, ma rispondendo alla stessa esigenza classificatoria. Fra le forme di Stato o di regime si distinguono quelle democratico-liberali o poliarchiche e quelle non democratico-liberali, che possono avere forme di governo diverse (autoritario, totalitario), mentre tra le forme di governo liberaldemocratico abbiamo quello parlamentare, quello presidenziale, quello semipresidenziale e quello direttoriale.
Tuttavia una nostalgia del pensiero greco rimane: il governo misto che, come si è visto, è quasi un filo rosso che percorre tutta la storia del pensiero politico occidentale. Gaetano Mosca (1858-1941), che pur aveva criticato la tipologia greca come superficiale, nella prolusione torinese su Il principio aristocratico e il democratico (1902) e poi negli Elementi di scienza politica (1923) ammette che il governo migliore resta quello misto, perché consente la presenza nell'arena politica di più forze sociali diverse e anche contrapposte, ma ne permette un confronto istituzionalmente disciplinato, in modo da garantire un vero equilibrio sociale senza la sopraffazione di alcun gruppo: insomma il governo misto si pone fra l'oligarchia e la demagogia populista.
Più recentemente Dolf Sternberger (1907-1989) in diversi scritti (ma cfr. Drei Wurzeln der Politik, 1978) ha assunto come obiettivo polemico il pensiero politico moderno nella misura in cui ha il suo punto di riferimento soltanto in Hobbes e nella sua teoria della sovranità, che è una pura finzione dogmatica. Con ciò si opera una distorsione del reale sviluppo storico dell'Europa moderna, che presenta una profonda continuità con le istituzioni premoderne, contrassegnate dalla costituzione o dal governo misto, e si impedisce di comprendere la complessità della realtà politica contemporanea. Riferendosi soprattutto a Mosca, egli afferma che la Verfassung degli Stati liberaldemocratici contemporanei è una "mistione" del principio democratico (il suffragio universale) e del principio aristocratico (la classe politica). Proprio per costruire una "nuova politéia", bisogna abbandonare la dogmatica della sovranità, e ripartire da Aristotele, il primo a fondare concettualmente il governo misto, rivalutando così la tradizione che a lui si ispira, da Tommaso a Locke, per arrivare a un vero pluralismo. (V. anche Città-Stato; Democrazia; Governo; Imperi; Regimi politici).
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