Petrarca, Francesco
La generazione di D. era poco oltre il mezzo del cammino della vita quando vide la luce il P. (Arezzo, 20 luglio 1304 - Arquà, 19 luglio 1374). Il padre dell'Umanesimo era ancora un ragazzo quando la Commedia fu portata a compimento, e alla morte del più grande uomo dei suoi tempi egli viveva col fratello Gherardo la vita studentesca dell'università bolognese, fra le XII Tavole, che gli portavano l'aria fascinosa della Roma antica, e le suggestioni della non spenta tradizione lirica volgare. Le lotte intestine della Firenze comunale furono per Francesco solo un ricordo di famiglia. Egli era nato in esilio. In età matura si compiacque di legare il destino di D. a quello del proprio padre, l'intraprendente e colto notaio ser Pietro di Parenzo (1266-67 ca. - 1326), detto anche Petracco, o Petraccolo, o Patrarca: " Cum avo patreque meo vixit, avo minor, patte autem natu maior, cum quo simul uno die atque uno civili turbine patriis finibus pulsus fuit " (Fam. XXI 15, 7). In verità D. era stato bandito nel gennaio e ser Petracco nell'ottobre del 1302 con motivazioni diverse. La comune sventura, sempre secondo il racconto petrarchesco, avrebbe affiatato i due esuli e ne sarebbe nata una grande amicizia. Fra le stinte rimembranze della ‛ pueritia ' il P. poneva anche la vista del poeta: l'episodio, se è reale, è da collocare, con tutta probabilità, all'epoca del breve soggiorno pisano (1311-12) della famiglia Petrarca, o, come vuole il Foresti, alla sosta genovese durante il viaggio verso la Francia. Un incontro che, data l'età di Francesco, non poté certo essere un'esperienza. L'uomo maturo, l'intellettuale consapevole, si chiuse poi in un lungo ostinato silenzio, rotto solo da saltuarie menzioni che non toccano il D. maggiore, fino a quando il suo più grande, reverente discepolo, e innamorato cultore della Commedia, Giovanni Boccaccio, non lo provocherà con discrezione e sicurezza a pubblico giudizio.
Nei Rer. mem. II 83, sotto il capitolo " De mordacibus iocis " il P. racconta due aneddoti, che non modificano la figura del D. esule, altero e aspro, che tutti conoscono. Nel canzoniere il nome del poeta è fatto esplicitamente una sola volta, nel sonetto in morte di Sennuccio del Bene (avvenuta nell'autunno 1349): " Ma ben ti prego che 'n la terza spera / Guitton saluti, et messer Cino, et Dante, / Franceschin nostro, et tutta quella schiera " (CCLXXXVII 9-11). Omaggio d'occasione che non mira certo a deprimere l'Alighieri confondendolo con altri di minor levatura, ma che è circoscritto senza equivoci al rimatore d'amore. La situazione non cambierà in Tr. Cup. IV 28-37, dove D. e Beatrice appariranno al poeta nella folla di quelli che vanno " d'amor volgarmente ragionando ". Questi tutti i luoghi in cui è fatto il nome. Un altro passo dei Triumphi (Tr. Cup. III 99), che nella stesura originaria suonava " Ecco qui Dante con la sua Beatrice ", il P. ha riscritto cancellando il ricordo di D.: forse semplicemente perché era un doppione di IV 31.
Mai D. è citato come auctor. E nelle postille autografe che numerose costellano i libri del P. invano se ne cercherebbe il nome. Solo una piccola, preziosa orma è stata scoperta dalla vista acutissima di Gius. Billanovich nell'Ambrosiano H 14 inf., f. 8 V, in margine a Pomponio Mela De chor. I 13, 76. Dove il geografo antico, descrivendo la Cilicia, parla di uno speco nominato Tifone, il P. scrisse: " Nota contra Dantem ", intendendo cioè che il testo si oppone alla tradizione raccolta in Pd VIII 67-70, che colloca Tifeo in Sicilia. La postilla nell'Ambrosiano non è autografa, ma tutto il codice è apografo della raccolta curata e postillata dal P. dopo il 1335.
Silenzio, certo, ma non ignoranza. Troppo forte era gridato il nome di D. perché Francesco riuscisse veramente a tener fede fin quasi ai cinquant'anni a un presunto programma di non leggere la Commedia. Oggi si ammette universalmente che egli l'abbia letta per tempo, probabilmente a Bologna. Ne dovette sentire tutta la straripante forza, sì da restarne sgomento e prender partito di non aprire più il volume, di cercare per altre strade la propria originalità. Ma egli non poteva fare che quella nutritura non ci fosse stata: quel cibo si era inluiato e scorreva per il suo sangue, a dar forza a membra e nervi nuovi.
Nel conto dei rapporti, mai del tutto nitidi, col mondo dantesco, è da porre anche la conoscenza e probabilmente l'amicizia con Pietro Alighieri. Il P. poté entrare in rapporto con lui allo Studio bolognese, o più tardi (1345) a Verona. A lui ebbe a indirizzare una letterina in 12 esametri (Metr. III 7), non molto perspicua: se Dio lo aiuterà - egli dice - riuscirà a por fine alle proprie fatiche (sembra alludere a una grande impresa avviata) e godrà finalmente, anche se tardi, il tempo della quiete: ma Pietro la vedrà (la vede già?) prima di lui questa pace: merito dell' " amor patriae " che egli nobilmente coltiva. Vedremmo volentieri in queste parole un caldo augurio del P. all'amico che ha intrapreso con umanistica dottrina il commento alla Commedia.
Se taceva nelle carte, non poteva però sfuggire sempre alle domande orali: a quel che ne dice nella Fam. XXI 15, 24 non era solito parlare di D. " nisi magnifice "; e, una sola volta, a uno che insisteva per avere un giudizio più concreto, aveva risposto che l'uomo era stato impari alle sue possibilità, in quanto aveva eccelso più nel volgare che nella poesia e prosa latina. Il che, intanto, vuol dire chiaramente che il P. aveva fatto le letture necessarie per poter valutare.
La più decisa penetrazione dantesca nel mondo petrarchesco - è ormai accertato dalle ricostruzioni di O. Hecker e Gius. Billanovich - si deve all'osmosi boccaccesca. L'incontro fra i due, avvenuto a Padova nella primavera del 1351, è molto più della data d'inizio di un profondo legame privato, è il punto di sutura e di scontro di due forze intellettuali che diversamente cercavano la loro strada nella terra bruciata lasciata dall'Alighieri. Il P. aveva avvertito l'impercorribilità della proiezione universalistica, la fine della democrazia comunale, la sottile angoscia delle proprie, personali contraddizioni, che restano irrisolte pur nel generoso vivere in mezzo agli altri uomini e ai loro problemi. E aveva intrapreso altro cammino, quello aristocratico dei pochi che, abbandonando il volgo al suo destino, cercavano le orme solitarie e gloriose degli antichi. Il suo problema non è più quello di ascendere alla ‛ verità ' e squadernarla sistematicamente agl'indotti, ma quello di costruire un cenobio ideale dei fedeli della dottrina, di restituire un mondo di pure forme, nobile, che sembra irrimediabilmente appartenere al passato remoto, d'indagare e rivelare a sé stesso la verità della propria, individuale, irripetibile favola umana. Il Boccaccio sentì il fascino e assorbì il magistero del nuovo intellettuale; ma reagì attivamente e riuscì in parte a indurre il P. a riconsiderare il problema di D., a vederlo come un classico e quindi a collocarlo degnamente al posto che gli competeva nella costruzione della nuova scuola. Il primo gesto tangibile fu l'invio da Firenze, al P. nel frattempo tornato in Provenza, di un esemplare della Commedia (forse insieme con la corrispondenza bucolica fra D. e Giovanni del Virgilio). Il dono era accompagnato dall'epistola metrica latina Italiae iam certus honos, in cui il Boccaccio esortava l'amico ad accogliere di buon animo il " gratum / Dantis opus doctis, vulgo mirabile ", di cui mai si vide l'uguale; e insieme gli ricordava la sua tesi che l'opera era stata scritta in volgare non per ignoranza di latino, come sostenevano gl'invidiosi, ma per mostrare tutte le possibilità del volgare. Così - tardivamente (entro il 1353) e quasi per la porta di servizio - la Commedia entrava nella biblioteca più importante del tempo: circostanza che ha sempre stupito e indignato, e la cui pesante realtà nessuna giustificazione di ‛ politica degli acquisti ' riesce a sfumare. Non ci è pervenuta lettera del P. che accusi ricevimento del dono.
