PETRARCA, Francesco
Nella gloria della poesia italiana è il secondo, dopo Dante e prima del Boccaccio, dei suoi grandi e venerati patriarchi; ma nella storia della formazione spirituale della rinascente Italia F. Petrarca è forse il primo e ad ogni modo uno dei più eccelsi esempî di scrittori, che abbiano unito a squisitezza di poesia potenza espansiva di cultura.
Sono questi i due aspetti nei quali va studiata l'opera sua per ricomporne l'unità spirituale.
La vita.
Dalla nascita al 1337. - La gente, donde il P. discese, era d'un ceppo saldamente radicato nel suolo fiorentino. L'avo, ser Garzo (che qualcuno identificò con un poeta laudese di quel nome), era vissuto centenario nella domestica casa dell'Incisa. Ser Parenzo, nato da lui, aveva avuto tre figli, dei quali Pietro (Petracco, Petraccolo) esercitò a Firenze la professione di notaro, che era stata del padre e dell'avo. Fu appunto notaro dei Priori (dicembre 1300-febbraio 1301) quando Dante aveva autorità politica; e a Dante in qualche modo l'avvicinarono le vicende cittadine e poi il pietoso ricordo del figlio. Ché il 20 ottobre del 1304, nell'imperversare delle persecuzioni dei Neri vittoriosi, egli fu bandito; e nella Riforma di Baldo d'Aguglione (1311) con Dante vediamo rimessi in bando i "filii ser Parenzii de Ancisa". Presago di questi torbidi, aveva mandata la sposa in Arezzo, ove all'alba del 20 di luglio 1304 - mentre i fuorusciti tentavano lor sorte alla Lastra - gli nasceva il figliuolo, predestinato alla poesia, come in una fantastica egloga (IV) molti anni di poi Francesco immaginerà. Gli anni dell'infanzia passò nel paterno podere dell'Incisa; il settimo (cioè tra il luglio del 1310 e del 1311) a Pisa, ove era atteso Enrico VII: e forse fu in quel rifiorire di speranze dei Bianchi intorno al Cesare tedesco, che Francesco vide l'Alighieri, accadesse ciò a Pisa o a Genova. Di lì la famiglia di Petracco si trasferì ad Avignone; dove però le difficoltà dell'alloggio nella piccola città, diventata d'improvviso la capitale della cristianità, separarono la famigliola, che frattanto (1307?) si era cresciuta d'un altro maschietto, Gherardo; un terzo la morte rapì infantem. Le donne e i ragazzi furono mandati a Carpentras, ove per quattro anni (probabilmente fra il 1313 e il 1317) Francesco studiò un po' di latino "assai poco, come si fa nelle scuole" sebbene potesse giovarsi di un eccellente maestro, Convenevole da Prato. Sui quattordici anni (1317) passò all'università di Montpellier, per attendere agli studî legali, che erano tradizionali in famiglia; ma il giovanetto si curvava sui codici degli antichi poeti più volentieri che su quelli dei legisti. A questo periodo è da assegnarsi quella sorpresa che gli fece il padre e che egli narrerà poi così amabilmente (Senili, XV, 1). Petracco arriva, gli scopre i nascosti libri profani e glieli caccia nel fuoco; ma poi, commosso alle sue lagrime, gli restituisce la Rethorica di Cicerone e un Virgilio "per sollazzo, ma raro, dell'animo tuo". Più triste evento, in quegli anni, fu la perdita della mamma, la mite Eletta, alla quale dedicò un carme latino che è forse l'unica poesia della sua precoce puerizia ch'egli abbia serbata (Epistole metriche, I, 7), anche se ritoccata più tardi.
Dopo quattro anni - più tardi il P. vedrà la propria esistenza quasi scandita da un ritmo quadriennale - fu mandato, col fratello e sotto la guida d'un pedagogo, a Bologna. Nella mente di ser Petracco certamente Bologna significava la maestra del diritto: ma in allora Bologna significò per Francesco ben altra cosa. E prima di tutto il lieto entrare nella giovinezza e poi i primi contatti con il mondo della cultura e della poesia. Bologna si trovava infatti alla confluenza delle correnti letterarie, che scendevano dal Veneto e risalivano dalla Toscana: di là, e specialmente da Padova e da Verona, il primordiale umanesimo di A. Mussato e dei suoi amici; di qui l'elegante continuazione dello stil nuovo, che fioriva dalla dotta penna di Cino da Pistoia. In questo senso fu giusto chiamare Bologna la "patria poetica" del P., non già intendendo che quivi egli abbia rinfrescata la conoscenza dell'idioma nativo: esso gli era sempre sonato intorno anche in Avignone. Rinfrescò invece a Bologna il gusto per la nuova poesia toscana, ed è ipotesi probabile che qui ne facesse le prime prove; e che a ciò si debba una nascente nominanza, che fermò su di lui l'attenzione d'uno studente di eccezione, Giacomo della romana famiglia dei Colonna, il quale vi si preparava alle dignità ecclesiastiche. Da Bologna, dopo una dimora triennale, tornò nell'aprile del 1326 in Avignone insieme a Gherardo; ed ivi, ormai libero di sé, lasciò quegl'incresciosi studî del diritto.
"Mox ut me parentum cura destituit" (Posteritati, 17): sembra di avvertire nell'espressione non il dolore d'un orfano, ma l'amarezza d'un abbandono morale; si hanno infatti indizî per credere che frattanto Petracco fosse passato a nuove nozze, e certo l'agiatezza raggiunta dal padre scomparve nella successione; sicché i due fratelli dovettero pensare a guadagnarsi la vita. Fu allora che Giacomo Colonna - il quale poetava alla peggio anche lui! - chiamò a sé Francesco "vulgari delectatus stilo, in quo tunc iuveniliter multus eram". Nel piccolo seguito del prelato, che si disponeva a raggiungere la nuova sede episcopale di Lombez in Guascogna (1330), il P. trovò il romano Lello di Pietro di Stefano Tosetti, uomo d'armi ma "eloquente", e Luigi Santo di Beeringen, eccellente musico fiammingo; e questi due ebbe sempre di poi tra i più intimi amici, chiamando l'uno Lelio, in ricordo dell'amico di Scipione, e l'altro Socrate, per l'arguta serenità dell'indole. Ma frattanto, cioè tra il ritorno da Bologna e l'andata in Guascogna, era accaduto un importante evento. "L'anno del Signore 1327 il giorno VI d'aprile nella chiesa di Santa Chiara d'Avignone, su l'ora prima" gli apparve Laura. Con la precisione d'un atto notarile annoterà, questa data nella guardia d'un codice di Virgilio, oggi all'Ambrosiana, quando gli toccherà di fermarvi il ricordo della morte della celebrata amica, avvenuta nel giorno, nel mese e nell'ora stessa del 1348. Possiamo immaginare che una copiosa fioritura di canti sarà sbocciata al sole di quell'amoroso aprile e nei primi anni di poi; ma le Rime accolte nel canzoniere non sono quelle d'allora, salvo forse pochissime: si può dire che il P. non riconobbe degna d'essere conservata la sua produzione artistica d'innanzi al 1330, cioè al suo uscire dall'adolescenza, che durava secondo Cicerone sino ai ventott'anni. Tornato da Lombez, Giacomo gli ottenne di essere accolto nella "corte" del fratello cardinale Giovanni, la cui importanza nella curia avignonese, per gli affari d'Italia e in particolare di Roma, era grandissima. Naturalmente nel disbrigo dei maneggi relativi vi fu adoperato anche il P., che all'elezione di Benedetto XII (1334) fu incaricato di esporre poeticamente i voti e i bisogni di Roma (Ep. metr., I, 2 e 5; II, 5) e nell'occasione della crociata bandita il 1332 aiutò con l'eloquenza della canzone O aspettata in ciel l'opera animatrice di Giacomo Colonna. Nel 1333 il cardinale gli permise di fare un lungo viaggio, col patto che lo tenesse informato di quanto vedeva: a questo comando dobbiamo alcune bellissime lettere (Familiari, I, 3, 4) di "impressioni di viaggio", animate da uno spirito realistico e osservatore, che è nuovo nelle letterature medievali. Tre anni di poi ottenne d'essere mandato a Roma e nei primi del '37 è a Capranica, ospite degli Anguillara imparentati coi Colonna; vi s'indugia, trattenuto dalle malsicure condizioni della campagna romana, che rappresenta con la solita vivacità di visione paesistica (Fam., II, 12). Quando alfine entra in Roma, le rovine stesse gli parlano dell'antica grandezza. Aveva creduto il cardinale che quella vista l'avrebbe deluso; ma la commossa fantasia dello studioso ne fu anzi eccitata, anticipando anche in ciò i tempi, quando le rovine ecciteranno la sensibilità romantica. Poi fu forse preso dall'irrequietezza, e può darsi che nel ritorno visitasse le coste della Spagna, della Mauritania e dell'Inghilterra "ad extrema terrarum" (Ep. metr., I, 7; Fam., III, 9). Molti critici veramente dubitano di questo viaggio; ma certo la sua curiosità di studioso lo volse anche alla geografia. Fece infatti un'inchiesta (Fam., III, 1) per identificare la leggendaria ultima Tule; a re Roberto diede notizie per una progettata carta d'Italia; per un amico che si recava in Terrasanta, stese un breve Itinerarium Syriacum, materiato, nella prima parte, di "cose viste" e nella seconda di cose studiosamente apprese. Nell'agosto del 1337 lo troviamo tornato in Avignone e sullo scorcio dell'anno ritirato nella solitudine di Valchiusa, presso la famosa fonte del Sorga, a iniziare quello che un po' impropriamente fu detto il "decennio valchiusano".
Dal 1337 al 1349. - Quali ragioni abbiano sospinto il P. a quel solitario ritiro, è difficile determinare: ragioni di studio forse, o forse ragioni sentimentali, per non ricadere sotto il giogo antico d'amore, dal quale non si sentiva al tutto sciolto (Ep. metr.; I, 7); ragioni pratiche, insinuano alcuni, ché nell'estate gli era nato un figlio naturale, del che poteva essergli sorto scandalo intorno; o piuttosto l'insorgere d'una crisi spirituale, pensano altri, della quale un primo cenno sarebbe in quella famosa epistola (Fam., IV, 1), ove narra la gita al Monte Ventoso (1336), ingegnosa allegoria del suo perplesso e dubbio salire pel cammino della virtù. Ma quali che siano state codeste ragioni, dal suo ritiro a Valchiusa è derivata un'immagine singolarissima dell'esistenza del poeta, che tutti si rappresentano, come piacque a lui di rappresentarsi, vagante pei boschi o meditante presso l'antro dal quale rampolla da misteriose scaturigini il Sorga. Quivi egli ha collocato infatti la scena del suo amore; quivi affermò che furono concepite le più delle sue opere latine.
In Avignone, nella casa dei Colonna aperta ai più illustri ospiti della curia, e presso i ceti letterarî, che già da tempo seguivano l'ascesa del letterato eloquente e dell'elegante poeta, quel meditativo e laborioso ritiro dovette far nascere vivissima aspettazione, mentre in lui maturava il disegno della laureazione. Non ci stupiremo dei maneggi che il P. adoperò per venirne a capo; sono cose di tutti i tempi. A Parigi aveva amico un fiorentino, cancelliere di quell'università; a Roma erano forti di autorità i Colonna; a Napoli poteva contare sul frate Dionigi da Borgo San Sepolcro, da lui conosciuto a Parigi, in alta posizione presso re Roberto. Accadde che nello stesso giorno del 1° settembre 1340 - al P. piacevano tanto queste coincidenze, da sacrificarvi forse l'esattezza storica! - gli giunsero inviti per la laurea da Parigi e da Roma. Quale scegliere? Parigi era il presente, cioè il maggior centro di cultura e di rinomanza europea; Roma era gloria italiana. Scelse Roma; ma per dare una sanzione augusta alle onoranze, volle che il re Roberto lo esaminasse. Partì dunque di Provenza il 16 febbraio 1341; a Napoli fu ricevuto dal re, al quale dovette piacere di sostenere una parte così geniale in questa faccenda, e che, non potendo andare di persona alla cerimonia romana, affidò l'incarico di rappresentarlo ad uno dei suoi alti ufficiali, il giurista Giovanni Barrili. Ma neppur questi, impedito dai ladroni, che in quell'anarchia romana infestavano le strade, arrivò. Non importa: lo incoronò in Campidoglio la maestà del popolo romano, più augusta di ogni re, nella persona del senatore Orso dell'Anguillara (il suo ospite del 1337) nella Pasqua (8 aprile) del 1341; e i Colonna fecero, come si direbbe oggi, gli onori di casa. L'incoronazione fruttò al P. invide riprensioni da vivo, e fatue ironie di critici moderni, ma in verità egli riportò allora una vittoria che fu preziosa per il mondo, facendo trionfare i valori umani più nobili: il sapere e l'arte.
Pochi giorni dopo partì, in compagnia di Azzo da Correggio, col quale s'era accompagnato anche nel viaggio d'andata, e che si preparava a celebrare un diverso trionfo a Parma. Vi entrò infatti (22 maggio), cavalcandogli al fianco il poeta, che ne cantò la vittoria in una canzone (Quel che ha nostra natura) non accolta poi nel canzoniere e perciò non condotta all'usata perfezione. Poi in quella temperie se non eroica almeno bellicosa, in quel tumulto ancor vivo d'esaltazione poetica, gli si rinnovò l'ispirazione, che in Valchiusa gli aveva dettata buona parte dell'Africa; e a Selvapiana, appartata e boscosa nella valle dell'Enza (Ep. metr., I, 1; II, 16), in breve condusse a termine il poema. E già sperava di poterlo mostrare al suo benigno patrono, Giacomo Colonna, quando apprese la notizia della sua morte (1341). Fu forse il primo in una serie di lutti che lo colpirono, privandolo di cari amici nei quali vivevano tutti i suoi affetti.
Ma la tranquilla dimora parmense non poteva durare troppo. Egli era pur sempre ai servizî del cardinale: "rigidam transire per Alpem iubemur". Nel febbraio del '42 era ad Avignone, subito travolto in un turbine di faccende. Poco appresso moriva Benedetto XII, e al nuovo eletto, Clemente VI (maggio 1342), Roma inviava un'ambasceria, la quale veniva a chiedere una visita del papa alla città, ond'era vescovo, un aiuto in denari e la concessione dell'anno giubilare per il 1350. Al P., come già all'elezione di Benedetto XII, fu affidato l'incarico di perorare a suo modo, cioè con un carme (Epist. metr., II, 5), la causa di Roma. Ma accanto all'ambasceria ufficiale c'era un altro singolare rappresentante dell'Urbe, un popolano eloquente ed ardente, Cola di Rienzo, interprete delle sofferenze del suo popolo vittima della prepotenza dei baroni, tra i quali massimi i Colonna. Fu questa l'occasione nella quale il P. conobbe il futuro tribuno; e già da allora forse un disagio politico venne a insorgere nel suo animo; a questo s'aggiunse in quei mesi stessi una più intensa ripresa di ansie religiose. Il fratello Gherardo, col quale aveva trascorsi i lieti anni bolognesi e gli spensierati avignonesi, a un tratto nell'aprile del '43, si rendeva monaco, qual che ne fosse il motivo, nella certosa di Montrieux, e l'anima del P. ne fu profondamente percossa. In quell'anno ancora gli nasceva una bimba, frutto della sua carne non ancora domata. Inoltre lo irritavano i contrasti per certo benefizio del quale non riusciva - e non riuscì - a venire in possesso. Travolto da tali turbamenti politici, morali e domestici, si rifugiò tra le sue carte e cercò un conforto nello scrivere un libro. Questo fu il Secretum meum, opera d'arte insieme ed esercizio spirituale; di sorvegliata intimità e d'ardente passione, che non ha veramente una conclusione, perché in lui non accadde mai uno di quei mutamenti profondi, che chiudono un periodo dell'esistenza e ne iniziano un altro. Errerebbe perciò chi l'immaginasse, anche in quei mesi, staccato dagli altri interessi della vita, anche intellettuali. Cade infatti nell'estate del '42 l'inizio dello studio del greco, pel quale approfittò della dimora in Avignone del monaco basiliano Barlaam; sennonché il monaco, diventato vescovo di Gerace, partì, e il P., malgrado altri tentativi, non giunse mai a leggere quei testi sapienti che gli parlavano - com'egli dice - dai suoi scaffali, con voce amica ma non intesa.