Il codice petrarchesco della Commedia viene identificato nel Vaticano Latino 3199, perg., cm. 362 X 245, ff. IV + 80, di provenienza toscana, scritto su due colonne, miniato (v. BOCCACCIO, Giovanni). Già di proprietà di Pietro Bembo e poi del di lui figlio Bernardo, il codice passò successivamente alla biblioteca di Fulvio Orsini e di lì alla Vaticana. È fornito di poche postille, di varia mano. Di esse almeno una si ritiene autografa del P.: a f. 1 V, in margine a If II 24 u' sied'el successor del maggior Piero, si leggono, precedute da un segno di paragrafo tipicamente petrarchesco, le parole: " sic. 2. 24 in medio / et infra. e. 7e. in fi(ne) ", tuttora non definitivamente spiegate: si tenga presente che il " sic. " può ben essere un " sic(ut) ", che la lettera in esponente al 7 a rigore potrebbe anche essere un " o " e che quella che precede il 7 è certamente " e " e non " c " come spesso è stata trascritta. Pare ad Augusto Campana, per diversità d'inchiostro, che la postilla sia stata scritta in due tempi (secondo la frattura qui indicata dalla sbarra). Se il P. ha voluto segnalarsi un passo in cui Roma è affermata recisamente come vera sede papale, si può sospettare (ma molte cose invero fanno ostacolo) che egli abbia inteso richiamare altri passi della Commedia in cui questa idea è difesa (Pg XVI 106-108; Pd XXVII 22-25) e inoltre la propria egloga VII, che si chiude con la prospettiva del ritorno del pontefice alla sua città.
Fra il 1351 e il '53 ilP. vive una grande svolta: la fine delle illusioni suscitate da Cola di Rienzo, la rottura con la curia avignonese, il passaggio in campo ‛ ghibellino ' a Milano e quasi certamente la conversione al ‛ cesarismo ' . La lettura della Commedia coagula quasi sicuramente in questo periodo il programma dei Triumphi. La cronologia di quest'opera, rimasta, com'è noto, a uno stadio di quasi totale provvisorietà, è incerta; ma si possono ormai respingere senza esitazione i tentativi di retrodatazione al 1341 della prima ispirazione. Tutte le sollecitazioni culturali che si vogliano rintracciare nell'opera appaiono, a una lettura equanime, povera cosa a fronte del sovrastare del nume dantesco. Tuttavia bisognerà aspettare il 1359 per avere la prima grande pubblica presa di posizione su Dante. A seguito di una lunga visita a Milano, in cui si discusse quasi certamente dell'Africa, di Omero, di D., il Boccaccio tornò a provocare il P. sul grande fiorentino, con una lettera che non ci è pervenuta, accompagnata da una redazione lievemente riveduta del carme Italiae iam certus honos. Il P. rispose pubblicamente con la Fam. XXI 15 indirizzata all'amico, il quale, per altro, ancora nel 1367 non l'aveva ricevuta, nonostante nel frattempo si fosse ben divulgata.
Questa lettera famosa è il nodo più arduo della vicenda petrarchesca di Dante. E si capisce che intorno a essa la bibliografia e le polemiche siano cresciute a dismisura. Di essa sono state date interpretazioni contrastanti: questo non discende tanto, ad avviso di chi scrive, da un'ambiguità di fondo del testo, quanto piuttosto dalla realtà di fatto che esso è il pronunciamento di una scelta; e di fronte alle scelte altrui gli uomini reagiscono sempre passionalmente. Oggi difese avvocatesche del P., come quella fatta da G. Melodia, infastidiscono; come non colpiscono il problema le disquisizioni psicologizzanti sull' ‛ invidia '. Certo l'ammiratore di D. sente sotto le parole del P. una sconcertante degnazione che è lontanissima da un'adesione entusiastica alla grande poesia della Commedia; ma questo può anche essere rimesso a gusto privato. Il P. giudica D. e chiede di essere ascoltato per altro. Si avverta, infine, che una delle ragioni - non la minore - dei vaniloqui sparsi su questa lettera sta nelle imperfette traduzioni che ne sono state fornite: né quella del Fracassetti (F. P., Lettere delle cose familiari, IV, Firenze 1866, 390-411) è convincente, né il Carducci agì con correttezza edulcorando le consapevoli asprezze del Petrarca.
In tutta l'epistola il nome di D. non è fatto mai; solo una volta è chiamato " poeta ", nessuna sua opera è direttamente menzionata: questi particolari sono stati meticolosamente curati e non sono facilmente conciliabili con le proteste di ammirazione e di amore per Dante. Scopo dichiarato del P. è la pubblica autodifesa dalle accuse d'invidia odio e disprezzo per D.: cosa che egli compie con ogni sottigliezza retorica. Ma quello che di veramente importante emerge dalle maglie delle argomentazioni è la coscienza e l'affermazione da parte del P. del proprio essere intellettuale, irrimediabilmente diverso da quello di D.: 1) Ricorda il programma giovanile di costruire un'opera volgare originale, fuori dall'imitazione dantesca, e il conseguente rifiuto di procurarsi la Commedia per non esserne influenzato; solo ora, che si sente in possesso della sua personalità, può accogliere quel libro fra gli altri suoi. 2) Recisamente riconosce l'esistenza di un abisso fra la propria e l'arte di D.: " quod illi artificium nescio an unicum, sed profecto supremum fuit, mihi iocus atque solatium fuit et ingenii rudimentum ". Quello che più al P. preme è rivendicare a sé il merito del nuovo stile (la nuova prosa e poesia latina) e stabilire la superiorità di esso sulla poesia volgare. Dopo di che lascia volentieri a D. " vulgaris eloquentiae palmam ". Su questo punto è più coerente del Boccaccio; all'asserzione che D., se avesse voluto, avrebbe potuto eccellere anche nel latino, risponde seccamente: " Credo edepol - magna enim mihi de ingenio eius opinio est - potuisse eum omnia quibus intendisset; nunc quibus intenderit, palam est ". Si potrebbe obiettare al P. che il metodo di stabilire canoni di eccellenza partendo da ragioni estrinseche all'opera concreta (superiorità del latino sul volgare, inferiorità dello stile ‛ popularis ') è retoricamente meccanico: ma non si deve dimenticare che egli non si comporta qui come un critico o uno storico, bensì come uno che è parte in causa in una battaglia culturale di grandi dimensioni.
A un nuovo intervento ‛ dantesco ' il P. è provocato da un altro caro amico, Francesco Nelli (epist. XXVIII), tra la fine del 1361 e l'inizio del 1362 (ma l'idea risaliva a cinque anni addietro). Questa volta la sollecitazione cade su un terreno, quello dell' " umanesimo filologico ", sul quale il P. è, fuor d'ogni dubbio, più forte di Dante. Il Nelli, non volgare lettore di Stazio, gli pone il quesito se l'Achilleide debba considerarsi opera compiuta o no, giacché l'inizio (I 4 e 7) non è perspicuo in proposito; D., uomo " opinatae satis apud multos scientiae ", ha ritenuto l'opera incompiuta (si allude evidentemente a Pg XXI 91-93); e il Nelli, trattandosi di D., anche se questi è un " vulgariter poetans " (umanesimo un po' grosso, o fine ironia a carico del P.?), non osa rifiutarne l'opinione; tuttavia una serie di considerazioni lo spingono verso un parere contrario. Il P. risponde presto e il Nelli può leggere alla cerchia degli amici napoletani l'argomentata soluzione del problema: lo dice lui stesso nell'epist. XXX, del 20 dic. 1362. Sfortunatamente la lettera petrarchesca non ci è pervenuta e non sappiamo se e come in essa si toccasse di D.; è facile induzione che il P. abbia difeso la tesi opposta alla tradizione dantesca (nella Sen. XI 17, trattando di coloro che morirono prima di compire la loro opera, esclude Stazio dal numero: " His... Statium Papinium addunt quidam, sed falluntur; opus enim hic utrumque perfecit "). E se la filologia moderna conferma quella tradizione, è una strana sorte che, a fronte della cultura di D., l'acuta sensibilità dell'umanista si sia spuntata proprio nello scontro - sia pure piccolo scontro - ad essa più vantaggioso.