Le necessità pratiche ancora lo riprendevano: nell'ottobre del '43 attraverso un tempestoso viaggio perveniva a Napoli, con un incarico affidatogli dal card. Colonna, e forse con uno più vago del papa. Come al solito, oltre tener informato il suo "dominus" sull'andamento della pratica, lo intratteneva (Fam., V, 3, 6) sulle sue impressioni di viaggiatore curioso e attento in cospetto delle antiche memorie e delle costumanze e degli eventi presenti, precorrendo i tempi col suo acuto senso realistico. Ma fu una dimora mal gradita: la corte non era più quella di re Roberto, e le pratiche andavano in lungo. Invano il gentile e devoto Barbato da Sulmona gli era guida per i luoghi immortalati dagli antichi poeti: al P. arrideva ora il ricordo del suo Elicona cisalpino, Selvapiana. Aveva promesso al cardinale che Parma sarebbe stata soltanto una tappa del ritorno: invece, vi si trovò così bene, da costruirvisi una bella casa, da chiamarla sua "seconda patria", da vagheggiare di aver ivi una lagrimata sepoltura. Ma ecco sorgere nubi foriere di tempesta: "rumoreggiano guerre, si affilano le spade". Era accaduto che Azzo, non potendo reggersi, aveva venduta la città a Obizzo d'Este; che i Visconti con altri minori signori vi si erano opposti e che alla fine del '44 la città si era trovata cinta d'assedio. Guerra tutta italiana, della quale erano responsabili non le rapine straniere, ma solo le cupidigie dei signori d'Italia. Di qui sorge (come oramai si crede generalmente) l'altissima rampogna della canzone Italia mia. Dopo due o tre mesi, il poeta, stanco di quegli strepiti di Marte, attraverso un'avventurosa fuga, drammatizzata in una vivace lettera (Fam., V, 10), raggiunse il da Correggio presso gli Scaligeri. Verona era stata in tutto il Medioevo un centro di cultura, non solo per le vicende politiche, ma per la ricchezza di opere della sua Biblioteca capitolare, e il P. si diede a frugare fra quei tesori e vi identificò le lettere di Cicerone ad Attico e al fratello; ghiotta scoperta per il letterato, e spiraglio aperto all'intuizione dello psicologo per divinare nel console e scrittore togato la difettiva umanità. Frattanto faceva qualche rapida corsa alla sua Parma, o per privati interessi, o quale discreto messo fra le parti tuttavia contendenti. E forse di tali affari era incaricato di trattare presso il papa, quando sulla fine dell'anno '45 giunse ad Avignone. Fatto è che la contesa per Parma fu risoluta nel settembre del '46, venendone in possesso Luchino Visconti, e un mese dopo il P. vi riceveva il benefizio d'un canonicato con una larga prebenda.
Valchiusa gli si presentava tuttavia, in tanti negozî pubblici, come un rifugio di quiete: e ogni volta che poteva, vi riparava. Occupato com'era in Avignone, né avendo agio d'iniziare opere di gran mole, "l'aspetto dei luoghi e i recessi dei boschi" gli suggerirono di rinnovare gli antichi canti delle selve. Così nacque il Bucolicum carmen (1346). Ma non si creda che con ciò il poeta cercasse d'evadere dalla realtà presente in un mondo ideale, come accadrà del Sannazzaro. Con quei canti egli restava nel cerchio degl'interessi personali e politici che d'ogni parte lo irretivano. Ivi infatti sono tra l'altro drammatizzati gli eventi che nel 1347 sconvolsero la sua esistenza. Giungevano ad Avignone le prime notizie della rivoluzione che il 20 maggio Cola di Rienzo aveva operato nel reggimento di Roma. Profondissima impressione ne ebbe il P. Se egli viveva con tanto trasporto d'affetti e di fantasia l'antica età di Roma, non era perciò estraneo alla presente; e non solo alle vicende politiche, ma a quelle più ampie e profonde correnti mistiche, che ad ora ad ora pervasero tutto il Medioevo. Anche il P. partecipa alla credenza nelle sei età del mondo; alla vaga attesa d'un rinnovamento spirituale della società; all'aspirazione a una purificazione della Chiesa. Ma in lui esule, costretto a vivere nella straniera sede della curia, che solo per ironia si diceva romana, ma era soggetta al re di Francia, codesti sentimenti si esasperavano in un disdegno "latino" contro la "barbarie gallica" imperante; e in lui, fervente ammiratore della gloria romana, il sogno di ricondurre Roma alla sua missione storica di guida intellettuale del mondo, si realizzava nella convinzione di un imprescrittibile diritto. Tutto ciò in parte era attuato e in parte poteva credere che fosse preparato nei primi atti e nei mistici proclami del tribuno; sicché ne fu tutto preso e disposto a dare l'aiuto che poteva, quello della sua penna. Essere il Livio di questa nuova storia, essere l'Omero di questa nuova epopea! Avrebbe voluto scrivere al tribuno tutti i giorni; e in realtà molto gli scrisse e tra l'altro gli mandò un'egloga, la V, dove Cola è rappresentato come il veramente pietoso figlio di Roma. L'altro evento, drammatizzato in altra egloga (VIII), è la sua separazione dal cardinale Colonna. In curia, dopo qualche ondeggiamento, le opinioni si erano volte contro Cola; e specialmente ostile gli era il cardinale, che vedeva da lui offesi gl'interessi della sua potente casa. Il disagio morale del suo "cappellanus" non tardò a farsi intollerabile ancor prima della strage del 20 novembre, ove caddero sei Colonnesi; in quel giorno stesso il P. era partito da Avignone in veste di messo del papa presso Mastino della Scala, ma forse proponendosi d'accorrere a Roma al fianco di Cola. Sennonché frattanto la fortuna, o forse la saggezza, del tribuno si offuscava: il 17 dicembre i Colonna rientravano in Roma e il sogno era finito. Allora il P. proseguì lentamente il suo viaggio per Verona, ove lo chiamavano anche le promesse di Azzo e la presenza del figlio Giovanni, e quindi tornò a Parma. Frattanto la famosa pestilenza del 1348, che ad Avignone fece strage, gli rapiva il cardinale e Laura: il suo signore e la sua donna. E l'anno di poi, che chiamerà "nefando", gli recava nuovi lutti e nuovi danni. Sopravvissuto a tante sciagure, egli sentì che qualche cosa era morta anche in lui; e come suole accadere quando l'uomo s'accorge di aver vissuta una forma d'esistenza che non potrà più rinnovarsi, cominciò a desiderare di fermare almeno l'immagine del passato. Fu così che il P. si risolse a raccogliere le cose sue: le lettere in prosa e in versi e le Rime sparse.
Maturità e vecchiaia (1350-1374). - Più riposata ormai pareva dovesse trascorrergli la vita a Parma, tra la chiesa, lo studio, gli amici e le cure predilette dei fiori e delle frutta. Ben presto però quella tranquilla esistenza venne più e più di frequente a interrompersi, perché il P. cominciò a gravitare verso un nuovo centro d'attrazione: Padova e la corte di Giacomo Novello da Carrara. Premio o vincolo di questa libera servitù - l'espressione contraddittoria rappresenta l'ambiguità della posizione del P. presso i varî domini - fu un canonicato con pingue prebenda in Padova (aprile '49), che veniva ad aggiungersi all'arcidiaconato parmense (agosto '48). La dimora padovana ebbe per effetto di porlo al centro d'un vasto movimento diplomatico, del quale ci sfuggono i particolari, ma che è lecito argomentare. Invocando l'intervento di Carlo IV nelle cose d'Italia può darsi si facesse eco dei maneggi fiorentini o piuttosto della politica dei Carraresi, che, come gli altri potentati padani, sempre sentivano la minaccia della signoria viscontea; sì che in quell'anno (1350) lo vediamo di continuo aggirarsi da Ferrara, presso gli Estensi, a Carpi presso i Pio, a Mantova presso i Gonzaga, a Verona presso gli Scaligeri.
Ben naturale che l'autore dell'epistola a Clemente VI facesse, ora che era aperto l'anno santo, un devoto pellegrinaggio a Roma. I sette Salmi penitenziali - salvo il nome e lo stile davideggiante, al tutto dissimili da quelli accolti nella liturgia cattolica - che si hanno di lui, bene starebbero assegnati a questo momento di penitenza. Il pellegrinaggio tuttavia non appare abbia recato un profondo mutamento nel suo spirito. Nelle lettere che ne parlano, la dimora in Roma sembra occupata piuttosto da sollecitudini umanistiche. Altro ne è ad ogni modo l'interesse biografico: il viaggio a Roma recò infatti una ripresa dei rapporti con l'avita patria Firenze, e con quel ceto letterario. C'erano i giovani sul salire, che appunto si protendevano verso questa nuova e fresca cultura, che aveva nel poeta il suo maggiore esponente. C'era Zanobi da Strada, allora speranza delle Muse, poi persosi negli uffici della curia avignonese. C'era Lapo da Castiglionchio, appassionato bibliofilo che si perderà anche lui nelle faccende legali. C'era (per allora a lui ignoto) quel mite e pur ardente priore della chiesa dei Ss. Apostoli, Francesco Nelli, al quale il P. dedicherà le Senili ribattezzandolo Simonide, perché sacerdote insieme e poeta. E c'era, soprattutto, Giovanni Boccaccio, che di nove anni più giovane di lui, e di lui tanto più candido e semplice, lo seguiva da gran tempo come maestro d'arte e di pensiero. Gli aveva tempo addietro indirizzato un carme per averne l'onore d'una risposta; né il P. gliela negò (Epist. metr., III, 17): ora, saputo del suo arrivo, uscì di città ad accoglierlo. Nel ritorno, presa la via delle Chiane, si fermò ad Arezzo, ove lo condussero a vedere la casa che gli era stata culla ed era già consacrata alla venerazione cittadina. Ma giunto a Parma un'atroce notizia lo sorprese: Iacopo da Carrara era stato pugnalato da un consanguineo poco innanzi il Natale. Tornò tuttavia a Padova, tentando di sistemarvisi; ivi ebbe ospite caro (aprile '51) il Boccaccio, venuto, autorevole ambasciatore della Signoria fiorentina, per invitarlo ad assumere qual volesse insegnamento nello studio che si voleva ripristinare in Firenze; e fin d'ora, con atto inconsueto, gli si restituivano i "campi aviti" di che il bando aveva privato il padre. L'ambasciatore ebbe certi affidamenti per il prossimo anno scolastico; ma per allora il P. doveva recarsi in Provenza, e la cosa andò poi a finire in nulla.
Nel luglio il P. era dunque di nuovo ad Avignone. Voleva dare l'ultima mano alle sue opere maggiori non mai compiute; voleva procurare una posizione al figlio Giovanni, che infatti ebbe nel '53 un piccolo benefizio; e aveva da pensare alla propria sistemazione, onde si faceva raccomandare ai due più potenti porporati di curia, i cardinali di Boulogne e di Talleyrand, dal suo diletto Filippo di Cabassole, vescovo di Cavaillon, nella cui diocesi era Valchiusa. Tutto ciò lo tratteneva troppo a lungo in città, lontano dall'Elicona transalpino, l'unica cosa che lassù gli piacesse. Perciò quest'ultima dimora avignonese è caratterizzata da un'impaziente ripresa di sdegni contro la curia. Le più delle epistole Sine nomine appartengono a questo periodo; e vi appartengono due egloghe (VI e VII) che nella grottesca finzione pastorale sono le più irriverenti scritture antipapali del P. Codesto sdegno era accresciuto dal saper Cola languente nelle prigioni d'Avignone; onde animoso e violento scriveva al popolo romano che rivendicasse a sé il diritto di giudicarlo. Nel dicembre del '52 moriva Clemente VI che pur gli era stato benevolo, mentre del nuovo pontefice, Innocenzo VI, sapeva già che prestava orecchio a chi gli sussurrava che il poeta s'occupasse di magia. Così l'anno seguente, all'aprirsi della stagione, non stette più alle mosse; e visitato, come altra volta nel '47, il fratello alla certosa, salì pel Monginevra le Alpi, e quando fu in vista d'Italia la salutò con un carme commosso (Epist. metr III, 24) nel quale è il presagio d'un distacco definitivo dalla terra straniera. Veniva dunque in Italia, ma era incerto dove posare. In tale perplessità il primo uncino, in cui incappò, lo trattenne; e questo fu l'arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano. L'arcivescovo era uno spirito superiore, che in certi argomenti - in fatto di costumi clericali, per esempio - s'accordava con le idee sue e poi seppe guadagnarselo, lasciandogli l'illusione di essere libero in una riposta abitazione, tra i suoi libri e le sue carte. Inoltre Milano era il centro d'un grande stato e d'una vita politica più italiana che non Avignone, più ampia che non Padova: e il P. aveva ormai bisogno dei grandi orizzonti, ove esplicare la sua missione letteraria e - perché no? - diplomatica di banditore di pace e d'unione fra i popoli d'Italia. Gli amici di Firenze e d'Avignone restarono un po' scandalizzati, che l'assertore infaticabile della libertà si andasse a legare al "tiranno"; né senza imbarazzo si difendeva il P., che avrebbe pur potuto dire che essi riflettevano l'ostilità politica fiorentina e avignonese verso i Visconti e che la servitù ai voleri della folla e del pontefice non era minore che la servitù all'arcivescovo. Eccolo dunque per otto anni sistemato a Milano dove, senza rinunciare all'otium degli studî, si trova spesso occupato nei negozî politici. Il fatto storico più importante, nel quale interviene, è la dolorosa guerra tra Genova e Venezia. Quando i Veneziani vi si apprestano, esorta il doge Andrea Dandolo a deporre le armi fratricide; quando i Genovesi vincono, ammonisce quel doge di usare generosamente della vittoria e di pensare che gli uni e gli altri "sono italiani". E perché italiani sono questi mali, non è indegno che egli, italiano, cerchi di ripararvi. Caduta la fortuna delle armi, i Genovesi mandarono ambasciatori al Visconti per darsi in sua balia, e fu il P. ad accoglierli; e ancora a lui fu dato l'incarico di recare a Venezia le proposte di pace che l'arcivescovo faceva: e chi più di lui poteva essere ascoltato dal doge Andrea Dandolo che gli era amico da tempo? Non fu: una lega si strinse, al solito, contro il minaccioso Visconti; donde una sdegnosa lettera del P. al doge (Fam., XVIII, 16), la quale non dovette forse spiacere a Milano, ma nella quale il P. non fingeva di certo i suoi sentimenti. Carlo IV, invocato dalla lega, scese finalmente in Italia (novembre '54) ed è ben naturale che il P., benché quegli non venisse per gli alti fini che tre anni prima gli aveva proposti, si recasse a rendergli omaggio a Mantova. Gli amici ritennero ch'egli avesse avuto parte nella pace lombarda che poi ne uscì; ma il P. protesto che sì, i suoi domini così avrebbero voluto, ma non volle lui. Per i trattati occorrono, si direbbe oggi, "gli esperti": ora il P. era qualche cosa di più. Era la coscienza pubblica che ammonisce, la storia che giudica. Avendogli re Carlo chiesta la dedica del De viris illustribus ancora incompiuto, gli rispose: "Sì, se resterà vita a me, a te virtù".
Il P. non andò a Roma; restò invece con i Visconti nipoti di Giovanni, che erano anche più "tiranni" dello zio; restò a presenziare la cerimonia dell'investitura; fu padrino del figlio del violento Bernabò e della superba Regina della Scala (1354), a cui impose il nome del suo Cicerone: Marco, e regalò una coppa d'oro e, regalo più prezioso, un carme (Epist. metr., III, 29). Due anni dopo fu inviato ambasciatore a Carlo IV per gli affari della guerra italiana (1356); ma a noi pare piuttosto che andasse missionario della nuova cultura, la quale per i contatti personali stretti da lui alla corte di Praga, specie col cancelliere imperiale Giovanni di Neumarkt, vi ebbe, dopo i semi sparsivi dal profugo Cola, una primaverile fioritura. Di nuovo, quando a Pavia fra Iacopo Bussolari tentò di difendere la libertà del suo comune opponendosi alle brame dei Visconti, il P. unì l'arme della penna alle armi dei suoi signori: intervento che molti gli rimproverano. Ma il Bussolari combatteva per l'illusione medievale di un'autonomia comunale che ormai urtava contro il corso della storia, e che forse era in contrasto con l'interesse stesso d'Italia.
Pur tra queste alte occupazioni non tralasciava gli studî. Ritirato nella sua dimora, quasi suburbana allora, presso la basilica di S. Ambrogio, o nelle villeggiature estive, non lascia scorrere un minuto senza leggere o ascoltare o dettare. Interrompe il sonno per lavorare; o se non vuol destare i suoi segretarî accendendo il lume, scrive al buio. Si faccia pur la debita parte all'esagerazione scherzosa ma quella mole di lavoro che risulta dalle sue opere originali, dalle postille onde costellò tanti volumi della sua biblioteca, e dalle mille lettere, che afferma avere scritte, dovette richiedere una continua tensione d'attività intellettuale. Tanto più che s'egli era rapidissimo nel primo stendere, si dichiarava poi un tormentatore, un nuovo Procuste delle proprie pagine. Inoltre, numerosissime erano le visite degli ammiratori e postulatori, fra le quali, graditissima, quella del modesto e devoto Boccaccio; il quale in questa seconda visita, che fu nella primavera del '59, se non già nella visita padovana, si era sforzato di vincere la freddezza dell'amico verso Dante, e tornato a Firenze gli aveva inviato copia della Commedia, con un carme latino esaltante i meriti dell'Alighieri. Ma la lettera (Fam., XXI, 15) con cui il P. rispose, sebbene molto fine, conferma in sostanza l'incomprensione che il P. ebbe della grandezza morale e poetica di Dante.
Anche la dimora milanese s'avvicinava al termine: di ritorno da un'ambasceria sostenuta presso il re di Francia per recargli il compiacimento di Galeazzo Visconti per l'ottenuta liberazione dalla cattività britannica (marzo del '61), incalzato dalla minaccia della pestilenza, il P. ritornò a Padova. Ma tra i suoi cari la morte gli mieteva assai vittime: in Provenza Socrate; a Milano il suo stesso figlio Giovanni, che tanti dolori gli aveva procurati in vita e che un altro gliene dava morendo, ora che si avviava a ravvedersi.
Col luglio del 1361 il P. varcava la soglia della vecchiezza, secondo che allora si pensava; ma vecchio non si sentiva, anzi ben disposto ancora a oneste fatiche. Gli fu offerto, come già altre volte, l'ufficio di segretario apostolico; non accettò; tuttavia il ricordo della silenziosa Valchiusa lo attirava ancora. Vi sarebbe anzi andato (salvo a subito pentirsi, com'era accaduto nel 1351) o si sarebbe "arreso" alle insistenti richieste di Carlo di Boemia, se le strade non gli fossero state precluse dalle guerre. Tornò dunque a Padova (1362) e di lì, per l'incalzare della peste, si rifugiò a Venezia. Spirito veramente irrequieto! Già vi si era gradevolmente sistemato nella bella casa sulla Riva degli Schiavoni, eppure attendeva ancora dal gran siniscalco Acciaiuoli l'adempimento della promessa di farlo chiamare presso il re di Napoli; e nel 1365 i Fiorentini davano istruzioni a un loro legato, affinché ottenesse dal papa un beneficio in Firenze per il P., avendo desiderio di "riducerlo ad abitare" quivi. Per quei primi anni tuttavia la dimora a Venezia gli fu così gradita da risolverlo ad adunarvi i suoi libri e a "legarli" a San Marco, per farne il nucleo, noi diremmo, d'una pubblica biblioteca. Nella visita che il Boccaccio gli fece in Venezia dal maggio all'agosto del 1363 avranno soprattutto parlato della traduzione dei poemi omerici; dura impresa assuntasi dal Boccaccio, che a tal fine si era tenuto in casa per tre anni uno strambo calabrese, Leonzio Pilato, il quale sapeva tanto quanto di greco, ma non il latino né l'italiano. Ne venne fuori una mostruosa traduzione letterale (1365), che mal soddisfaceva all'assetata curiosità dei due umanisti: eppure quanta pena era costata! le loro lettere di quegli anni ne sono piene nè a torto; gli studî ellenistici in Italia cominciano di lì.
Se il Boccaccio gli era ancora vicino, altri cari amici gli venivano mancando: il Barbato e il Nelli (1363), ai quali come a più giovani, aveva pensato di affidare l'incarico della sua successione letteraria come Virgilio a Tucca e a Vario; e poi Lelio e Azzo da Correggio. E tuttavia, come non rimetteva in nulla dalla sua fervida attività di studî, così non cessava dal partecipare agli eventi della storia. Egli distribuiva la sua annata tra Venezia e Milano, a cui dal 1365 s'aggiunse Pavia, ove da quell'anno poneva sua residenza abituale Galeazzo. A lui, tanto più fine di Bernabò, il P. fu specialmente addetto. Ne riceveva indeclinabili inviti, di cui ignoriamo i motivi; i biografi segnalano le cerimonie in cui il P. appare accanto ai Signori, come un omaggio reso alla fama del poeta; ma a noi è lecito pensare a motivi più pratici. Nell'aprile del 1368 Carlo di Boemia ritornava in Italia invocato, come nel '54, dai minori stati contro l'instante minaccia lombarda; è naturale che il P. accompagnasse Francesco da Carrara a Udine per riverirlo. Ma nel maggio egli è a Pavia presso Galeazzo "annuente l'imperatore", nel luglio torna a Padova, ossequiato lungo il cammino da entrambi gli eserciti avversi, e con l'intenzione di tornare a rivedere l'imperatore, che pure era venuto per combattere i Visconti. A Padova l'attende ansioso il Carrarese, e poiché ha tardato ad arrivare, il principe viene sulla notte a visitarlo, mentre cena. Crediamo che qui la poesia c'entrasse poco. Nell'agosto infatti si faceva la pace col Boemo, e proprio quale volevano i Visconti. È questa l'ultima sua grande fatica politica. Anche a Pavia non andò più che un altro anno (1369) tornandone malazzato e stanco, sicché si ritirò a riposarsi in una villetta, che s'era accomodata in Arquà, sui colli Euganei. Ora, giunto al più alto splendore della fama, ogni punta di critica lo ferisce vivamente: è l'età delle polemiche. Ma in fondo esse non sono che un giuoco di schermitore provetto, ché nell'insieme una più serena visione della vita arride oramai all'eterno dolente. Per la prima volta gustava le vereconde gioie dell'intimità familiare; se era stato padre duro e impaziente con Giovanni, l'inteneriva ora l'affetto per un nipotino, che la figliuola Francesca, onorevolmente accasata, gli aveva dato, e grande fu il dolore del nonno quando Francescuolo, a due anni, morì. C'era anche una sorellina, che rinnovava il nome della bisnonna: Eletta.
Nel 1370, desideroso di contemplare realizzato il suo grande sogno - il papa pontificante in Roma - si pose in cammino; ma non era più in grado di viaggiare; a Ferrara una sincope lo tenne più giorni fuori di sentimento. L'anno di poi ritentò invano di andare a Perugia a rivedere il suo Filippo di Cabassole, ora cardinale legato: non si reggeva più a cavallo. Scoppiata l'infausta guerra tra il Carrarese e Venezia, dovette lasciare (1372) la malsicura solitudine di Arquà, e l'anno dopo accompagnare a Venezia Francesco Novello, che, andata male l'impresa, vi si recava a far atto di sottomissione per il padre; e forse fu vero che venissero meno le forze fisiche allo stanco poeta, nell'atto dell'arringare; ma la penna continuava a correre sulle carte. Al Boccaccio che l'esortava a finalmente riposarsi, rispondeva riaffermando l'indomito amore allo studio e al lavoro; e inviandogli, preziosa testimonianza, la traduzione latina della Griselda, l'ultima novella del Decameron.
Una notte, tra il 18 e il 19 luglio del 1374, un rinnovato assalto di sincope lo spense entro poche ore. La salma fu recata nella cattedrale da sedici dottori dello Studio, avvolta (si disse) nella porpora regale che re Roberto gli aveva data quando era andato a cingere in Campidoglio altra corona che di re. Di poi fu deposta presso la sua casa d'Arquà in un'arca di pietra. "Petrarca" sonava infatti il suo nome, che di sul patronimico si era elegantemente foggiato.
Le opere.
De viris illustribus. - Il titolo più esatto sarebbe Quorundam illustrium virorum et clarissimorum heroum Epithoma, cioè un riassunto di quanto si trovi scritto sui più famosi personaggi adunati "ex omnibus terris ac saeculis". Poi l'audace disegno giovanile gli si venne restringendo ai personaggi romani da Romolo a Tito; ne avrebbe occupato il centro la vita di Scipione Africano maggiore. Ma anche così ristretto, non fu tratto a compimento, perché era veramente dell'indole nervosa e accensibile del P. questo iniziare lavori di grandi linee e poi disamorarsene. Così l'opera incompiuta giacque dimenticata dalle generazioni successive; e quando fu pur stampata, le vecchie edizioni (1476, 1527) non ne riprodussero il testo originale, ma il volgarizzamento fattone da Donato degli Albanzani. E il perché ne è chiaro: il De Viris, concepito sugli schemi universali, biografici, moralistici della storiografia medievale, era destinato a perdere ben tosto d'interesse per i dotti, mentre continuava ad essere opera utile per gli "idioti". Vi aleggia peraltro uno spirito nuovo, e prima di tutto l'esigenza d'accertare criticamente la verità degli exempla. Accanto a tale esigenza, sorge un sentimento tutto umano. Dapprima i personaggi romani sono rappresentati come "exempla" di virtù, e i rari "esterni" sono recati soltanto come "exempla virtutum contraria" a lumeggiare, col chiaroscuro dei contrasti, le virtù di quelli. Ma giunto in cospetto di Scipione Africano maggiore, che gli era stato caro fin dall'infanzia, gli si accese il sentimento d'ammirazione per l'uomo, nella sua compiutezza. E fu allora, credo, che si soffermò nel cammino e trasformò il capitolo in libro e il libro in poema, l'Africa: Allora il De viris gli venne a spiacere e non fu più ripreso, se non per un ridesto interesse umano innanzi alla figura di Giulio Cesare; ma in verità questa parte è legata molto debolmente al De viris; nei codici e nel ricordo di Lombardo della Seta ha perfino un altro titolo: De gestis Caesaris. È dunque quasi un'opera a sé, e fu l'ultima alla quale diedero contributo la sua maturata esperienza politica, gli storici e i documenti sussidiarî della storia (lettere dei contemporanei), con metodo che è nuovo nella storiografia medievale. L'esaltazione del distruttore di quella repubblica, che proprio il P. insegnò all'umanesimo ad ammirare, è una delle tante prove del suo spirito penetrante e spregiudicato, che scoprì l'umanità della vita di sotto gli schemi dottrinali dominanti la cultura del Medioevo.
Africa. - La solennità a cui è intonato nella Posteritati l'annuncio del nascimento dell'Africa, mostra l'importanza che, anche da vecchio, il P. attribuiva al poema, il cui pensiero gli balenò il venerdì santo, data fatale!, del 1338 (o forse del '39). Egli conosceva di certo l'Alessandreide di Gualtiero di Châtillon, ma non l'avrà amata, perché vi fumiga una "barbarica" caligine anti-romana: e ad ogni modo l'Alessandreide appartiene al tipo biografico dei panegirici imperiali e medievali e risente dell'anacronistica rappresentazione dei romanzi volgari su Alessandro. Il P. ritenne invece d'interpretare meglio l'ideale epico che egli, precorrendo anche in questo gli umanisti, volle rinnovare, facendo materia del suo canto piuttosto un'idea storica, che non un eroe: e intitolò Africa il suo poema, perché ivi si decise la contesa mondiale che noi diremmo tra civiltà orientale e occidentale, ma che per il P., ancora preso nell'interpretazione moralistica della storia, era tra la virtù romana e la malafede punica; e analogamente tra la vera religione, a cui si preparava la sede fatale in Roma, e l'idolatria. Ma l'eroe è essenzialmente un exemplum umano, ricco di tutte le virtù cardinali, ma solo di queste; e Roma è una nobile repubblica, ma coi suoi difetti umani, e non certo una civitas Dei.
Dal De viris discende anche la preparazione dottrinale del poema, il quale, le più volte, appare come una pedissequa versificazione delle prose degli storici. Ma queste gli parlavano di quella città in cui vedeva attuati i suoi più alti ideali, politici e umani; di quella gloria che doveva essere ancora italiana; e s'illuse che la storia fosse di per sé poesia. Spesso s'ingannò, e il primo ad accorgersene forse fu lui stesso, che l'Africa mai non pubblicò, e da vecchio si turbava quando gliene parlavano, e poi, secondo ch'egli scrisse, la diede pur con pianto alle fiamme. Ma dovettero restargliene in casa molti tratti; e di queste reliquie P. P. Vergerio pubblicò, come poté (1396), il poema, richiesto dai letterati con un desiderio che andò in buona parte deluso. È tuttavia opera, se non di grande poesia, almeno di grandissimo interesse. E talora, come nell'episodio di Sofonisba, la materia è trattata con quella profonda conoscenza dell'amore e con quello splendore delicato di colori che rivelano nel cantore di Scipione il cantore di Laura.
Rerum memorandarum libri IV. - Anch'essi si congiungono, sia pure debolmente, alle due prime opere, e benché incominciati nel 1344 non furono mai compiuti. Pur qui Scipione è posto a capo della prima schiera dei personaggi, dei quali si narrano i fatti o detti memorandi. La derivazione dai Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo è evidente nel concetto generale e anche nei particolari, quale la partizione degli esempî in gruppi, sebbene ai due dell'antico, cioè di romani ed externi (greci), egli ne aggiunga, secondo l'uso medievale, un terzo di "recentiores"; ma lo schema ne è diverso, almeno a giudicare da questi Quattro Libri, che costituiscono solo il principio dell'opera; e si può tracciare nel modo seguente. La condizione di vita, che sviluppa le nostre facoltà morali, è l'otium, inteso nel senso umanistico come "literarum et virtutis amore constitutum", cioè congiunto all'idea di studium, il quale si esercita con l'intelletto, e se ne genera la dottrina. Questo è il vestibolo del tempio nel quale il P. entra peritoso e incontra da prima la Prudenza, che può definirsi "memoria del passato, provvisione del presente, previsione del futuro". Di qui la partizione dei libri seguenti, dedicati rispettivamente alla memoria (l. II), alla solertia (l. III), alla mantica (l. IV). C'è in tutto ciò un evidente sforzo sistematico, per sé di poco interesse, ma che tuttavia conduce a una sottile disamina delle facoltà razionali e pratiche dello spirito umano. La parte più attraente è quella degli exempla adunati nel gruppo dei "recentiores", ove la materia s'avviva dell'esperienza personale dell'autore. Del resto il soggettivismo infrenabile del P. allieta d'una discorsività talora arguta, talora appassionata, come altre sue opere erudite, anche codeste viete Cose memorande; e conferisce loro uno spirito, che è ben altro da quello dei Memorabilium aridissimi di Valerio Massimo.
Secretum. - Forse mentre Gherardo spariva nel silenzio del chiostro, Francesco dava opera, anche lui, alla propria riedificazione spirituale, mettendosi a scrivere un libro di confessioni, che accogliesse il segreto contrasto dei suoi sentimenti: De secreto conflictu curarum suarum (il titolo una volta in uso di De contemptu mundi è così arbitrario come inesatto). Un tal libro c'era da mille anni: le Confessioni di S. Agostino. Questo, a volte così drammatico nella rappresentazione dei moti più intimi dell'anima, dovette conquistarlo soprattutto per il suo valore artistico; certo fu la porta onde il P. entrò "non come transfuga, ma come esploratore" nel campo delle scritture religiose. Ora, quando volle rivelare sé a sé medesimo, gli venne naturale di evocare per proprio confessore il grande confesso, esperto dei suoi stessi travagli. La finzione proemiale del Secretum rinnova quella famosissima del De consolatione philosophiae di Boezio. Ma a lui "attonito e spesso meditabondo sulla mala via ond'era entrato e come uscirne", non appare già la filosofia, bensì "una donna più bella assai che il sole": la Verità, che si conduce appresso il problemi teologali. L'interesse ne è - come in ogni confessione - umano, e la materia essenzialmente psicologica. Il Franciscus di questo dialogo è il P. quale soleva apparire al mondo; Agostino lo spoglia del paludamento rettorico e lo rivela nella sua umana sincerità. Per esempio, all'accidia, che la teologia condannava bensì come peccato capitale, ma che già i cuori avvertivano piuttosto come una malattia dello spirito, il P., che ne ebbe avvelenata l'intima vita e intrisa di lagrime la poesia, dedica qui pagine, che sono delle più commosse e commoventi che abbia scritto. Agostino stesso non lo rimprovera; lo conforta, piuttosto. All'amore (non alla lussuria di cui è detto prima) e alla gloria, le due nobili catene - adamantine, ma pur catene - che lo tengono avvinto alla mondanità, è dedicato il terzo dialogo. Per il primo punto sorgeva dinanzi all'arte del P. una difficoltà: di non profanare la donna "suis celebrata carminibus". Per ciò il rimprovero del confessore cadrà sulla immoderatezza, sul contenuto di quel sentimento, insomma sopra la psicologia di Francesco, non sopra i pregi della donna. Ma un'altra difficoltà deve superare ora Agostino. Dianzi aveva trattato di peccati, che erano per sé aborriti da Francesco, e il suo compito era solo di convincerlo d'esserne macchiato. Qui invece si tratta di persuaderlo che questi sentimenti, che pur formavano la più nobile trama della sua esistenza spirituale, erano in sé peccaminosi. Impresa tanto difficile che perfino il sapiente vescovo d'Ippona non vi è riuscito. Tutti i remedia amoris che Agostino gli viene porgendo, e i remedia gloriae, presuppongono infatti un mutamento d'animo, che in Francesco non è avvenuto, né avverrà mai: e perciò sono inefficaci. "Quo pede claudices, agnosco" conclude il confessore. Il dissidio tra il sentimento dell'assoluto divino e del contingente umano, continuerà in lui, come forma della sua stessa esistenza e della sua arte.
De vita solitaria. - Trovandosi nella quaresima del 1346 a dimorare presso il pio vescovo di Cavaillon, Filippo di Cabassole, in Valchiusa, scrisse il P., e gli dedicò questo trattato della Vita solitaria, che non è ancora l'elogio della vita contemplativa religiosa, ma piuttosto l'apologia del suo gusto per la solitudine: un otium non sine literis, le quali dànno, a chi disinteressato le coltivi, un mondo ove lo spirito trova la propria patria e l'incoercibile libertà di cui è assetato. Contrapposte, in forma tipica e astratta, le giornate dell'ozioso e dell'affaccendato, il P. avviva la trattazione, con la discussione delle obiezioni, che a questo ideale - egoistico e inattivo - sono state mosse. Il primo libro dunque tratta dalle auctoritates; il secondo è dedicato agli exempla, narrandosi la vita dei più famosi eremiti cristiani. Ma sorta da un proposito di edificazione, svoltasi un po' a caso per associazione di ricordi letterarî, questa ineguale operetta è bifronte nel primo e nel secondo libro, come è duplice l'ispirazione di tutto il discorso: la sapienza antica e la fede moderna. Ma consertare questa a quella non fu forse il suo più assiduo studio?
Il De vita solitaria, steso al solito in poco tempo, subì poi per lunghi anni ritocchi ed aggiunte. Nel 1356 poteva considerarsi finito, ma per i soliti impedimenti dei copisti non fu inviato al Cabassole che nel 1366. Anche nell'animo del suo autore l'operetta s'impresse come codice d'una sua laica "regola" di vita, alla quale si compiaceva esortare gli amici anche in più tardi anni, non senza un garbato sorriso di rappresentazione realistica della vita agreste, che il nostro poeta, sensibilissimo al fascino della natura, seppe cogliere in ogni aspetto.