Il problema generale resta sostanzialmente immutato nella Sen. V 2 (1365-66). Rimproverando il Boccaccio per aver egli meditato di distruggere le proprie poesie volgari ritenendole inferiori ai Rerum vulgarium fragmenta, lo accusa di malcelata superbia e lo conforta a saper accettare il proprio posto, anche quando questo non sia il primo. Il P. si appella al canone del " vecchio ravennate ", identificabile nel ‛ dantista ' Menghino Mezzani (v.), che autorevolmente aveva assegnato al Boccaccio il terzo posto, e si dichiara tuttavia disposto per conto suo a cedergli il secondo, prendendo il terzo per sé. Il primo spetta a D., ancora una volta non esplicitamente menzionato, ma definito " ille nostri eloquii dux vulgaris ". Il P. non manca, però, anche qui, di confermare il suo aristocratico rifiuto di ogni concessione al volgo e la convinzione della superiorità dello " stilus... latinus ".
Ma la storia tormentata dell'inconfessato dialogo petrarchesco con D. probabilmente non si chiude idealmente qui, ma nella Sen. IV 5, che risale a questi stessi inquieti e operosi anni di vecchiaia 1365-67.
Rispondendo da Pavia a domanda del giovane Federico d'Arezzo, riprende la vessata questione della difesa della poesia da una angolatura particolare: il problema delle " fictiones " o allegorie nella poesia antica, in questo caso Virgilio. Nella giovanile Metr. II 10 a Zoilo aveva sostenuto che non c'era quasi verso nell'Eneide che non fosse gravido di un significato allegorico, ma non si era mai in seguito impegnato a dare prove concrete dell'affermazione. In età matura col problema dell'allegoria si era scontrato nell'impegno alla restituzione classica del genere bucolico: nella Fam. X 4 al fratello Gherardo, fornendogli la ‛ chiave ' per la lettura della prima egloga, espone una concezione del ‛ velame ' poetico che lo accosta alla crittografia. Nel IX dell'Africa invece, dove il discorso si appunta sulle verità (qui storiche) che devono essere i necessari e " firmissima fundamenta " dell'opera poetica, l'allegoria è una " amoena et varia... nubes ", sotto la quale il poeta si occulta e nella quale il lettore prova la gioia di addentrarsi. Ora, a distanza di anni, non crede più nel rapporto univoco fra segno e significato, fra lettera e allegoria: " res ipsae tales, quae multos ac varios capiant intellectus ": e questi significati, purché siano veri (si noti l'ardua pregnanza dell'aggettivo) ed enucleabili dalla lettera, anche se mai per avventura vennero in mente all'autore (è impressionante che quasi le stesse parole - ignorando il P. - usi Erwin Panofsky in Meaning in the Visual Arts [traduz. ital. R. Federici, Torino 1962, 35-36], a proposito dell'interpretazione dei valori ‛ simbolici ' dell'opera d'arte come di " manifestazioni di principi di fondo " di un'epoca, valori spesso ignorati dall'artista stesso e da lui espressi inconsapevolmente), devono essere accettati.
È evidente che l'allegoria qui per il P. non è fatto allotrio rispetto alle " res ", non è qualcosa di arbitrariamente sovrapposto alla poesia, ma forza intrinseca che l'opera d'arte (nel nostro caso l'Eneide, il " divinum... opus ") ha di parlare, al di là della sua storicità, a uomini diversi. In Virgilio ciò avviene in virtù del fatto che egli non ha solo inteso narrare una vicenda precisa, ma " altius aliquid sensit ". Questa significazione profonda, che Fulgenzio aveva ravvisato nella descrizione degli stadi della vita umana a cominciare dalla nascita e che aveva esposto con strabiliante consequenzialità, il P. non vuole rassegnare con altrettale esauriente diligenza. Gli basta dare una prova di metodo di lettura: lo scolaro proseguirà poi per conto suo. Il soggetto vero dell'Eneide (come già dell'Odissea) è il " vir fortis ac perfectus ", che dalle tempeste delle passioni (i venti del I libro), passando attraverso le ambagi e i dolci inganni della vita (la selva), va verso la realizzazione del suo destino, cioè verso la conquista e il tranquillo regno della virtù e verso la fama sulla bocca dei vati. Se pure il P. a quest'epoca non ha ancora conoscenza intera dell'Odissea (l'interpretazione in questo senso della figura di Ulisse era già presente in Rer. mem. III 87 su notizie di Macrobio), è notevole che egli abbia intravisto una sorta di filo che lega, in un'unica ricerca sul problema dell'uomo, l'Odissea, l'Eneide e, implicitamente, la Commedia.
I saggi su D. dell'Auerbach rendono oggi captanti queste suggestioni, ma esse sembrano essere veramente il punto di arrivo di una ricerca silenziosa esercitata dal P. sull'Eneide e sulla Commedia e di, una mai esplicitamente ammessa riconciliazione con Dante. È tipico di tutto P., ma più dell'ultimo P., lo sforzo tensivo verso una sistemazione di tutto quello che è in lui inexpletum e insieme la volontà di non chiudere il proprio sistema culturale-poetico, ma di arricchirlo continuamente, recuperando entro di esso perfino forze immense, prima o ignorate o eluse, come D. e Omero. La spia più clamorosa della nuova ottica dantesca è nella nostra Senile la diffusa spiegazione che il P. dà dell'episodio, in Virgilio marginale, della selva di Aen. I 164-168 e 312-314 " uno graditur comitatus [scil. Enea] Achate / ... Cui mater media sese tulit obvia silva ". Spiega il P.: " Silva vero vita haec, umbris atque erroribus piena perplexisque tramitibus atque incertis et feris habitata, hoc est difficultatibus et periculis multis atque occultis, infructuosa et inhospita, et herbarum virore et cantu avium et aquarum murmure, id est brevi et caduca specie et inani ac fallaci dulcedine rerum praetereuntium atque labentium accolarum oculos atque aures interdiu leniens ac demulcens, lucis in finem horribilis ac tremenda, adventuque hyemis coeno foeda, solo squalida, truncis horrida, frondibus spoliata. Venus obvia silvae medio ipsa est voluptas circa tempus vitae medium ferventior atque acrior " ; Acate, che accompagna Enea nella selva, è la " cura, virorum comes illustrium, et sollicitudo et industria ". Se anche si dovessero rintracciare immagini pre-dantesche della selva, qui il richiamo cosciente al I dell'Inferno resterebbe innegabile. Questa selva è oscura, incute paura, è abitata da fiere, fa smarrire il cammino; è un punto focale da cui l'azione prende le mosse: più avanti, infatti, il P. spiega che da questo smarrimento l'eroe dovrà per sua forza e con aiuto inviato dall'alto (" Mercurius... a Iove missus ") riprendere la diritta via (" neglectaque qua tenebatur voluptate, ad virtutis et gloriae rectum iter redit "). Il tocco più scopertamente dantesco è l'interpretazione del " media... silva " come mezzo del cammin di nostra vita (" circa tempus vitae medium ").
Se questa lettura della Senile è corretta, il P. ha compiuto qui uno degli sforzi più umanisticamente impegnati a conciliare classico (Virgilio) e moderno (D.), o meglio a capire, ad assorbire, a sistemare il moderno entro una visione classica. Perché la Commedia implicitamente verrebbe a configurarsi come la prosecuzione di un'esperienza classica, il frutto dell'assunzione in sede poetica di un metodo conoscitivo antico, quello del viaggio dall'errore alla verità. Occorre, però, fare due ordini di considerazioni: 1) Il viaggio di Enea (e, mutatis mutandis, quello di D.), se è, anche per noi moderni, un andare, attraverso cadute e lotte, verso il compimento di un destino partendo da una situazione di disordine e di smarrimento (per il P. i venti e la selva), è tuttavia un itinerario travagliato che convoglia in sé la storia di tutto un popolo (o di tutta l'umanità) e che solo in questa dimensione può trovare il suo compimento. Nel P. questa prospettiva è in gran parte perduta, o è sfondo sfuocato sul quale sola si leva la figura dell'eroe, in lotta con sé stesso e con gli altri per una redenzione sostanzialmente personale, privata. Per questo tutte le facce del grande dramma antico sono ridotte a una sola: quella della passione d'amore che assale il ‛ vir fortis ' e dalla quale egli ascende per superamento alla ‛ requies ' e alla ‛ gloria '. La stessa caduta di Troia è interpretata con gli schemi medievaleggianti degli assalti ai castelli di virtù. Il ‛ convivio ' di Didone è figura del vario e rumoroso consesso sociale, al quale il ‛ vir fortis ' si asside, senza confondersi, per narrare agli altri, ignari, tutto quello che egli, esperto de li vizi umani e del valore, ha sperimentato e sa della vita. 2) La selva, nell'esegesi petrarchesca, ha " interdiu " un aspetto che manca nel I dell'Inferno: lo splendore delle erbe, il canto degli uccelli, il mormorare delle acque, la fascinosa bellezza cioè dei paradisi tardo-gotici, che, se pure nella coscienza del P. è cosa caduca e inane, non resta perciò di tendere insidie agli occhi e alle orecchie di chi in essa s'imbatte. Anche qui risuona la corda più vera dell'anima petrarchesca.
L'immagine della selva in cui il poeta viene a trovarsi a mezzo del giorno era già stata attiva in precedenza nel P., ad es. in Rer. vulg. fr. LIV (dov'è precisamente il luogo dell'errore) e in Buc. carm. III 85-89, e sempre si era presentata con il suo aspetto carezzevole; nell'egl. III, anzi, è vivo il ricordo discreto del paesaggio di Pg XXVIII. Ora, è questa strana selva, virgiliana, dantesca e petrarchesca insieme, teorizzata nella Senile, che dovrebbe chiarire il significato simbolico del " chiuso loco " erboso (Valchiusa) in cui il P. viene a trovarsi all'inizio del Triumphus Cupidinis. Il poeta è già smarrito: perché amore sdegni e pianti sono già esperienze passate; le coordinate cronologiche riportano alla primavera, che è la data fatale del canzoniere, ma segna anche l'inizio della Commedia; l'età si aggira sui 35 anni, poiché il poeta è già a Valchiusa. Altri particolari rifiniscono il quadro: la funzione del sonno (Tr. Cup. I 11) è accennata nella Senile a proposito dell'assopimento di Enea in viaggio da Cartagine e può corrispondere al sonno di D. (fine If III-inizio IV); il " fascio " di v. 9, così presente nel canzoniere, si riconnette alla condizione dello smarrito descritta nella Senile: " astrictus vinculis et fasce curvatus "; il poeta è " del pianger fioco " (v. 10), con richiamo, che è forse più di una suggestione sonora, If I 63 chi per lungo silenzio parea fioco. Infine l'" ombra " di v. 40 che va incontro al poeta assolve certo anche la funzione del fido Acate, ma è soprattutto l'ombra di If I 66 (con qualche tocco del ser Brunetto di If XV), anche se nei Triumphi essa esplica compiti molto più scialbi e indefiniti del Virgilio dantesco. Il suo modo stesso di presentarsi, precisando la propria patria, è dantesco.
Con chi poi sia da identificare questa guida, è questione dibattuta e forse insolubile. Fra tutte le proposte avanzate a chi scrive pare più conveniente, anche se quasi universalmente rifiutata dai critici, quella di F. Lo Parco, che volle vedervi proprio D.: il personaggio si dichiara toscano, è sconosciuto al P. (anche se invero questo avviene per un cambiamento di fisionomia dovuto alle sofferenze d'amore e alla morte), ma a lui " vero amico " (non è affatto necessario pensare a un rapporto di amicizia reale, basta il significato etimologico del termine). È del tutto credibile che, accingendosi a scrivere un'opera ‛ dantesca ', il P. abbia voluto prendere a guida il duce stesso di nostra volgare poesia, come nell'Africa il vaticinio della gloria del poeta latino era stato messo in bocca a Omero, il re dei poeti. La mancanza di un'esplicitazione è coerente, del resto, con la difficoltà di un rapporto psicologico e intellettuale mai nel P. del tutto risolto. Anche la suggestiva ipotesi del Billanovich che vede nell'" ombra " il Boccaccio non contraddice a quanto sopra esposto, perché in certa misura ci riporta in terra dantesca: la sola in cui vanno cercate le radici di questo vanescente, ambiguo fantasma, che il P. non ha avuto il polso fermo per mettere a fuoco.
All'epoca della Sen. IV 5 il Triumphus Cupidinis era certo stato scritto da vari anni; ma il ritardo del chiarimento in sede di ‛ poetica ' non significa che la meditazione venga idealmente dopo, come dopo viene cronologicamente: la linea ‛ dantesca ' di chi muovendo dalla selva ascende alla verità, collocando e interpretando la propria esperienza umana in una dimensione universale, è la vera spinta genetica dei Triumphi. Se, infatti, nella III egloga (ca. 1346) il poeta dallo smarrimento amoroso procede a una ricerca affannosa modellata sui classici (Apollo e Dafne, Cerere e Proserpina), per pervenire alla gloria, sia pur transeunte, dell'incoronazione, nei Triumphi la scena si amplifica in virtù della lezione della Commedia; la visione della selva che nell'egloga segnava l'incontro con le Muse e che anche altrove non si liberava dai limiti di un richiamo dotto, nella Senile diventa il consapevole nucleo poetico di una prospettiva nuova, dantescamente innervata. Riconoscere questo significa anche ridimensionare l'entità della pressione di un'altra opea sulla genesi dei Triumphi, l'Amorosa visione del Boccaccio.
Presenze Dantesche nell'opera del Petrarca. - È un problema dibattuto e ancora aperto. Che influssi, echi, calchi danteschi siano riconoscibili in P. è fuor di dubbio. Ancora da definire sono l'entità, il significato, la stratificazione cronologica della presenza. Nella quasi impossibilità di fissare, allo stato attuale, la scansione diacronica dell'azione dantesca al di là delle grandi linee sopra individuate, non resta che confrontare in blocco singole opere petrarchesche con D., schedare i frutti della reazione e individuare i vari livelli di contatto. A questa risorsa euristica in parte costringe lo stesso P., che, secondo la nota tesi di U. Bosco, offre al critico un volto " senza storia " di sé e della sua opera; ed è la via seguita con sicurezza e con frutto da M. Santagata, su intuizioni di H. Gmelin e di G. Contini, per gl'influssi ‛ comici ' nel canzoniere. Ma è un approdo ancora provvisorio e che vorremmo intrecciare alla certezza ormai acquisita del divenire del canzoniere. Un'altra linea di ricerca potrebbe essere quella d'individuare nuclei poetici danteschi che hanno esercitato una pressione sull'immaginazione petrarchesca e seguire il loro irradiarsi in tutta l'opera, sia latina che volgare. È il caso dell'episodio di Francesca di If V, del cui incantamento il P. non sembra essersi mai liberato: dall'elegiaco andare insieme di Piramo e Tisbe negli inferi di Africa VI 65-67 (" mediaque duos in valle videres / solivagos lateri haerentes "), alla disperazione di Massinissa che proietta nell'oltretomba lo stesso sogno di unità indissolubile con l'amata (Africa V 546-550 " O utinam infernis etiam nunc una latebris / umbra simus, liceat pariter per claustra vagari / myrtea... / Ibimus una ambo flentes, et passibus iisdem / ibimus, aeterno connexi foedere "), alle innumerevoli, distinte o inafferrabili risonanze sparse nel conzoniere (es.: LXXXI 10-11 " O voi che travagliate, ecco 'l camino; / venite a me, se 'l passo altri non serra ", da If V 80-81 O anime affannate, / venite a noi parlar, s'altri nol niega!; XII 8, 10, 12, 14 " a •llamentar mi fa pauroso et lento ", " i' vi discovrirò de' mei martiri ", " 'l tempo è contrario ai be' disiri ", " alcun soccorso di tardi sospiri ", rispettivamente da 117 a lagrimar mi fanno tristo e pio, 116 Francesca, i tuoi martìri, 118-120 al tempo d'i dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?; LXVII 5-8 " Amor, che dentro a l'anima bolliva / ... mi spinse, onde... / caddi, non già come persona viva ", da 103-104 Amor... / mi prese e 142 caddi come corpo morto cade, oltre al furto esatto " ch'al cor gentile " di v. 10 dal v. 100 ch'al cor gentil; VIII, il delicato sonetto in cui alcune bestiole prigioniere si presentano come dono " con la voce del canto di Paolo e Francesca " [Quaglio]), nei Triumphi (v. oltre), nelle Disperse (ad es. un abile intreccio di elementi lessicali nella I dell'edizione Solerti). Questo tipo di ricerca, se mette a nudo il metodo petrarchesco di appropriamento insaziato (oserei dire ondoso) della ‛ fonte ' amata, ci rende ancora una volta sfiduciati sulla possibilità di definire la cronologia degl'influssi, perché appar chiaro che ogni volta le letture del P. intridono varie parti della sua opera e non solo quella che egli ha momentaneamente fra le mani: a ogni nuova esperienza egli ritorna sparsamente sui suoi scritti e li arricchisce di correzioni, aggiunte, sfumature.