De otio religiosorum. - Nella quaresima del 1347 replicò il P. l'esercizio spirituale del comporre un'opera di meditazione, anch'essa in due libri: "opus... et materia et stilo valde cognatum" al De vita solitaria; e la dedicò alla certosa di Montrieux, perché frattanto vi aveva visitato il fratello Gherardo, e l'emozione provata in quelle poche ore di vita conventuale, contenta nei pensieri contemplativi, gli arricchì di sentimento religioso quella concezione dell'otium che nei Memorandarum era tutta, e nel De vita solitaria in parte, umanistica. Il modello è il De vera religione di S. Agostino, e la forma è di un sermone ecclesiastico, ove tutto il testo sia lo svolgimento d'un motto "predicabile": qui il davidico "Vacate et videte". Essere liberi da ogni cura pratica per poter speculare: ecco l'otium fecondo dei religiosi, com'era dei letterati l'otium rivolto alla dottrina.
Queste due esaltazioni dell'otium né si contraddicono né si subordinano: perché se la dottrina profana, fornendo esempî e simboli alla cristiana, le si rende quasi tributaria, se ne fa al tempo stesso la garante con il consenso dell'esperienza umana e delle auctoritates.
Il discorso s'aggira nel solito cerchio d'idee ascetiche, ma l'esperienza di vita ispira a taluni passi, per es. dove rappresenta la lotta dei sensi, un più fervido tono, che attinge all'emozione di poesia là dove è rappresentato lo spettacolo delle antiche rovine latine, monumento severo della caducità umana.
De remediis utriusque fortunae. - Benché quest'opera rifletta la tristezza d'un'esperienza più a lungo esercitata dalle bufere della vita, ne parliamo qui perché nell'intento e nell'ispirazione si riallaccia alle precedenti. Si tratta ancora della pace dell'anima; "de tranquillitate", diceva Seneca. Ma qui la lotta per conquistare questa pace è più intima e in certo senso più "umana", perché si combatte dalla nostra ragione contro le passioni stesse dell'anima: il timore del dolore, la bramosia della gioia. Anche di questo scritto - di cui è ragionevole assegnare almeno la prima stesura al 1354 - derivò al P. l'idea da un esempio classico, il libro di Seneca De remediis fortuitorum. L'epistola di dedica al suo Azzo da Correggio è delle più belle che il P. abbia scritte. Il pensiero iniziale, su cui s'indugerà così dolorosamente il pessimismo leopardiano, è che la Natura è stata più benigna verso i bruti che non verso gli umani, perché delle miserie comuni a loro e a noi, solo noi siamo consci per mezzo dell'intelligenza: sublime dono ma periglioso. Questo pensiero di sapore pagano è corretto cristianamente dalla considerazione che Iddio ci ha pur dato una volontà, che può volgere al bene codeste pericolose doti; e a indirizzarla giovano le scritture degli antichi maestri di morale, che è l'unica filosofia che valga, "non quella che si leva in alto con ali fallaci" e che s'aggira in vane questioni con dispute infeconde. È questo un concetto che col progredire degli anni viene sempre più signoreggiando il pensiero del P.; "satius est bonum velle quam verum nosse", dirà nel De sui ipsius et multorum ignorantia. Le astrattezze dialettiche lo avevano saziato; l'uomo nuovo che è in lui, anela alla concretezza dell'esperienza umana.
Il De remediis ebbe subito larga diffusione, forse per quanto di medievale ritiene nel suo schematismo, nella sua tristezza, nell'ingegnosa sottigliezza dei "remedia"; ma vi si doveva pur sentire qualche cosa di più moderno, se sopravvisse ai tempi, se fu tradotto in più lingue, compendiato e ornato d'allegoriche "storie" quando fu primamente stampato; vi si doveva sentire che quella ricca esperienza trascendeva il momento spirituale segnato dal P., per valere nella lotta sempre rinnovantesi intorno alla faticosa resistenza dell'animo nostro.
Bucolicum carmen. - Quando precisamente il P. abbia composta ciascuna delle dodici egloghe, alle quali impose questo titolo complessivo, è tuttavia oggetto di discussione: si può dire solo che l'idea gliene sorse a Valchiusa nell'estate del 1346 e che nel 1357 ne compiva la trascrizione press'a poco definitiva. Così come l'abbiamo, vi s'incontra per prima l'egloga Parthenias, che drammatizza il conflitto fra i due ideali di vita - dell'ozio religioso e dell'ozio umanistico - che forma il nucleo dei due trattati, in gran parte coevi, dei quali abbiamo dianzi discorso. La seconda (Argus) è un compianto di re Roberto, in cui i tragici eventi seguiti in Napoli alla sua scomparsa (1343) infondono una commozione non rettorica. La III (Amor pastorius) ci riconduce all'intimità della sua vita di poeta. Stupeo insegue Dafni, che lo respinge sdegnosa; ma quand'egli le mostra il ramo d'alloro, che le Muse gli hanno concesso cingendolo nel cerchio della loro danza, ella gli si fa benigna e gli mostra una vetta imperiosa - il Campidoglio - ove di quell'alloro lo incoronerà. In Daedalus (IV), a un Gallus, che vorrebbe la cetra su cui Tirrenus canta così dolcemente, il toscano pastore risponde che sarebbe invano, anche se gliela cedesse; è un dono divino, che vale solo per lui. Al 1347 deve risalire la Pietas pastoralis (V) almeno come la leggiamo ora. Essa si congiunge infatti alle molte scritture che la rivoluzione di Cola gl'ispirò; mentre dalla riaccesa avversione verso la curia avignonese sorse l'invenzione "aristofanesca" (come con qualche esagerazione fu detta) delle egloghe VI e VII: vi freme un'impazienza sempre più viva della dimora straniera, un desiderio sempre più acceso della patria italiana. "Agnosco validum patriae revocantis amorem": questo verso commosso è dell'egloga seguente, Divortium, che drammatizza appunto l'abbandono (autunno del 1347) del servizio presso il card. Colonna. Poesia appassionata, che ci rivela l'amara realtà che il P. cercò altrove di dissimulare: il cardinale irritabile ed esigente; egli ormai conscio del proprio valore e dei suoi diritti. Alla peste sono dedicate le tre egloghe del dolore (IX, X, XI), che non sono delle più belle: la prima (Querulus) descrive il diffondersi e l'infierire del flagello; l'altra, Laurea occidens, parla del suo dolore per la morte di Laura; la terza (Galathea) può accostarsi alle Devozioni del venerdì santo. La XII (Conflictatio) fu ispirata dalla guerra tra il re di Francia (Pan) e il re d'Inghilterra (Articus), ma appartiene a due momenti diversi: l'uno, che può riferirsi al 1346, riflette i sentimenti antifrancesi del P. di allora, nelle accuse che Artico muove a Faustula di concedere occultamente i suoi favori a Pan, cioè nelle accuse che gl'Inglesi facevano alla curia avignonese, d'aiutare di nascosto il re di Francia; la seconda parte allude alla prigionia del re di Francia, avvenuta nel 1356, ed è piena di gentile compassione per la sua sorte: il P. viveva allora presso i Visconti, tutti volti in favore della causa francese, ed egli ne secondava il sentimento. Tale nei suoi disformi aspetti questa silloge bucolica, la prima d'intenti psicologici e storici dopo quelle antiche, e prima fra le molte e mediocri che ne discesero. Che siano state ispirate dalle selve valchiusane non si direbbe, ma sentiamo bene che vi si accolgono tutti i sentimenti più cari al poeta: gloria, amore, poesia, dolore e patria.
Epistolae. - Tale è probabilmente il titolo che il P. assegnò alle epistole metriche, seguendo in questo e nel metro l'esempio, se non proprio il modello, di Orazio. Cominciò ad adunarle in "opus epistolare", nel 1350; in quell'estate infatti ne componeva la dedica a Marco Barbato, l'entusiasta ammiratore dei suoi versi latini, l'ospitale compagno delle gite napoletane; ma la raccolta non gli fu poi inviata che nel 1363. Sono ordinate press'a poco cronologicamente e distribuite in tre libri, che corrispondono all'incirca al ventennio della più feconda ed esperta maturità del P. e contengono il meglio della sua poesia latina. La dedica svolge pensieri così affini al sonetto che proemia alle Rime, che qualcuno pensò che fosse scritta per queste. Dell'amore e della vanità (gloria) l'hanno guarito una tomba e il silenzio dell'invidia. In verità, dell'amore cantano solo le prime: nelle altre dominano altri interessi, politici, letterarî, moralistici, psicologici, frequenti nelle sue prose e qui elevati in una moderata liricità: moderata, come si conviene allo stile del sermone. Tra la prima e l'ultima, entrambe del '50, vennero via via collocate dal P. più di sessanta epistole, la più giovanile delle quali è del 1333 nessuna va oltre il '55. Ma l'ultima dovette sempre essere destinata a essere l'ultima: "Iam mundus et omne Quod placuit iuveni, domita vix carne, valete". Saluto che concluderà anche le raccolte delle epistole in prosa.
Oltre queste Epistolae (e le egloghe) si hanno del P. in latino alcuni componimenti poetici, come epigrafi (per una torre in Parma), epitafî, scherzi (Rossetti, App. al vol. III), ai quali s'aggiungano alcuni "improvvisi" pubblicati da C. Burdach (Aus P.'s ältestem deutschen Schülerkreise, Berlino 1929, che è il vol. IV della serie Vom Mittelalter zur Reformation). F. Novati pubblicò (Nozze Salvy-De Nolhac, Versailles 1910) un'Elegia in morte di Laura. Il P. ricorda una giovanile (1336?) commedia intitolata Philologia, che, forse perché nelle forme della commedia medievale (cfr. R. Sabbadini, in Bollettino di filol. classica, XXII, 1915, p. 53), distrusse, quando conobbe (1342) i comici latini, Terenzio e poi Plauto.
Lettere in prosa. - a) Familiari. - Quasi seicento lettere raccolte, più di mille tralasciate; quello del P. è nell'insieme uno dei più imponenti epistolarî che gli antichi ci abbiano tramandato; e anche dei più vivi, di una vita che trascende la persona dello scrittore e anima quanti s'imbattono nella sfera del suo raggiare. Vi è una serie di studî singoli sugli "amici del P." i quali tutti, movendo dall'interesse che destano i nomi a lui congiunti, finiscono per rit0rnare a lui e concludere che l'unica luce che vi si scorge è quella che di lui riflettono. Non peccava troppo di vanità il P. pensando che il dono d'una sua lettera equivaleva a un grano d'immortalità spirituale e intellettuale ch'egli largiva ai suoi contemporanei.
L'idea di raccogliere e ordinare i "fragmenta" della sua sparsa produzione intima, gli sorse dopo il terribile anno 1348 ed ebbe un principio d'attuazione alle idi di gennaio dell'anno 1350 - inizio di nuova vita - da cui è datata la dedica a Socrate. Le frequenti morti l'avevano ammonito che anche a lui poteva accadere di fare il gran viaggio, onde era bene provvedere a raccogliere le cose proprie, come fa chi parte. Da un gran cumulo di vecchie cartacce trasse fuori alcune fra le mille e le distinse in tre gruppi: le scritture "frenis homericis astricta", che sono le Epistolae; altre verseggiate "rythmico carmine" che sono le Rime; e altre in prosa, che allora recavano la denominazione di Epistolarum mearum ad diversos liber, e poi furono dette da lui Familiarium rerum libri.
Il lento assestamento di questa ingente silloge ha tutta una storia: da otto si ampliò a dodici, a venti (1360), a ventiquattro libri (1366), sempre restando ultimo il libro delle lettere "antiquis illustrioribus inscriptae", perché anche questi erano ormai per lui amici, venerandi ma "umani". È infatti questa un'altra novità del P. studioso: di cercare l'umanità concreta sotto la stilizzazione rettorica delle antiche immagini dei personaggi, che i libri gli tramandavano.
L'opera d'ordinamento delle lettere fu resa lunga e faticosa dal fatto che il P., raccogliendole, anche le ritoccò; ora lievemente per migliorarle nella forma, ora più gravemente, sopprimendo certi particolari che le tenevano troppo legate all'occasione, mentre egli le concepiva come perenni modelli d'epistolografia. E in conseguenza di questo intento letterario, anche più profonde mutazioni ebbe a introdurre nel testo originario delle lettere: talora le divide in più d'una o al contrario di due o più ne fa una sola, talaltra ne introduce che non aveva scritte, per trarne contrasti di colori, sorpresa di eventi.
Si potrà pensare che le lettere, dettate in verità da fini pratici, non si prestano a mutarsi in "poesia": o almeno si potrà giudicare che a mutarle non sia riuscito il P. Anche si potrà sentire alieno dai nostri gusti, che cercano negli epistolarî la concretezza d'una realtà vivente, questo suo astrarsene. Ma come accade nel considerare i grandi monumenti, che non già i particolari hanno importanza, ma il loro armonizzarsi nelle grandi linee, così riconosciamo nell'epistolario petrarchesco codesta monumentalità di contorni. Un quarantennio di vita spirituale italiana vi aduna tutti i suoi vanti, i suoi dolori, i suoi errori, la sua saggezza, impersonandosi in lui. L'epistola Posteritati, che doveva forse chiudere la serie delle lettere e dare un simulacrum del loro autore, è per questo aspetto delle più significanti, benché limitata al 1350 o poco più. Ne è derivata alla sua biografia quella immagine "magnifica" ch'egli volle lasciare di sé; possono i critici, coi loro duri scalpelli, frantumarla per vederci dentro, ma dopo i colpi il simulacro miracolosamente si ricompone e ciò per opera della sua "poesia", che sola può dare questa sorta d'immortalità alle creazioni umane.
b) Senili. - Nel 1361 Socrate morì, e accogliere nella silloge a lui intitolata lettere che palesemente fossero più tarde, non conveniva: d'altra parte il P. toccava la soglia della vecchiezza; sicché pensò d'iniziare un'altra raccolta, che denominò delle Senili e della quale può ripetersi quanto si è detto delle Familiari, salvo ad attenuare le riserve sulla sincerità documentaria di esse. Forse è impressione fallace: ma pare non solo che lo stile oramai affinato dell'espertissimo scrittore imprima linee più agili e incisive alla prosa, ma che anche sia meno alterata la primiera spontaneità e occasionalità del dettato. Le Senili si chiudono con l'anno stesso della morte del P., che ci si presenta in pieno fervore di studî e di pensieri, quale apparve a un giovane studioso che allora andò a presentargli una sudata opera, e ricordava di poi - quando li seppe spenti - i neri occhi brillanti che l'avevano come a dire illuminato.
c) Libellus sine nomine. - Un'altra piccola raccolta di lettere ordinò il P. tra il 1359 e il '61, separandone diciannove dal corpo principale delle sue lettere, perché di più acerbo tono politico, "ne, ut erant sparsae, totum epistolarum corpus aspergerent ac veri hostibus odiosum facerent". Per non compromettere e i destinatarî e sé stesso, cancellò i nomi, donde il titolo della raccolta. Per questo velo di mistero il P. stesso nella prefazione rileva una certa affinità del Libellus sine nomine con il Bucolicum carmen, il che non significa che siano parti d'una stessa opera "antiavignonese", come fu immaginato. Questo stesso mistero ha eccitato l'industria dei critici a penetrarlo: di qui molte discussioni sul nome dei destinatarî e sui riferimenti occasionali; ma vi è tale unità ideale fra esse che crediamo più probabili quelle datazioni che le restringono nei più brevi termini. Perciò la I è da riferirsi alla morte di Clemente VI anziché di Benedetto, e la VI alla riforma dello stato di Roma discussa nel 1351, anzichè ai colloquî avignonesi con Cola, del 1343. Ma ad ogni modo quell'unità ideale non va distrutta, perché s'aggirano tutte nell'ambito di sentimenti anticuriali, per il che ebbero fortuna al tempo della Riforma luterana, apparendo allora il P. come un precursore della critica antiromana dei protestanti. In realtà, quel desiderio di rinnovamento morale della Chiesa aveva agitato i cuori dei più fervidi credenti già da più d'un secolo, così laici come ecclesiastici, tant'è vero che le più di esse lettere sono dedicate appunto a pii sacerdoti.
Distinto ma non separato da codesto desiderio è il sentimento di romanità, perché Roma, come fonte della potestà pontificia, era strettamente congiunta alla restaurazione della santità della Chiesa; e gli si univa nel P. un umanistico disdegno latino contro la barbaries gallica. Barbara non era di certo la Francia del sec. XIV, né lo era stata nei secoli precedenti; ma era questo l'atteggiamento che assunse in lui l'orgoglio nazionale e il nuovo ideale di cultura. L'unità ideale si riflette altresì in una corrispondente unità formale: vi è in tutte le Sine nomine un tono davidico o profetico o apocalittico, che è evidentemente di maniera: l'effetto ne è però scemato dall'insistenza; la forza dellinvettiva dall'indeterminatezza delle accuse.
d) Variae. - Gli ammiratori del P. serbavano con cura o ricopiavano le lettere che da lui giungevano a loro o agli amici. Se ne vennero a formare più gruppi di Variae che rappresentano le missive nel loro testo originale, innanzi cioè che il P. le ritoccasse; ovvero ne conservano altre, che il P. non accolse nelle sillogi canoniche.