Rerum Vulgarium Fragmenta. - La lettura filtrata del P., per i frutti stupefacenti che mette in mano, in contrasto (sia riconosciuto sine ira) con i dati esterni, macroscopici, e con la testimonianza dell'uomo stesso, rischia, al limite, di ribaltare nel suo opposto lo schema di un P. negato alla poesia di Dante. Se D. ‛ comico ' non è presente nel canzoniere per lacerti stracciati con gusto plebeiamente quantitativo né per gemme mercantescamente imbellettatorie, com'è in pressoché tutta la tradizione italiana, ciò è causa delle aporie dei critici adusati a più crassa musa. L'imitatio del P. sarebbe per gli ultimi indagatori un evocare disinteressato della memoria, un riaffiorare naturale, spontaneo, di ritmi e timbri alle zone in cui la liricità si tramuta in onde sonore di parole e sospensioni, di arsi e di tesi. L'esempio più nobile di lettura dantesca ‛ da poeta a poeta '. Quando provenzaleggiava con le chiavi di Pier della Vigna (" Del mio cor, donna, l'una et l'altra chiave / avete in mano ", LXIII 11-12; " Tempo è da ricovrare ambe le chiavi / del tuo cor ", XCI 5-6) il P. s'illudeva di difendersi da D. (If XIII 58-59) mercè l'alibi di tutta una tradizione lirica ben esercitata ad aprire e serrare cuori; ma quando il lettore scaltro lo fruga nell'uso inconsapevole e recidivo d'incisi dolci per strana vaghezza (" sì ch'i' l'ò dinanzi agli occhi, / ed avrò sempre ", XXX 5-6; " onde mi nacque un ghiaccio / nel core, et èvvi anchora, / et sarà sempre ", CXIX 28-30; " Ma la forma miglior, che vive anchora, / et vivrà sempre ", CCCXIX 9-10) e ne scopre il segreto in un angolo remoto dell'immenso mare della Commedia (onde mi vien riprezzo, / e verrà sempre, If XXXII 71-72; al punto fisso che li tiene a li ubi, / e terrà sempre, Pd XXVIII 95-96), ecco che il P. è disarmato di fronte a D. e di fronte agli storici.
Egli stesso nella Fam. XXI 15, 14 si era presentato, con l'orgoglio sprezzante di cui era capace, come unico dei suoi tempi abilitato a intendere le bellezze della Commedia: " unus ego forte, melius quam multi ex his insulsis et immodicis laudatoribus, scio quid id est eis ipsis incognitum quod illorum aures mulcet, sed obstructis ingenii tramitibus in animum non descendit ". Data per didascalicamente buona l'opposizione benvenutiana di D. più " poeta " e P. più " orator " (v. BENVENUTO da IMOLA); non può non affascinare questa intelligenza (e appropriazione) petrarchesca di un D. ‛ artista ', creatore di risonanze magiche che dalle orecchie scendono a inquietare le più riposte sensitività dell'animo umano. Certo il D. non di tutti, ma nemmeno tutto Dante. Finché non sarà dimostrata mal apposta la fede che la parola non è tutto, pur se di tante cose sovente è solo la parola quello che rimane, non ci si dovrà vergognare d'imputare il P. di leso dantismo, e non si vilipenderà impunemente il Boccaccio, che in D. adorava, forse con candore, ma con piena forza d'intelletto, l'epifania stessa della poesia: non un platonico, irragionevole esistere di nessi musicali interstellari, ma un umano, doloroso farsi di parole e di cose, di uomo e di arte.
La presenza della Commedia nel canzoniere sarebbe dunque soprattutto inconsapevole. Eppure certe incastonature a frammenti, come " Spirto felice che sì dolcemente / volgei quelli occhi, più chiari che 'l sole, / et formavi i sospiri et le parole, / vive ch'anchor mi sonan ne la mente " (CCCLII 1-4), per cui cfr. Pg II 113-114 cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona; oppure: " fanno le luci mie di pianger vaghe " (C l4), da If XXIX 2-3 avean le luci mie sì inebrïate, / che de lo stare a piangere eran vaghe; od operazioni di calco come " né sì né no nel cor mi sona intero " (CLXVIII 8) sul che sì e no nel capo mi tenciona di If VIII 111 (dove solo la preconcetta cavillosità può appellarsi alla " lingua del tempo " [Melodia]); o, ancora, l'esatta identità di nessi, in versi come " et dopo questo si parte ella, e 'l sonno " (CCCLIX 71; cfr. anche Tr. Famae I [abbozzo] 10-11 " il sonno e quella ... / appena eran partiti ") da Pg IX 63 poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro (che non si può spiegare solo con la fonte comune antica, perché in Ov. Met. XV 25 e Virg. Aen. VIII 67 non c'è nulla più che una situazione somigliante), fanno pensare al P. che conosciamo, col libro alla mano in atto di controllare la citazione e annotarla rigorosamente in margine al suo Virgilio e viceversa occultarla abilmente nella propria personale ritessitura verbale di poeta (cfr. Fam. I 8, 4). Si è detto della difficoltà di ricostruzioni diacroniche. Pure non tutto è oscuro: una canzone, per dichiarazione esplicita del P., fra le più antiche, la XXIII, è anche fra le più ricche di dantismi scoperti; d'altro canto a un calcolo statistico risulta al Santagata " un ritorno in forze della Commedia verso la fine del libro ", che se non in tutto, almeno in buona parte riflette attività tarda. Dunque sembrerebbe di poter vedere, allo stato attuale, un danteggiare più marcato in giovinezza e in vecchiaia, corrispondentemente a due fasi distinte di lettura della Commedia: il che incrina la sicurezza di un unico affiatamento col poema e di un suo riemergere tutto rammemorativo.
La questione ritorna, allora, alla disputa col Boccaccio: perché il P. invidiò un giudizio franco, affettuoso, alla Commedia (sulla Commedia e non su altro era la guerra), al volume che pure aveva e avrebbe continuato a cercare? Si è sospettata un'ostilità preconcetta al volgare: ma, se non altro, il canzoniere la smentisce. Più credibili ragioni sono state cercate nella nuova sensibilità umanistica, o in un'insanabile incompatibilità estetica: per il cultore delle otiosae litterae quella compromissione totale, senza vie di ritirata, con le passioni della città-stato, quell'energia profetica che invadeva la poesia dantesca (non si dimentichi la perplessità petrarchesca di fronte alla poesia biblica e alla letteratura cristiana tutta, confermata nelle egloghe I e X), e d'altro canto quella violenza linguistica che aveva mescidato tutti gli stili, erano tutte cose indigeribili. Se la sua fede umanistica nel latino non impediva al P. di dedicare ai suoi versi volgari un impegno senza residui di artefice consumato, era perché sotto i ritmi levigati stava proprio la sicura e nitida sapienza del filologo e dell'erudito puntiglioso, che il volgo poteva non cogliere: ma non al volgo digiuno di dottrina il P. s'indirizzava, per rigenerarlo, né nelle opere latine, né nelle nugellae vulgares. Se i meccanici leggevano e deturpavano la Commedia il P. sapeva che ciò era anche effetto di una cercata committenza popolare. E, viceversa, l'aristocrazia del cuore e dell'intelletto, cui egli si rivolgeva, non poteva non essere una cosa sola con l'elezione formale del suo concreto poetare. Egli dunque seleziona, purifica, espelle dalla realtà tutto quello che è torbido, violento, incondito; non gl'interessa il contraddittorio concentus del tutto, non sa e non vuole nel canzoniere percorrere e giudicare le sorti dell'umana università: si è ritagliata una sua vigile e inquieta prospettiva, e da questa osserva la realtà passargli davanti. La sua lingua non può non subire analogo processo di purificazione: levigata, semplice, mai condiscendente. D. stesso viene sottilissimamente crivellato. Del resto il D. al P. più congeniale era naturalmente quello delle rime e di queste egli doveva sentire più sue le petrose, per il senso della natura e l'elegia della lontananza che le pervade, per la viva sensualità, che pure cerca di penetrare nelle visioni solarmente luminose, nelle conturbanti spezzature sentimentali del canzoniere. Nella canzone LXX, dove il P. vuol presentarsi quinto lume della lirica moderna dopo Arnaut Daniel, Guido Cavalcanti, D. e Cino, l'Alighieri è indiziato appunto col verso delle petrose così nel mio parlar voglio esser aspro (CIII 1). E in un verso petroso (sotto un bel verde la giovane donna, CI 38), ritagliato da pungenti visioni primaverili, è già tutta la miniatura allegorica, mirabilmente gotica, di Rer. vulg. fr. XXX 1 " Giovene donna sotto un verde lauro ". Ma la Commedia no: ad onta della sua presenza filologicamente accertata, forte, squisitamente eletta, il canzoniere non ha nulla dello spirito della Commedia: " dinanzi a questa " - concludeva F. Neri - " si deve ammettere una reale incapacità del Petrarca " (scil.: a comprenderla).
Triumphi. - Nei Triumphi la presenza della Commedia si fa più massiccia e scoperta, sia in virtù di una rimeditazione teorica, come si è detto, sia nella concreta imitatio. La tavola dei luoghi paralleli fornita dal Calcaterra è lontana dall'essere esaustiva. L'analisi comparativa non rileva un sostanziale allontanamento del P. dalle sue convinzioni sull'imitazione. Tuttavia si osserva una maggiore viscosità del dettato dantesco e un reagire stanco del P.: dall'uso stesso dello strumento metrico, alla struttura di certi episodi, al richiamo talora centonatore al modello.
Numerose sono le iuncturae dantesche dissimulate: es. " dolce riso " (Tr. Mort. II 86), da disïato riso (If V 133); " dolce e pio " (Tr. Mori. II 185), da tristo e pio (If V 117); " tra' fiori e l'erba " (Tr. Cup. I 90) da tra l'erba e' fior (Pg VIII 100). Qualche verso ha l'aria di un vero e proprio calco: " onde altrui cieca rabbia dipartillo " (Tr. Famae I 63), da là onde 'nvidia prima dipartilla (If I 111); " di poca fiamma gran luce non vène " (Tr. Cup. II 21), da poca favilla gran fiamma seconda (Pd I 34); " tal che l'occhio la vista non sofferse " (Tr. Cup. II 138), da che l'occhio stare aperto non sofferse (Pg XVI 7; cfr. anche Pd III 129); " O ciechi, el tanto affaticar che giova? " (Tr. Mort. I 88), da O frate, andar in sù che porta? (Pg IV 127). Più spesso si tratta di riecheggiamenti meno pesanti, anche se nettamente trasparenti, come: " Io non posso per ordine ridire " (Tr. Famae III 28), da Io non so ben ridir (If I 10); " Le sue parole e 'l ragionare antico " (Tr. Cup. I 49), da Le sue parole e 'l modo de la pena (If X 64). Talora l'eco verbale risponde a un'identità di situazione: " Dimmi, per cortesia, che gente è questa? " (Tr. Cup. I 66) e che gent'è che par nel duol sì vinta? (If III 33); " ‛ che pensi? ' disse " (Tr. Cup. III 5) e mi disse: " Che pense? " (If V 111); " la coppia d'Arimino, che 'nseme / vanno " (Tr. Cup. III 83-84) e quei due che 'nsieme vanno (If V 74).
Di certi personaggi pare che il P. voglia farci sapere inequivocabilmente che sono danteschi: colei che " si chiuse " " e non le valse, / ché forza altrui il suo bel penser vinse " (Tr. Pud. 160-162) è la Piccarda di Pd III. Statisticamente i rimandi di gran lunga più numerosi sono a If V, la grande epica dell'amore. Oltre alle innumerevoli risonanze sparse, tre episodi tentano di ricrearne la vicenda o la Stimmung: la vista di Paolo e Francesca in Tr. Cup. III 83-84; l'apparizione di Laura morta in Tr. Mort. II 86-89; e soprattutto Tr. Cup. II 4-93, l'incontro con gl'infelici amanti dell'Africa (e lo strascico emotivo dell'inizio di Tr. Cup. III). Ma è proprio in quest'episodio, che pure era il più congeniale al suo spirito, che il P. rivela la sua fragilità epico- ‛ comica ': per eccesso di dantismo egli violenta grossamente le regole retoriche della convenienza ecostringe Sofonisba a uscire dalle vesti di una dolente e aspra Francesca per indossare quelle maschie di Farinata: " ferma son d'odiarli tutti quanti " (v. 78): cui il novello Dante replica con altera romanità di cartapesta: " Cartagine tua per le man nostre / tre volte cadde, ed a la terza giace " (vv. 80-81). Era anche questo non suo dantismo, intricato con istanze erudite e sentimentali, che frantumava nelle mani del P. l'illusione di riuscire ad accordare in unica trama escatologica la sua commedia privata con il cammino doloroso di tutti gli uomini.
Opere Latine. - Manca uno spoglio sistematico, reso più problematico dalla carenza per molte opere di edizioni critiche e dall'obiettiva difficoltà di dover porre a confronto due dettati diversi, latino e volgare. Un buon elenco di passi raccolse lo Zingarelli per l'introduzione al suo commento al canzoniere, ma può ovviamente valere a solo titolo esemplificativo. Altre acquisizioni sono venute casualmente. Uno degli echi ‛ comici ' più suggestivi è proprio nella Fam. XXI 15, 8, dove, per schizzare l'eroica figura dell'esule (" quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraxit), il P. si è servito, pare (direttamente o tramite il Trattatello del Boccaccio?), proprio dei pennelli che D. ha usato per un'altra figura eroica, Ulisse: né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta, / vincer potero dentro a me l'ardore... (If XXVI 94-97).
In Fam. IX 1, 3 lo stupore attonito dello scampato al pericolo rimanda forse a If I 22-27; in Fam. XXIII 12, 28 il discorso sul tralignamento dei figli dalle virtù paterne è simile a Pg VII 121-123; e così l'immagine di chi nottetempo illumina altri con la lanterna ma non sé stesso (Fam. XXIV 3, 3), applicata a Cicerone, sembra sollecitata dal ricordo di Pg XXII 67-69; lo sciogliersi in lacrime paragonato a quello delle nevi (Africa V 438-442) era in Pg XXX 85-99; lo stringersi dei prigionieri cartaginesi intorno ai legati della patria è gravido di varie reminiscenze dell'Inferno e del Purgatorio, specialmente del VI canto. Ma la prudenza non è mai troppa: talora sotto il dantismo trasparente c'è anche il sapiente intreccio di altro; ad es. la " formicarum nigra acies " di Sen. V 2, così identica alla schiera bruna di formiche di Pg XXVI 34, ascende al " nigrum... agmen " di Virg. Aen. IV 404 (e cfr. anche Ov. Met. VII 624-626, e Plin. Nat. hist. XI XXX 110), oppure vuol celare sotto panni classici una suggestione dantesca.