Le polemiche. - L'attitudine polemica del P. si rivela non di rado anche nelle opere storiche e morali, più spesso nelle lettere, così in prosa come in versi. Quando si tratta di difendere o d'esaltare la patria, la poesia, il suo pensiero morale e politico, la sua fama stessa, sempre ricorre alla copia della sua erudizione e all'aggressività ormai raffinata del suo stile. Ma vi sono scritti che hanno più caratteristico e preciso intento polemico e che si possono comprendere con la generica denominazione di Invectivae, forma rettorica che il P. ereditò dalla tradizione medievale e trasmise all'umanistica.
a) La prima di queste e la più diffusa reca per titolo Invectivarum contra medicum quendam libri IV (1355). L'occasione ne fu questa, che nel marzo del 1352, sapendo il papa ammalato e attorniato da un nugolo di medici, il P. gli mandò a dire che s'accontentasse d'uno solo, purché "non eloquentia, sed scientia et fide conspicuum". Clemente VI, che era un arguto spirito, vide in ciò un'occasione per far sorgere un'elegante disputa: e volle che quelle cose scrivesse; e poi forse eccitò uno dei medici a rispondere, come di certo un cardinale spinse ancora il P. a replicare. La curia vi si divertiva. Di tutto ciò a noi non resta che lo scritto del P., ma non è difficile ricostruire l'assalto del medico avignonese, il quale sembra non trovasse di meglio che di esaltare la nobiltà della scienza contro la vanità della "poesia", come si diceva allora: disputa antica. Per intendere il valore teoretico della polemica, occorre ricordare che la scienza si basava allora su procedimenti deduttivi, trascurando di solito di comprovare le conclusioni con la realtà delle osservazioni. Di qui l'accusa di "ciarlieri" che il P. rivolse contro i medici, pur senza giungere, naturalmente, all'affermazione che la scienza deve essere fondata sull'esperimento. L'eloquentia certo non rende gli uomini sani o ricchi, ma tende a soddisfarne (diremmo noi) le esigenze estetiche. Allora questa parola non esisteva: ma quando il P. parla del disinteresse dell'attività poetica, dei veri che essa cela o rivela, dei pensieri che idoleggia, del calore che accende nei cuori, sente oscuramente quello che oggi ci hanno appreso i filosofi dell'arte.
b) De sui ipsius et multorum ignorantia. - Era a Venezia (1366) e accoglieva ospitalmente nella sua operosa biblioteca i molti che a lui venivano; tra gli altri quattro giovani, che si dilettavano, benché i più sine literis, di studî filosofici. Erano degli averroisti. Discutendo con loro nell'intimità domestica, il povero P. si era lasciato scappare di bocca quello che pensava degli aristotelici e di Aristotele. I quattro si adunarono in solenne tribunale - che fu una cena - e sentenziarono che il P. era un buon uomo, ma senza istruzione. Il P. rispose (1367) con una vigorosa apologia "sulla propria e sull'ignoranza di molti": cioè sopra ciò che costituisce la vera conoscenza. "Non è un libro", dice egli, "a ciò gli manca l'organicità (ordo), la mole, la gravità che ai libri conviene". È piuttosto un "colloquium", una chiacchierata, anzi un'agile schermaglia, arguta e talvolta commossa; ed è forse soverchio attribuire alla scrittura occasionale il valore d'una documentazione del pensiero filosofico del P.
Per gli aristotelici, per gli averroisti, per gli scolastici, che il P. unifica nell'adorazione alle "cinque sillabe" del nome d'Aristotele, la sua conoscenza degli antichi poeti e saggi non val nulla. Per lui invece non valgono nulla le interminabili dispute, le sottili definizioni, le sterili nozioni naturalistiche. Ciò che gl'importa è qualche cosa di più intimo: è quel che parla all'animo, che l'accende agli alti fini della vita. All'intellettualismo frigido, dunque, il P. oppone la forza del sentimento: il poeta contrasta con la filosofia razionalizzante: "l'umano" che è, sì, ragione, ma anche passione e fantasia, meglio si celebra nell'eloquentia", nella poesia. Tutto il resto, cioè la revisione del valore di Aristotele, e la non celata accusa di empietà mossa alle dottrine averroistiche, se pur risponde a reali posizioni dello spirito contemporaneo, non costituisce il centro dello scritto. Anche qui, come contro i medici, si tratta della "difesa della poesia" o meglio del tipo di cultura, ch'egli andava propugnando, e di essere un poeta ben si ricorda nella patetica chiusa.
c) Invectiva contra quendam Gallum innominatum sed in dignitate positum. - Affine alla precedente per il tema, che è la difesa della propria reputazione letteraria, può giudicarsi questa Invectiva, che è posteriore al 1372. In quest'anno infatti il P. aveva sollecitato dal papa Gregorio XI un benefizio, e se n'era fatto intercessore il suo Filippo di Cabassole, dal 1368 cardinale; ma un altro porporato ne aveva distrutta la raccomandazione rappresentando al pontefice il P. come plagiario, ignorante, cortigiano di tiranni. L'apologia resta in questo campo di accuse tutte personali e come è più breve così è più irosa e di minore interesse storico: ma è un nuovo saggio della virtù polemica del P. e soprattutto della sua forza rappresentativa.
d) Apologia contra cuiusdam Galli anonimi calumnias. - La questione della traslazione della sede papale in Roma divise a lungo gli animi dei Francesi e degl'Italiani, specialmente nel seno della curia; ma con l'assunzione al pontificato di Urbano V (1362), che da abate ne aveva affermata la convenienza, la lotta si accese più viva: e il P. che già dai tempi immaturi di Benedetto XII e di Clemente VI si era fatto interprete dei voti di Roma e d'Italia, rincalzò ben presto (1366) le sue esortazioni, rallegrandosi poi (1368) dell'avvenuto trasferimento. Quando a Roma la contesa si acuì, Coluccio Salutati scrisse al P. che intervenisse ancora con la sua venerata eloquenza, e forse un'epistola, la Var. 3, risponde a tale invito. D'altra parte un monaco cisterciense, Giovanni di Hesdin, portavoce della pars gallicana, rifacendosi dalle accuse petrarchesche contro Avignone e la Francia, mosse, benché riguardoso, al contrassalto. Appoggiandosi ai giudizî dei satirici latini e all'ostilità antiromana di S. Agostino, riesce facile al frate d'invertire i valori della storia di Roma e dei suoi eroi. Il P. ne ebbe notizia assai tardi (forse nel '73) quando il papa non solo era ritornato in Avignone, ma era morto; la disputa pertanto diventava, almeno per allora, senza efficacia pratica; si mutava in un "famae certamen" fra le due nazioni; e convien dire che, prescindendo da quella, la tesi perdeva di valore, perché né era vera la "barbaries" francese, né era falsa l'anarchia romana di quegli anni. Ma non importa: quanto più debole la tesi, tanto più brillante ne è la difesa. Come opera d'arte polemica, l'Apologia è uno dei più vivi seritti del P. L'erudizione storica e letteraria, l'esperienza più vasta di nazioni e di uomini, sono ad ora ad ora avvivate da una sfavillante ironia maliziosa o palpitanti d'una grande commozione, come là dove parla di Roma.
L'opera del maestro. - Quanto grande era stata la fama del P. in vita, tanto la sua morte percosse di dolore il mondo dei letterati: il Boccaccio raccolse le forze, che gli venivano mancando, per farne un compianto, il quale si congiunge idealmente a quella sua Vita, che è una delle prime biografie del P. Quel Giovanni Malpaghini da Ravenna (v.), che gli aveva copiati tanti scritti latini e le Rime in gran parte, e poi gli era fuggito di casa, ritornò col cuore al vecchio maestro per fargli estremo omaggio; ed è l'unico scritto che di lui resti. Altri discepoli ideali, come Coluccio Salutati e Giovanni di Conversino ne scrivono gli Elogia, e il papa, nell'abominata curia avignonese, ordina che ne siano copiate le dotte opere. I poeti volgari uniscono le loro lire al concento ed esaltano "il buon testor degli amorosi detti". Gli amici padovani salvano dalla dispersione le opere incompiute, donde muove l'edizione dell'Africa e dei Trionfi. Il movimento umanistico, che così forte impulso aveva avuto dall'entusiasmo e dall'ingegno del maestro, continuò con ritmo accelerato e in breve superò - com'è naturale - le posizioni raggiunte da lui, e i letterati cominciarono a guardarlo un po' dall'alto. Eppure se la prosa latina di L. Bruni e di Poggio Bracciolini s'allietò d'una viva freschezza; e se il Poliziano e il Pontano e il Sannazzaro, ancora un secolo e mezzo di poi, rinnovarono al possibile i modi e le forme dell'antica Musa, e se il ciceronianismo compì nel campo della rettorica l'opera di ricostruzione ideale dell'antica civiltà latina, che nelle ricerche erudite e storiche perseguiva la filologia, tutto ciò derivò da avviamenti, esempî, presentimenti del P.
Fuori d'Italia, ove il P. si compiaceva che l'opera propria si fosse estesa, la maturazione culturale avvenne più lentamente, e a ciò si deve se l'influsso del P., almeno come rinnovatore del latino, vi durò più a lungo. Un saggio di bibliografia del De remediis ce ne mostra l'immensa diffusione; l'indagine eseguita per l'edizione nazionale delle Familiari e dell'Africa ci viene sempre più rivelando come la voce del P. sia giunta molto lontano, e abbia destato le menti ai nuovi ideali di cultura e all'umana concezione della vita. Specialmente le Fiandre sono ricche di codici petrarcheschi; si è visto quanti rapporti anche la corte di Praga avesse stretti col P. Ma se a Parigi esistono molti e preziosi suoi codici, la ragione ne è diversa: e sta nelle vicende storiche per le quali questi vi pervennero, per via di eredità principesche o di guerre, da Milano e da Pavia, ove i Visconti molti ne avevano ridotti, pur essi quale preda bellica, dalla vinta Padova carrarese.
Dalle opere latine alle volgari. - Il P. lasciò, morendo, una duplice eredità: l'umanesimo (v.; e v. anche rinascimento) e il petrarchismo; l'umanesimo, che è insieme senso acuto e profondo della complessa spiritualità umana e culto del mondo antico, dove l'umano celebrò la pienezza dei suoi trionfi; il petrarchismo, che nel senso storico e deteriore è la malfamata imitazione del poeta volgare, ma in quanto designa l'acquisto che l'esperienza poetica del P. tramandò al Rinascimento, significa approfondimento psicologico nell'analisi dei più intimi stati d'animo e rinnovata classicità di espressione limpida, nobile e castamente appassionata (v. petrarchismo).
Per molti secoli, cioè da quando nel Quattrocento sormontò la sua fama di maestro d'amore, fu quest'ultimo l'aspetto più noto del P.: l'aspetto d'un poeta svagato e piangente per entro le selve valchiusane. Nell'Ottocento, con la rinnovata conoscenza dell'uomo storico, venutasene a sostituire un'immagine ben diversa, parve difficile conciliare la figura dell'umanista con quella del poeta in volgare, e ne sorse un senso di diffidenza sulla sincerità morale e artistica del P. Oggi siamo meglio preparati da un'indagine più varia e profonda a riconoscere la sua unità spirituale. Quella perplessità, che costituisce il pathos delle sue più intime confessioni soprattutto del Secretum, è la stessa per cui piange e canta nelle Rime. Anche nelle Rime c'è il "conflictus curarum" tra l'amore alle cose belle del mondo - natura, arte, donna - e le bellezze eterne che ci mostra il cielo. Anche nelle Rime è celebrata la vita solitaria, a empire la quale bastano i colloquî con la propria anima. L'accidia che rattrista tante sue pagine latine nel vano conato d'una certezza o d'una rinunzia definitiva; questo stato d'animo, irrequieto insieme e depresso, conferisce anche al suo canto un'ambascia che la malia dell'arte a suo modo purifica, ma non consola. Egli è il poeta del doloroso amore. Ma è anche il poeta letterato. Non vi è forse un pezzo del suo canzoniere, ove i commentatori non riconoscano una reminiscenza classica: anche qui dunque egli cercava l'espressione del proprio sentire attraverso un'esperienza culturale; il che non significa insincerità artistica, bensì potenza di piegare l'altrui espressione all'intuizione propria. E finalmente comune ai "due" P. è il culto dell'arte. Se nei carmi latini Laura presta, come s'è detto, le sue belle sembianze a rappresentare l'ideale di gloria e di poesia, ch'egli chiama "Dafne", nelle Rime Dafne presta il sempreverde delle sue fronde alla celebrazione di Laura. Non è sempre con vantaggio dell'arte: ma certo l'insistente metafora aveva nel P. un senso più serio che non d'un giuoco di parole.
Le "Rime sparse". - Questa espressione del primo verso del canzoniere traduce bene il titolo latino voluto dal P.: Rerum vulgarium fragmenta, per la raccolta che aduna quanto di poesia in volgare il P. non rifiutò. Abbiamo la fortuna di possedere di essa raccolta un codice (Vat. Lat., 3195), in parte scritto di propria mano e tutto vigilato dal poeta; sicché da questo lato non vi sono gravi dubbiezze; altre sorgono quando si cerchi di determinare i criterî di formazione.
Il codice infatti si presenta nettamente distinto in due parti, separate da alcuni fogli in bianco; e il primo pezzo della seconda parte (n. 264: Io vo pensando) è fregiato da una miniatura simile a quella che orna il sonetto proemiale Voi che ascoltate: ci si chiede il perché di tale distinzione. Nella tradizione stampata e talora anche nella manoscritta, le due sezioni sono designate con la rubrica di Rime in vita e Rime in morte di m. Laura: ma la canzone che inizia la seconda parte non è punto in morte, e Laura appare compianta solo nel son. al n. 267 (Ohimè il bel viso); sicché venne poi l'uso di trasportare qui la detta divisione. La cosa si spiega studiando più da presso la storia del testo. Se il Vat. 3195 rappresenta la forma definitiva del canzoniere dal 1366 sino agli ultimi giorni di vita del poeta, non ne è però l'unica: ci sono stadî precedenti. Sappiamo che nel 1357 si cominciava a esemplarne una copia per Azzo di Correggio; e questa "prima edizione" ci è rappresentata da un cod. Chigiano (L. V. 176) che reca solo 215 pezzi (177 + 38) dei 366 che finì per avere il Vat. 3195. Altro esemplare il P. ne inviava nel '73 a Pandolfo Malatesta, signore di Pesaro, e anche questa "seconda edizione" ci è rappresentata da altra famiglia di codici. Ma vi è modo di risalire anche più addietro del 1357 attraverso le tracce che ci forniscono venti fogli scritti di mano del poeta che si conservano in altro codice (Vat. Lat. 3196). Alcuni di essi sono vere e proprie minute, tempestate di correzioni; ma altri recano i componimenti già trascritti in foggia di raccolta. E poiché era uso del P. di segnare le date in cui attendeva a questo o a quel lavoro, i critici ne hanno tratto elementi per affermare che già nel 1342 il P. avesse incominciata la raccolta delle sue Rime, e che nel '47, tornando in Italia, la recasse già divisa in due parti, distinte da un evento psicologico - il distacco dalle cose mondane - di cui la canzone Io vo pensando sarebbe l'espressione. A queste deduzioni occorre però fare una riserva. È ben naturale che da tempo il P. facesse "conserva" delle belle Rime che gli davano tanta, sebbene disdegnata, nominanza. Ma alla soglia dell'anno santo 1350 diceva di attendere a raccogliere le cose sue (lettere, epistole, rime) preparandosi al gran viaggio; e questo ripete ai vv. 117-18, Or ch'i' mi credo al tempo del partire Esser vicino o non molto da lunge della canzone stessa; sicché a questo momento pare sia da attribuirsi il disegno ordinatore della silloge.
Da allora, sino alla fine di sua vita, non cessò dalla dolce fatica non solo del poetare, ma del riesumare dalle vecchie schedulae le giovanili poesie, bulinarle, forbirle. È istruttivo e commovente seguirne l'assidua opera nei fogli del Vat. 3196; e udirne quasi la voce attraverso le sue postille intime, quando si leva la notte e si curva sull'una o sull'altra delle vecchie carte, e ora approva la correzione: "hoc placet", ora rinvia la decisione: "vide tamen adhuc"; ora si sorprende ad assolvere un componimento già condannato; ora a ritrovarne uno antico e pur degno di cura: "et est de primis inventionibus nostris". Del resto se anche codesti abbozzi non si avessero, potremmo argomentare la tormentosa elaborazione dalla nitida squisitezza che splende, talora sopraffacendone perfino l'ispirazione, da tutti i componimenti. E prima di tutto nella loro armonizzazione. I nomi di sonetto, canzone, ballata conservavano ancora per quei poeti il loro valore musicale: le Rime erano destinate ad essere "intonate", e non per nulla il P. lasciò a un amico "il suo buon liuto". Ci pare veramente d'avvertire negli inizî dei pezzi una suggestione di melodia; ma è una temperata, recondita musicalità, a cui occorre iniziarsi lentamente: non è di certo la meccanica sonorità di secoli più tardi. Dall'eroica sinfonia della canzone Spirto gentil che quelle membra reggi, alla patetica Quando il soave mio fido conforto, alla pastorale Chiare, fresche e dolci acque, alla religiosa Vergine bella, che di sol vestita... per non dire di certi sonetti, le cui battute finali destano in noi un ritmo che si prolunga nell'animo, c'è nelle poesie del P. una musicalità dalla quale le parole acquistano una suggestività nuova. Ogni immagine è di signorile e perciò temperata eleganza: gli basta l'epiteto di "bello" a celebrare altamente la sua donna: il bel piede, la bella mano che gli stringe il cuore, il bel fianco, il bel seno, i begli occhi: belli i colli in cui essa s'aggira, e l'erbe, e l'aere in cui respira. I boschi, l'aure, l'acque, gli uccelli armonizzano le loro voci al decoro della scena, e più d'ogni altro melodioso il canto del poeta, che effonde la perenne elegia di sempre deluse e sempre rinascenti speranze, di desiderî, di pentimenti. Ma l'ardore dei sensi è frenato dal virtuoso esempio della donna; l'acerbità del dolore mitigata dalla santità della causa che glielo cagiona. Così le lagrime sue vengono educando la nobiltà del sempre verde alloro in dolcezza di vita amorosa: "Dolci ire, dolci sdegni, dolci paci".