Dopo il V dell'Inferno il canto che più ha commosso " il poeta della canzone Italia mia " parrebbe essere il VI del Purgatorio, " il canto dell'Italia trascurata e straziata " (Billanovich). Le rimembranze sono molte: del canzoniere basterà citare CV 8-9 " donna amorosa... / che 'n vista vada altera et disdegnosa ", che trascina con sé l'emozione di anima lombarda, / come ti stavi altera e disdegnosa (vv. 61-62), anche se riduce " l'originaria accensione etica alla norma dell'arabesco erotico-cortese " (Santagata); ma più frequentemente le turgide impennate dantesche infiammano i suoi accoramenti politici: il " rodimus rodimurque vicissim et nos ipsos mutuo laceramus " di Fam. XV 7, 7 è ampliamento retorico del secco l'un l'altro si rode di v. 83; l'immagine dell'Italia, fiera... fatta fella / per non esser corretta da li sproni (vv. 94-95) e ch'è fatta indomita e selvaggia (v. 98) e che l'imperatore dovrebbe cavalcare e domare, rivive in Fam. XVIII 1, 24 (" belua potentissima est, sed quae frenum doctae manus excipiat; belua ingens, sed tractabilis, et ni tractetur, indomita "); del v. 78 non donna di provincie, ma bordello il P. ha ribaltato il violento risentimento in un dolore più gentile: " de provinciarum domina servorum est facta provincia " (Fam. XIX 9, 10); ma la prosopopea dell'invocazione a Cesare in Fam. XXIII 15, 7 " tua te, inquam, Italia, Caesar, vocat: ‛ Caesar, Caesar, Caesar meus, ubi es? cur me deseris? ' " è identica a quella dei vv. 112-114 la tua Roma che piagne, / vedova e sola, e dì e notte chiama: / " Cesare mio, perché non m'accompagne? " (cfr. anche canzoniere LIII 104-106 " Roma ognora / con gli occhi di dolor bagnati et molli / ti chier mercé ", e 24 " dì et notte del suo strazio piango "); e dal robusto appello alla divinità stessa dei vv. 118-120 o sommo Giove / ... son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? deriva Sine nom. 4 " Christe, quid agis? Ubi sunt oculi tui? ... Cur illos avertis? "; infine dalla descrizione della sciagurata Firenze, somigliante a quella inferma, / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma (vv. 149-151), il P. ha mutuato l'immagine di sé stesso " stare nescius ... studio more aegrorum loci mutatione taediis consulendi ", che chiude gli appunti della lettera ai posteri.
La lunga ricerca di echi danteschi compiuta da varie generazioni di studiosi ha dato frutti ed è servita, se non altro, a portare chiarezza in una disputa isterilita da petizioni di principio. Tuttavia, dopo averne compiuto il dovuto ridimensionamento, è da riconoscere che resta irrisolta una contrapposizione D. P. e che la sua indubbia realtà latamente storica aiuta anche a capire il senso di una svolta nella storia degl'intellettuali italiani ed europei. In sede storiografica la vicenda del " parallelo " D.-P. che s'istituzionalizza in età umanistica e vive ai nostri giorni, è anche vicenda ideologica. La preferenza accordata nei secoli all'uno o all'altro polo è sempre anche riflesso di biforcazioni culturali di fondo. D. e P. diventano, con operazione talora violenta, ma nella sostanza giusta, eroi di due modi diversi di vivere fra gli uomini.
Illegittimo è invece dare la caccia, triturando i testi con gli argomenti ex silentio, a un anti-dantismo programmatico del P. sia in certi suoi atteggiamenti ideologici che in alcune clamorose sortite filologiche. L'energica difesa della castità di Didone contro l'opinione corrente (ma già l'‛ errore ' di Virgilio era stato visto da Benzo d'Alessandria, per cui v. R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV. Nuove ricerche, Firenze 1914, 134; e Epist. di Guarino, III , Venezia 1919, 419), la rivalutazione di Celestino V, l'affetto per Roberto d'Angiò, la condanna del suicidio di Catone Uticense, ecc., non possono intendersi come altrettanti episodi polemici nei confronti di D.; così come sarebbe eccessivo vedere nel platonismo e nell'agostinismo del P. un'opposizione soggettiva all'aristotelismo e al tomismo di D., piuttosto che la realtà di due sensibilità e formazioni culturali autonome.
Naturalmente una mitologia sui rapporti D.-P. si formò presto e stenta a morire. Se ancora nel nostro secolo si son ricamate favole simpatiche sul Daedalus della IV egloga, non ci si meravigli che già in età umanistica, accanto a quelli che cercavano in ogni rigo del P. una frecciata antidantesca, c'erano i probi falsificatori che s'ingegnavano di colmare l'ingrato abisso. Così un carme di Benvenuto in onore di D. si tentò di far passare per petrarchesco; l'umanista Claricio scrisse di suo pugno una lettera di Benvenuto al P., in cui l'Imolese ricordava al maestro di essere stato spinto dalle sue fervide sollecitazioni a intraprendere il commento; e un anonimo ancor più pio raccontò con candore quasi innocente che a un vecchio e dotto pisano il P. in persona, in casa sua, aveva mostrato un esemplare della Monarchia che teneva fra i suoi libri e aveva sentenziato che quest'opera era bensì di D., ma che la Commedia doveva attribuirsi per vero allo Spirito Santo.
Bibl.-Sul codice Vaticano Latino 3199: A. Pakscher, Aus einem Katalog des Fulvius Ursinusin " Zeit. Romanische Philol. " X (1886) 225-232; P. De Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini. Contributions à l'histoire des collections d'Italie et à l'étude de la Renaissance, Parigi 1887, 303-305; G. Franciosi, Il D. Vaticano e I'Urbinate descritti e studiati per la prima volta, Città di Castello 1896; O. Hecker, Boccaccio-Funde, Braunschweig 1902, 3-4; G. Traversari, Il Boccaccio e l'invio della " Commedia " al P., in " Giorn. d. " XIII (1905) 25-31 (rist. con tit. Il P. e D., Prato 1905); M. Vattasso, I codici petrarcheschi della Biblioteca Vaticana, Roma 1908, 20-21; G. Vandelli, Giovanni Boccaccio editore di D., in " Atti Accad. Crusca " CV (1921-22) 45-95; Gius. Billanovich, P. letterato. I. Lo scrittoio del P., Roma 1947, 147-148, 175, 421-425; Petrocchi, Introduzione 89-90; A. Petrucci, La scrittura di F. P., Città del Vaticano 1967, 48, 118.
Per la biografia del P.: E.H. Wilkins, Life of Petrarch, Chicago 1961 (traduz. ital. di R. Ceserani, Milano 1964); e, per la ricostruzione di alcune date, A. Foresti, Aneddoti della vita di F. P., Brescia 1928.