È la storia d'ogni amore; non la storia di quell'amore. Fu un'illusione il credere di poter ricostruire dai cenni delle Rime il "romanzo di Laura e Francesco" esse sfuggono ad ogni determinazione, che non sia estremamente vaga, di luoghi, di tempi, d'eventi. Laura non ha altra esistenza che quella della donna poetata. Con ciò non si dice che sia ella fittizia e fittizio l'amore del poeta; certo egli conobbe un giorno d'aprile una giovinetta di tal nome, nata nei dintorni d'Avignone, e perché bella e gentile, la giudicò degna che accogliesse le sue rime d'amore, com'era nella tradizione poetica d'impersonare in qualche figura di donna l'eterno femminino che splende ai poeti; certo essa morì un giorno d'aprile del 1348, essendo molti a parte del gentil segreto. Ma la gracile realtà di questi amori non avrebbe retto da sola il grave peso della lode quadrilustre, se non fosse stata, per così dire, rafforzata con un sostegno allegorico; sicché come Beatrice diventa la beatificante, così Laura la laurea. E certamente, ancora, il P. ebbe una ricca esperienza amorosa, dalla quale apprese a rappresentare con inusitata sensibilità ogni più delicato moto del cuore.
A tanta evidenza e intimità il P., come ogni artista, non giunse che lentamente. Come delle Epistolae e delle lettere (salvo insignificanti eccezioni), così non ci conservò nulla delle Rime di prima del 1330, sicché quando il canzoniere comincia, la storia delle sue pene è già lunga.
Sarà questa, anzi, la caratteristica della sua amorosa epopea: il lungo amore. Perciò ne sono così spesso noverati gli anni: "Tennemi amor anni ventuno ardendo... dieci altri anni piangendo" (n. 364). I primi componimenti (men che una trentina) sentono delle convenzioni stilnovistiche e trovatoriche (nn. 19, 21, 23, 25). Cominciamo a riconoscere la voce del suo canto elegiaco col son. Solo e pensoso (n. 35) e il suo sentimento del paesaggio con la canz. Ne la stagion (n. 50). L'occasionalità, in componimenti di risposta, d'omaggi, di politica, prevale ancora sulla pura lirica, anche se questa "occasionalità" produca l'ispirata canz. Spirto gentil (n. 53), la quale, dettata probabilmente quando a senatore di Roma fu eletto un "barone" animato da buoni propositi di governo, superò di tanto l'oscuro evento, che se ne cercò un altro più degno, e si attribuì al tribunato di Cola. Nella meditata varietà della raccolta, seguono ad essa i sospiri dell'anima esitante fra opposti inviti; e quindi il gruppo di quattro canzoni contigue (nn. 70-73), tra cui le tre "sorelle" sulla lode degli occhi di Laura: audace cimento del maestro ormai padrone dell'arte sua; "allegrezza geniale" dell'artista, che effonde la pienezza delle sue possibilità; ammiratissime nei tempi che l'ingegnosità elegante era più in pregio e meno sospetta di non esser poesia. Più oltre fa riscontro a questo un altro gruppo, nel quale il P. tocca le cime più alte della sua arte. Frammezza una serie di più tenui sonetti, ove a poco a poco Laura viene inoltrandosi, figura viva, sulla scena: un saluto, un incontro; non altro, ma è tutto. Laura, che è Dafne; e a significar ciò il P. inserisce qui una solenne allegoria (Una donna più bella, n. 119), che ripete la storia della sua giovinezza inseguente la gloria dell'arte su cui raggia l'amore ma non inconscia d'una più alta idealità: sia questa la Virtù o sia la Verità.
Quel secondo gruppo è formato dalle due canzoni silvane, Se il pensier che mi strugge (n. 125), Chiare fresche e dolci acque (n. 126): la prima propone il motivo dell'apparizione di Laura: "Qui percosse il vago lume"; la seconda lo svolge in una scena trionfale, ove anche la natura, resa partecipe della commozione del poeta, reca il tributo d'ogni sua bellezza ad esaltare la bella donna. Altre due canzoni (n. 127: In quella parte, n. 129: Di pensier in pensier) proseguono l'emozione di quella visione, adunando le immagini di ogni cosa bella a significare la bellezza della donna. Fra tutte queste si interpone stranamente la canzone Italia mia (n. 128), di cui se incerto è il riferimento storico, il concetto politico è ben chiaro: un richiamo ai signori d'Italia perché intendano che la loro missione di governanti impone ben altro dovere che di rissare fra loro, e la loro nobiltà d'Italiani esige si liberino dai mercenarî stranieri. Il poeta va, sì, gridando "pace, pace, pace", ma non un'imbelle pace egli vuole: ché all'occasione l'antico valore romanico si ridesterebbe negl'italici cuori contro il furore barbarico. Nobilissima canzone, che è sopravvissuta, nell'immortalità dell'arte, alla "lieve cagion" onde fu ispirata.
Verso la fine di questa prima parte comincia ad accennarsi il "motivo" della morte di Laura. Sono spettrali visioni nelle quali la donna gli appare mesta e pietosa ad annunciargli (son. 250): "Non sperar di vedermi in terra mai". Di lì s'inizia quell'assiduo, confidente insieme e sconsolato, colloquio tra i due spiriti amanti, di cui è intessuta la seconda parte del canzoniere. Un'altra novità, questa, nella storia dei motivi poetici; un'altra meraviglia dell'arte petrarchesca. Ora ch'ella è in Paradiso, il cercarla, ch'egli ne fa, è un volgersi al cielo; e se ella "lui solo aspetta" è perché sia compiuta l'opera di salvazione a cui in terra attese mostrandoglisi severa. Non più ire e sdegni, sebben dolci: ma conforti pietosi, qual di madre e di sposa; sciolta dalla "falsa opinion" può veramente palesarsi l'amica sua, vivere la sua propria vita. Anche in questo senso ella potrebbe dire che "nell'interno lume Quando mostrai di chiuder gli occhi apersi", salvo che l'interno lume qui è lo spirito del suo poeta. Ma una devozione siffatta conserva ancor molto dell'umano: sicché è giusto che alla fine (sonnetti 364, 365) egli si penta dell'audace avvicinamento dell'umano e del divino. Eppure è questo che dà alla seconda parte non maggiore ma più commovente intensità di sentimento, cui adegua perfettamente un'arte vieppiù affinata. Escluso quasi ogni altro tema, che non sia il suo colloquio con l'estinta, nel breve giro del sonetto il poeta accoglie la breve nota delle malinconiche memorie, delle trepide e sante speranze. Sono momenti lirici squisitamente e definitivamente fermati nell'aureo cerchio del breve canto. Qui s'incontrano invero i più perfetti dei suoi sonetti; per le canzoni mancò forse o la materia o l'ispirazione, salvo quando ricanti qualche nota dei segreti loro parlari (Quando il soave mio fido conforto..., n. 359), o quando, da ultimo, si rivolga alla Donna che le lodi di tutte le donne aduna (Vergine bella, n. 366). Ma anche qui all'inno del devoto si conserta l'elegia del peccatore; l'amore per "poca mortal terra caduca" è posto per garanzia di quell'altro che promette alla "cosa gentile", e la pietosa "Donna del ciel" che vede tutto, è invocata a riparare all'inconscia crudeltà di colei che di mille suoi mali un non sapea, e l'aveva, viva e morta, tenuto in pianto. Pianto "soave, angelico e divino" che apprese all'Italia e longius Italia i modi della lirica d'amore.
Si dice che il poeta non era sincero quando mostrava di non pregiare queste sue "nugellae": ma fu sinceramente severo verso sé stesso rifiutando le rime della prima giovinezza e lasciandone fuori della raccolta alcune, che pure aveva già transcriptae nel Vat. 3195. Altre, che gli strappò dalla penna la necessità di rispondere "per le rime" ad ammiratori e padroni, ovvero la cortesia d'arricchirne il repertorio di canterini postulanti, lasciò pure disperdersi per il mondo; ed è un caso che siano state fermate qua e là nelle antologie poetiche. Alcune infine furono escluse perché alludevano a corteggiamenti che turbavano l'unicità del suo "lungo amore" o perché (come la canzone Quel ch'ha nostra natura) anticipavano motivi svolti di poi con maggiore maestria. Queste cosiddette (e mal dette) estravaganti attendono ancora chi le studii con esperienza filologica nella loro legittimità e nell'esattezza testuale.
I Trionfi. - Cominciati probabilmente nell'ultima dimora di Valchiusa, nel 1352, non furono mai condotti a compimento, "ma invogliati in più ruotoli furono ritrovati tra le scritture" del P. dopo che fu morto. Vi sono brani intralasciati, sostituiti, ripresi, dei quali non sappiamo quale fosse il destino nella mente del poeta: onde ogni ordinamento è arbitrario. Sappiamo di certo soltanto che i Trionfi dovevano essere, come sono, sei: d'Amore (Cupidinis), della Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo e dell'Eternità. E forse è vero che l'opera fu dapprima ideata come un seguito del canzoniere; infatti fu scritto prima il capitolo La notte che seguì l'orribil caso, ove la donna estinta appare in visione al fedele amico e gli svela che "mai diviso Da te non fu il mio cor", conclusione del segreto che per tutte le Rime aveva tormentato il poeta. Doveva precedere questo canto la narrazione dell'"orribil caso", cioè della morte di Laura, che oggi leggiamo nell'unico capitolo del Trionfo della morte; e in verità son questi due le gemme del poemetto, ove trionfa" veramente l'amore. Poi gli sorse l'idea di rappresentare nella figurazione allegorica di esempî processionali familiari al Medioevo, il suo innamoramento, la virtù di Laura, la morte di lei, la fama che per il suo canto le sopravviveva; aggiungendovi le considerazioni, che l'età ormai grave gli suggeriva, sulla fine d'ogni cosa in seno all'eternità.
Ma la fragile costruzione era minata da questa incoerenza, che, ideata come rappresentazione di eventi storici, veniva continuata come simbolo di concetti. Di qui la discussione se i Trionfi siano la storia sentimentale del poeta o del genere umano; è da ritenere che dapprima ci fu quella e poi questa, e che le due concezioni si contaminarono nella fantasia dell'artista.
Nell'amoroso aprile in "chiuso loco", cioè in Valchiusa (concreto riferimento all'esperienza amorosa del P.), al poeta appare in sogno Amore che, come un imperator romano, guida uno splendido trionfo sopra coloro "ch'anzi tempo ha di vita Amor diviso". Una guida - sbiadito Virgilio che presto sparisce, inafferrabile dai critici - gli addita quell'anime vinte. Ed ecco che una giovinetta "pura assai più che candida colomba" prende anche il poeta e lo lega. Parrebbe dunque una ministra d'Amore; ma se è Laura (e chi altri potrebb'essere?), ell'è pur quella che poco dopo assale e vince lo stesso Amore. Mentr'essa torna lieta della vittoria, ecco assalirla la Morte; e qui il poeta, lasciando l'astrattezza allegorica, ritorna all'idealizzazione del reale, e contempla il transito soave della donna, per il quale rinnova la soavità delle antiche immagini. In verità pare che non la Morte trionfi di lei, ma essa della Morte, come trionfava della vita presso le chiare fresche e dolci acque. Concettuale torna ad essere il quarto trionfo, della Fama, ove gli uomini gloriosi nell'azione, "gente di ferro e di valore armata" sono divisi, come nei Memorandum, in tre gruppi: degli antichi romani, degli externi e dei recentiores. Seguono gli eroi dell'intelligenza. Fin qui i valori umani - dell'amore e della gloria - hanno tanto o quanto avvivato il poema, ove grida la passione di Massinissa e di Sofonisba e splende la castità del suo Scipione. Nei due ultimi Trionfi invece campeggia solo la speculazione filosofica. Il Tempo che distrugge la Fama "ed è un morir secondo", viene assorbito e annullato dal concetto di Eternità. Il poeta si sforza di esprimere quell'ineffabile mondo "Novo in etate immobile ed eterna"; ma dove Dante s'immerge nel "miro gurge" per contemplare Iddio, il P. non vi contempla che la bellezza di anime "ne l'età più fiorita e verde" e Laura bellissima fra tutte: "Se fu beato chi la vide in terra, Or che fia dunque a rivederla in cielo?". Trionfo eterno anche della femminea bellezza. Oggi a noi i Tronfi restano estranei, pur considerandone i tratti di cui si è detto, e moltissimi versi cesellati con suprema eleganza. Ma allora, e per lungo tempo di poi, soddisfecero al gusto, che si volgeva ancora al simbolismo medievale, alla facile moralisatio e soprattutto alla rarità preziosa dell'erudizione. In quei lunghissimi elenchi di personaggi famosi s'ammirava la dotta ingegnosità ond'erano definiti e distinti amanti ed eroi nell'aureo cerchio d'un terzetto e d'un verso. E veramente qui riappare nell'impareggiabile cesellatore l'erudito infaticabile; e qui un'altra volta si ricompone la sua duplice immagine di umanista e di poeta e si disegnano nettamente i motivi della sua gloria duplice e una.
Promotore e propulsore geniale e vigoroso dello sforzo che doveva ridonare al mondo moderno l'immagine genuina della classicità; primo o dei primi a sentire la pienezza, la dignità, l'autonoma energia della spiritualità umana, e in una penosa scontentezza del vecchio, tormentato da un'ansia di novità, ma non per questo né creatore né precursore di nuove filosofie, il P. ha un'importanza capitale nella storia dello spirito e della cultura non pure italiani, ma europei, come attesta l'immensa diffusione di là dalle Alpi delle sue opere latine. Poeta mirabile dei moti più delicati, dei più profondi disagi, dei più sottili atteggiamenti dell'anima, egli grandeggia nella storia dell'arte per l'originalissima vita che nella sua fantasia vive l'antico e vivono le scoperte umane del suo spirito indagatore; ed è insieme maestro (non importa se spesso frainteso e volto a traviate ricercatezze e goffaggini) di squisite analisi psicologiche e di finissima forma alla poesia delle letterature moderne.
Storia e ragione degli studî sul P. - Il primo biografo del P. fu egli stesso, che in infiniti luoghi delle opere sue, ma specialmente delle lettere (Sen., X, 2), e più deliberatamente nell'epistola Posteritati, posteri non derogarono più. Viene subito dopo il breve scritto De vita et moribus F. P. di Giovanni Boccaccio (circa 1347), ove emerge la figura del maestro di sapere e di vita; e quindi il Sermo de pubblicatione Africae di P. P. Vergerio (circa 1396), nel quale si utilizza ad literam la Posteritati; e poiché il Sermo ebbe diffusione e autorità grandi, valse a fissare nell'età umanistica il canone biografico sulla traccia del P. stesso. Ivi trionfa infatti la figura del cultore degli "humana studia", al quale i potenti, i sapienti e gl'"idioti" vanno a gara tributando l'omaggio loro, a significare la conquista dell'intelligenza sull'età che esce dalla barbarie dei bassi tempi per ingentilirsi nel culto delle Muse. Un secondo periodo degli studî petrarcheschi comincia coi grandi commenti delle Rime e dei Trionfi; e ne è corifeo il Vellutello (1525). Siamo al principio del sec. XVI; e la restaurazione dei valori della poesia in volgare, propugnata dal Bembo, fa sì che l'interessamento dei critici si trasferisca dalle opere latine alle volgari; ed ecco il P. diventare il profondo maestro d'amore ed ecco fissarsi le prime linee del romanzo amoroso, e Laura meritare un capitolo a sé nella biografia del poeta. Se ne ricercano le tracce nella "amorosa reggia", se ne scopre il sepolcro (1533) e si apre alla presenza del cavalleresco re di Francia. Sicché, quando a metà del Seicento il padre J. F. Tomasini ritorna alla biografia documentata del P. storico, gli sembra di risuscitarlo alla conoscenza dei posteri e intitola il libro P. redivivus (1635; 1650). Ma le opere latine oramai non si ristampano più; solo le Rime accolgono le vivaci ma superficiali osservazioni di A. Tassoni, o la misurata lode del petrarchismo arcadico di L. A. Muratori. Segnano un'età nuova nella storiografia petrarchesca i Mémoires pour la vie de F. P. dell'abate De Sade (1764-67), che ricompongono e ridestano il mondo storico del poeta; di lì mossero i biografi successivi, quali in Italia il Baldelli (1797; 2ª ed. postuma, 1837), il Levati (Viaggi di F. P., Milano 1820); il Foscolo (Saggi sul P., 1823), i quali, pur con varia virtù intuitiva - massima nel Foscolo - rivelano l'immagine viva e rinnovatrice del poeta e del sapiente. Ma la ricostruzione dell'abate De Sade non era stata senza dannosi preconcetti: alla scoperta del "P. uomo" meglio giovò la grande fatica di G. Fracassetti, che pubblicando il volgarizzamento delle Familiari e delle Senili (1863-70), ne desunse in sagaci annotazioni un sicuro canovaccio per le future biografie del P. Ne sorsero infatti le complesse e rinnovate Vite del Mézières (1867), del Geiger (1874), del Körting (1878), ove però l'interesse storico prevale sull'artistico, sicché non il poeta è studiato per penetrarne l'opera, ma questa per intendere l'uomo. E poiché la critica della fine dell'Ottocento perseguì di preferenza questo intento, sui dati offerti dal Fracassetti s'appoggiarono quanti (e furono moltissimi) discussero singoli punti della ricca esistenza del P. Al tempo stesso i rinnovati studî sull'umanesimo, che fiorirono appunto nella seconda metà del sec. XIX, rivelarono la posizione eminente che vi ebbe il P. come iniziatore o almeno propulsore: si tornava in certo modo all'antica veduta del maestro di "humana studia", ma con in più il senso storico del grande avvenimento. Il dotto lavoro di P. De Nolhac, P. et l'humanisme (1892; 2ª ed. in 2 voll., 1907) e le trattazioni generali del Rinascimento fecero sorgere pertanto il problema della personalità del P., che, posto (com'egli stesso disse) al confine tra due ere, venne interpretato come il primo uomo moderno, esperto delle ansie e delle perplessità di pensiero della nostra età. A tale interpretazione s'oppone la veduta cattolica, che dà rilievo alla sopravvivenza in lui delle più vive preoccupazioni religiose.
Come accade in ogni tempo, le varie concezioni filosofiche, anche più recenti, vollero in lui riconoscersi, con interpretazioni anacronistiche di quell'anima che in fondo è ben trecentesca! D'altra parte l'identificazione dell'originale del canzoniere ha dato luogo a una larga indagine sul testo e sulla formazione dell'opera in cui massimamente rifulge la sua gloria di poeta. Ed è mirabile cosa vedere come tanta parte della critica mondiale vi si affatichi intorno; perché se i suoi rapporti col Rinascimento interessano tutta la cultura occidentale, che ne fu fortemente impressa, parrebbe che la sua poesia volgare dovesse interessare solo l'Italia. Ma così non è: non solo perché la grande arte è universale, ma perché tutta la lirica dell'età che seguì al Rinascimento armonizzò le sue corde ai modi della lirica petrarchesca.
Edizioni: La prima edizione che raccolga insieme buona parte delle opere latine del P. è quella di Basilea 1496; seguono, con qualche aggiunta, le due veneziane del 1501 e del 1503, sulla quale ultima sono esemplate con l'aggiunta delle Rime e dei Trionfi, le due edizioni di Basilea del 1554 e del 1581.
Il testo del De Viris illustribus con il volgarizzamento di Donato degli Albanzani a fronte, in Collezione di opp. inedd. e rare (Bologna 1874-79) a cura di L. Razzolini (ma già prima a Breslavia 1829-34). La 1ª ediz. del volgarizzam. a Verona 1476. Il De gestis Caesaris, 1473 e in riproduzione fototipica del cod. Paris. Lat. 5784 per cura di L. Dorez (Parigi 1906).
Per l'Africa, sostituisce l'ediz. pur commendevole di F. Corradini (Padova 1874) l'ediz. critica curata da N. Festa (Firenze 1926), con la quale ebbe principio l'ediz. nazionale delle opere del P. Ivi (Introduzione) la storia esterna del testo. La più recente traduzione, condotta su quel testo, è di A. Barolo (Torino 1933), in versi; E. Carrara ha pubblicato una traduzione in prosa di alcuni Luoghi dell'Africa (Milano 1926).
La prima stampa dei Rerum memorand. libri si assegna al 1485 (Lovanio); poi furono ristampati nelle raccolte complessive delle opere del P.; ma ne mancano edizioni moderne.
La prima stampa del Secretum fu fatta a Strasburgo circa il 1473: in Italia nel 1501 a Reggio Emilia. Traduzioni italiane di F. Orlandini, 1517 (ristamp. da A. Solerti, L'autobiografia, il Secreto e Dell'ignoranza sua e d'altrui, Firenze 1904); di G. C. Parolari (1839), e (con riassunti) di A. Levati (Viaggi di F. P.) e di L. Asioli (Milano 1924).
La 1ª ediz. del De Vita solitaria è di Strasburgo (1473 circa); in Italia è quella di Milano 1498, cui segue un'epistola dialogica (Fracassetti, App. III, in vol. III, p. 506) De bono solitudinis, che invece è di Lombardo della Seta. Il De vita si legge, tradotto da Tito Vespasiano Strozzi, nella Scelta di curiosità inedite e rare, disp. 170-71 (Bologna 1879), a cura di A. Ceruti. Una versione di L. Asioli (Milano 1927).
Il De otio religiosorum appare stampato separatamente solo nel 1604 (Berna) insieme ai due dialoghi De vera sapientia, che non sono del P., ma di Niccolò Cusano, che vi utilizzò un dialogo del De remediis. Fu volgarizzato da L. Volpicelli (Roma 1928; ma v. Giorn. storico, XCIV, p. 325 segg.).
La 1ª stampa del De remediis è forse di Heidelberg 1490: in Italia di Cremona 1492. Il De remediis ebbe straordinaria diffusione, in manoscritti e in stampe: si imprimeva ancora a Buda nel 1756. Traduzione italiana: di Remigio (Nannini) Fiorentino (Venezia 1549). Ne compilò un sunto in volgare fra Giovanni da San Miniato nel sec. XV, edito da C. Stolfi (in Scelta di curiosità, disp. 80, Bologna 1867) e da A. Solerti (Autobiografia, ecc., cit.).
La 1ª stampa del Bucolicum Carmen è di Colonia 1473; in Italia di Bologna 1497. Esso forma, con traduzione ital. di varî a fronte, il vol. I dei F. P. Poemata minora a cura di D. Rossetti (Milano 1829). Un'edizione condotta sull'autografo Vat. lat. 3358, ne fu curata da A. Avena (Padova 1906) con l'aggiunta di antichi commenti.
Delle Epistolae, dopo le sillogi antiche, non si ebbe altra ediz. che quella curata da D. Rossetti nei voll. II e III dei cit. Poemata minora con traduz. poetiche di varî, Milano (1831-34); ma il Rossetti ebbe la disgraziata idea di scompaginare la raccolta alterando l'ordine delle Epistolae di cui si desidera una degna edizione.
Lettere in prosa. - a) Le Familiari. - Sino alla pubblicazione di G. Fracassetti (Firenze 1859-63) dei 24 libri delle Familiari non erano alle stampe che i libri I-VIII nelle vecchie ediz.; e IX-XV in una di Lione (1601). Grande fu dunque la benemerenza del Fracassetti; ma il suo testo era "contaminato" di tradizioni diverse: occorreva determinare quella che il P. aveva da ultimo fermata; e questa fu opera del moderno editore. La complessa storia del formarsi della grande silloge epistolare ci è infatti narrata da Vittorio Rossi nell'Introduzione all'edizione nazionale delle Familiari (Rerum familiarium libri), di cui sono usciti i libri I-XI, con interessanti inserzioni delle redaz. primitive di alcune lettere (Firenze 1933, 1934). Sempre utile, specie per le note storiche, il volgarizzamento delle Familiari dato dal Fracassetti stesso (1863-67). b) Senili. - A differenza delle Familiari, tutti; libri delle Senili furono accolti nelle antiche stampe; forse perciò il Fracassetti non ne diede fuori che il volgarizzamento (Firenze 1869-70). Alcune di esse ebbero esistenza a sé, come piccoli trattatelli: quale la S. XIV, 1, De republica bene administranda (edita criticamente da V. Ussani, Padova 1922: e dallo stesso la S. XIV, 2, Padova 1924). Anche la S. XII, 1, a Giovanni Dondi, fu edita a Padova (1908) di su un autografo del P. esistente nella biblioteca di quel seminario. Per la diffusione della Griselda (S. XVII, 3) col titolo De fide uxoria, Köhler, Kleinere Schriften, II, 505. c) Per il Libellus sine nomine, P. Piur, P.'s "Buch ohne Namen" (Halle 1925). Ivi la bibliografia e il commento d'ogni pezzo. Per importanti rettifiche cfr. A. Foresti, Aneddoti della vita di F. P. (Brescia 1928). Volgarizzamento di O. D'Uva (Sassari 1905). d) Variarum liber, in Fracassetti, Familiari, III, p. 309 segg. Gli originali di alcune di queste lettere, esistenti alla Biblioteca Laurenziana, furono riprodotti nella Collezione fiorentina di facsimili di G. Vitelli e C. Paoli (Firenze 1884), tav. XII. Per alcune epistole volgari a lui attribuite, cfr. il Catalogue della collezione Fiske che si cita più innanzi, a p. 190 seg.; sostiene l'autenticità di quella a L. Beccamuggi A. Della Torre, in Giorn. dantesco, XVI (1908), pp. 69-88, e certo con ragione; con minor ragione vuol autenticare la lettera a Cino da Pistoia contro gli studî legali, in Misc. Mazzoni, I, p. 185 segg.; ma vedi Giorn. storico. XCVI, p. 193 segg. (F. Lo Parco). In volgare gli sono stati pure attribuiti quattro "casi d'amore" (Refrigerio dei miseri) per i quali Propugnatore, I, p. 463 segg., nonché una Cronica delle vite dei pontefici et imperadori romani (Firenze 1478).
Il De sui ipsius et multorum ignorantia fu edito, di sull'autografo Vat. Lat. 3359, da L. M. Cappelli (Parigi 1906); cfr. il volgarizzamento dello stesso in Solerti, L'autobiografia cit. L'Invectiva contra Gallum, pubblicata da M. Vattasso in Codici petrarch., che si cita più innanzi, App. IV. L'Apologia, pubblicata insieme con l'Invectiva di G. Hesdin, da E. Cocchia, in Atti R. Acc. d'archeol. e lett. di Napoli, n. s., VII (1920).
Le "Rime sparse". - La 1ª stampa è di Venezia 1470, a cura di Vendelin da Spira. Il codice originale Vat. Lat. 3195 fu riprodotto diplomaticamente da E. Modigliani (Roma 1904, a cura della Società Filologica Romana) e in fototipia dalla Biblioteca stessa (Milano 1905). Giunsero insieme all'identificazione del codice P. De Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini (1887) e A. Pakscher, Die Chronologie der Gedichte P.'s (Berlino 1887). Ediz. critica G. Mestica (Firenze 1896). Per i superstiti fogli di abbozzi del Vat. 3196 (20 degli 80 che ancora si conservavano nel Cinquecento) C. Appel, Zur Entwickelung italienischer Dichtungen P.'s (Halle 1891): sono riprodotti in eliotipia dalla stessa Biblioteca Vaticana (Roma 1895). Si aggiungano i fogli rintracciati in copia da I. Giorgi ed E. Sicardi (1905), in un cod. Casanatense: cfr. Rass. bibliografica della lett. ital., XIII, p. 305 segg.; Giorn. dantesco, XVI (1908), p. 49 segg. Per le rime "extravaganti", M. Vattasso, I codd. petrarcheschi cit., ove se ne dà un copioso elenco, p. 180 segg.; cfr. Solerti, Rime disperse di F. P. (Firenze 1909); S. Debenedetti, in Giorn. storico d. lett. ital., LVI (1910), p. 98; E. Chiorboli, in append. alle Rime sparse (Bari 1930).
Dei Trionfi (ma il P. scrisse sempre Triunfi) la 1ª stampa è di Roma 1471. Ediz. critica: G. Mestica, di seguito all'ediz. delle Rime cit. C. Appel (Halle 1901) ne diede l'apparato critico, con ampio commento e nuova disposizione dei "capitoli" (canti). Dell'ultimo (De aeternitate) si ha l'autografo nel cod. Vat. Lat. 3196.
Bibl.: La più ricca fonte bibliografica (sino al 1916), è il Catalogue of the P. Collection bequeathed by W. Fiske to Cornell University Library, compilato da M. Fowler, Oxford 1916, che indichiamo con l'abbreviazione Catalogue Fiske. Rassegne bibliografiche di studî posteriori: E. Cochin, in Études italiennes, 1926; D. Bulferetti, in Leonardo, IV (1928); C. Calcaterra, in Giorn. storico d. lett. ital., XCI (1928); XCIV (1929); XCVI (1930); N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1934. - Bibliografie di codici petrarcheschi: I codici petrarcheschi delle bibliot. governative del Regno, Roma 1874; E. Narducci, Catal. dei codd. petrarcheschi delle biblioteche Barberiniana, Chigiana, Corsiniana, Vallicelliana e Vaticana, ivi 1874; M. Vattasso, I codd. petrarcheschi d. Bibliot. Vaticana, ivi 1908; C. Foligno, E. Motta, F. Novati, A. Sepulcri, Spoglio dei codd. mss. petrarcheschi esistenti nelle biblioteche (di Milano), nel vol. Petrarca e la Lombardia, Milano 1904.
Le biografie antiche (fino al Tomasini), ristampate in A. Solerti, Le vite di Dante, P. e Boccaccio, Milano 1904; il De Vita et moribus del Boccaccio, in A. F. Massera, Opere latine minori del Boccaccio, Bari 1928 (Scrittori d'Italia), p. 238 segg. - Per la Posteritati, E. Carrara, L'epistola "Posteritati" e la leggenda petrarchesca, in Annali Istituto Sup. di magistero, III, Torino 1929. - Opere d'insieme recenti: E. H. R. Tatham, F. P. The first modern man of Letters, voll. 2, Londra 1926; L. Tonelli, P., Milano 1930.
Per il bisnonno ser Garzo, G. Guatteri, Il bisnonno del P., Torino 1904. - Per ser Petracco, N. Zingarelli, in Atti Convegno petrarchesco, Arezzo 1930, p. 60 segg. - Per le date dei primi anni, A. Foresti, Aneddoti petrarcheschi, Brescia 1928, spesso in dissenso con F. Lo Parco nei lavori ivi cit. - Per Convenevole da Prato, G. Giani, Prato 1913. - Per il soggiorno a Bologna, C. Segrè, in Studi petrarcheschi, Firenze 1911, p. 189 segg.; A. Della Torre, in Miscellanea Mazzoni, I, Firenze 1907, p. 183 segg.; F. Lo Parco, in Giorn. storico d. lett. ital., XCVI (1930), p. 193 segg. - Per il soggiorno a Lombez, E. Cochin, in Annuaire-Bulletin de la Société de l'hist. de France, LIX (1922), p. 96. Su Luigi Santo di Campinia, musico fiammingo, il Socrate del P., U. Berlière, Un ami de P. Louis Sanctus de Beeringen, Roma 1905; E. Cochin, in Mélanges d'archéol. et d'histoire, XXXVII, 1918.
La Nota obituaria di Laura non fu creduta autentica senza lunghe resistenze. Il cod. di Virgilio, che la contiene, è stato riprodotto in fototipia per cura della Bibl. Ambrosiana (1930). - Per gli anni avanti l'innamoramento, A. Della Torre, in Giornale dantesco, XIV (1906), p. 106 segg. - Per i viaggi, E. Penco, Il P. viaggiatore, 2ª ed., Genova 1932. - Per l'Itinerarium Syriacum (assegnato da F. Novati al 1358), G. Lumbroso, in Memorie italiane del buon tempo antico, Torino 1889. - Della "carta d'Italia" preparata per re Roberto, G. A. Ceasreo (in Studi e ricerche, Palermo 1929) sfata la leggenda, che può ridursi a quanto è detto nel testo. Per le curiosità geografiche del P., F. Lo Parco, in Romania, XXXVII (1908), p. 337 segg., e in Miscell. Torraca, Napoli 1912, p. 87 segg.
Per Azzo da Correggio, O. Masnovo, in Parma a F. P., Parma 1934, p. 181 segg. - L'orazione (Collatio) tenuta in Campidoglio si legge in A. Hortis, Scritti inediti di F. P., Trieste 1874, p. 311 segg. - Oggetto di dubbî fu l'autenticità del Privilegium laureae, della quale si professa autorevolmente sicuro P. Fedele (in Giorn. storico, LXIV, p. 393 segg.), chiamandolo "l'atto di nascita dell'umanesimo". Per il Barrili, E. G. Léonard, in Pétrarque. Mélanges de littérat. et d'histoire, in Études italiennes, IX (1928), p. 109 segg. - Per la dimora in Parma, F. Rizzi, F. P. e il decennio parmense, Torino 1934. - Per la canzone Quel ch'ha nostra natura, G. Carducci, Rime sopra argomenti storici, ecc., Livorno 1878, p. 92 segg. - Per i rapporti con Cola di Rienzo, P. Piur, Cola di Rienzo, traduzione ital., Milano 1934, ove l'autore riassume gli studî del Burdach e suoi proprî. - Per il fratello Gherardo e la sua crisi spirituale, E. Cochin, Le frère de P. et le livre du repos des religieux, Parigi 1903. - Per gli studî del greco: P. De Nolhac, P. et l'humanisme, cap. IX; F. Lo Parco, P. e Barlaam, Reggio Calabria 1905; id., Gli ultimi oscuri anni di Barlaam e la verità sullo studio del greco di F. P., Napoli 1910; G. Gentile, in Studi sul Rinascimento, Firenze 1923. Per il secondo viaggio a Napoli, F. Forcellini, in Miscell. Schipa, Napoli 1926, p. 167 segg. Per il Barbato, M. Vattasso, Del P. e di alcuni suoi amici, Roma 1904; ma cfr. L. Mascetta-Caracci, Rass. critica d. lett. ital., XII (1907), p. 9 segg. Per la tradizione culturale veronese, C. Cipolla, Attorno a Giovanni Mansionario, in Miscell. Ceriani, Milano 1909, p. 743 segg.; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci nei secoli XIV e XV, nuove ricerche, Firenze 1914, p. 88 segg. - Per i rapporti del P. con la rivoluzione di Cola v. sopra; ma per la partecipazione del P. alle correnti mistiche, P. Piur, P.'s "Buch onne Namen", Halle 1925, p. 34 segg. - Per l'incarico del papa presso Mastino della Scala, C. Cipolla, in Giorn. storico, XLVII, p. 253 segg.