La discussione moderna sull'atteggiamento del P. nei confronti di D. nasce con U. Foscolo, Essays on Petrarch (del 1820-21), ora in Opere, ediz. naz., X, a c. di C. Foligno, Firenze 1953, 109-138 (ivi, pp. 279-297 anche la traduz. ital. di C. Ugoni). Dei lavori precedenti importante I. Mazzoni, Della difesa della Commedia di D., p. II (postuma), Cesena 1688, VI, capp. XXV-XXIX, su materiali tratti dal commento al P. di L. Castelvetro, Basilea 1582. Dopo il Foscolo si accende una viva - e frammentata - polemica che, nonostante l'intervento equilibratore del Carducci, tarda a lungo a quietarsi e le cui propaggini continuano a venare ricerche anche recenti. Cfr.: M.G. Ponta, Qual sia il giudizio di messer F. P. intorno alla Commedia di D.A., in " Giorn. Arcadico " CXVIII (1849-50) 166-192 (rist. nel suo D. e il P., a c. di C. Gioia, città di Castello 1894, 21-52); C. Cantù, Storia della letteratura italiana, Firenze 1865, cap. III; G. Fracassetti, D. e il P., in D. e il suo secolo. XIV Maggio MDCCCLXV, Firenze 1865-66, 623-638; G. Carducci, Della varia fortuna di Dante. II: I primi commentatori e i poeti. Il Boccaccio e il P., in " Nuova Antol. " IV (1867) 454-479; V (1867) 22-54 (in fine considerazioni di G.B. Gandino sul. carme del Boccaccio), ora, ritoccato e distinto in Discorso secondo e terzo, in Opere, ediz. naz., X, Bologna 1936, 311-420; C. Cipolla, Quale opinione P. avesse sul valore letterario di D., in " Arch. Veneto " VII (1874) 407-425; A. Hortis, D. e il P., in " Rivista Europea " VI 1 (1875) 277-283; ID., Studj sulle opere latine del Boccaccio, Trieste 1879, 301-305, 347; E. Lamma, Il Trionfo d'Amore, in " Ateneo Veneto " s. 13, II (1889) 319-359; F. Novati, D. e il P., in " Giorn. stor. " XIV (1889) 463-464; P. De Nolhac, Pétrarque et l'humanisme, Parigi 1892, 419-421 (II ediz., ibid. 1907, II 232-237); H. Cochin, Un ami de Pétrarque. Lettres de Francesco Nelli à Pétrarque, Parigi 1892, 3, 34, 285-288, 302-308 (traduz. ital. di G. L. Passerini, Firenze 1901); F. Persico, P. e D., in " La Tavola Rotonda " III, n. 12-13 (1893), e in " Atti Accad. Sc. Mor. Polit. Napoli " XXVI (1893-94) 209-231; G.A. Cesareo, D. e il P., in " Giorn. d. " I (1894) 473-508 (rist. nel suo Su le " poesie volgari " del P., Rocca S. Casciano 1898, 129-172); A. Moschetti, Dell'ispirazione dantesca nelle rime di F. P., Urbino 1894 (recens. a Cesareo e Moschetti di F. Pellegrini, in " Rassegna Bibl. Lett. Ital. " II [1894] 250-253); G. Melodia, Difesa di F. P., in " Giorn. d. " IV (1896) 213-247, 387-419 (poi rist. in vol., Firenze 1902); N. Scarano, L'invidia del P., in " Giorn. stor. " XXIX (1897) 1-45 (recens. di N. Zingarelli, in " Rassegna Crit. Lett. Ital. " II [1897] 85-88); F. Cipolla, D. e P., in " Atti Ist. Veneto Sc. Lett. Arti " LV (1896-97) 272-282; N. Scarano, recens. a G. Melodia, in " Giorn. stor. " XXXI (1898) 100-108; ID., Alcune fonti romanze dei " Trionfi ", in " Rendic. Accad. Archeol. Lett. Arti Napoli " n.s., XII (1898) 62-104; G. Melodia, Studio su " I Trionfi " del P., Palermo 1898 (recens. di E. Proto, in " Rassegna Crit. Lett. Ital. " IV [1899] 250-263); ID., Poche altre parole su D. e il P., in " Giorn. d. " VI (1898) 183-202 (poi rifusi nella rist. della Difesa); V. Rossi, D. e l'umanesimo, in Con D. e per D., Milano 1898, 145-181; F. Pellegrini, in " Giorn. stor. " XXXV (1900) 365-371; N. Scarano, Fonti provenzali e italiane della lirica petrarchesca, in " Studj Filol. Romanza " VIII (1901) 250-360; E. Proto, Sulla composizione dei " Trionfi ", in " Studi Lett. Ital. " III (1901) 1-96; O. Hecker, Boccaccio-Funde, cit., 12-26; A. Moschetti, in " Rassegna Bibl. Lett. Ital. " XI (1903) 27-43; V. Rossi, Un paragone dantesco e petrarchesco, nel numero unico Padova a F. P. nel VI centenario dalla nascita, Padova 1904, 5-7; H. Morf, P. gegen D., in " Archiv Studium Neueren Sprachen Literaturen " CXII (1904) 395-397; F. Lo Parco, L'amico duce del P. nel " Trionfo d'amore ", in " Rassegna Bibl. Lett. Ital. " XIII (1905) 332-336; ID., Il P. e Piero di D., in " Giorn. d. " XVI (1908) 196-209; V. Rossi, D. nel Trecento e nel Quattrocento, in D. e l'Italia nel VI centenario della morte del Poeta MCMXXI, Roma 1921, 285-318 (rist. in Scritti di critica letteraria. I: Saggi ediscorsi su D., Firenze 1930, 293-332); E. Cavallari, La fortuna di D. nel Trecento, Firenze 1921, 387-410; C. Calcaterra, Introduzione all'edizione dei Trionfi, Torino 1923; A.F. Massèra, Di tre epistole metriche boccaccesche, in " Giorn. d. " XXX (1927) 31-36; ID., in G. Boccaccio, Opere latine minori, Bari 1928, 96-97, 294-296; C. Segrè, Analogie fra una terzina della D.C. eun passo di una lettera del P., in Studi petrarcheschi... Omaggio di Arezzo al suo poeta nel MCMXXVIII, Arezzo 1928, 87-92; F. Neri, Il P. e le rime dantesche della Pietra, in " La Cultura " VIII (1929) 389-404 (rist. in Letteratura e leggende, Torino 1951, 53-72; e in Saggi, a c. di R. Ceserani, Milano 1964, 155-173); C. Calcaterra, Sant'Agostino nelle opere di D. e del P., in " Rivista Filos. Neo-scolastica " XXIII (1931), suppl., 422-499 (rist. in Nella selva del P., Bologna 1942, 247-360); H. Gmelin, Das Prinzip der Imitatio in der romanischen Literaturen der Renaissance, in " Romanische Forschungen " XLVI (1932) 125-129, 138-152, 166-173; C. Calcaterra, La prima ispirazione dei " Trionfi " del P., in " Giorn. stor. " CXVIII (1941) 1-47 (rist. in Nella selva del P., cit., 145-208); U. Bosco, Particolari danteschi, in " Annali Scuola Norm. Sup. Pisa ", Lett. st. filos., s. 2, XI (1942) 136-143 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 378-391); P.P. Trompeo - G. Martellotti, Cartaginesia Roma, in " Nuova Antol. " CDXXX (nov.-dic. 1943) 263-264 (rist. in P.P. Trompeo, La scala del sole, Roma 1945, 58-60, e in m., Piatiza Margalla, con altri itinerari romani, ibid. 1969, 196-197); Gius. Billanovich, Dalla " Commedia " e dall'" Amorosa visione " ai " Trionfi ", in " Giorn. stor. " CXXIII (1945-46) 1-52 (poi rifuso in P. letterato. I, Roma 1947); O. Tescari, Per una vecchia querela a Virgilio e a D., in " Convivium " XVI (1947) 116-130; G. Contini, Preliminari sulla lingua del P., in " Paragone " II, n. 16 (1951) 3-26 (rist. più volte, ora in Varianti e altra linguistica, Torino 1970,169-192); A. S. Bernardo, Petrarch's Attitude Toward D., in " PMLA " LXX (1955) 488-517; U. Bosco, " Né dolcezza di figlio... ", in " Studi Mediol. e Volgari " V (1957) 64-68 (poi in D. vicino, cit., 180-185); ID., Il linguaggio lirico del P. tra D. e il Bembo, in " Studi Petrarcheschi " VII (1961) 121-132 (poi rifuso nel suo F. P., Bari 1961²); M.M. Rossi, Laura morta e la concezione petrarchesca dell'aldilà, in " Studi Petrarcheschi " VII (1961) 304; M. David, Une réminiscence de D. dans un sonnet de Pétrarque, in Miscellanea di studi offerta a A. Balduino e B. Bianchi per le loro nozze, Padova 1962, 15-19; N. Zingarelli, L'invidia per D., cap. XXIX della sua Introduzione a F. P., Le rime, Bologna 1963 (ediz. postuma), 224-241; G. Contini, Un'interpretazione di D., in " Paragone " XVI, n. 188 (1965) 3-42 (ora in Varianti e altra linguistica, cit., 369-405); Gius. Billanovich, Tra D. e P., in " Italia Medioev. e Uman. " VIII (1965) 1-44; M. Feo, Per l'esegesi della III egloga del P., ibid. X (1967) 388; M. Santagata, Presenze di D. " comico " nel " Canzoniere " del P., in " Giorn. stor. " CXLVI (1969) 163-211; S. Agosti, I messaggi formali della poesia, in " Strumenti Critici " V, n. 14 (1971) 5-12.
Quasi tutte le monografie sul P. dedicano spazio al problema dei rapporti. con D. e un elenco qui sarebbe ozioso. Non si può tuttavia tacere di A.E. Quaglio, F. P., Milano 1967, 147-153.