Per il P. giardiniere e frutticoltore, P. De Nolhac, P. et l'humanismo, 2ª ed., Excursus II. - Ne ha ripubblicate le notazioni con migliorata lezione, M. Vattasso, I codd. petrarcheschi esistenti nella Bibliot. Vaticana, Roma 1908, App. V. - Per i giardini di Valchiusa, N. Quarta, in Atti di R. Accad. di archeol., ecc., di Napoli, XXVI (1907), p. 169 segg. - Per i rapporti con Padova, A. Zardo, P. e i Carraresi, Milano 1887. - Per il viaggio a Roma, C. Segrè, in Studi petrarcheschi, cit., p. 129 segg. - Dei Sette Salmi penitenziali, la più recente ediz. è di E. Cochin, Parigi 1929 (per le precedenti Catalogue Fiske, p. 58). Il Foresti (Aneddoti, p. 109), li assegna ai giorni della monacazione di Gherardo (Pasqua 1343). Si attribuiscono a lui anche Novem psalmi confessionales (Vattasso, I codici, cit., App. III); alcune preghiere "contra tempestates" (Hortis, Scritti inediti, 367). Vi sono di lui anche una preghiera per Maria Maddalena, e qualche altra. - Per i nuovi amici fiorentini: sul Casini, A. Foresti, Aneddoti, p. 201; V. Rossi, Scritti di crit. lett., Firenze 1930, II, p. 195; su Zanobi, P. Guidotti, in Archivio storico ital., s. 7ª, XIII (1930), p. 250 segg.; sul Nelli, E. Cochin (Un amico del P., Firenze 1901), che ivi ne pubblicò un gruppo di lettere fervide d'ammirazione e d'affetto verso il P. - Per i rapporti con Carlo IV e la politica italiana, C. Cipolla, in Atti d. R. Accad. delle scienze di Torino, s. 2ª, LIX (1908), pp. i segg., 161 segg., dove però si studiano in particolare i maneggi fiorentini e non degli stati padani, in cui P. si trovava ad agire; K. Burdach, P'.s Briefwechsel mit deutschen Zeitgenossen (vol. VII della serie Vom Mittelalter zur Reformation, p. xxx segg.). - Per l'ultima dimora in Provenza, Foresti, Aneddoti, p. 270. - Per i rapporti con i Visconti, F. Novati, in P. e la Lombardia, Milano 1904; ma è da rettificare che l'ep. metrica II, 12, fu inviata a Giovanni d'Andrea, non al Visconti (Foresti, Aneddoti, p. 162 segg.). - Per il Bussolari e per le successive dimore del P. a Pavia, V. Rossi, Scritti di crit. lett. cit., II, p. 4 segg. - Per la sua partecipazione a trattative nella guerra veneto-genovese, A. Hortis, Scritti cit., p. 85 segg.; C. Steiner, in Giorn. dantesco, XIV (1906), p. 8 segg., e in generale per il suo sentimento patrio, B. Zumbini, in Studi sul P., Firenze 1895; I. Del Lungo, in Patria italiana, Bologna 1909, p. 195 segg.; N. Zingarelli, in Nuova Antologia, 16 giugno 1928. - Per i sentimenti verso Dante, G. Melodia, Difesa di F. P., Firenze 1902; N. Scarano, in Giorn. storico, XXIX (1897), p. 1 segg., e XXXI (1898), p. 100 segg. Più profonda l'interpretazione di V. Rossi, in Scritti cit., I, p. 307, che si trattasse di una "vera incompatibilità estetica" onde si generò il "sussiego" dei giudizî del P. verso il divino poeta. - Per altri approcci con gli Angioini e con i Colonna di Roma, M. Vattasso, Del P. e di alcuni amici, cit. Per l'ambasceria in Francia, A. Hortis, Scritti cit., p. 187 segg. - Sulla dimora del P. a Venezia la miscellanea P. e Venezia (1874); L. Lazzarini, Paolo de Bernardo e i primordi dell'umanesimo a Venezia, Ginevra 1930; per pubblici uffici ivi sostenuti, A. Gloria, in Atti R. Ist. veneto, s. 5ª, VI (1879-80), pp. 17-52. - Per il legato dei libri a S. Marco, P. De Nolhac, P. et l'hum., 2ª ed., I, p. 93; per le traduz. omeriche, J. Bruce-Ross, On the early history of Leontius' translation of Homer, in Classical Philology, XXII (1927), p. 341 segg. - Per la casa d'Arquà, G. Callegari, in Atti e mem. della R. Accad. di Padova, n. s., XLI (1924-25), p. 211 segg. Per l'ultima ambasceria a Venezia (in senso affermativo), V. Lazzarini, in Miscell. Mazzoni, I, p. 173 segg., ove si dà pure il testo, o almeno il sunto dell'arengua. - Per le vicende non liete della tomba d'Arquà, G. L. Cerchiari, in Padova a F. P., 1904.
Il fascino che il P. esercitò così forte su quanti l'avvicinarono, dovette derivare anche da doti fisiche di avvenenza: L. Chiovenda, in Bibliofilia, XXXIV (1932), p. 1 segg. - Per l'iconografia del P., Catalogue Fiske, App. I; i più autorevoli ritratti (perduti i due che gli fece fare Pandolfo Malatesta), sono quello della Sala dei Giganti nell'antica reggia Carrarese a Padova, già attribuito al Guariento, ma forse dipinto da Altichiero, e quello che adorna il cod. Paris. Lat. 6069 F del De viris illustribus, trascritto a Padova da Lombardo della Seta nel 1379 (in fronte all'Africa, nell'ediz. nazionale).
Per i rapporti del P. con la musica, C. Culcazi, Il P. e la musica, Firenze 1917; con le arti figurative (restano di lui alcuni disegni valchiusani), Principe d'Essling-E. Müntz, Pétrarque, Parigi 1902.
Sul De viris illustribus: per la varietà delle redazioni P. De Nolhac, in Notices et extraits des manuscrits ecc., XXXIV (1890), i, p. 61 segg.; per le fonti, G. Kirner, Sulle opere storiche del P., in Annali d. Scuola normale sup. di Pisa, XIII (1889). - Sulla tradiz. medievale di siffatte compilazioni, R. Sabbadini, Giovanni Colonna biografo e bibliografo del sec. XIV, in Atti d. R. Accademia d. scienze di Torino, XLVI (1911), p. 830 segg. - Occorre distinguere l'Epithoma dal Compendium, che è una serie di brevissimi medaglioni destinati alle immagini dei personaggi antichi onde Francesco da Carrara faceva istoriare una sua sala. Alcune delle Vite nell'una e nell'altra silloge sono di Lombardo della Seta. Da ricordare che il primo a chiarire l'ingarbugliata storia del De viris fu D. Rossetti, P., Giulio Celso e il Boccaccio, Trieste 1928.
Per l'Africa, sono da ricordare gli studî di B. Zumbini (1895), di A. Carlini (1902), di G. Piazza (1906), che la definì "il poema dell'umanesimo". Invece N. Festa, in Annali d. cattedra petrarchesca d'Arezzo, II, 1931, la proclama "poema della grandezza di Roma". - Per la contrapposizione alla Alexandreis, E. Carrara, Da Rolando a Morgante, Torino 1932, p. 127 segg. - Per il palazzo allegorico, N. Festa, in Saggi sull'Africa, Palermo 1926. Per l'incontro dei due capitani, G. Albini, in La Cultura, VIII (1925).
Sulle fonti classiche dei Rer. memorand., Cl. Bäumker nel Jahresbericht del 1882 del Ginnasio Paolino di Münster; per lo schema logico dell'opera, G. Kirner, op. cit.
Sul Secretum: per il testo, R. Sabbadini, in Rivista di filol. ed istruz. classica, XLV (1917); per il significato dell'opera: C. Segrè, in Studi petrarcheschi, cit.; Ch. Déjob, in Bulletin italien, III (1903), p. 261 segg.; I. Vannerini, F. P. e il suo Secreto, Siena 1904; E. Carlini-Minguzzi, Studio sul "Secretum" di F. P., Bologna 1906; M. Rigillo, Il "Secretum" di F. P., Cagliari-Sassari 1907; G. Salvadori, Il Segreto del P., in Liriche e saggi a cura di C. Calcaterra, III, Milano 1933, p. 393 segg. - Per i rapporti con S. Agostino, G. Gerosa, L'umanesimo agostiniano del P., Torino 1927; C. Calcaterra, S. Agostino nelle opere di Dante e del P., in Supplem. alla Rivista di filosofia neoscolastica, XXIII (1931); con oppost orientamento, L. Volpicelli nell'Introduz. al volgarizzam. del De otio religiosorum, Roma 1928.
Sulla composizione del De vita solitaria, A. Avena, in Rassegna critica della lett. ital., XII (1907); per l'autografia (che è negata) del cod. Vat. 3357, che tuttavia fu scritto sotto la sorveglianza del P., e per altre questioni sul testo, P. Rajna, in Miscellanea Ceriani, Milano 1909, p. 643 segg.
Sul De otio, il più notevole studio resta quello di E. Cochin, Le frère de P. et le livre du repos des religieux, Parigi 1903 (ove "repos", come poi avvertì lo stesso autore, non rende bene "otium", che è anzi un esercizio sia pure spirituale).
Sulla sorprendente diffusione del De remediis, W. Fiske, F. P.'s treatise De remediis. Text and versions, Firenze 1888; sulla cronologia, A. Foresti, Aneddoti, p. 315.
Sul Bucolicum carmen: per la I Egloga, G. Albini, in Atti e mem. d. R. Acc. Virgiliana di Mantova, n. s., XIX-XX (1926-27); per la IV, L. Mascetta Caracci, Dante e il "Dedalo" petrarchesco, Lanciano 1910; G. Mazzoni, in Studi francescani, XII (1927); F. Sarri, ibid., XIV (1928); cfr. C. Calcaterra, in Giorn. storico d. lett. it., XCIV (1929), p. 311 segg.
Sulle Epistolae: per la cronologia: D. Magrini, Le epistole metriche di F. P., Rocca S. Casciano 1907; per la composizione del testo, E. Cochin, in Giorn. storico d. lett. ital., LXXIV (1919), e A. Foresti, ibid., LXXV (1920), p. 323 segg. e in Aneddoti, p. 349 segg.; E. Bianchi, Per l'ediz. critica delle Epist. metr., in Rend. R. Acc. dei Lincei, s. 5ª, XXIX (1920), p. 15 segg. - Per l'epistola III 4, N. Zingarelli, in Nuova Antologia, 1 dic. 1928 (le Ninfe sarebbero la poesia volgare che contrasta con le Muse latine).
Per la datazione delle lettere in prosa, comodi i prontuarî di E. H. Wilkins, che rinviano a tutti gli scritti sull'argomento (Modern discussions of the dates of Petrarca's Prose Letters, Chicago [1929]; A tentative chronological list of P.'s Prose Letters, ivi [1929].
Sulle polemiche: N. Busetto, F. P. satirico e polemista, in Padova in onore di F. P., Padova 1904. Sull'invectiva in medicum; E. Körting, P.'s leben und Werke, Lipsia 1878, p. 618 segg. - Il De sui ipsius analizzato dal punto di vista filosofico da G. Gentile, Storia d. filosofia, Milano s. a. - L'invettiva contra quendam Gallum innominatum sed in dignitate positum, fu ripubblicata da M. Vattasso, in Codici petrarcheschi, cit., App. IV. - Sull'Apologia, cfr. P. De Nolhac, P. et l'humanisme, 2ª ed., II, p. 303; B. Hauréau, in Romania, XXII (1893), p. 276 segg.
Sul "maestro": l'elogium del Boccaccio in Opere latine minori, ed. A. F. Massera, Bari 1928, p. 238 segg. - Per Giovanni Malpaghini, oramai sicuramente identificato col profugo "giovanetto ravennate", A. Foresti, Aneddoti, p. 425. - Per la commozione del mondo letterato alla scomparsa del P., R. Sabbadini, Giovanni da Ravenna insigne figura d'umanista, Como 1924, pp. 221, 248; F. Novati nelle note all'Epistolario di C. Salutati, Roma 1891-1911. - Il poema in volgare cui si allude è La pietosa fonte di Zenone da Pistoia, ristampato da F. Zambrini nella disp. 137 della Scelta di curiosità lett., Bologna 1874. - Testimonianza del rapido decadere della valutazione che gli umanisti facevano del P., sono i Dialogi ad Petrum Histrum (Vergerio) di Leonardo Bruni (ed. Kirner, Livorno 1889). - Per la posizione del P. nell'umanesimo, P. De Nolhac, P. et l'human., cap. 1°. - Per la sua influenza in Spagna: A. Farinelli, Italia e Spagna, Torino 1929; B. Sanvisenti, I primi influssi di Dante, del P.., ecc., Milano 1902. - Per la Germania: A. Farinelli, P. und Deutschland in der dämmernden Renaissance, Colonia 1933, e la ricca bibliografia ivi accolta. È opinione del Farinelli che l'influenza del P. sia stata là piuttosto di stilista e di "poeta" che non d'iniziatore di studî classici, che non erano mai stati negletti. - Per la Francia, R. Sabbadini, Le scoperte dei codici cit., II, p. 32 segg. - Per l'importanza del P. come propagatore dell'umanesimo d'oltr'alpe, V. Rossi, Scritti di critica lett., III, p. 409 seg.
Sul canzoniere: per la cronologia dei singoli pezzi di esso, G. A. Cesareo, Su le poesie volgari del P., Rocca S. Casciano 1898; E. Cochin, La chronologie du Canzoniere, Parigi 1898; W. F. Ewald, in Zeitschrift für roman. Philol., suppl. XIII (1907); Fr. Chiaradia, La storia del canzoniere, vol. I (solo pubbl.), Bologna 1908. Un nuovo indirizzo a tali ricerche è dato dalla scuola americana di E. H. Wilkins, che cerca di determinare i varî stadî pei quali è passata la silloge poetica; R. Sh. Phelps, The Earlier and Later Forms of P.'s Canzoniere, Chicago 1925; E. H. Wilkins, in Modern Philology, XXIII (1926), XXIV (1927); id., in Speculum, 1932; cfr. A. Foresti, in Bibliofilia, XXIX (1927), XXXII (1930), XXXIII (1931); in Convivium, IV (1932). - Un "ordinamento" subordinato alla ricostruzione della "storia" degli amori di Francesco e di Laura diede L. Mascetta-Caracci, Lanciano 1895. - I commenti compiuti più autorevoli tra i recenti: G. Carducci, e S. Ferrari, Firenze, 1899; E. Chiorboli, Milano 1924. - Per l'analisi della "poesia" delle Rime, F. De Sanctis, Saggio critico sul P., nuova ediz., Napoli 1907; B. Croce, Sulla poesia del P., in Atti d. R. Acc. di scienze morali e politiche, Napoli 1929. - Per la tecnica della canzone petrarchesca, T. Labande Jeanroy, in P. Mélanges de littér. et d'histoire, Parigi 1928, p. 143 segg. - Per l'influenza, che l'arte trobadorica abbia esercitato sul P. cresciuto in Provenza; N. Scarano, in Studi di filol. romanza, VIII (1901); di contrario avviso, N. Zingarelli, in Provenza e Italia, Firenze 1930, p. 99 segg.
Per la realtà di questo "lungo" e unico amore, G. A. Cesareo, Gli amori del P., in Giorn. dantesco, VIII (1900), in polemica con E. Sicardi. - Per l'identità di Laura, F. Flamini, Tra Valchiusa e Avignone, in Suppl. XII al Giorn. storico (1910). - Per Laura donna della "lode amorosa", E. Carrara, La leggenda di Laura, Torino 1934. - Per la questione dello Spirito gentil v. E. Chiorboli, in Commento, cit., che parteggia per Bosone da Gubbio (senatore nel 1338); il problema non potrà essere risolto che dagli storici: è perciò da notare che P. Fedele, profondo conoscitore di quei tempi e di quella storia romana, ritorna a Stefano Colonna il Vecchio (1339), in Giorn. storico, LXIV, p. 395, nota 1. Comunque d'un "senatore" di parte Colonnese deve certo trattarsi. - Non meno viva è la discussione sull'occasione da cui sorse la canzone Italia mia, che i più, dal De Sade al Carducci (Saggio di un commento, ecc., Livorno 1876) a D. Bianchi (in Parma a F. P., 1934), ritengono da attribuirsi alla guerra di Parma (1344-1345). Ma si sono proposte molte altre date: 1328 (Vellutello, Muratori, Leopardi); 1341 (Torraca), 1354 (Dispenza, Steiner), 1357 (Zingarelli), 1360 (Proto), 1361 (Zumbini); prima del 1368 (Cesareo); 1370 (D'Ancona). Occorrerrà che gli storici riconoscano nell'eloquente appello della canzone l'eco della politica di qualche stato padano col quale il P. fosse in stretto rapporto in un determinato momento.
Sui Trionfi: G. A. Cesareo, in Studi e ricerche, Palermo 1929, propose altro ordinamento; C. Calcaterra, discute nell'Introduzione alla sua edizione, Torino 1923, tanto la questione del testo quanto l'interpretazione del poemetto, per la quale G. Melodia, Studio sui Trionfi, Palermo 1898; E. Proto, in Studi di letterat. ital., III (1901); L. Azzolina, in Giorn. dantesco, XIII (1905), p. 37 segg.; A. Della Torre, in Miscell. Renier, 1912. - Anche la disperata identificazione della "guida" ha una sua ricca bibliografia; furono proposti Guido Sette (Appel), Convenevole da Prato (Sicardi, Moschetti), Dante (Lo Parco), Tomaso Caloiro, ecc. - Per le rappresentazioni figurate che s'ispirarono ai Trionfi, principe d'Essling-E. Müntz, op. citata.